Ombra e Dingo
- Milky
- 17 ago 2023
- Tempo di lettura: 27 min
Aggiornamento: 23 ago 2023
In questa storia non ho un nome o forse l’ho perso lungo la via.
La figura che temevo si stagliava, possente, immensa, tracciata sul volto millenario della terra, e aveva un’arma con sé, ed essa stessa era un’arma.
Destatomi uscii. Penso adesso che numerose erano, al tempo, le storie in cui c’è una via, un sentiero serpeggiante attraverso i territori fitti di antri oscuri come una galleria scavata da infinità di cunicoli secondari, e fitti di biforcazioni di smarrimento, e portali, precipizi; narcolessie improvvise, rapitrici.
Lungo queste vie vengono sparpagliati frammenti. Non so cosa potrei aver perduto in alcune vie che, come spalancando occhi sospetti di bestiole notturne, si manifestarono, dapprima fiocamente, nel territorio d’ombra al culmine di quei giorni, al culmine d’un labirinto.
Ma è finito, questo? Si è concluso lo svolgersi delle sue spire in dedali e anticamere imprigionanti in un tempo di follia e di insolubile? Come trovando terreno fertile in cui adagiarsi, quel labirinto è fluttuato, levandosi dal suolo in formazione di svastiche convolute e coordinate, per attraversarmi la fronte, sovrapporsi a reti neuronali. E come fossi ancora sperduto lì dentro, perdendomi un’altra volta nella sua copia che da allora possiedo, come parte del corpo, io penso a quel tempo con gli stessi pensieri di quegli occhi che lo vedevano, presente e già distorto futuro e già obnubilante passato, io ho gli occhi dello smarrimento.
Questo è quel che “ricordo”, pensandolo coi pensieri d’allora, o con la loro ombra, con ciò che m’è stato tramandato e spacciato per essi.
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L’orizzonte e il cielo mandavano i segnali di fumo, come quelli di cui avevo letto nei libri illustrati, nelle piccole enciclopedie che uscivano mensilmente in edicola ed erano state raccolte e ammassate in uno scaffale di quella casa, appartenuta ad antenati. Scostavo con una mano i tendaggi sbiaditi separatori di piccole camere prive di porte, intrisi di fumo di sigari da tempo inceneriti e di fardelli di sospiri emanati al centro delle stanze e fluttuati indefinitamente attraverso le generazioni future della famiglia che ancora si recava là a trascorrere le vacanze; m’addentravo poi nella penombra fresca per afferrare con le mie mani l’altro pezzo d’eredità, giochi obsoleti, letture per affrontare le ore di calura, quand’era un sole assassino a impedire di sostare nei campi senz’altra protezione che le braccia protese degli alberi. Nelle pagine vedevo le leggende, chimere e centauri della Storia o del Linguaggio. E leggendone ne scorgevo sempre poi, non appena ritornavo correndo tra le erbacce e le spighe schiacciate, le innumerevoli tracce nelle cose visibili, accorrevano scalpitanti in branco -ma era uno scalpitio che, per quanto rumoroso, mi suggeriva in qualche suo andamento ritmico d’essere assai difficile da udire, un’esclusiva del suono che tuttavia si rivelava del tutto e tempestosamente qualora fosse stata effettivamente colta dall’orecchio vivo. E così di tracce di cose lette si riempiva il mondo, anzi lo sostituivano: e il mondo lo vedevo mutar pelle, diventare soffiante pandemonio, lasciandosi dietro spoglie diafane che presto sarebbero state così trasparenti da non potersi più toccare o immaginare come forma componibile, spoglie emigrate silenziosamente in direzione di un diverso reame di vetro, senza più legami col nostro mondo polveroso: il mondo lo vedevo così come quell’incolore rete di squame lasciata da un colubro striato, che avevo trovato una volta deposta tra i lunghi e umidi fili d’erba, virescente come ferita nell’addome del dio delle cavallette, che s’infoltiva là nei pressi del fico e la vite, ai confini con gli altri campi e il filo spinato.
Segnali di fumo dunque. L’orizzonte si riempiva d’apparizioni. Da giorni stava avvenendo, sempre nella prima mattina, quando talvolta un passaggio di nubi ombreggianti faceva presagire una pioggia che raramente prendeva forma, e in seguito durante le varie fasi del pomeriggio che andava evolvendosi in blocchi dentro se stesso come il processo grondante di linfa d’una larva, crisalide e infine angelo alato dei fiori -udivo l’esistenza elusiva di simili di ninfe di tutte le cose che vibravano, attorno a me, che seduto a terra in quei giorni d’erba crescente potevo anche addormentarmi dello stesso sonno d’un albero e dimenticare tutto ciò ch’era fuori del mio sonno segreto, attorno a me, cosparso di mantidi che brulicavano sulla mia corteccia dormiente. Prima che una diversa anima, una creatura animale, si risvegliasse in un centro improvvisamente caldo, come osso arroventato, riscuotendomi dal torpore assorto in cui intere ore filavano indifferentemente, facendomi scuotere tutto per allontanare dalla pelle le zampette acuminate, vederle involarsene in un sussultorio mistero verde. Puntolini rossi rimanevano sulle mie braccia, sulle gambe, in arcipelaghi cicatrizzati sul torace scoperto, sugli strati di sporcizia fumosa che mi facevano armatura.
Ero propenso a ritenere -e lo confermavano le pagine- che a un segnale dovesse seguire qualcosa; non concordavo invece con l’altra congettura delle pagine, secondo la quale a determinati segnali di fumo seguissero determinate cose, secondo associazioni precise e adamantine tra le parti e il tutto astratto che, sopraggiungendo col fare nuvoloso d’un cinghiale nero nella brughiera, avrebbero confermato infallibilmente l’esistenza d’un codice fatto di moltissime parti, moltissimi significanti arbitrari da memorizzare. Il mio codice era di due blocchi soltanto: qualcosa è un segnale oppure non lo è; se è un segnale, esiste da qualche parte qualcosa (e presto esisterà nel presente, più vera d’ogni minaccia e ogni acqua dissetante) che dà motivo al segnale di chiamarsi segnale. Ma non c’era, per me, nessuna coordinazione tra le forme prese dal segnale e la cosa che poi si manifestava. A ciascun segnale poteva seguire qualunque cosa, imprevedibile; non era necessario che un sistema ripetesse i suoi esiti per dirsi perfetto: bastava che ci fosse il meccanismo basilare dell’impulso e della sua conseguenza, il suo karma di . Così stavo di vedetta, con una mano a visiera protesa dalle sopracciglia a scorgere i movimenti delle spighe e delle canne negli angoli più distanti del terreno, in attesa dell’imprevedibile, eppure già previsto in almeno una sua parte: quel qualcosa doveva giungere, e cercare con me uno scontro, una forma di contatto, estrarre da sé un suo fantasma perché fluttuasse assieme agli altri che mi portavo in tasche sparse dell’essere, ciascuna col proprio corredo di informazioni relazionali -quanta minaccia, quanta distanza, quanta curiosità, quanta vertigine, quanta superficie riflettente in cui poter individuare il volto inebetito d’un proprio doppio, liquidamente tumefatto nei suoi cosmi distorti dentro lo specchio. Disegno proibito dell’anima che non si può mai disegnare (ciascuno specchio di te -pensavo vedendomi riflesso in un globo di rugiada all’alba, in un gonfio addome di tarantola asteriscale sul muro bianco con la sua raggiera di zampe pelose- è un portatore di luce precipitato dal cielo, avvoltolato tra ali membranose in ribollente sonno vesuviano nelle profondità del sottosuolo, e conosce i tuoi segreti, li sogna e li risogna).
Di quei fantasmi ed eventi in superficie non c’era altra traccia che i loro emissari multiformi, anch’essi cose vive, cose morte, accadimenti, mutamenti. Tali sarebbero stati in altre circostanze la cosa annunciata dal segnale; ma troppo invisibilmente si facevano visibili, in maniera troppo poco annunciata entravano nello sguardo perché non fossero messaggeri. E così c’erano stati almeno tre giorni di voli strani di stormi in formazioni strane, e fruscii nella vegetazione dall’altra parte della palizzata di bambù, e i cani randagi intenti ai rifiuti abbandonati a terra, e un gatto o una faina che balzavano dal polveroso davanzale di una finestra del ripostiglio in stato di semiabbandono, e una strana sirena ripetitiva e angosciata dalla parte della foresta, e un fanale, insolito, che alla sera, quando già le palpebre erano appesantite da un’acquerugiola levitata assieme all’umidità dal suolo tinto di nero e penetrata fin nelle orbite, sembrava strappare per un istante i veli del sonno con artigli di luce artificiale che lacerava per pochi istanti l’intera campagna, per poi andarsene, chissà dove, a costeggiare in eterno la foresta dalle contorte dita protese sull’asfalto, tramutate in spettri nei reami d’assurdo e singhiozzo del cuore che dopo la mezzanotte scendevano a tappezzare il mondo. Segnali così. Cose così. Alcune potevano essere il risultato, la risposta del Linguaggio del mondo, che in questa maniera, quando non ero addormentato, o forse quando lo ero così profondamente da non credere di esserlo, a volte mi parlava.
Non potevo sapere se la festicciola che le persone della famiglia estesa riunita in vacanza volevano organizzare fosse l’anomalia in se stessa, l’invasione del mio spazio di regole autonome che i segnali volevano presagirmi; per qualche strano motivo non riuscivo a convincermene e me ne rimanevo estremamente cauto, facendomi i passi più felpati di quelli di topi e rospi che nel crepuscolo umido arrancavano fuori dal pozzo. Circolavo attorno agli spazi condivisi del prato antistante gli usci, e dalla distanza continuavo a osservare diffidentemente quelle lunghe tavole che venivano trasportate all’esterno e spolverate, per essere apparecchiate nell’imminenza della sera in cui gli invitati sarebbero dovuti arrivare.
Molte cose potevano ancora accadere e intanto, sfuggito alle incombenze e coi capelli sfilacciati e sfibrati dal venticello esalato dall’estate morente, coi piedi nudi e pezzati di calli simili a macchie di fango m’arrampicavo caprinamente sulle rocce protuberanti sotto gli alberi più alti, da cui ammiravo il tramonto: nelle denudate glorie rosee del cielo facevo scorrere in processione, e in revisione per me, alcune delle ombre che m’avevano accompagnato nel decorso di quella febbre ch’era stata la giornata in procinto di dissolversi: era l’ora delle chimere rosa, quella, l’ora di manticore che spalancando ali di pelle aliena ovunque e in ogni tempo cominciavano a sorvolare in circoli la terra beatamente stanca, cospargendola d’un polline, una polvere di visioni melanconiche, simili a echi che già sopraggiungessero dai vetri infranti d’un passato da lungo trascorso e quasi del tutto dimenticato, se non per suoi immediati richiami olfattivi, uditivi, vibranti nell’invisibile -altri segnali di fumo. Distintamente, ricordo soltanto il crepitare del radar dei pipistrelli, i loro velocissimi ventri d’inchiostro che nella velocità si disfacevano inafferrabili agli occhi, me li sfioravano, curvando verticalmente un istante prima di impattarmi il volto. Un radar mi sbocciava speculare in fondo al torace, poliposo di numerose appendici, intercettavano in ogni click i sommessi squittii d’una lingua inudibile, i tristi e dolci singulti di tutte le creature piccole e microscopiche che al pari di me amavano quell’ora, i suoi rifugi intessuti da steli in riposo accasciato, intessuti dall’aria, da qualcos’altro d’incorporeo e permeante.
E in quell’imminente crepuscolo in cui lontano mi giungeva il chiacchiericcio degli indaffarati indecifrabile come altra lingua, assieme all’equoreo e amato lamento del frigorifero simile al pianto d’una strolaga tra i canneti, rividi filtrati da innumerevoli strati di polvere cosmica rosa e arancione cortei di volpi in nuoto da salmone, lontane scure silhouette di cicogne migratrici che forse davvero sorvolavano un acquitrino in quel momento presente, e libellule in eserciti come elicotteri sulla giungla bombardata; e fischi di racconti di guerra che aveva colpito quella stessa terra, inquinandone fondamenta e falde acquifere, con ordigni ancora inesplosi sotto i nostri passi; e spiriti dell’acqua che bevevamo e con cui ci bagnavamo, estraendola dalle profondità per collocarla nella piscinetta vacanziera col suo fondale d’alghe scivolose; e le numerose divinità che conobbi in quei luoghi, grandi e grosse, dimenticate o ricordate con affetto.
Solo di quelle che ricordo, solo di quelle che in qualche modo possono camuffarsi di parole, posso riferire: spirito turchese dell’acqua zolfata d’uno stagno al centro della foresta, visto talvolta fluttuare velocemente e sparire in un baleno oltre i confini del campo visivo, coi suoi veli dispiegati dietro le scie del volo lepidottero; c’era poi l’uccello del primo sole giovane, con la sua cresta rosea, le sue ali di farfalla, il suo nido nella corteccia; e c’era, in un suo negativo di chiaroscuri opposti, il nido di corteccia che viveva solo d’ombra, appartenente all’uccello della prima luna giovane, con ali mute capaci di scomparire tra i rami mimetizzando l’identica maculatura, l’identica notte assorbita nel profondo di linfa e piume come un nettare privo d’attrito; c’era infine quello che per quel periodo fu il mio preferito, affacciatosi dai solchi lasciati dai quadrupedi nell’erba che faceva come da savana di raccordo tra un terreno e l’altro: Dingo, uno spiritello del giallore dei campi e del fruscio che attraversa le spighe, e d’una terra bruna rovente che viene così striata, d’un pianeta strano e diverso eppur nascosto nell’ombra di questo, dove ciascuna particella del suolo è una sabbia e una boscaglia rimasta attaccata a zampe digitigrade, svelte e raspanti. Le sue orecchie color del grano, ritte piramidali, s’erano levate tra gli steli, anche quel giorno o in uno dei suoi giorni fratelli, e m’avevano cercato, come ricettori, antenne possedute dal dio: credevo in quei giorni che si rivolgesse a me, e questo in maniera indipendente dalla congerie di variegati segnali che nei recessi sotterranei dell’esistente s’erano messi d’accordo per farsi vedere. Vibrisse in ascolto stampate nel mio bestiario. Forse solo perché ero un intruso, e non perché sapesse che lo guardavo. Forse solo perché ero in piedi, perso in giochi solitari sotto il sole e le ombre delle chiome degli alberi, spargendo nel vento un mio odore di cui ero inconsapevole.
Li guardai tutti, questi esseri della giornata e ora del tramonto, sparire nel bosco e danzare in nuove aurore assieme ad altri stormi che tornavano a casa, assieme ai gettiti iridescenti degli spruzzatori e i tubi di gomma, simili a saettoni che svolgendo le spire fulgidamente squamate aspergessero di medicamenti le siepi delle villette. Guardando dissi: bello. Con quell’aria soddisfatta mi voltai e ritornai alla casa, dov’erano i parenti, le altre possibilità di vita della mia specie, troppo gioviali o troppo scontrose o troppo vive, e le tovaglie, i tovaglioli, le posate, gli intrugli gassati multicolori che oscillavano nelle panciute ovoteche trasparenti delle bottiglie; laddove si trovava, come il pozzo ingegnosamente scavato, il formicaio che mi fermavo a guardare prima di rimettere piede sull’uscio e andare ad aiutare i preparativi, la terra che a quell’ora mi sembrava aver cambiato colore e aver trasformato anche la faccia, come se il suolo dicesse d’avere una tristezza inspiegabile, all’improvviso. E all’improvviso diventava più facile starla ad ascoltare, o perfino mormorarle in confidenza qualche segreto. Non ricordo, per quanto mi sforzi, cosa confessai alla terra quella sera.
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A un silenzio sdegnato e propenso a macerarsi da solo avevo relegato la mia protesta quando qualcuno propose di piazzare all’esterno, nei pressi delle torce da giardino, un faretto micidiale. Sapevo che avrebbe spazzato via le stelle emettendo lastre elettriche d’invadenza opaca, sapevo poi che avrebbe risvegliato vespe e calabroni diurni, annunciandogli i radianti e rischiaratori tepori d’un corpo luminoso che, nei circuiti premoderni dei loro gangli, poteva essere interpretato soltanto come la nascita d’un nuovo sole, una primavera in miniatura dischiusa nel buio, un’alba anticipata per sconvolgimento e nuovo ordine del cosmo. Imbronciato e programmaticamente muto m’aggiravo senza chetarmi tra un gruppetto e l’altro, senza intromettermi, in esclusiva compagnia del mio cruccio inespresso, e già mi figuravo, vedendolo nitidamente più della bianca parete a me notissima, più dei suoi chiaroscuri posati dall’illuminazione notturna in cui vorticavano i voli confusi degli insetti -già mi figuravo ciò che sarebbe stato sgradevole, la battaglia e le frivole strida dovute all’arrivo del ronzio di ali nervose, e mi figuravo che sarebbe morto, l’insetto indebitamente destato. Sentivo, scricchiolante in ogni parte di me e terribile, la frantumazione croccante del suo esoscheletro, il suo destino schiacciato in un istante d’infinita futilità: della sua sopravvivenza, della sua predazione sanguinaria e di tutte le vittime di questa, della sua maturità sessuale, la sua eredità di millenari codici genetici, la vanificazione di tutto il tempo racchiuso in quell’ammasso di sue cellule, quel tempo ridotto a informe spiaccicamento rorido di repulsivi liquami, intruglio di feromoni che danzavano e cantavano alla restante stirpe, “qui c’è un nostro morto, qui si muore”.
E ancor peggio sentivo la probabilità che potessi essere io l’artefice di quel rumore raccapricciante, affinché coi suoi scricchiolamenti proteici e reconditamente viscidi sovrastasse un altro rumore, di sconfinati pensieri, e d’ancor più sconfinata incapacità d’esprimerli e farli capire. Nel mio mondo di segnali di fumo credevo di conoscere, trasportata dal vento a me, enfant sauvage conquistatore solitario d’ogni ettaro, ogni risposta deludente e al contempo soddisfacente per la sua amareggiata prevedibilità: m’avrebbero risposto, gli invitati e tutta la loro stirpe mia consanguinea, che dilemmi inauditi di tal fatta non dovevano trovare spazio nel mio cuore, che proprio un simile rumore era il più perfetto per me, per l’audacia che doveva germogliare dalla mia età di rigogliosa crescita, dalle mie gambe, dal loro colore abbronzato e incipiente peluria da grecoromano, dai miei cromosomi, dalla necessità, sin dai tempi immemori negli aloni delle fiaccole accese in dimore di campagna, d’allontanare tutti i mostri. Sordo a ogni variazione, percorsi ulteriori passi tra le sedie e le tavole imbandite a buffet, tra altri ronzii e alte risa, in quel battistero dell’elettricità sgargiante al centro del buio e in suo dileggio; bagnai di Autan le nudità di quel mio corpo sporco, m’inebriai, perché era come la citronella degli zampironi e delle candele lì per terra collocate in piattini di terracotta, perché era la variante olfattiva di quell’ipnotica colata giallastra che vedevo squagliarsi in convoluti malloppi che assai a lungo potevo fissare, sguardo puntato alle mattonelle del porticato: come stalagmiti in grotte bellissime, come gli antri calcarei della mente.
All’improvviso sentii soggezione, due parallele gocce di sudore dietro le orecchie, a ungere i miei capelli mezzi selvatici e incorrotti di vergogna. Mi sento un po’ sciocco nell’ammettere che in quel momento m’era sembrato di rilevare, in una risata scoppiata nel mezzo di un manipolo di giovani, uno scherno nei confronti di quello che doveva apparir loro come un tempo ridicolmente lungo da me trascorso in contemplazione della candela ai miei piedi, fumigante alla base d’un pilastro del porticato al suo confine con il prato -credetti insomma che ridessero di me, là in bilico, forse indeciso se rimanere nel chiasso dei gruppi rimasti entro il confine antropico del mattonato, o se slanciarmi sulla terra amica dove sempre mi slanciavo, per trovarla occupata da altri gruppi, trasformata quasi in approdo remoto e poco frequentato nei miei abituali giri, una terra riempita d’altre lingue e che più non poteva rispondere alle mie visioni, ai miei capricci, miei comandi e prepotenze, mie richieste d’aiuto e d’asilo.
Arrossendo, ricordandomi deriso e sorpreso nudo tra i calmanti umori saponiferi nel bagno dalla chiusura difettosa in un’altra di queste occasioni delle estati precedenti, scesi dalla mattonella, quasi sospinto, e mi avvicinai a quel gruppo, tenendomi dietro alle sue schiene, alle sue gambe, con fare falsamente distratto, illuso di smacchiare l’imbarazzo d’esser lì presente e visibile con la malriuscita nonchalance dei movimenti d’uno squalo in una teca d’acquario. Credendomi ombra e occhio freddo di predatore antico giravo dietro di loro, sentendoli chiaramente, ascoltando la loro conversazione tradotta per mezzo di chissà quale interferenza forse caduta da stelle mie consimili, nascoste di là dai bagliori elettrici volanti in quella notte d’estate -un traduttore universale progettato dagli alieni che a volte vedevo scendere fosforescenti nei campi miei vicini, sbarcando da navi ammantate di bulbi placidi somiglianti alle lucciole che un tempo dovevano aver vissuto qua. Da alte antenne calava, intrufolandosi in un brusio schiumante (sentivo ancora come una specie di sottofondo la nube di rumore di tutte le cose), il segnale del prodigioso strumento interpretativo, e cadeva qua e là in singhiozzi frapponendosi alle vibrazioni che inquinavano l’aria, spogliandole di strati d’entropia, mettendo anche me in ricezione, in capacità di comprendere -per quanto potessi comprendere negli asfissianti limiti di tutto ciò che all’interno del possibile poteva spaventarmi o respingermi; perlomeno potevo credere però di vederlo, il vero, il vero di ciò che s’ode e delle persone e degli altri, come fosse della stessa famiglia dei miei segnali di fumo chimerico nell’orizzonte e nel cielo, e molto più complesso, e molto più organizzato e disordinato al tempo stesso, molto più tenace e torreggiante, svettava alto sopra di me, guardandomi minuscolo in suolo di macerie, come quelle gambe di jeans e pantaloncini e costumi da bagno che m’attorniavano quasi volessero mettermi al centro della loro circonferenza, sottomesso mitocondrio nella loro cellula. Il linguaggio che veniva pronunciato nella notte, trasformata da un’invasione, era come un adulto, un obelisco -come tutte le figure che apparivano, le figure non animali e non spiritiche nei miei passaggi sulla terra, nei campi, nei boschi, nelle spiagge. Nella città lontana, le sue classi e i suoi spogliatoi di sguardi e parole nate in loculi di intenti diversi, imperscrutabili nelle fronti degli altri, tutti trasformati senza distinzioni in ostilità -terribile destino di chi trova il vero in un codice bicefalo.
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(“****”, “********”)
Tesi le orecchie, facendomi più vicino, quasi risucchiato da un magnetismo cui non riuscivo a trovare una collocazione tra i bagagli di tutto ciò che conoscevo.
(“******ete, non ha**sete?,*ui*i**sono l*……….”)
(e l*scial***tare, mad****..*)
(*iediti qua.)
Pensai che era buffo: ogni anno invitati dai miei genitori, quasi tenessero in casa una giara piena di folletti che si rinnovavano, fatti uscire solo d’estate, in occasione di una delle due grandi feste. Creature di piccolo popolo vedevano aprirsi il coperchio sopra di loro e una dopo l’altra balzavano fuori, ingrandendo di colpo.
Mi misero con le gambe ciondoloni nel vuoto antistante una seggiola di plastica tutta scheggiata nelle gambe, facile da rompere, vietata ai corpulenti. Mi ritrovai con un bicchiere stretto da entrambe le mani e nel cerchio della sua bocca di sottilissima, fragilissima plastica, il ribollente rischio che il liquido scuro fangoso e zuccherino al suo interno si ritrovasse a sparpagliarsi in coriandoli nell’aria, privo di recipiente da un momento all’altro. Esploso. Pressione di palmi sudati. Qualsiasi mondo e oggetto che si potesse raccogliere in mano era capace di diventare un big bang. E dar luogo poi a tutte le epoche e le cose in successione -fino a quella sera? Le costellazioni da qualche parte sopra di noi, forse già spente nel tentativo di inviare nel nostro momento presente una luce escreta millenni fa, erano state in origine poltiglia sudata da pori maldestri, sparpagliata nel brodo cosmico a innescare reazioni a catena senza significato, fino a produrre “tutto ciò”, cioè, l’ultimo anello, che stavo vivendo? In affanno scrutai all’improvviso i volti, le maschere alte sopra e attorno a me, per cercarvi dentro la possibilità che avessero già visto questo stato di cose, le infinite catastrofi creatrici insite in ciascuna instabilità del tutto, ciascuna capacità di rottura: udii meglio, e ancora associo quel liquido tremante nelle mani allo stantuffo sordo che sbloccò le traduzioni nel mezzo del brusio. Era difficile trovare reliquie di quel vero che m’attanagliava nei discorsi che stavano facendo.
(“**rmacia? C’hai un solo sbocco lavorativo.)
(“frega cazzi. Ci vado per la f*ca, m*ca p****ltro.”)
(“coglione che sei, non ci sar* di**eglio di f*rm*cia per quello?”)
(“alludi a qualcosa in p*rtic****e?”)
(“oooooh, s’è fatta i cazzi tua! Occhio alla str*ga della q******B!”)
(“eh, ormai non p**.”)
(“hahah***, chivvese. Vuoi mette una fic* che con*sc* il funz****m…….)
Interruzione: un volto d’una di quelle nebule di rumore antropomorfe distolse le smorfie ostentatamente esasperate da quello scambio -il volto della “strega”-, m’individuò, mi sorrise, mi s’avvicinò tantissimo, tutto nel giro di pochissimi istanti, prodigiose capacità di muoversi tra i discorsi, tra le estrinsecazioni, tra gli altri. Un sorriso quasi rattristato. Abbassai lo sguardo, forse in cerca di sbucciature sulle mie ginocchia ciondolanti che fingesse di spiegare quella pena, forse in cerca d’altro che non si vedeva da nessunissima parte.
(**, ****, non mangi? C’è anch***……)
Mi disse, vicina, troppo vicina -il chiarore quasi lunare, ma per nulla malato, della pelle emergeva dalla nebulosità che li avvolgeva, assieme a occhi ambrati e grandi, intollerabilmente mobili ed espressivi, di poco sporti fuori dalle orbite a rilanciarsi coi denti lunghi e allineati nei sorrisi scoperti un gioco di riflessi rimbalzanti. E quel volto, così grande davanti a me m’era parso, così grande da occupare tutto il cielo e ostruire qualunque mia risposta alla sua domanda s’anche avessi voluto darla, e credetti che così vicino volesse ingoiarmi in una gola bianca d’avorio.
Non ricordo con quale gesto risposi. Mi ritrovai a spostare il bicchiere in un palmo solo, per afferrare con l’altra mano una manciata di salatini o roba. Ero quasi una marionetta dunque, che si sedeva e arraffava secondo i loro fili. Conobbi presto i due sapori, d’una mano e dell’altra, mescolati zucchero e sale, nettare e terra, in vortice sulle papille della mia confusione.
Ero nutrito o forzato a nutrirmi? Coccolato o in inganno? Stavo mangiando della loro stessa festa -qualcosa di grosso e deciso distante da me e dai miei giochi campestri, qualcosa che non potevo capire e con cui dunque non avevo diritto d’interferire-, stavo banchettando sullo stesso cadavere elefantiaco accasciato in questa mia, in questa ormai nostra savana? Lo spazio dapprima conosciuto mutava in accordo al momento, e al significato che i suoi agenti vi attribuivano, tutti per conto proprio, tutti credendosi unisono, e io una mosca o un refuso posato sul pentagramma che non si capisce se è fuori o dentro dal foglio, interferenza o voluta dissonanza nella composizione. Emergendo dalla confusione caramellata, cosparsa ora su tutto il mio volto, dalle labbra agli occhi stranamente inebriati, vedevo le figure di questi agenti giovani -comunque adulti, gigantescamente e inesorabilmente alti per me- farsi più familiari. Prendevano forma: li riconoscevo in veste d’illustrazioni che avevo già visto in un libro fantastico, una strega delle brughiere, e un arciere rozzo, e un pescatore fangoso, uno scienziato agonizzante in segreto che m’immaginavo essere lo stesso della canzone a lui dedicata (c'è rinchiuso lui, nel pianoforte, come in un laboratorio d'ogni spiegazione escogitata in un macchinale alternarsi di leve e accordi), e un bardo ubriaco, e seduta poco discosta da me un’occhialuta bibliotecaria in tunica blu di stelle e un enorme otre d’acqua tra le braccia, da tenere in equilibrio per chissà quale fondamentale dovere. Mi chiesero di che squadra fossi. Interpellato, precipitai poco a poco in vertigini d’audacia mai sentita, scoperchiai nuove nicchie sconosciute della mia stupidità e vulnerabilità: dissi loro di Dingo.
(“eh?”)
-Dingo. Passa per quel solco e ritorna sempre la sera.
(“seh, vabbè, un dingo! Hahahah******), disse l’arciere, e gli fece eco il bardo, poco dopo chiedendogli cosa fosse un dingo.
Dovetti arrossire un’altra volta, ma durò solo pochi secondi. Con strattone selvaggio e volgare scostai la mano delicata della bibliotecaria che, lasciato un gonfiore del suo vaso d’acqua cosmica, s’era adagiata sulle mie spalle per fare uno strano massaggio, di consolazione o compatimento o stima, di cose sgradite -e colsi dietro gli occhiali, e nel suo brilluccicare di stelline sulla stoffa indossata (che tanto assomigliavano agli adesivi fosforescenti del mio giaciglio!), un dispiacere passeggero, che per un istante sembrò esplodermi struggente nel cuore come un altro, ennesimo universo nascente. Ma non c’era tempo, non potevo stare a contemplarlo, non potevo cercare la sua faccia mortificata, non potevo stare a indugiare, non potevo sentirmi provare certe cose ora che ero dentro il cerchio, su una loro sedia, con il loro cibo. Prontamente giustificai.
-Dingo bisogna cacciarlo via! Mi fa così tanto arrabbiare!- Mentii, ed ero serio, così serio circa l’esistenza della bestia, ero furioso, così furioso come -credevo d’averlo capito bene- si conviene esserlo con le bestie, quando si è arcieri, abitanti di campagne, abitanti di dimore, uomini, comunità; e vidi nell’arciere che mi aveva deriso un mutamento d’espressione, non più di scherno, quasi di sorpresa, forse perché s’era detto di assecondarmi una fantasia, o forse perché era suo compito confermarmi l’importanza di quel compito che m’ero appena inventato, quel compito che non era mai esistito prima nel mio animo se non in quegli incubi che talvolta mi perseguitavano, mostrandomi d’ogni cosa che incontravo l’esito più terribile, d’ogni lucertola una tortura operata da un’infanzia sanguinaria, d’ogni acacia un fulmine. Cacciare uno spirito dei campi! Sotto i lontani sensori dei delusi traduttori alieni, lassù tra Scorpione e Sagittario e dalle parti della mia amata Lucertola, quel giorno scelsi d’esser preso sul serio, e così tradii le creature, i segnali, gli amici.
(“oh. Ah, ma allora ecco che era il rumore di prima!”)
Rabbrividii sulla sedia: non so come, ma seppi immediatamente che, su questa cosa almeno, non stava mentendo.
(“aaaaah, è vero, c’erano dei cani randagi, mi sa, là in mezzo ai cespugli.”)
Gli fece eco così la strega di brughiera, col suo tono di costanti scherzi, anche quando non aveva intenzione di mentire, né di lanciare le sue strida in volo. La vidi portarsi un dito sulle labbra protruse e sollevare gli occhioni, mimando il dubbio con quel volto di cui quasi avevo sentito l’odore.
-che cespugli? Dove?
(“alle macchine parcheggiate. Vai ragazzo! Fagli vedere a quel dingo!”)
E accolto questo segnale sparii, li feci sparire, dietro, tra le cose fuori dai limiti del visibile, tra le cose sgradite di cui non si cerca lo sguardo, tra altre risate di scherno la cui rumorosa e fastidiosa probabilità cercavo di schiacciare col frastuono affannoso dei miei passi. Corsi, scappai via. Frammenti del tipico cibo da festicciola che mi erano stati elargiti quasi in gesto automatico e indipendente dal loro volere, posati nella mia mano libera, dentro la mia tasca dei pantaloncini s’erano riassemblati in una palla untuosa, mentre con l’altra mano, recitando ira nel mio volto ora di nuovo da solo, sbuffando come un eroe taurino, raccolsi da terra un sasso di terra bruna. Red rock nella mia mano. Palmo catastrofico, creatore sudato d’universi, di rocce primordiali, di dreamtime dimenticati… per Dingo, per fargli del male, fisico, o morale. Occhi tristi, sfere di liquido nero. Vibrisse di pianto muto. Colpo per un inoffensivo spirito campestre, per una guerra senza senso. Perché c’era così tanta malizia? Perché mi volevano come nell’ansia avevo detto di voler essere? Ed era tutta loro la colpa? Rovistai in un tramonto dentro me, in un crepuscolo che m’adombrava internamente manifestandomi forse la fine di qualcosa di buono e indefinito, in cerca di scalcianti e iraconde immagini d’altri me stessi, altre forme di eroismo che come demoni non invitati m’avevano forse popolato, diverse dal Mowgli-Siddharta degli spiritelli tirrenici ch’ero stato: in una mia nascosta proiezione d’immagini caleidoscopiche sulle pareti della mente, s’arrogava gli spazi di altri e migliori spiriti un’immagine di spietato guerriero, fiocina e fionda impugnate, eternata nel gesto d’un balzo ferino nel geoglifo gigantesco sulla faccia del canyon, cacciatore di bestie viventi.
Quanto al bicchiere, le sue due parti erano separate: il suo contenuto era in me -non in gola, ma ancora, come prima, avevo come la sensazione d’essermelo versato in faccia: occhi gassati mi bruciavano, sollecitati da saccarosio, coloranti, componenti di un eroismo al neon nella mia visione annebbiata da miraggi di pulsanti metropoli, saporito e assuefacente, che mi lerciava più di qualsiasi traccia di terra e linfa e resina; invece il recipiente doveva giacere mezzo stracciato da qualche parte, sfatto in lembi di plastica bianca sfilacciata, ridotto a cartaccia inquinante tra le paglie delle mie estati incontaminate, vicino a tutti i passi di suole untuose che l’avrebbero imbrattato e abbruttito ancor di più, consegnandolo irreversibilmente e poco a poco al reame dell’immondo dove non esistono riciclaggio, resurrezione, redenzione -plastica, là per sempre, a non deteriorare mai e farsi rinvenire intatta più dei fossili marini di quelle terre tra millenni di apocalisse, la carcassa inservibile là tra le scarpe, tra le torce da giardino, tra zampironi e candele, pungitopo e asparagine, mentre schizzavo verso le auto parcheggiate alla rinfusa in un angolo del vasto prato simile a un viale alberato. Un luogo frequentato dai selvatici, vagabondi temporanei del confine tra i mondi.
Non l’avevo mai visto così da vicino. E s’aggravò, ringhiosa ma sempre inespressa e incatenata, quella specie di cruda rabbia che avevo lasciato propagarsi nel mio flusso sanguigno durante la corsa verso il parcheggio, a ogni impatto contro il suolo in cui sentivo il mio peso scaricarsi a terra, e anche la terra, mi pareva, scaricava dentro le mie ossa il suo peso, trasformandomi in terremoto, in terremotato, in macerie che a ogni istante si sgretolavano e ricomponevano, innalzando sempre più i cumuli d’angoscia formati all’interno delle nuove fondamenta. Era là, e la mia rabbia era di vederlo così bene, così bello e curioso e puro, proprio là, tra squallidi sportelli chiusi, tra due macchine parcheggiate vicine, e non nella boscaglia del bush, non tra le torride conformazioni rocciose svettanti dai ventricoli del nucleo esatto del pomeriggio, al centro onirico d’ogni mondo. Chi sei tu? Sei Dingo, certo che sei Dingo, ciao, tranquillo!, dissi, mormorai, bisbigli di fata che non vuol disturbare la pennica del mondo, gli stessi che affettuosamente intendevo sempre rivolgere alla gatta mezza domestica che passava da noi prima di cena, a fare due saluti di coda e fusa; ma lì, in quel momento, avevo in mano un sasso. L’unico meteorite nato per ferire tra tutti quelli della pioggia d’agosto.
Dingo davanti a me nel corridoio di macchine. Nera e bluscura, metallo che rifletteva bagliori sospetti giunti alterati fin lì dalla luminaria della vita umana intrusa nella notte, raggiante di là da metri che mi parevano incommensurabili, qualche satellite di distanza; vedevo quelle ombre di informe chiarore intrufolarsi nei complessi intrecci di quel tatami di pressate sterpaglie che ci faceva da pavimento, a significare che, sotto e tutt’attorno a quelle macchine che ci cingevano, tutto un mondo erbaceo esisteva ancora, in continuità con quella nostra parentesi strana: una vasta piana, consorzio di grilli in coro rugiadoso, spazi misteriosi dove sarebbe potuto scappare assieme agli altri spiriti, e dove anch’io sarei potuto fuggire, sognando di diventare spirito e infine involarmi, tra i banchi perlacei che attorniavano gli ultimi lampioni accesi dello spazio e del tempo prima del bosco, che pigramente salivano verso la luna e le stelle, verso gli occhi di allocchi appollaiati dentro fronde sibilanti e verso il luogo in cui erano fluttuate immagini residue di lucciole scomparse, tese all’altitudine. Fuggiamo insieme, Dingo? No, io ho in mano un sasso, tu, che mi sei vicino e simile più che mai in questo momento, devi essere cacciato, proprio adesso, eliminato. Come insetto diurno dotato di pungiglione e primitivo sistema nervoso di sola brama di dilaniare, pericolosissimo a una festa, come il mostro ululante che attanaglia la solitudine naturale dell’uomo nel suo incubo rurale, cosparso di falò per non sentirsi debole. Falò di fuoco, falò elettrici. Falò di frastuono: tendendo le orecchie, come lui teneva ritte le sue triangolari paglierine di spighe e soffi campestri, s’udiva giungere sorvolando ettari di campo e foresta il ritmo ripetitivo di altoparlanti d’una piscina o uno stabilimento balneare, che da qualche parte allo stesso modo della nostra festa s’era messo a rimbombare nel buio, molestando un sonno di acque. Dove siamo, Dingo?, temporeggiavo, balbettavo, forse inconsapevolmente ripetendo tra i gli annaspi di fiatone raggelanti sulla lingua la stessa domanda per tutti gli occhietti seminascosti d’altri spiriti in ascolto -ciascun trillo cristallino d’insetto canoro della notte nei vicini rami e spighe è un occhio, è un orecchio, un mondo sensorio vorticante attraverso multipli strati sovrapposti, e un intero infinito microcosmo che t’osserva, compassionevole indifferenza.
A pochi metri da me. In piedi nel corridoio. Il suo volto ben distinto, un muso semiaperto, sospeso tra spavento e fiducia. Non devi deluderlo. Non devi ferirlo. Ma è come con un alieno: di quelli che hai visto discendere nella campagna. Di quelli che anche nei film vengono ritrovati nei campi di grano. Di quelli che se li incontrassi da vicino, potresti parlarne solo in un modo, solo in un modo ammettere ch’esistono, e solo in un modo ammettere che esisti, perché tutto ciò è un gioco di specchi, perché gli spiriti sono te o tu di loro sei una parte, un residuo, come ogni materia è residuo di quelle luci già spente, così belle e alte nel cosmo lontano, dove disegnano zodiaci e leggende della buonanotte.
E tutto è buio attorno a quel corridoio, di macchine di non so chi, ignaro, festante, distante -dove sta accadendo questo incontro? Fanno davvero male i colpi qua, lasciano davvero delle ferite? Il buio attutirà, perdonerà? C’è luce sufficiente perché io distingua, fulvo e quasi luccicante, il colore del pelo rado, il colore della sua aura.
I litri del buio sono in attesa. Ogni vibrazione del caos là fuori, che attutito le trapassa le sue pareti, ogni trillo più sommesso e sussurro dell’invisibile, mescolandosi all’oscurità le assomigliavano sempre più, e in essa scoprivano un nucleo di quiete, e pur non tacendo, della quiete entravano a far parte, come spettri in punta di piedi, verso il suo nucleo, verso la simbiosi con il silenzio, con un singolo gigantesco respiro trattenuto.
-perdonami. Ma solo così posso…
Solo così posso dire che esisti. Solo essendo orribile posso amarti e farti esistere nel mondo reale. Ti ho fatto male, ti ho allontanato, creatura: perciò ci sei. Lanciai il sasso, vidi descritta la sua traiettoria rallentata, il mondo ancor più rallentato, incapace di schivarlo.
(lanciai la palla di cibo, unta, salutata dal fremere di sensibilissime narici al culmine del muso affilato.)
Lo sfiorò, lo colpì forse, non vidi bene, mi girai, già stavo scappando. Forse verso gli altri, umani alti alti che m’avrebbero convalidato l’operato -non necessario verificare che abbia colpito, o quanto male ha fatto, basta assumere che l’ha fatto, ch’è stato efficace e forte e doveroso, che è stata mantenuta la pace e la successione di eventi della sera protetta da un mondo di spiriti che premono, gravano attorno agli edifici, ai quali non si vuol pensare. Fuggendo pensavo confusamente che forse l’infanzia è un errore, forse non si dovrebbe perdonare quei periodi di necessari errori che si devono attraversare prima di smettere di sbagliare, forse non si deve perdonare l’esserci, sempre, così rumorosamente -forse bisogna voler diventare spiriti e basta, diversi anche da lui e dalle fate lacustri e dagli uccelli del sole e della luna, palle di sola condensa fluttuante, bisogna voler essere questo se non si vogliono lanciar sassi e bastoni alle cose che si avvicinano. Scappavo, scappavo, ma presi un’altra direzione, un’altra -quella che avrebbe preso lui, che forse aveva già preso, inosservato perché velocissimo, già al sicuro tra i campi, lontano da ogni turbamento. O forse il mio sasso l’aveva cancellato. Dissolto come una bolla di sapone, un miraggio desertico attraversato da una mano che non può afferrarlo.
(s’affezionò, dimenticò porzioni di paura poco a poco che mordicchiava, strattoni laterali del cranio, quel teschio di cane mordace: dava colpi oscillatori come la testa d’un coccodrillo per meglio masticare, strappare piccoli lembi grondanti grasso da quella massa che non avrebbe potuto inghiottire senza soffocare -un teschio giallastro bollito, reliquia sul mattonato di un paese arroccato, ne ebbi nitida visione. Ringraziava, mandava cenni del corpo, sempre più ingombranti, mangiava, s’affezionava, e sentivo volargli dal torace gonfio e sgonfio di affannoso respiro a mantice un tepore, come di riposo con un animale domestico accasciato sul ventre. Sentivo un odore pungente. Sebbene ringraziasse, scopriva la schiera di zanne bianche, aggrottava aggressivo la pelle attorno agli occhi, quei globi acquosi e ipnotici come laghi di oscurità tramutati in globi di frenesia roteante, screziati qua e là da biancori di raccapriccio normalmente nascosti nel lato oscuro, coperto da carne. E ringhiava automaticamente, spalancando le fauci, sembrava che solo per separare mascella e mandibola dovesse sciogliere le catene che imprigionavano torme di invisibili diavoli burberi nell’aria circostante, personificazioni della diffidenza e del conflitto interno ai clan; tutto questo, lo ripeto ancora per non dimenticare lo stupore -forse delusione-, mentre ringraziava, mentre si faceva docile.)
Correvo all’impazzata e si rimpicciolivano, sempre più insignificanti, chiacchiericcio, musica, risate, odori buoni e assuefacenti, luci e sedie a sdraio, fiamme incastonate nei loro confini di sicurezza, contro ogni rischio d’incendio, contro ogni quadrupede forestiero. E senza voltarmi avvertivo nel retro dei miei pensieri caoticamente sparpagliati dallo sforzo, più o meno dentro la nuca, due movimenti opposti: uno ascendente, come se tutto quanto sgargiava al centro della casa estiva si separasse in frange di calore destinate al cielo, per confondersi con quelle stelle cadenti dalla coda rossa di fagiano che avrei cercato ancora, quella notte, non appena avessi potuto fermarmi e riposare, sì… e l’altro movimento, discendente, come se tutto quanto sgargiava al centro della casa estiva cavalcasse le vertiginose schiume d’un vortice, una forza centripeta che emanava da quel formicaio a me noto, nei pressi di quel centro, come se tutta la casa e anche le sue tubature e anche il pozzo e tutti i topi e umanoidi che c’erano dentro andassero a finire nell’immensa rete di gallerie del sottosuolo.
C’erano davvero stelle sopra di me? Piogge di meteoriti estive di cui avrei atteso con più trasporto quelle che lasciano una scia rumorosa, quella polvere che gratta gli occhi e le visioni.
(addentando la preda si allontanò, senza più timore, senza più gratitudine, senza aura, diretto a una tana lurida scavata da qualche parte. In amicizia e indifferenza assieme avevo allontanato uno spirito, una bestia della terra. Tornato dal parcheggio, tra anonimi proprietari di macchine che non avrei riconosciuto tra la moltitudine di parenti e amici e colleghi che si sarebbero succeduti e ripetuti nelle estati successive, vollero sentire che gli avevo tirato un sasso, e altri parlarono ancora di quel fagiano che s’era manifestato nei campi qualche settimana prima -un segnale di fumo, anche lui, e d’un fuoco terribile, per me-, quasi che coi suoi bargigli d’incredibile rubino volesse disegnarsi un bersaglio addosso. Ignorai alcune implicazioni. Gironzolai dalle parti del pozzo, facendomi sordo, giochicchiando con un sasso nella mano, dentro la tasca.)
Pezzi unti di cibo s’erano sparpagliati dalla mia tasca e giacevano probabilmente spiaccicati da qualche parte dietro me, negli ettari di tenebra che m’ero lasciato alle spalle. Presso il cancello che s’affacciava sul bosco dall’altra parte della strada, ingannando chissà quali e quante leggi fisiche, i grilli cantavano più forte del lontano frastuono balneare. I lampioni svettanti tra asfalto e fogliame erano più forti dei lumi sparsi nella campagna, più deboli del neroverde che li circondava. Le voci di questi insetti, e di tutti i loro fratelli, e di tutti gli invisibili di questo mondo frastagliato d’aculei e foglie che m’attendeva ergendosi in massa scura di incredibili criniere librate nel vento, macchie di Rorschach d’ogni tenebra selvaggia -tutte le voci di tutto ciò che era sempre stato là nel bosco e nei campi, e una quiete abissale che continuava a salire dal suolo, a spolverarsi dalle stelle, e in entrambe le direzioni plasmandosi ai rumori, sembravano mescolarsi e vibrare all’unisono. Davanti a me, in piedi, deturpato da fiatone e colpevolezza sulla soglia tra i mondi e al centro della notte, svettava un diaframma verticale, un muro: trasparente e vibrante gelatina pronta ad assorbirmi. La boscaglia era là, coi suoi rovi rasoterra che m’avrebbero segnato le caviglie, coi suoi corridoi segreti di stirpi volpine e d’occhi ingannevoli, con il netto passaggio da un reame di suono a un altro, non appena quel folto m’avesse inglobato, con sordo e frusciante risucchio; oltre i primi ingiallimenti dei lampioni, i primi cespugli del confine, oltre diversi cancelli visibili e invisibili, tane di spettri, di rane, tane di cose fumose; un buio compatto e diverso da ogni altro mi dà il benvenuto. E mi sembra di vedermi riflesso, in globo, in occhio nero lacustre, mi abbasso e striscio, tunnel di rovi: nei miei capelli entrano spine, pulviscolo, zampe brulicanti, cose innumerevoli mi si posano sul capo, più nere di palpebre chiuse.
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