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Obscurus

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 1 ago 2021
  • Tempo di lettura: 9 min

Era apparso in quel pomeriggio piuttosto nuvoloso, d’una coltre uniforme e piatta di nubi grigio biancastre dalle quali, a volte, calava un sole fastidioso. I raggi gialli e il chiarore sporco tutt’intorno, del cielo ch’era diventato un solo colore, si intensificavano a vicenda. Pareva una mattina come quelle ai tempi della scuola, o certe domeniche interminabili. Ma avevano già pranzato, e continuato a bere, sgranocchiare, chiacchierare. Sì, era apparso già, ma ancora nessuno lo aveva visto.


-bella vero?


-sì, davvero tanto.


-non ti ci appiccicare però eh!


-a cosa, dici?


-la vetrata! Che ho passato la mattinata a strofinarla!


-sì, sapete, da quando ho detto che sareste venuti, manco foste la corte d’Austria…


-scemo! Andava comunque pulita! È che sei un tale pigro, non te ne frega proprio niente…


-ahia…


-no, è che esageri. Guardate, c’era un segnetto così…! Proprio come vi faccio vedere!


-ma le dita sono chiuse, mi sembra…


-quasi.


-appunto, perché un altro po’ e non c’era proprio!


-non è vero, era molto più grande. E poi, prima di quello, chi credi che abbia pulito tutte quelle impronte sudaticce lasciata dalla tua fronte? Parola mia, se cominciate a pensare a vizi stupidi come questo, nominatene uno a caso, lui ce l’ha.


-e meno male che sono quelli stupidi…


-già, sarei potuto essere un alcolista. Anche se, un altro goccetto…


Risero, comunicandogli che la sua era stata la giusta pensata. Andò in cucina, fibrillarono i riflessi freddi sprigionati dalla bocca aperta del congelatore nuvoloso, si rifransero tra i toni celesti delle pareti fresche, e si amalgamarono all’aria calma costantemente attraversata dal ronzio dei condizionatori. Sparì il lumicino che s’era acceso nella penombra, dentellato di confezioni di gelati ingiallite dalla lampada incastonata nel ghiaccio. Tornò nel salotto.


-potete sedervi eh!


-no no, io sto bene così.


C’era chi si allungava per le noccioline sul tavolino, chi osservava meticolosamente, senza vederle però, le riviste allineate in un portariviste di plastica dalle braccia sinuose. Stile liberty, art nouveau, com’è che si diceva? Non lo ricordavano più, nozioni vecchie, ma insomma quella specie di tubi neri tutti ipnotici, trespoli per oggetti quotidiani raramente sollevati. Ci si specchiava nel riflesso del maxischermo, pupilla del muro tra mensole fulve ordinate. Si parlava di chi non era venuto. Uno camminava, quasi sul posto, gironzolando con laconici strattoni di spalle intorno a uno spazietto che dava sulla veranda, con la bella parete a vetro. E intanto quello incaricato di donare a tutti un goccetto, dopo aver fatto più viaggi finalmente disponeva sul tavolo tutto un sistema ben congegnato che comprendeva cubetti di ghiaccio, caraffa, bicchierini di vetro stavolta, non plastica, belli come mosaici, e bevande variopinte, diversi gradi di gelo su bottiglie e lattine patinate di condensa glaciale intoccabile con la mano. Non faceva così caldo fuori in realtà, l’estate ancora lontana. Ma si era detto che ci stesse bene una cosa fresca, come lo si diceva sempre. Contro la cappa costante del quartiere, della zona in generale, diciamo. Sarà stata l’umidità, o qualcos’altro, aria grigia di città, ma a volte escono cieli belli. Azzurri di giornate che sembrano estive in anticipo, una stella cadente di notte, perché no, uno giura di averla vista, altri sono scettici. Non si approfondiscono le questioni, smorzate dal tintinnio conciliatorio di cubetti adagiati sulla superficie dei liquidi, sobbarcati delicatamente verso le pareti vitree dal dondolio innescato dal passaggio manuale del bicchiere, così complice e cortese, offerta del primo intruglio.


-vedi però che non è pigro per le cose che sa lui? Guarda che bel lavoro!


-ho un mestiere in mano.


-hahahah!


Quell’altro affacciato verso la veranda, intanto, continuava con lo sguardo a soffermarsi fuori sull’erba, quel verde strano. Chissà se l’erba da sola cresce così, pensò. Sarebbe molto diversa, forse, dipenderà dal tipo di terreno, i sali minerali, la composizione dell’acqua spruzzata dagli irrigatori. Spuntano come fiori, che siano tuberi prodotti dalla terra? A dire il vero la strada e il marciapiede sembrano più naturali, qua, di una crescita spontanea di cose. Sabbioso, forse, un tempo. Materiali silicei reintegrati nel paesaggio dell’abitato. Raccolto ed eretto per innalzare le protezioni necessarie alle tane. E così pensando si soffermava poi sul muretto, e l’acqua immobile là sotto, non trasparente, riempita di fosforescenza finto oceanica. Non così immobile però, traballava sulla sua linea superficiale. Forse il moto della terra, quello che c’è a prescindere? Un po’ di vento, molto molto basso, potrebbe essere. Non che cercasse qualcosa in particolare. Buttava in fuori l’aria, inspirata dentro la casa, vernice e detergenti, oggetti nuovi, profumati, deodoranti per ambienti, i vasi belli pieni di rigoglio. Il fiato s’attaccò alla vetrata pulita, formando subito una sagoma come d’una balena. Beh, pazienza, tanto la dovrà strofinare di nuovo. E del resto è impossibile impedire che succeda, come fai. Intanto non mi ha visto. Quando ce ne saremo andati tutti, di cosa si lamenterà, di noi in generale che non abbiamo riguardo, di me in particolare perché si ricorderà che sono stato qua vicino, o se la prenderà con lui come prima? Certo se ne lamenterà, come di altre cose. Ah, si sarebbe potuto anche star fuori e via il problema, e poi, se sentono così caldo, sul praticello a mezze maniche, i piedi nell’acqua... Ma anche là, sarebbe lo stesso… tutto bello, sicuro, e del resto, come si potrebbe criticare? Dici sempre cose così, gli avrebbero detto, se guidando al ritorno avesse provato a dire qualcosa. Tu cosa hai fatto, tu cosa hai costruito, eh? Non poteva dire niente, insomma, mentre guardava la strada e l’arbre magique sbatacchiava dallo specchietto in contrappunto con la freccia. Ma qualcosa che non andava c’era. Non avrebbe saputo dire cosa, questo il problema. Nessuno gli avrebbe potuto credere, fintantoché la questione rimaneva vaga a quel modo, per quanto intensa, per quanto così indubbia. Quasi fosse dotato di un dogma radicato nel profondo della carne, dono di essere l’unico a sapere il giusto e l’errato. Ma avrebbe prima dovuto “costruire”. Avrebbe dovuto sapere, perlomeno, di cosa stava parlando. Fastidioso, ma che ci si può fare, gli esseri umani erano fatti così. Mah, non ha importanza. Distratto, non si andò a servire. Venne lei a portargli un bicchierino di liquido rosso, lui le diede in cambio quello di plastica mezzo sconquassato dalla stretta. Liberato dalla presa del palmo sudato produceva uno scroscio accartocciato dalla flessione della cavità spigolosa, di contorni taglienti, lì lasciata da una pressione forse eccessiva.


-grazie.


Lo guardò un po’ stranita, ma doveva passare col vassoio agli altri che attendevano. Lui officiava, lei distribuiva, religiosa gentile e stranita. Stranita perché se n’era rimasto là, sicuramente, o per il tono del ringraziamento, di cui magari non s’era reso conto, ma non è che ci fosse per qualche motivo, o che ci fosse qualche problema a tormentarlo, s’era solo un po’ distratto. Beh, chissà quante volte si straniva in un giorno, non c’è da prenderla troppo sul personale. Certo però che quello sguardo, anche meno… tornò all’esterno, trapassando il suo stesso riflesso. Vedeva il suo fantasma sovrapporsi alle nervature del muretto di là, al barbecue, alle antenne del vicinato: buffo. Bel vicinato, sicuro. Case simili, sicuro, tutte così lisce e lucenti. Diverso l’arredamento interno, senza dubbio, è una questione di personalità, come le diverse figure appese alle verande, un disegno di gnomi una tour eiffel le dolomiti e sulle porte, gli zerbini, le tinte diverse con cui erano stati dipinti i cancelletti esterni, qualcuno che aveva le rampicanti fin su alle grondaie mentre altri no, tutti dettagli di personalità. Anche se, le macchine parcheggiate davanti alle saracinesche, tutte della stessa larghezza, e gli irrigatori schierati a esercito lungo i bordi…


Ah, quello. Quello? Un attimo.


Si congelò, la testa vuota di pensieri, per interminabili millesimi di secondo prima che si rendesse conto che ciò che andava indirizzando automaticamente l’attenzione degli occhi non era una cosa normale. Li catturava, magnetizzava la ricezione della vista. Un altro vuoto. Poi, una breve fase d’osservazione. Magari s’era sbagliato, andava riguardato meglio. No: era proprio una cosa assurda. Lo stupore, l’allarme, la parola sbocciata senza pensarci.


-hey! Venite a guardare!!


Allarmati, accorsero tutti alla vetrata della veranda. Seguirono la mano che indicava. Videro. Non capivano, strizzavano gli occhi, facevano una faccia come ad aver bevuto aceto, sorriso come a dire che schifo, non capivano, qualcuno rise pure, per poi spegnersi subito, qualcuno disse, “ma che…”, “ma che cazz…”, “ma che è?”, e lui, lo scopritore, all’improvviso impallidì. Senza accorgersene, una mano gli si portò alla milza. Si strinse la pelle, lenendo una fitta.


Cadde un bicchiere da una mano. La sua? Un così bel bicchiere, praticamente un'opera d'arte, un così buono zuccheroso cocktail sul così bel tappeto, così brutte formiche che sarebbero arrivate, un disastro comunque la si vedesse. Di sicuro lei sarebbe impazzita, o avrebbe ingoiato la rabbia, in circostanze normali, ma adesso guardava. Chissà se il bicchiere era incrinato, dal suono non si sarebbe detto. Nessuno guardò il pavimento, però.


-ma è finto?


-eh, per forza, dai.


-madonna è inquietantissimo! Ma chi è che mette ste cose? Ho i brividi!


-ma a me non sembra finto, sapete?


L’uccello se ne stava immobile sul tetto di quella casa, col becco spalancato su un interno nero profondo, visibile dalla distanza. Pareva prendesse il sole sporadico, o che si facesse calare in gola qualche elemento disciolto nell’aria. Il ventre tondo, deformemente pieno, forse era gonfio dell’atmosfera.


-e che, ci stanno uccelli così grandi?


-non qui, non credo.


Enorme, sarà stato alto come uno struzzo, forse. Le gambe lunghe, però, coperte di piume, nere e frastagliate come su tutto il resto del corpo, messe quasi a pantaloni. E la pelle grigio cenere, spuntando da sotto il velo del piumaggio nei lunghi artigli fortemente abbarbicati all’antenna, nel volto nudo, pareva mandare riflessi di luce similmente a un’armatura, una cosa costruita. Anche il volto poteva essere una maschera, di quelle che misteriosamente coniugano la plasticità della loro materia e le potenzialità molli di movimento in modo da far credere d’essere al contempo finte e vive. Poteva esserci una creatura del genere? Salita lassù volando, doveva essere così. Un coso così grande, così nero, che vola su questi quartieri. Un volo da non sopportarne l’immagine.


-scusa ma tu non insegnavi pure scienze alle medie?


-sì ma…


-eh infatti! Ma esiste un uccello così dalle parti nostre?


-non saprei…


-non me ne frega un cazzo, io me ne vado.


-ma come…?


E uno se ne andò, senza voltarsi. Le rimostranze, gli “aspetta un attimo”, non durarono molto. Tornavano a guardare fuori, sgomenti con il labbro calante, nessuna parola e rabbrividivano, mentre il primo già era scomparso dalla casa. Sparito non si sa dove.


-chi si può chiamare?


-i vigili del fuoco?


-sì e che fanno??


-non lo so!


Le ali cupe, doveva essere un’apertura alare ineguagliata. Dalla punta ricurva che spuntava in su, fuori dalla forma grassa dell’addome sferico. Quello che per primo lo aveva visto di nuovo si interrogava se per caso ingoiasse l’aria, per gonfiarsi a tal punto. A ben vedere, il collo lungo tutto piumato, teso muscolarmente, sembrava palpitare di un lievissimo respiro, come d’un essere in fin di vita. Ma quel coso era vivo e vitale, senza alcun dubbio. Da un momento all’altro avrebbe potuto anche scuotere quella testolina grigia, la corona di penne scapigliate attorno alla nuca, e spalancare le ali. Proiettare ombre, più scure della mezzanotte, sul lastricato caldo del pomeriggio. Pensandolo, ebbe un’altra fitta, peggiore di quella di prima. Sentì mancarsi il sangue da sotto la superficie della pelle. Sentì scomparire uno a uno nel corpo i normali movimenti fisiologici, un guscio semovente senza nucleo.


-dove vai?


-alla macchina.


-oh aspetta, vengo anch’io!


Chi se ne andava dimenticava di prendere per la mano di quelli con cui s’era venuti insieme, ciascuno una fuga individuale, o altro tipo di risposta; si scorreva sullo schermo pagine, numeri a caso, domande, ma niente. Descrizioni abbozzate per una ricerca, niente, un uccello che non esisteva, un terrore senza rimedio. La sala poco a poco si svuotava, rimanevano i padroni di casa, altri due colleghi loro, e altri due invitati. Sì, avrebbe potuto aprire le ali, e qualcosa sarebbe accaduto, tipo un’enorme tempesta improvvisa nel cielo, senza un formarsi graduale di nuvole scure, così come era apparso là, fermo, sull’antenna che rimaneva ritta immobile nonostante il peso della creatura. Perché necessariamente doveva avere un peso intollerabile quella cosa. Solo a guardarla precipitava verso un nascosto centro di gravità cavernoso tutti pensieri e sentimenti e la circolazione del sangue, collasso generale. Dove andava a finire tutto? Rimaneva un’agitazione svenevole. E quella cosa come avrebbe potuto non avere un peso? O forse non ce l’aveva per le cose non vive, i palazzi, un’illusione ottica?


-basta, chiamo la polizia.


-no, aspetta, la…


-non me ne frega un cazzo, io chiamo la polizia!


-sì è vero, quello sta là, chissà che potrebbe fare…


-oddio non lo dire! Non lo dire!


Gridavano ormai, oddio oddio oddio. La polizia vuole chiamare, questo scemo?


-state zitti per dio! Zitti, cazzo, chiamo la polizia!


Agitatissimi dalla comparsa casuale di un uccello che non esisteva. Il becco aperto, guardava il vuoto da due anguste virgole d’occhi, buchi nella maschera sua affacciati su un oscuro niente. Taglietti di desolazione.


-andiamo, andiamo!


No, lui rimaneva. Stava là a guardare, come era stato per un bel po’ anche prima, quando tutto andava bene. Alla vetrata della veranda pulita della casa nuova di loro, a trapassare il vetro celestino, vedersi riflesso sulle cose, sovrapporre la sagoma fumosa degli occhiali a un tubo avvolto, a un lampioncino, girare senza cercare niente. E anche in quel momento, non che cercasse qualcosa guardando l’uccello. E nemmeno pensava a qualcosa di particolare o ben definito, guardandolo. Però lo guardava. Da un momento all’altro… ma non succedeva niente.


Come in un lampo placido vide un’immagine della sabbia, quella a cui aveva pensato prima, spontaneamente presente sul territorio su cui si ergeva la città, e vide che era nera. Sconfinate piatte distese di sabbia nera o grigio scura come cenere compatta. Si vide le mani a conca chinarsi e raccoglierla, lasciarsela rifluire tra le fessure nelle dita. Pizzicava come il dolore strano che cominciava a farsi più costante. Forse si sarebbe dovuto preoccupare, farsi vedere da uno che ne capisse davvero, ma…


Comunque davvero, a parte questo, guardavano, stava fermo, e non succedeva niente.

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