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ora il fuoco fa meno paura

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 19 nov 2023
  • Tempo di lettura: 15 min

Posso addormentarmi comodo in questa conca di rumore e immagine, nel sedile posso rannicchiarmi e riconoscerlo, e riconoscere un ritorno a casa tra i tanti. Nel vetro nebuloso del finestrino i paesini e i boschetti e i container vuoti delle campagne spariscono lentamente, poi velocemente, alcuni risucchiati dal disordine del non più visibile, altri delicatamente evaporati mi accompagnano un altro po’ man mano che s’avvicinano le stazioni di sosta, e alcuni ce li ho ancora quando arrivo a casa e ovunque, e altri sono risucchiati dall’oblio, altri verranno ricordati, ma mai con il loro nome e la loro collocazione. Sono stanco o in forma? Sono distrutto o integro?


Nei campi di là dal vetro non c’è altra risposta che il pomeriggio, disceso dal cielo come spire di un dragone, s’accascia e addormenta, facendo ondeggiare le proprie creste di luce e nuvole.


E il treno è una culla caracollante nello spazio indefinito tra due vite, e ci si accorge sempre, in questo oppiaceo fluttuare senza patria, che se ne sta conficcata tra il torace e il ventre una cosa, che comincia a suonare, spandere onde circolari da un centro -mi accorgo in questi momenti che c’è in un qualche mio centro una poltiglia raggrumata che si agita in tachicardia per i sussulti del treno e per ogni gemito indipendente che l’attraversa, e deformandosi fa sgusciare da pieghe molli un parapiglia trepidante di braccia e calci e danze, gridando di volersi espandere, ma senza brama di conquista: diventare le montagne lontane che vedo, gli alberi, gli aironi di sempre che s’alzano in volo spaventati dallo sferragliare.

C’è qualcosa, ed è bello, ed è un movimento innocuo e ipnotico che pure in questo sogno senza vita di vetri illusori e rotaie mi convince d’esistere, più che altrove, e si sincronizza al grido là fuori: i raggi del sole che trafiggono le nuvole possiedono i propri speculari nei campi: raggi paglierini di folgore dalle distese erbose si riuniscono a un miele lacrimato dal cielo, e intrecciando le punte cuciono il lampo che uscendo da una galleria m’assalta il vetro e la faccia che vi appoggio, incurante dei germi, desideroso solo di riposo e di finestrini e silenzio per sempre, desideroso di ricordare che nelle viscere velenifere del crotalo del tempo si nascondono queste altre isole di balsamo e cura. Assorbono interamente le vibrazioni emanate dal sonaglio sulla punta della coda, forse ancora lontana, forse vicina. E le accolgono. E io assieme all’isola vibro. E voglio squarciarmi il torace e liberare questa cosa, sanguinolenta nel palmo, porgerla a un fidato volto ancora sconosciuto pronunciando parole impronunciabili di gratitudine e ignoto amore, così che di quella luce esplodente sia illuminato e io possa vederlo per la prima volta davvero, e assieme possiamo osservare la sua trasmutazione in miraggi mentre si disintegra a contatto con l’aria.


Eppure questa cosa che è in me non è molto diversa da ciò da cui ho continuato a fuggire. Appartiene alla stessa famiglia del fuoco, del Seraph che m’insediava le budella iniettandovi un veleno incandescente che mi stregava, dicendomi che questo terrore è l’esser vivi, e che io non ce la posso fare a provare tutto questo, a reggere, e devo scappare, devo evitare. Il fuoco interno ha poi il gemello esterno, il nondetto che divampa nelle case, incendiando famiglie e amori, riducendo tutto in ceneri separate dal vento. Ma se assomiglia a questo sole che implode, forse è da accettare. Forse si può sopravvivere a ceneri e macerie, e raccontarle, e riviverle e cullarsi nei loro segreti spazi di poesia quando in treno da soli -e un treno prima o poi lo si deve prendere- si può ricordare, rivedere: così il Seraph e il Tannin, angelo di fuoco e angelo d’acqua, s’incontrano a metà strada e s’attorcigliano vicendevolmente le spire e amoreggiano e diventano una singola lancia, uguale a quelle spighe del grano e del cielo che vedo ora, che ho superato un'altra galleria, un altro container, un complesso industriale vuoto tutto sepolto da polvere ed edere, una stazione deserta dove il treno non ferma. E il crotalo ingoia il suo stesso sonaglio, tracciando l’unico cerchio che esiste. E allora rivedo.


・(p)


E allora rivedo. Ore prima, o il giorno prima, o un’era prima, scendo dalla città alta per recarmi in stazione e prendere il treno dove sarei salito per ritornare. La funicolare è ferma ma ondeggia sul posto, impaziente di scivolare nel tunnel di mattoni che si apre sotto i passeggeri che vogliono entrarci e così tutti allo stesso modo rimpicciolirsi, far regredire i propri occhi a un’infanzia bramosa di gnomi nelle gallerie, di lumicini arancioni nel buio simili al pompare del cuore ascoltato in un angolo dell’utero. E intanto gli adolescenti parlano di proteine e muscoli, una turista prende posto in piedi nella parte anteriore per poter fare un video dal punto di vista privilegiato della polena, le signore di qua che portano la spesa in borse di tela strettamente impugnate nelle prese venose si siedono accanto su una panca, scocciate di rifare ogni giorno la stessa salita e discesa, che non cambierebbero per niente al mondo. I macchinisti della stazione si guardano i polsi e stanno per dare un segnale, annoiati caronti d’accenti campagnoli.


Un piccolo uccello disorientato, finito prigioniero qui dentro, vola più veloce di un falco e si precipita contro la vetrata, credendo di scorgervi il sole e il giardino cinto dalle muraglie medievali, ma si spezza l’osso del collo. Cade a terra e muove le ali ricurve, e poi una zampa, e poi è silenzio e immobilità.


-o mamma mia!-, dice una signora, e scende, a va a vedere -ma è caduto dal nido??


Non ha visto la scena, non l’ha visto volare prigioniero, e impazzire, disperarsi per l’aria e la luce. L’ha visto solo cadere, e questo è tutto. Posso scendere? Avvolgere il caduto nella mia camicia, maneggiarne con cura il corpo col suo calore residuo? Non si muove più. Lo vedo. Non posso fare niente, niente più della signora, che è scesa e ha visto da vicino il corpo, la sua rigidità. Non posso fare niente.


Dico una preghiera in silenzio.

Mi dispiace amico mio. Ma smetterò di pensare a te. So che per te non cambia niente. Non so se il tuo impatto contro il vetro, il ruggito disperato del tuo collo, maledicessero il mondo, o se tutto quanto sei stato sparisse indifferentemente da questo, da ogni cosa. Cambia per me, che sarei stato l’unico in lacrime al tuo funerale. Ma non ho lacrime adesso. So già che non potrò continuare a ricordarti ininterrottamente per la giornata -avrei visto la tua figura dell’ultimo istante in ogni spiga viva e rigogliosa, in ogni passaggio di macchina e camion biancheggiante sulla tangenziale che vedo perforare le colline boscose dell’orizzonte, in ogni alternanza di raggi solari e ombre di nuvole, in ogni voce di chiacchiera udita passeggiando. Non ti preoccupare e non mi preoccupo io, non preoccupiamoci. Ti posso dire solo che tutti sbatteremo al vetro spezzandoci l’osso del collo, tutti cadiamo al tuo stesso modo, in un angolo, avvizziti in uno spietato “tutto qua?”, salutati solo dalla preghiera effimera di uno sconosciuto la cui funicolare sta per partire. Sappi questo: siamo la stessa cosa, siamo la stessa persona. Respiriamo con lo stesso petto piumato, gonfio, soffice, che al prossimo nostro incontro avrà forse un’altra forma.


-povera rondine!!-, esclama la signora mortificata, la sua voce affranta è una preghiera più rumorosa della mia, e mette un punto a tutti i discorsi dentro la vettura, a tutti i discorsi ovunque. Omaggio sentito a tutte le rondini poverelle di questo mondo.


Sa, signora, non credo sia una rondine: il piumaggio rosato e la forma della c… già, povera rondine. Ciao, povera rondine. È un nome che non ti si addice. Ma è meglio di niente, povera rondine. Perciò scusami, povera rondine a cui non importa delle mie scuse: ma non posso continuare a gridare dentro di me. Perché un grido è qualcosa che esiste quando si nasce o quando si muore, mai quando si risorge. Perché un grido non è resurrezione, perché nulla è resurrezione. E devo sforzarmi di pensare che non la vorresti, la rinascita, mentre ti guardo un’ultima volta lì pietrificata a terra e la vettura oscilla mettendosi in moto; devo sforzarmi di pensare questo, per poter smettere di pensare a te mentre vado via.


・(_\)


E allora rivedo. È una sera di un giorno stancante. Passeggio costeggiando lateralmente gli specchi d’acqua che cominciano a riempirsi dello stesso colore della terra, un vaso rovesciato da sopra le nuvole versa l’imbrunire come pioggia dissetante per tutto ciò che passeggia avanti e indietro, o immobile attende d’ascoltare i gracidii e i grilli, e qualcosa sciaguatta nei pressi dell’isolotto di pioppi gialli al centro dello stagno. Dall’altra lato mi fiancheggia l’odore dei porcili, mi segue, cammina con me, distendendo dietro i passi un velo di valli e cortili che ho percorso tanti anni fa dopo lunghi viaggi in macchina, tutti figli di una stessa atmosfera, tutti percorsi da corridoi identici e portoncini identici -nera vetrata striata da ottone opaco del tedioso pomeriggio italiano, e tende di perline affacciate sulla compatta ondata del frinire di cicale. Ma non m’immergo in quelle strade scomparse. Sono vicine e lontane in questo stesso istante -quest’odore è un filo, avvolge tutte le terre che si sono votate a esso, terre incappucciate assorte in venerazione. Mi permettono di muovermi qui senza meta, e ripensare agli affanni e quelle stranissime, a me sconosciute speranze, che sono apparse come fiocchi e cristalli negli angoli del giorno trascorso, mi permettono d’entrare in vie di palude e campagna come allora, e vedere un miracolo. Occhietti di braci tra gli ulivi inerpicati mi osservano dall’alto di mura erette in cima a una rupe di tufo, isola fluttuante. Al centro di ciascuna di quelle luci qualcosa si rannicchia, un punto che precipita nel sonno profondo, e cadendo sparge scintille.


・()


E allora rivedo che è passata l’ora di pranzo e le vetture risalgono le scarpate, volano lontane in migrazione, e sedermi sull’erba è come imprimere cerchi concentrici nel suolo che fanno fuggire un volo di anatre poco distanti, perché l’anima dello stagno nuota sotterranea infiltrandosi nelle cose che lo circondano, rende liquido e lacustre il terriccio che invado. E allora anch’io dovrei farmi placido, accogliere su di me le gambe degli insetti funamboli della superficie, e disciogliere in me un equilibrio di trasparente e limaccioso. E allora potrei dire a chi so io, maledetti stupidi coglioni, quanto vorrei saperli amare senza fare né troppo silenzio né troppo rumore, e vomitare ciò che mi appare in fondo, che si sta già generando, la sweet explosion e medicine del viaggio di ritorno in cui rivedo tutto questo. Chiudo gli occhi mentre stormisce il vento, gracchi e starnazzi svolazzano dietro i giunchi, e un’altra solitudine musicata in eterno nelle sinapsi mi scende quieta sulla fronte per addormentarmi e raccontarmi leggende, del re seduto a contemplare il vuoto dalla rupe: le parole non sono necessarie, possono solo fare del male.


Le parole, infatti, a scatafascio si sfrangono quando cercano d’uscire, dalla lingua che goffa e atrofizzata vorrebbe far da passerella per un big bang interno che non trova sbocco, non può trovarlo, non deve. E allora si parla un’altra lingua con altri che non possono comunicare in altro modo, e anche da questa lingua straniera esce fumo, confusione: come è successo prima, in mattinata. Parlavo con una ragazza di cui non so riconoscere il totem, femmina di una specie mutevole incerta, m’appare coccodrillina a volte e orso dal collare altre; ha sul ventre qualcosa di più bianco rispetto al dorso, questo è certo, ma… non importa, non posso dirle questo. Cosa posso dirle? Ah già, devo tradurre, sono qui per questo, sono qui, in teoria, per aiutare.


(Guardo la città alta: dall’altro lato di quel bastione color terracotta ci sono stradine, trattorie, salitelle, e auto parcheggiate, e su un’auto parcheggiata c’è una gatta tartarugata che riposa sul cofano, un po’ malconcia. E ci siamo io e gli studenti che, domani, la accarezziamo a turno. Tossisce, poverina, strozzando le fusa, e si confonde anche lei del suo stesso respiro, e perché ci vede numerosi, diversi, intrusi nel suo solitario malanno, ma gli animali di questa città sono docili e non sanno rifiutare. Dalla sua lingua ruvida si sgretola allora una tosse malata. E potrei dire qualcosa di inutile e stupido e vagamente sgrammaticato, potrei dire 喉が痛いね、この猫, ma qualcosa mi ferma -e non è la stessa cosa che mi ferma di solito: la scorgo con la coda dell’occhio, sta alta e stretta in un vicolo medievale e m’osserva, con un cenno di mano, mi sorride con occhi vacui come a dirmi “bravo”, poi sparisce e diventa ombra, sfrusciando via, lasciandosi dietro fuliggine. Ho già detto troppe cose, sono io quello a cui fa male la gola, ma non è questo il motivo. Perché il contrario di ciò che dovrei aver capito in questi giorni -“non ci si deve fermare sempre”- non corrisponde a “non ci si deve fermare mai”. No, a volte devi fermarti ancora, per motivi diversi da quelli di quando fermarsi era quanto avevi di meglio per proteggerti. E allora lasciamo in silenzio questa povera gatta. Grattiamole un’ultima volta la sommità della testa, ascoltiamo un ultimo tratto spezzato di fusa, salutiamola. Ritornerò in questa città, ritornerò da lei? E voi altri? Sarà per voi un gatto italiano d’un vicolo qualsiasi, senza ritorno? Certo che lo sarà.)


No, non posso dirle la cosa più importante mentre con il quaderno in mano la studentessa cerca di darmi fiducia, e prende appunti su ciò che riferisco, vorrebbe fidarsi di quanto registrato da orecchie e occhi miei, che nonostante ciò continuano a vedere bestiari in movimento a offuscare le anime di tutti, o a rivelarne colori nascosti, o forse solo ad allontanarmi da… eh, come? Mi ha chiesto di ripetere, ho sbagliato di nuovo a tradurre. Ma non posso dirle la verità, non posso dire: questi occhi sono epidemia perché ogni cosa che toccano è già morta, oppure, questi occhi sono albergatori e ogni cosa che hanno fatto entrare la stanno già salutando per sempre, per accogliere altro che non rimarrà. E allora le dico solo すみません、これは説明しにくい, che significa:


non fermarti neanche per guardare - assieme alle balene - l’Aurora Boreale


oppure, in un’altra sfumatura,


he didn’t mean to make you cry - with sparks that ring - and bullets fly - on empty rings around your heart - the world just screams and falls apart


E da qualche parte, in qualche paese umbro incastonato tra silenti e immobili campane di conventi, in una biblioteca ammodernata, di piante ornamentali e d'aria condizionata, se ne sta seduto e chino il me d’un altro mondo, gobbo amanuense che senza nessun tornaconto traduce in giapponese tutti i testi de I Cani e dei Neutral Milk Hotel, e seduto accanto a me, allo stesso tavolo della biblioteca, Tōru Watanabe scrive appunti su una lucciola che ha liberato, conservandosi dentro il sound e il verbo di Miles Davis e Lennon-McCartney. E sembriamo entrambi davvero scemi e in pace mentre ascoltiamo la musica, e lui non so che animale sia; ma è quasi certamente un merlo, che con occhi infossati impara a vedere, che vola nella luce di una buia nera notte.


・(☞)


E allora rivedo: in stazione, mentre aspettano un treno sul quale non devo salire, una gru e un husky mi abbracciano a turno, poi insieme, e un globo strano in quell’istante mi esplode in gola e sparge nei dintorni semi di acacie infuocate, riempiendomi di rami d'una stupidità mutagnola che con la loro corteccia varicosa mi contagiano l'interno e quelle poche cose che affiorano in superficie. Poi, poco a poco, le ali della gru e le zampe dell'husky che mi circondano schermendomi dall'umidità della sera smettono di essere ali, smettono di essere zampe. Perdono piume e peli. Sono vestiti, avvolti in tessuto sintetico e qualcosa come soffice piumino, qualcosa che odora di plaid natalizio, di sedie a dondolo, di regalo, di carta da imballaggi accartocciata e deposta come fiori rossi dei pavimenti, ferite delle feste illustrate a motivi arborei e renne. E sento l'odore di tutto questo e di ciò che nell'aria serale frizza e assalta i respiri e i sistri dei grilli annunciando l'inverno e una morte ciclica della terra, e sento l'odore delle braccia loro rivestite, finalmente rivestite, e che rivestono me -ma non so ricordare il colore né la forma degli indumenti, questo no, questo ancora no. È presto. Ma lascio fare, senza saper far altro -rami numerosi ancora m'escono inevitabilmente dalle narici e dalle orecchie e dagli interstizi negli occhi, rami stupidi che mi assomigliano.

Lascio fare. E mentre altri globi fertili deflagrano in ventre uno dopo l'altro, altrove, su altre banchine quotidiane dove non giungono salvifici treni a sottrarre la mente vagabonda all'obbligo di esserci, rifiuto analoghi abbracci. Affetti superficialmente identici, e che sotto la pelle stanca serbano reticoli di storia, di complicazione, di dolore condiviso. E non sono sempre uguale, e non sono sempre coerente, e non è infinito il tempo in cui lascio fare, in cui lascio che le cose si tocchino tra loro in mia presenza, in cui mi lascio ferire dal bene o dal male.


Eppure non mi sento in colpa.


Come se ne fossi capace -e ne sono capace, dicono adesso i rami stupidi, diversi dai rami stupidi di sempre (la mia stupidità s'evolve, è alchimia e fragore, come tutto)- direi a chi ho escluso scappando spaventato o con denti o veleno o aculei, direi riuscendo a spiegare l'inspiegabile che non è un rifiuto di loro se evado il tocco; che ci sono evasioni necessarie, che l'affetto troverà un'altra strada, che tortuosamente ci si infila quando vuole e sa centrare quei cuori molli e stupidi che non sanno come accoglierlo, per uno straripante eccesso di amatissima tristezza o di innominabile gioia.


Ed è così che lascio fare. Abbracciate, toccate, io sto fermo, e mi fingo morto, e dico la cosa che mi ero preparato prima sapendo di non riuscire a dir di meglio sul momento (perché qualcosa, in codice, volevo dirgli, di quel che sento), e se ne accorgono e dovrebbero roteare gli occhi al cielo ma mi perdonano, anche se potrei fare di meglio e si augurano che prima o poi lo faccia; mi lasciano sui quadri della camicia, con i loro arti umani, due marchi sottili come fantasmi: una lunga orma sottile e tridattila, e un cuscinetto a forma di picca coronato da quattro fluttuanti polpastrelli unghiuti. Viene pronunciata al momento della separazione una sciocchezza benedetta che echeggia tra l'imbarazzo mio, lo sdegno ustionato dalla freddura sul becco di lei, e il sofferto ma vittorioso sforzo di leggerezza dipinto su di lui, la cui coda sa agitarsi in saluto perfino nel gelo artico, in qualsiasi era glaciale venga a perseguitarlo.

E che echeggi, questa benedetta cazzata mentre scendo al sottopassaggio e me ne vado, fino al giorno dopo quando starò ripercorrendo questa stessa strada paludosa ora buia e ripenserò a un mondo in cui, come fiori, equivalenti innocue cazzate crescono rigogliose in tutti gli aridi crateri di un tempo, causati dagli incessanti asteroidi del malessere (“ti odiano tutti e questo rumore è la giudicante rilettura d'ogni tuo errore, che fanno mentre non ci sei”). Egotistiche, sciocche, turbolenze cosmiche del cosmo narciso: perciò, mi dico, “datti una regolata”, bisogna dire a se stessi “e invece”.

E invece guarda un po', esistono gli altri, fuori dalle tue proiezioni di loro, e cosa facciano o di chi sparlino non ti riguarda, e ti riguardano solo quando vi toccate e vi sentite esistere a vicenda, e gli altri esistono e i dinosauri esistono e non s'estinguono e volano in cielo, e tutti s'esiste e si diventa ossa e ci si ritrova insieme nel sottosuolo senza potersi più riconoscere e abbracciare e rispondere goffamente e dirsi dai non ti preoccupare, e di ciò si soffoca e si soffre, soffre a non finire, ma per ora si possono dire cazzate che si sprecano e volano e accompagnano le strade del ritorno e del rifugio, per poi affievolirsi pian piano, quando è più forte l’eco dei propri passi sotto il buio stellato e riemerge la solitudine con una sua nuova bellezza, così diversa da quella di un tempo -più stelle si vedono, in questa strada tra i canneti senza lampioni.

E si sente un grillo in questo freddo, un sistro nascosto da qualche parte tra gli steli e i banchi baluginanti d'umidità gelida, e una rana, e uno s’accorge che cammina sempre in vie del genere se solo si sforza di sentirle. E penso a Seymour Glass con le sue preziose cicatrici bionde lasciate sulle braccia dalle pelli e i capelli degli altri, e per la prima volta da quando lo conosco penso che forse, a spararsi in testa, si fa del male al mondo; si lasciano ovunque ferite troppo più profonde delle proprie. E lo stagno e il fiumiciattolo suonano, trillano, tranquilli nel buio.


・(◉)


E allora rivedo: il treno dell’andata è partito da poco; la città alta, la nuova routine e l’impressione di conoscerla da sempre, il suono scricchiolante di fogliame del tempo da quelle parti, e i loro nomi, e i loro animali fantasma, e gli imbarazzi e i sollievi anch’essi da sempre conosciuti: nulla di tutto ciò esiste ancora. Eppure basterebbe scostare di pochissimo un velo, invisibile nell’aria che ho di fronte, per ritrovarmeli tutti, già vissuti, conoscenti miei. Il treno è ancora lento, è in partenza, e mi sento di star già facendo ritorno, e sento che a volte la nostalgia si equivale in entrambi i movimenti, che un treno è un filo, un altro, tra diverse terre, diverse isole separate.


Vedo, di là dai cavi elettrici fluttuanti e pali color caffè e vecchi condomini di panni stesi, tormentato dal sole alto, un edificio in cui ho passato una grande parte dei miei ultimi anni. Il suo scheletro grigio innalza e offre variopinte scaglie plasticose al cielo per assorbire i raggi, simile al riposo di una lucertola del deserto. A separarlo da me, un abbandonato conglomerato di sgabuzzini e spiazzi di ruggine ed erbacce, di gatti randagi e gabbiani e cimiteri di tubature contorte. Lo riconosco, l’osservavo dall’alto: perché io sono anche là. Il treno rallenta quasi provvidenzialmente, e mi distinguo in piedi mentre laggiù me ne sto accasciato alla ringhiera, a guardare dal balcone del terzo piano, dove ci sono gli uffici dei professori: io sono dentro agli stessi treni che, accasciato così, osservavo partire attraverso ore infinite fuori dalle lezioni, io lassù respiravo la quiete e dall’alto vedevo i gatti e gli uccelli e gli studenti, e i tubi, e i treni in partenza, e dietro i vetri dei vagoni sentivo pulsare sconfinata la presenza dei senzanome, una meraviglia di infinite separate ferite e fiati di panico; ed ero già dentro, in partenza; e in un istante tra i tanti di contemplazione sfaccendata lassù, in cui ho pensato a come dovessero essere le esistenze di quelli dentro quei treni diretti a destinazioni ignote, devo aver anche saputo impercettibilmente che ero una di quelle particelle, già dentro. E allora rivedo: sono in balcone, e sono sul treno, e guardo tutto questo, e in questo periodo dell’anno il tramonto arriva presto, e si posa qui.









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