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pagina 5/4 di un diario insignificante, recuperata da un nido pieno di frammenti d'uova membranose

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 9 apr 2022
  • Tempo di lettura: 11 min

Sdraiato, prima che ricominci il giorno. Anche la notte si è immobilizzata. Immagini dense arrivano da sole in processione, pare quasi che vogliano qualcosa. Recare messaggi, chiedere una carità, chiedere che ore sono, o che ore saranno quando ricominceranno a scorrere gli istanti. Ma c’erano solo loro a comporre una sequenza.


Una nicchia, un’alcova scavata nelle pareti interne di un tempo scuro e appannato. Si vede un gradino basso e reso invisibile dalla penombra, in cui è facile inciampare. Eppure è il gradino che conduce a quella porta diversa dalle altre, solitaria nelle pareti che odorano di polvere, di inesorabile scolorimento delle superfici. È una soffitta che sembra abitata da spettri, e da specie delle numerose stirpi dei ragni, e da dita di polvere invisibile. Questa è la nicchia del sonno in cui sognai e temetti, circa un anno fa, come sarebbe stato il giorno seguente. Dall’indistinzione d’inchiostro, schiarita per sottrazione di pieni neri -il vuoto che ha colore nero e che in realtà riempie i vuoti bianchi-, cominciarono ad apparire delle sagome, come illuminate in fondo al foglio. Varcata la soglia che m’avrebbe portato all’indomani, il personaggio che ero io nel sogno vedeva coi suoi occhi che in fondo al corridoio si spalancava un prato, e sul prato c’erano sedie, e tavoli, e giocattoli, e scarpe, e ombre, e vespe. Molte vespe inosservate, globi che si disintegrano fendendo in volo la canicola luminescente. Tese in volo sui fili d’erba, in cerca di brandelli di carne. Rimasti incastrati tra denti, incastonati in teschi. Oppure galleggianti amorfi nelle scanalature dei piatti di plastica, sui tavoli di plastica, le tovagliette unte. Visione disgustosa, visione odorosa, visione d’aprile. Gli addomi che palpitano, mentre ingurgitano, mentre si lasciano trafiggere dalle fragranze floreali, vischiose, sgradevoli appiccicumi.


Il personaggio, prevenuto, aveva visto apparire nel prato un serpente che avrebbe dovuto difendere. Qualcuno, tra gli invitati, grida: uccidetelo! Tutti gli invitati gridano, uccidetelo, prendete un fucile per sparargli la testa. Io, il personaggio, comincia a sudare. Sembra plastica bruciata, sembra un liquame biancastro contronatura. È il suo sudore, il suo timore che aumenta. Non vuole che accada questo. Il serpente, seguace del suo stesso totem: uno sparo, una condanna reclamata da chi lo odia, ed ecco i suoi brandelli sparsi nel giorno del pranzo di primavera. Particelle grumose del flusso senza rimedio di carneficina, condensata in tutte le più piccole cose, onnipresente. Non doveva essere.


Il personaggio si alza. Comincia ad avanzare nella luce dorata lancinante, attraverso le nubi di brace che trasparenti galleggiano a mezzaria sopraffacendo i venticelli. Stordiscono, ma il personaggio si sforza di avanzare nonostante questi sabotaggi, vorrebbe scacciare con un braccio la luce e l’odore, i loro parossismi eccitati. E raggiunge il luogo, l’unico che nella sua mente vede mentre le cose intorno, fiorenti e stormenti e sedute e in piedi e indignate, spariscono una a una in un risucchio attutito d’ombre sempre più effimere. E raccoglie il serpente del prato prima che qualcuno, tutti, facciano alcunché. Dalla punta della coda lo conduce alla spalla, e non importa che il serpente lo percepisca nemico ugualmente a tutti gli altri: che si dimeni pure, che spalanchi le indifese fauci violacee per tentativo intimidatorio, corredato da intensi sibili del collo deformemente rigonfiato. Può anche mordere, nei punti che riesce a raggiungere. Colui che l’ha raccolto, il suo salvatore, sa che il comportamento del saettone è quello giusto. E per questo non teme i suoi morsi, per questo conosce l’assenza di veleno in questi. Lo salverà. Nella disapprovazione, il disgusto generale. Colui che si alza dal pranzo, rendendosi visibile sotto i raggi della primavera turbolenti come presagi indefiniti, è una stonatura, nel canto delle cose in amore, nel canto dei pranzi che vogliono solo trasformarsi in nuvola d’odore e ronzio e salire al cielo indisturbati. Lui no, viene a disturbarli, salvando il saettone, reincarnato da una campagna con lo spirito sopravvissuto negli strati inferiori della terra. È così che se ne va dal sogno: giunge ai fossati adiacenti la casa, sono i condotti, i percorsi segreti delle creature sibilanti dove il canneto s’infittisce man mano che si allontana dal cancello, dalle recinzioni: è un portale per l’aperta campagna attraversata dagli acquitrini ed è qui che libera il serpente. Oltre il cancello di quel posto reale, che nel sogno finisce col corrispondere al posto irreale della soglia di quella porta, con lo scalino, nella nicchia di tempo buio. Il personaggio varca, fa ritorno alla nicchia del buio, qui si confonde, qui ritorna, attraverso essa. Alla vita sua. Al giorno che temeva: un anno fa…


La mattina seguente non si svegliò con segni di morsi sulle spalle, sul dorso, sui fianchi. Ma qualcosa, che lui aveva salvato sollevandola da terra, si era contorta lungo la sua sagoma, cercando d’afferrarlo, di imprimere un marchio. Certi marchi non si manifestavano in linee sanguinolente e simmetriche sulla pelle. Ma c’erano, e c’erano i denti che li avevano inferti.


5/4, muovo la mano, la sollevo: in quel momento ricordo. Oggi, facendomi ombra con parte del braccio, con le dita, oh insomma, si tratta della stessa cosa, no? Quest’organo connettore. Organo che ostruisce. Mi rifugio nell’ombra che da solo ho creato per me stesso come se si trattasse di una vera nicchia di tempo, da cui recuperare il ciarpame riversato come onde dai sogni. Qualcos’altro si riversa, la certezza che avevo avuto, un anno fa. La strana certezza, quasi dimenticata, che riemerge adesso. Avevo avuto una visione particolarmente insistente, eppure sottile. Abbastanza da farsi dimenticare fino al giorno del suo ritorno.


Nella giornata di un anno fa, ci furono vespe che volavano, ci furono ondate di multiforme odore e ronzio che si sollevavano quasi torride fino alla coltre separata in uno strato superiore, nel cielo. Entropia alta fluttuante nei cieli. Pazienza, mi dissi: corpi grassi al sole, rotoliamoci annualmente nella contraddizione, la necessità di tollerare tutto questo e quella di trovarci dentro una specie di bellezza, e di vederla perfino, e odiarla perché esiste. Questioni sconclusionate, da corpi grassi che costringono lo spirito alla trappola di dover apprezzare luce e tepore malgrado tutto. Pazienza, mi dissi. Questo è annuale, sono tratti di spirale già percorsi. Diverso sarebbe se in questo scenario, campi di primavere intravisti dall’alcova nera del sonno e la dormiveglia febbricitante, dovessi combattere. Sollevarmi come il personaggio del sogno, del mito, e dispiegare lo stendardo con l’animale della casata, del culto. Sarei un combattente e la natura verrebbe allo scoperto. Ne sarei un’appendice, un corpo ricettacolo. Avatara del principio per cui delle forze esistono, e si oppongono tra loro. Niente è altrettanto esecrabile, nel fossato chiamato esistenza (per fortuna ci sono, dentro tutti i fossati, dei percorsi di fossati secondari, striminziti fiumiciattoli, attraverso i quali si può fuggire e finire in un tunnel di canne palustri, isolanti da tutto…).


Ma i presagi si disciolsero, rivoli della paura, massa acquea ignara della propria transitorietà. Non ci fu nessun saettone necessitante aiuto, tale da costringermi a rendere me stesso una forma distinta da quella che andava facendosi amorfa, assorbita dal flusso, l’alone, la primavera. Non dovetti alzarmi dalla sedia di plastica verdescuro e separarmi dall’ombra occhiellata del gazebo, fuoriuscire, farmi odiare, rendermi oggetto.


Non accadde. Il personaggio che sarei potuto essere, perché si era fatto vedere? Non poteva trattarsi solo di suggestione, tendenza a visionare il peggio. Non accadde, e basta, facevo altro. Stavo. Ma a un tratto vidi l’immagine. Ero forse seduto. No, forse in piedi come lo sono stato oggi mentre pranzavo, non ricordo. Forse la vidi più volte: folgorante, l’immagine di dove sarei stato un anno dopo. Con dei colleghi d’università, presuntamente a pranzare vicino a loro che pranzavano, cosa impensabile un anno fa. Ma avevo visto, pochi elementi in pennellate, una raffigurazione che si celava oltre la tela del primo foglio che avevo visto. Quello d’inchiostri, quella nicchia di tempo che dà accesso ad altri mondi. In quel mondo che era comparso oltre il suo fondo, similmente a un riverbero di sagome da illusionismo di là da un diafano velo di zanzariera, dei colori erano presenti: verde, a metà tra scuro e chiaro, il verde del prato della facoltà; grigio metallico, ricoperto di scaglie di colore, l’edificio, questi elementi in forma molto molto vaga, forse ricostruita soltanto dalla mia suggestione; ma di certo il bagliore del sole, e il nero che ne proveniva, e quello che producevo io, proteggendomi la vista. Mi ero sentito vivere in un anno più tardi, da solo, fondamentalmente da solo, ma in compagnia di gente, vicino a persone più di quanto fossi quando non ero solo. Mi ero sentito vivere in quell’ora di pranzo universitaria in cui, in piedi, mi ero schermito dal sole, e contemporaneamente mi ero grattato dietro la testa, risistemato delle ciocche, stretto lembi di pelle per indirizzare il nervosismo e la timidezza attraverso le ramificazioni bulbose dei nervi all’interno della mia goffa mappa corporea. Cosa avevo pensato?


A un certo punto, mi sembra di ricordare, ci avevo ripensato mentre stavo sprofondando in una poltroncina di vimini, a casa di lei, di quelle che erano state sparse sull’erba del giardino. Cose calde e cose fresche erano state mangiate, cospargendo di scie desolate e amorfe le stoviglie che andavano formando pericolanti torri di plastica puzzolente nello strabordo dalle gole nere dei secchi. Brezze si erano alzate, confuse nel frastuono. Sigarette accese, sospiri, momento di disporre all’esterno le poltroncine. Io sto. Stavo, e allora mi sedetti. E vidi qualcosa mentre attendevo che i vimini diventassero più alti di me che ne venivo assorbito, e attendevo che le loro trame beige invadessero la tessitura dei miei occhi, sostituendocisi; e nel procedere dello sprofondo come una piccola serpe tra gli intrecci delle canne avrei trovato, laggiù negli organi interni della poltrona, una confortevole forma d’ombra, come stare dentro una cesta.


Dentro una cesta… il re dei rettili ipnotizzati dalle onde nulle emanate da un flauto, ascolta la musica rimanendo sordo. Caccio fuori la lingua biforcuta, capta segnali termici, vibrazioni, e anche scene del futuro. O scene di sogni: era uno di quei momenti in cui stavo ancora attendendo, o temendo, che comparisse da un istante all’altro la serpe di campagna, sollevata dal prato, sulla propria ombra verdolina e squamata. La tensione pulsava fin su nella gola, non mi sentivo in salvo. Temevo ancora di dovermi mostrare ai presenti, dovermi mostrare dentro il giorno del pranzo. Preferire l’incolumità dell’animale ai sentimenti delle ombre attorno. Interrompere le voci, le ombre rilassate, l’armonia stagnante calda nell’aria. Uscire dalla cesta, dalla spirale, dall’essere altrove. Dire qualcosa come: questo sono io.


Non mi sentivo in salvo. Per questa, e per altre cose. E allora avevo visto una scena del futuro, mentre ero seduto sulla poltrona di vimini.


.

Nel presente, quest’anno, a cena si cita il dejavù, avuto da un tizio. Mio padre parla di un alunno, uno poco sveglio, dice, forse proprio come me. Ma forse un po’ meno, penso con una certa boria da ofide incappucciato: un po’ meno sveglio perché per lui si era trattato soltanto del primo presagio del genere, stando allo stupore con cui questo alunno poco sveglio aveva detto di aver già vissuto quel momento, e aver dato la risposta corretta a una domanda alla quale non avrebbe saputo rispondere proprio per averla vista. Chissà, magari non dorme stanotte. Ah, ne avrai molti altri, caro mio, se sei poco sveglio ma ricettivo a certe terribili cose in una maniera vagamente simile a come lo sono io. Io. Finisco col pronome personale, perché questo è simile a un cerchio, un semicerchio, un cerchio che si morde la coda, e insomma all’ego del saggio animale che l’ego vuole annullarlo, usando l’ego.


Sarebbe apparso un simile emissario, un emissario del re dei serpenti, nella casa di colei che rappresentava se stessa come l’ego, la casa in cui si celebrava con un banchetto il suo giorno, e io ero là. Ego: il mio e il suo lottavano, d’una lotta segreta, che forse si consumava disperata e devastante come l’avvampare di numerosi incendi proprio oltre la soglia di quello scalino. Ma qualcuno aveva sigillato la porta fino a rendere inudibili gli scrosci di quelle spaventose fiamme. C’era una simile guerra, e io non mi sentivo in salvo. E per questo avevo visto dove sarei stato un anno più tardi. Fuor di pericolo, credevo, fuori da una casa in cui gli sguardi di tutti avrebbero incenerito la mia vera forma, così restia a uscire, così tanto ostacolata nel ricambio della sua pelle.


Ma l’avevo capito, un anno fa, che quella scena significava che non ci sarebbe stato nulla più di tutto quello?

Nulla, non è esatto. Intorno a me, come ronzii, si levano mescolati al contrasto di luci e ombre gli stessi discorsi di primavera, densi di vita, densi di morte. Anche i colleghi, appartenenti ai corpi grassi che si riposano sotto il tepore dei raggi, recitano preghiere formulaiche, variate sul tema, rivolte alle proprie brame, esche seducenti con l’olezzo sinuoso, ormonale. Sesso, carni arrostite, squarciare qualcosa. Le stesse cose che compongono l’esercito di vespe che loro stessi, umani, disprezzano, rifuggono: vedono tremare i gialli e i neri, turbolenti, ronzio che penetra anche il sonno e rivela nelle pareti rivelatorie della mente la natura di mostruosità fiammanti e alate, con gli occhi assassini. Eppure sono quello di cui parlano. Corpi di riproduzione, invischiati alle zampe ci sono pollini fatti di sangue che si sta seccando.


Ma io non mi innervosisco: forse perché lo sapevo già. Forse perché lo saprò sempre. La primavera, col suo peso, rimane attraverso gli anni, ritorna a portare il suo messaggio in cui le informazioni si moltiplicano a dismisura e straripano, e profumano e puzzano, informazioni olfattive e vibranti. Non per forza è un pranzo, no. Sono invitato qui, in un prato vicino alla facoltà che frequento. E un simbolo, un messaggio, potrebbe comparire strisciante nel prato, senza annunciarsi con l’anticipo che vorrei chiedergli. Ma forse mi comporterei diversamente, forse sarebbe minore la catastrofe. In piedi nel prato di ex poste lascio il contenitore sporco e svuotato sullo zaino posato al suolo, e nella plastica vitrea abbagliata dai soverchianti raggi delle 13 sembrano rifulgere le strisce di salsa di funghi che imbrattano le pareti interne. Potrebbero attirare i ricettori di insetti saprofagi, ghiotti degli avanzi dell’esistenza. Sono sotto il sole, mi arroventa, mi fa sudare esageratamente e senza rimedio dalle ascelle una sostanza lattiginosa che rafforza l’autopercezione del mio corpo, lo costringe alla non assenza.


Ma l’avevo capito, un anno fa, che mi sarei trovato a entrare piano in un mondo fatto di scelte, che continuavano a succedersi e ingrossarsi? Terribili, ma neanche così tanto: ero ancora vivo e forse perfino al sicuro, nella scena che vedevo, vedevo un anno in cui sarei sopravvissuto, pur avendo fatto delle scelte. Avendo accettato di salvare il mio suddito della mia stirpe, generato dal soffio vitale del prato. Dal suo ego volenteroso d’estinguere l’ego. Vieni, sali sulle mie braccia, arrampicati: sono rami dell’albero, e tu puoi avvoltolartici, puoi cominciare a mordere, annaspante a mezz’aria, la corteccia, per affermare la tua paura. Io questa paura tua la capisco, la provo sempre: e per questo non la provo nei tuoi confronti. Colpiscimi, segnami. I tuoi segni li amo, sono la salvezza che spero di avere il coraggio di portarti, nel caso in cui fosse necessario salvarti. Il coraggio di scelte una dopo l’altra.


E l’anno prossimo?


Non l’avevo capito, un anno fa, o forse sì (del resto, la visione stessa significava che sapevo già tutto, avendolo già vissuto e potendo dare la risposta corretta…), che sarebbe sparita lei dal mio mondo, per mia scelta, mia capacità di distruggere i mondi altrui. E allora la scena si manifestò, perché c’era lei che dava significato particolare alla data. Adesso, quest’anno, non c’è in forma viva e corporea un significato particolare alla data, se non per questa catena di ricordi, queste spire capaci di attorcigliarsi, mordersi la coda. E mancando questa significazione, non vedo nulla dell’anno prossimo. Forse perché ho pensato troppo, e le scene non sono giunte a cercarmi da sole. Giungono le loro increspature in un’acqua, guazza di fossati, che scorre in greti rimasti segreti ai pensieri e le emozioni. Scorrono sotto, in falde che a volte affiorano.


O forse non vedo nulla dell’anno prossimo, semplicemente perché………


No, più che questo pensiero, rabbrividisco al dover rivivere. A quel significato impossibile da ignorare, almeno in parte, che sempre emerge nelle incessanti sensazioni di dejavù. Che tutto questo sia rivissuto. Sempre, all’infinito, a ripercorrenza delle squame, sfrecciando sul corpo longilineo, fino al punto in cui la bocca si spalanca e fa entrare l’altra estremità così da chiudere il cerchio… più del nulla, della morte, o qualunque cosa significhi la mancanza di visione, spaventa il destino di dover rivivere ogni cosa. Inferi di condanna al proprio karma e il proprio ego. Il proprio essere poco svegli: chissà se rabbrividirà, questa notte, quel povero alunno spaventato, a guardare per la prima volta le iridi ambrate e scintillanti nel buio di questo indicibile terrore, il giorno che ritornerà identico a vivere in lui, e lui a viverci dentro. Ammantato di fulgori e ronzii, addomi gonfi di veleno e fiato.


Controllerò segni invisibili di morsi sulla pelle del risveglio di domani, tornato dalla nicchia scura, fatto un passo senza inciampare oltre lo scalino. Ci sono scelte temibili, a ridosso del nulla, da una parte e dall’altra, e sembra che sto continuando ad aggirarmi da queste parti, negli anni.

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