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non voleva davvero morire

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 13 set 2022
  • Tempo di lettura: 19 min

Un incipit lo aggredì.

“Gli Alti Alieni del Prisma, alte e benevole essenze, attraverso le migliaia dei laboriosi secoli tintinnanti di cristallo e acqua di grotte cosmiche, avevano costruito con la sola forza telecinetica dei loro poligoni mentali un bellissimo laboratorio. Ed era lì, nel sottosuolo dove si sviluppavano nuove vite e venivano resuscitate altre antiche, che avevano ultimato Il Farmaco: spigoli perfettamente intagliati ed equilateri, un cubetto poroso composto dalla fibra di tutte le piante più prodigiose e immortali. Alti Alieni del Prisma sembravano galleggiare con la placidità di un quieto bestiame di nuvole dietro i vetri strofinati dai raggi solari, che malgrado la separazione tra cieli e sottosuolo cadevano perpendicolari nella nascosta fossa del nucleo terrestre, a nutrire le sue giungle di profondità. E nella scatola di metalli puri che sorgeva tra magnifiche bocche rosa di piante carnivore, e code piumate di dinosauri verdi, loro facevano avanti e indietro nei corridoi, tra artigli e protesi aguzze della foresta di strumentazione avanguardistica. Prendevano Il Farmaco, se lo passavano di mano in mano, lo avvicinavano agli occhi, lo studiavano più volte per essere certi di cosa significasse. C’erano dei rischi: con quello avrebbero potuto resuscitare la gente della superficie. Infondere vitalità negli organi agonizzanti di quegli animali pericolosi, ricollocarli sulla linea dell’evoluzione che li aveva diseredati e mandati raminghi per i deserti delle bibbie che loro stessi avevano scritto. Ma non importava: chissà perché gli Alti Alieni del Prisma, alte creature di illuminazione in ogni singola cellula, forse per uno sconosciuto amore cosmico o forse per altre imperscrutabili ragioni, sempre sceglievano di curare la vita, ogni volta che per vivere annaspava, umida, respirante, fatta di geometrie fragili. Un nugolo di loro, stretti negli abiti campanulari, si riunì attorno ai palmi aperti dove il miracolo come un piccolo uovo era stato deposto, e insieme l’osservarono quasi commossi, tra invisibili lacrime di musica astrale. Non avevano mai avuto un pianeta, erano dello spazio, alieni a tutti. Fuori dalle vetrate, nel cuore di quel pianeta là, archaeopteryx gridavano strane canzoni sui rami contorti di conifere tropicali che stavano nascendo in quel momento.”


Il foglio si era precipitato contro la faccia che svogliatamente fuoriusciva dagli scomposti involucri di materasso e coperte, simile a un crollo di rocce e detriti residui d’una insignificante catastrofe geologica presto dimenticata dalla terra. O come immondizia. Sì, a ripensarci: immondizia. Avrebbe sostituito tutte le lunghe inutili perifrasi dei suoi svariati fogliacci come quello con parole singole e lapidarie: un sacco d’immondizia. Sbadigliando sentì penetrare nell’area post-alveolare del palato le pieghe del foglio sospinte in dentro dal ricircolo d’aria, avvertì un sapore d’inchiostro inutilmente stampato alla base degli incisivi. Era la parte in cui erano scritte le parole “giungle di profondità”. Ma cosa aveva voluto fare? Un pregio, un pregio soltanto poteva avere quello scritto per il mondo che esisteva, il mondo che con una sequela di clacson simili a pellicani degenerati di ingordigia e singhiozzo lo aveva costretto a far resuscitare la propria coscienza. Questo pregio consisteva nel fatto che un simile incipit poteva essere inteso come una pubblicità. E una pubblicità -se solo l’avesse capito prima- era nel mondo dei vivi un’ode, un’elegia, un poema epico. Celebrava la bellezza e la gloria, per esempio, del Farmaco. Lui aveva scritto un’ode al Farmaco. Già in tachicardia e crisi d’astinenza, arrancando sulle striature di polvere del pavimento, si era precipitato a rinvenire da sotto una piramide di contenitori accartocciati il portapastiglie di rifulgente latta precolombiana. Il Farmaco si deponeva sul palmo come un uovo e il suo tuorlo era sopportazione, esagerazione, disinibizione. Gli faceva dire: ma sì, tutto sommato va bene!


Quando i Farmaci non vengono deposti a sufficienza, dai culi delle galline chimiche o dagli Alti Alieni del Prisma o da chicchessia -così pensava recandosi alla fermata dell’autobus- succede che le galline chimiche o gli Alti Alieni del Prisma o chicchessia si mettono a piangere per un numero di notti sufficiente a venir raccontato da altre, innumerevoli inutili parole d’apocalisse, di cui nessuno vuole leggere o sentir parlare, tantomeno sentir pensare dalla testa ronzante d’uno sgradevole vicino sull’autobus o in fila da qualche parte un posto generico che ne so ah sì ecco le poste, le poste erano sempre il posto delle metafore urbane. In fila alle poste aveva pensato all’archaeopteryx e altre bestie d’un mondo di stronzate perdute, che non avrebbero mai cinguettato se non nelle menti di coloro che erano “intitolati” a pensarci. Gente che aveva studiato una singola cosa in tutta la vita, gente che gli metteva agitazione. Gente che nel mondo dei vivi si muoveva e faceva muovere qualcosa, azionava pulegge collegate al tutto, l’ingranaggio posto a sostituzione dell’ordine cosmico… soppresse il moto d’odio che stava risalendo malgrado gli ottimi effluvi rilasciati dal Farmaco nelle sue pareti interne, e già che c’era soppresse anche l’irritante convessità d’un bidone della spazzatura, il più adatto tra tutti a ricevere un calcio meritatissimo nei confronti del fatto d’esistere impunemente all’interno d’un sistema. Un’equazione perfezionata da qualcuno che certamente aveva più malattie mentali di quante ne avesse lui o di tutti quanti come lui fossero impossibilitati a vivere senza Il Farmaco.


Questa bella equazione del cazzo non possono certo averla risolta gli Alti Alieni del Prisma. Elfi di luce del cosmo. Dove siete? E se ci siete, ascoltate il mio disperato vaffanculo d’amore.


Sarebbe stato l’ultimo giorno in cui un pazzo della sua risma avrebbe provato a proporre (provato? E perché? Così, per una legge fisica che impone di fare le cose nel modo più desertificante possibile) un testo a un editore, l’ultimo giorno prima di mettere una pietra vulcanicamente enorme sopra gli ultimi stracci di spirito rimasti -stracci che, bisognava ringraziare Il Farmaco, certe volte venivano resuscitati sinteticamente con grande arte d’imitazione del vero, secondo una posologia periodica e precisa. Sì, grazie tante caro Il Farmaco, ma basta così. Si sarebbe dovuta raddoppiare la dose per aiutare a sopportare tanto ancora, col doppio dell’efficienza, quella che serve per avere un motivo di svegliarsi quando non si riesce più nemmeno a scrivere cazzate, a vedere alieni, a sentire la musica, a fare altro che sopravvivere e sentirsi un po’ meno inutili di… ecco, mancavano le parole e gli esempi. Già da mesi non scriveva più. Non ascoltava nemmeno.


Una ventola da soffitto sbatacchiava le sue pale muscolari, né rigide né flessibili. Un rumore d’insetto con le ali intrappolate in un cassetto d’ambra raffinata si sparpagliava dai paraggi, fluttuava ammorbidendo lo studio al terzo piano come una delicata nevicata di polvere. Scrivania di documenti, scrivania di carta superflua ma cerimoniosamente stampata, scrivania di device fondamentali e cerimoniosamente lucidati, attaccati in eterno al caricabatterie ombelicale che mai spegne una singola lucetta, singolo occhio; scrivania di ninnoli e frasi ironiche estrapolate dalla pozione ribollente del marketing, veloce nel fare battute e reagire chimicamente nelle sinapsi; scrivania di action figure tratte dalle migliori graphic novel stampate quell’anno. Autori che ce l’avevano fatta. Dovevano avere qualcosa dentro che lui invece. Guardava un punto imprecisato in inestinguibile tensione tra il pavimento e quella scrivania fatta di quelle cose. Già una volta rimproverato per non guardare in faccia. Una faccia cigolava dall’altra parte della scrivania o forse era la sedia girevole a cigolare. Odore di tela sintetica spirava colonne di prurito nasale che si discioglieva armoniosamente all’interno del flusso d’aria fatta vorticare dalla ventola. Un insetto che si dimenava con le ali schiacciate in una morsa che l’avrebbe fatto addormentare un’ultima volta dentro un intenso odore. Come morire in un corridoio di nostalgia scolare, alcol appena passato sui pavimenti.

Dietro una parvenza di finto gatto persiano, raffinato ma diretto, e dietro gli occhiali, raffinati e capaci di celare collera e contorcimenti di mostri dentro il vicinissimo cranio, il tizio là -editor, esperto, adulto capace di compromesso o quello che era-, aveva sparato la solita sequela di fintedomande vereaffermazioni corrosive. Futuro e passato in discussione: chi lavorava lì sembrava avere idea che fossero la stessa identica cosa, e per motivi che amavano chiamare terraterra, totalmente diversi dall’eterno ritorno evocato dal tomo di filosofia ordinatamente riposto nello scaffale là dietro e mai aperto -non c’era tempo, gli avevano spiegato una volta, di leggere, in quel mondo: le parole belle sono di chi le scrive, non di chi le ha scritte, o qualcosa del genere ma non riusciva a ricordare se avesse capito male sin dal principio o avesse in seguito storpiato la frase. Strano incantesimo della gente: saper parlare in una maniera nuda e orgogliosamente semplice che tuttavia comincia man mano a rivestirsi di strati d’inganno dopo esser entrata nella mente, esserci rimasta continuando a pulsare, tumorale. Semplicità le mie palle. E così erano le domande affermazioni risposte, sputate da un lato all’altro della scrivania. Perché hai studiato questo. Non lo so. Che pensavi di ottenere. Niente, volevo morire. Eri in tempo per cambiar strada. Ma facevano schifo. E allora buttiamoci dal ponte. In effetti era il mio intento. Nessuno la compatirà il mondo è spietato. Con piacere e dispiacere ho fatto la sua conoscenza. Credeva forse che chiunque potesse permettersi il lusso di lavorare con le parole e la creatività. Sono uno scettico di natura. Non tutti possono. Di certo non io. Se non si decide a imparare. Imparerò a farmi andar bene tutto il resto dove non si deve imparare. Sputa sul piatto in cui mangia. Se è per questo ho rinunciato pure ai piatti. Fa anche lo spiritoso. No preparo le pareti del cervello a quella ginnastica che dovrà mantenermi in vita mandandosi radiofonicamente della celestiale musica autotrofa ininterrotta necessaria per sopportare. Quella è la porta. Ottima osservazione capisco che se sono finito qua è perché mi è sempre mancata la capacità di vedere le cose che stanno qua concrete e come dite voi né più né meno, com’è che si chiama ah sì la svegliezza. Sveglio sveglio devi essere sveglio.


Uscì dall’ufficio pronto e felice di trasformare la sua vita in una di quelle che appartenevano al mondo, fiocamente illuminato e talvolta unto di passetti di scarafaggi, di quelli che erano stati chiamati i “cervelli di gallina” o “le persone tristi” -cos’era, Blade Runner? O un post a caso su Instagram dove era resistito sì e no cinque secoli contro i cinquecento miliardi del resto del mondo? Usava ancora espressioni manichee e comunicabili come “sì e no”, avrebbe dovuto sfoggiarle per farsi capire e infiltrarsi nella mischia e non dover invece sfoggiare i sorrisi e le bugie o altre strategie di queste, più difficili, faticose per il fisico e lo spirito. Ma nella mente, ah, sperava che mai avrebbe dimenticato le espressioni che nei soliloqui tanto amava usare, perverse e sibilanti tra spire di boa mai fermi, le scaglie a solleticare eternamente i vermoni della materia grigia, sempre più grigia, come fumo di polmoni assuefatti all’autodistruzione di giorni dopo giorni di pause da un lavoro qualsiasi. Lavoro qualsiasi: un’espressione corretta perché qualsiasi lavoro era così. Definisci “così”: quel modo in cui le cose sono respingenti. L’equazione rigetta qualcosa da dentro se stessa. Una certa specie di numeri. Ammetteva di non sapere “un cristo di nulla” di matematica altrimenti non sarebbe stato lì e via dicendo. Ma facciamo che si tratta dei negativi. I numeri negativi. A sognare archaeopteryx fino alla fine dei loro giorni, fino alla moltiplicazione per zero che se li ingloba senza nemmeno mostrare nelle proprie viscere una shunyata armoniosa. Gli Alieni sì che l’avrebbero fatto. Salì sull’autobus del ritorno senza accorgersi di aver cominciato a masticare Il Farmaco, che andava fatto sciogliere sulla lingua. Si sprigionava un catrame aromatizzato alla liquirizia sulle sue papille desertificate.


Volarono su una rada peluria di piccoli parchi pubblici tre pappagalli color dinosauro piumato di felci, e si tuffarono nei bagliori del sole che purtroppo ci avrebbe messo ancora tantissimo a tramontare. In una giornata potevano schiudersi cinquecento milioni di nuovi prodotti che l’avrebbero assassinato. Di nessuno poteva fare la pubblicità, se anche Il Farmaco cominciava ad avere un saporaccio.


Alla fiera le bancarelle portavano i colori della propria università come bandiere su cui fossero ritratte chimere e sagome di grifoni. Erano passati secoli.


Aveva detto: dovunque guardo cerco simboli e mostruosità, cose che non vedrò mai, cose che per un momento riposino nelle meningi e le facciano riposare in uno scambio equilibrato tra soggetto e oggetto, le mie meningi diventano chimere. Aveva risposto la ragazza dall’altro lato della bancarella (bancarella di documenti, di ninnoli, di action figure della propria università coi suoi eroi), ragazza più grande di qualche anno ragazza avviata alla conclusione dei suoi studi ragazza di fascino e spazio nero tra gli incisivi e di tinta scomparsa e di orecchie vistose di distraenti pendagli simili a ostriche: allora forse potresti cimentarti in un corso che ti prepari a una qualche professione creativa. Lui ci aveva forse un po’ creduto implicitamente, lui esplicitamente l’aveva rigettata subito, smarrito nella strada intersecante cinismo e idealismo, incerto sulle possibilità del suo io plasmabile. Scrollò le spalle a quello che aveva detto la ragazza, uscita da un’ostrica o da un corso di studi che le avevano dato tanto e le avevano dato speranza e le avevano dato futuro. Si voltò lasciando dietro un saluto tossito e forse troppo brusco, lasciando dietro un modo diverso di vedere la vita. Ovviamente era stato vago e non aveva fatto menzione alcuna di chimere o di quello che volesse veramente, perché aveva poca forma, e perché denudare lo spirito era atto osceno. Ma lei aveva risposto e aveva letto i suoi messaggi cifrati, riflettendoglieli molto meno astuti di quanto si credessero. Non la avrebbe più rivista nemmeno entrando nello stesso corso di studi. Tornata dentro un’ostrica. Sembrava star bene, forse perché aveva dove andare o tornare.

Le ostriche sopravvivono inalterate da ere geologiche. Non l’aveva mai letto ma doveva essere così. Come gli squali. Diversamente dai dinosauri. Un suo inaccessibile personalissimo spazio mentale prendeva forma d’estinzione quando sentiva i propri coetanei parlare di sopravvivenza. Popolava il suo serraglio onirico di sauropodi giganti e di lucertole bipedi dai piumaggi variopinti come Quetzalcóatl, di una torrida aria sulfurea che aleggiava in bagliori color magma sulle felci. Diventava goffo e impossibilitato al volo, arti troppo atrofizzati. Né un poeta né un sopravvissuto.


Doveva esser stato il periodo immediatamente successivo. Scuola pullulante d’idee che si alimentano del brivido ciascuna sul proprio burrone, idee partorite e lasciate crescere per settimane dopo la giornata d’orientamento. Tutti puzzavano di quel viscidume placentale. Unito al sudore e l’afrore di calzini e scarpe da ginnastica dormienti sotto le panchine dello spogliatoio e negli armadietti durante l’ora di educazione fisica. Si aggirava spettrale tra le sue riflessioni mentre altrove si impegnavano nei giochi di palla e di squadra. Simulazioni percussive della sopravvivenza imminente. Anche lui simulava. Incombevano altri fantasmi.


Doveva esser stato il periodo in cui per qualche settimana in seguito all’autogestione si erano messi in testa di fare come i giapponesi. Il che equivaleva forse, secondo qualche necessario burlone che adempiva al sacro dovere di dissacrare ogni ente e affermazione, ad avere apporti sessuali con enormi molluschi. Ma si limitarono a fermarsi dopo le lezioni per pulire le aule, riordinare, occuparsi di piante da vaso. Oppure tornavano a scuola dopo che era finito tutto, dopo che il sole era tramontato. Guardare stelle sul tetto. E attraversando corridoi riempiti di tenebra insolita e angoscia, vedere incombere a ogni svolta un esercito di fantasmi samurai tagliatesta. Nelle voragini i curriculum che si sarebbero dovuti scrivere di lì in poi. Katana taglienti alla base del collo per spargere di sangue e finalmente inchiostrare un curriculum di fogli lasciati in bianco. Lui lo vedeva già davanti a sé, lui non voleva. Quando una sera, insieme ad altri tre quattro cinque che erano di turno si era ritrovato sul tetto per guardare le stelle, ci era andato con la sensazione un po’ presuntuosa un po’ affettuosamente intima -l’ultima che avrebbe conservato- di conoscer meglio quelle pareti, di aver meglio compreso la tenebra quasi inquietante di cui sorprendentemente si riempivano in assenza delle nervose ore di lezione, perché tanto a lungo aveva peregrinato, ascoltando i silenzi dietro le porte recanti classe e sezione, ascoltando eco lontane di schiocchi fragorosi di palloni e pelle tra le pareti attutenti della palestra.


Voi cosa farete. Tu ci stai già pensando. Io preferisco non pensarci. Io invece di rispondere irrigidisco i nervi delle spalle facendo intendere che per storia famigliare o per altri motivi il discorso mi mette a disagio. Io ho già un piano perfetto. Io farò quello che mi dicono i miei tanto è lo stesso. Io ho preso in considerazione tutta una serie di cose. Anche io ma cambierò idea all’ultimo. Io cambierò idea almeno cinque volte. Io non ci andrò. Io nemmeno. Domande affermazioni risposte. Sdraiato sul mattonato sempre più freddo della terrazza, riconobbe nel cielo quasi estivo la costellazione del cigno e quella della lucertola e gli parve di cogliere l’uguaglianza nelle loro forme totalmente diverse, e in un delirio le vide congiungersi in bellissima punteggiatura astrale, e negli spazi vuoti color dell’infinito nero e blu galleggiarono soltanto meteoriti ammaccati e alieni orfani di pianeta. Sul tetto del liceo galleggiava uno studente orfano di idee tra quei cervelli di idee che gli sembravano brillare, ingannevoli o meno. Gli sembravano avere dei motivi e crederci veramente.


-stavo pensando di dedicarmi alla scrittura, o alle mie musiche, in parallelo all’università.

L’aveva detto, a un certo punto, ed era troppo tardi. Il Farmaco non era ancora stato inventato o scoperto. Forse a farlo sarebbero stati dei compagni di classe, studiosi di scienze dure e dure realtà e di volontà di vivere. L’avrebbero nutrito e mai li avrebbe ringraziati.


Ma sei pazzo ma almeno all’università fai qualcosa di diverso a proposito cos’è che vuoi fare ok allora sei pazzo davvero. Tutto sotto controllo amici: se si mette male torno in questo posto e salto giù da dove siamo.


Tornare in quel posto, reset. Non si poteva tornare in nessun posto a meno di avere un’ostrica anche nel mondo reale, non solo attorno al cuore. Molluschi nel cuore permettevano di scrivere canzoni e poesie. Sognava certe sere prima di addormentarsi, nella stessa posizione disastrosa per la schiena di quando guardava il cielo, di avere rapporti di profonda sensualità con la ragazza-ostrica della facoltà che aveva scelto, all’interno di una stampa ukiyo-e, la loro brutta carne che in metamorfosi veniva sostituita da bellissimi contorni marcati pieni del colore omogeneo di un singolo istante di godimento.


Chi salta giù è solo un debole chi salta giù e ha solo meno di vent’anni doveva esser picchiato quando c’era ancora tempo. Altre domande affermazioni si susseguirono sotto il cielo. C’è da dire che al tempo c’erano tanti scherzi e tante domande affermazioni e tante stelle, o almeno sembrava in certe notti che ce ne fossero di più, nonostante la foschia urbana. E che soffiassero agitando i contorni dei propri raggi in accordo al fruscio del vento tra i rami delle betulle che crescevano alte fin lassù.


-accetto anche di vivere in un appartamento di schifo. A me servono un letto e un cesso.-, aveva riso e sottolineato la parola cesso. Altri avevano riso, odiavano i poeti ma non quelli capaci di dire cesso. Altre risate molto acute e molto brevi s’arcuarono tra i riuniti a momenti alterni, in omaggio alle affermazioni di assurdo e sprezzante falso coraggio contro il destino.

Una di loro, A., gli aveva rivolto un’occhiata preoccupata. In meno di un secondo aveva sentito sulla lingua un reflusso di versi di canzoni che non avrebbe scritto e immagini che paralizzandolo non sarebbero riuscite a ispirarlo. Scorrevano dalla gola al labbro semiaperto e inerte in un dialogo non nato. Secondo di immagini impazzite. L’aveva vista lo stesso giorno, compiere gesti concentrati, sinceri, durante l’attività collettiva, rientro postprandiale, immersione nei raggi che a quell’ora parevano diventare aghi di nettare soltanto per poter incidere i contorni del tempo, intagliandovi fotografie patinate di un qualcosa che già riusciva a intravedere. Luce sporca, ammassava negli strati nascosti della realtà una polvere e un alone che la trasformavano in una copertina nostalgica, cover di album lo-fi che ascoltava quando tutte le cose del mondo s’imbevevano dell’odore del legno di una cassa di risonanza di una chitarraccia acustica mezza rotta. Lui che reggendo indolentemente un piumino ricoperto di polvere s’immobilizzava a guardarla, la schiena bianca contro la lavagna. I gesti indaffarati perché le schiene di questo mondo erano capaci di amare. Non solo competere e scannarsi tra loro. Ma non pensava a questo quando si erano ritrovati dentro la foto, dentro la sua copertina di un istante che diventava musica autoprodotta in un sogno mai concretizzato. Non pensava a esplorare il baratro tra sé e gli altri in cui avrebbe scoperto se consistesse nella propria incapacità di aggressione o incapacità di amore. Guardava soltanto. Nelle cose cercare simboli. O non cercare proprio niente. Percepire e basta: fascio di raggi gialli e di fuoco che si inclinava su una cupola verdeggiante d’un angolo simile a un acquario d’alghe generatrici d’ossigeno, là dove stavano le piante da vaso e i cassetti chiusi a chiave per custodire i compiti in classe con le equazioni sbagliate e il luccichio dei pavimenti appena strofinati da una chimica perfetta che strisciava sottile sulle superfici e le crisalidi vuote di infinite ore trascorse. Lì dentro era incastonato come una gemma il pomeriggio. Già non ricordava nient’altro. L’aveva vissuto? Lei gli era sopravvissuta. Momento in cui, balzando dalla fotografia del lo-fi, lo aveva guardato alla luce bianchiccia delle stelle e quella bluastra degli schermi dei cellulari, momento in cui i suoi gesti indaffarati diventavano faccia, diventavano muscoli espressivi che volevano disegnare un’espressione, una comunicazione.


Si pentiva di aver detto che voleva “creare”. Non c’era invece da pentirsi per aver taciuto le altre cose, per non aver risposto a lei. Ringraziami per non averti parlato. Ti avrei detto: vorresti che tacessi per sempre quello che porto dentro, perché, sappilo, sei per me un animale da osservare, e proveresti disgusto per ogni parola di poesia, per ogni artefatto del cervello e del cuore di chi si dice creativo, perché per me altro non sei che la bellezza di un animale, di cui si osservi il comportamento in un serraglio o attraverso i vetri di un laboratorio nella foresta. Sensualità, senza amore, non ti amo, la mia amicizia è averti vista in una foto. Sono masturbazione. Parlo sordidamente per allontanare e ferire così da non essere ferito: così si comporta la masturbazione, accarezzarsi le ferite di un organo solipsistico.


Io invece voglio scopare appiùnonposso io invece rinuncio all’intimità io invece costruirò un palazzo imponente io invece vivrò di rendita io invece studierò qualcosa che odio perché ho delle responsabilità io berrò caffè fino a crepare e io al contrario di tutti e ugualmente ad altri tutti che mi attendono nel loro mondo voglio fare qualcosa di utile per la società. Dicevano società come sinonimo di futuro. Per lui c’era decadenza, la indossava in abiti scuri e nei vecchi auricolari in cui risuonava sfrigolante You Made Me Realise ogni mattino nel quarto d’ora precedente l’apertura del cancello, l’ampio parcheggio del liceo e gli alberi, betulla, nido di un gufo. Non c’erano società e futuro. Nulla al mondo sembrava meglio di The Glow pt.2 e le pagine stracciate dei quaderni in cui l’inchiostro delle penne aeroportuali di Thom Yorke aveva pianto gli embrioni di canzoni prossime. E lui all’ora di buco disegnando mostri deformi sul diario ne aveva scritta una in cui durante la ricreazione le vittime dell’attentato perpetrato nel ‘95 dalla Aum Shinrikyō si avvicinavano ai cestini dell’immondizia nel corridoio del piano terra e inalavano insieme al sarin la frastagliata grafite lasciata dalle matite di Cobain sul suo diario di mostri.


Conversazioni proseguivano sovrastando il baccano metallico degli altoparlanti dei cellulari, inadatti alla musica, musica inadatta. In quello o in un altro momento storico lei diceva: tu non vuoi davvero morire. Aveva ragione: ancora non era morto. Ma ciò che era non aveva mai legami diretti con ciò che voleva. Sì, questa suonava come un’ottima giustificazione. I suoi giochi d’arte gli avevano dato un potere. Di se stesso saper giustificare ogni parte, e ogni violentissimo odio verso quelle stesse parti.


C’era uno sportello d’ascolto. Sapeva quale fosse la sua finestra, trovarla mentre accanto a vaghe sagome d’adolescenti impegnati in prodezze ginniche da ringhiera si sporgeva oltre il davanzale, ipoteticamente pronto a gettarsi nella notte della scuola. Finestre di classi vuote, finestre dormienti parzialmente nascoste da alberi, oltre il triangolo d’ali del gufo che passava in quel momento rischiarandosi il dorso in macchie brune e bianche sotto la calotta di un lampione. Lui aveva girovagato nell’edificio, quasi amandolo e amando le passeggiate dentro i pensieri e dentro la loro assenza, lui segretamente conosceva il posto e ne sorrideva dentro sé. Riconosceva e ricordava ciò che le finestre celavano, per il gran camminare, per altre cose. Era stato allo sportello d’ascolto e aveva detto: non ricorrerò mai ai farmaci perché se dovessi star così male ci penserò io a interrogarmi e aggiustarmi da solo. E proprio in quei giorni lo sportello d’ascolto si allontanava sempre più da lui, adducendo pretesti che di volta in volta cancellassero il suo incontro settimanale. Diventava per lui solo una finestra vista da fuori, una singola finestrella del secondo piano che s’addormentava in un buio pastoso dove, guardinghi, si muovevano solo insetti simili a virgole di luce, e un gufo, e un gatto nero, e qualcuno che cominciava ad avviarsi dal liceo verso le strade notturne tombali nella sera infrasettimanale, rigorosamente scegliendo di uscire di scena con il metodo acrobatico consistente nella discesa lungo le maglie di rete e in dispregio alle scale. Avrebbe potuto. Un balzo verso le strade aggettate sotto la luce dei lampioni e la tenebra che le stelle sempre più faticavano a dotare di sfumature nascoste, verso i tunnel scuri che si aprivano in ogni direzione nelle profondità della città e la periferia semirurale. La faccia al suolo, all’asfalto, agli steli di paglia oltre i marciapiedi. Ma non lo fece e rise ancora qualche volta in un momento di discussioni leggere discussioni profonde discussioni che erano tintinnante aria della notte al volgere dell’anno accademico al volgere di tutti i momenti come quello.


Un balzo. Era in strada, ma ancora sapeva camminare, vivo. Balzo temporale: l’intellettualità e l’immaginazione e l’evoluzione l’avevano dotato di una capacità di saltare il superfluo dell’esistenza, connettere tempi distanti, connettere fotografie immaginarie a persone di carne con facce mobili. Nulla era trascorso dal tempo del terrazzo da cui vedeva la strada al tempo della strada che attraversava. Gli sprazzi di campagna umida che invadevano la città e nei pressi del liceo si moltiplicavano, agitando penombre di canneti di là dai marciapiedi, invasero la sua percezione brancolante nel buio come un lacrimoso tappeto di mellotron, e due grilli rispondevano, e lui li sapeva già morti, per l’inverno che in un balzo sarebbe stato da lui, lì dov’era, cancellando l’ultima estate, cancellando tutto ciò che timidamente ancora viveva e cantava al suo interno. Le arcate dei lampioni striavano il piccolo mondo che s’era creato in quella nicchia indie della notte, in sospeso tra costellazioni e terrazza. Sentì un singolo rumore.


-(hey!)


Qualcosa, una sagoma, confusa da strati d’oscurità. L’alone di un lampione separava nettamente il visibile e il nero uniforme con le sue tende arancioni dal taglio affilato. Lui al centro di un cerchio, sotto l’occhio di un lampione. La voce altrove. Senza nome.


-(hey, sono io!)


Scrutò a lungo in quella direzione. Aspettandosi di vedere emergere un gatto nero o un gufo, la silhouette di un lugubre arbusto.


-ah, sei tu.


Non aveva mai capito chi fosse. Non chiese come mai rimanesse laggiù invece di emergere alla luce -del resto sentiva il pungente fastidio che avrebbe provato se a parti invertite la stessa cosa fosse stata chiesta a lui.


-(mi sa che facciamo un pezzo del ritorno insieme.)


-mh.


Voce non riconoscibile. Era in cima al liceo, poco prima, presumibilmente. Forma del volto appena distinguibile, polveri dell’alone elettrico riescono a stento a posarsi lì dove cammina e fa rumore e fa frusciare l’erba. Espressione preoccupata? Solo un’impressione.


-(volevo chiederti di quello che hai detto sulla tua soluzione abitativa.)


-eh?


-(è divertente. Parlamene ancora.)


Sorrise, una curva beffarda dedicata senza vergogna al bisogno d’approvazione e al vuoto dentro ognuno. Come se certe frasi argute uscitegli a caso dalla bocca in quella serata costituissero il suo primo e ultimo successo di scrittore. Volentieri articolò ancora le sue risposte.


Parlò di un materasso abbandonato su assi storte di un pavimento mezzo inclinato in cui l’acqua piovana passando dai buchi del soffitto s’accumulava e ospitava numerose larve di zanzare giurassiche e di polvere lasciata vivere sulle superfici per motivi estetici e di innumerevole carta superflua e dischi e libri orfani di librerie e di un caricabatterie perennemente attaccato e di un cesso perfettamente funzionante ma che sempre rumorosamente gorgogliava e gocciava da qualche tubo che non si sapeva da dove perdesse o dove si nascondesse e tomi universitari mangiati dall’umidità trasformati in sgabelli dove sedersi per accordare gli strumenti e gli spicci guadagnati con la loro vendita e il rapporto disastroso con gli editori e il pubblico e la critica e la voglia nonostante tutto di ritornare sempre lì e le sostanze che avrebbero sostituito piuttosto che riempito i vuoti e altri palliativi d’un mondo in cui ancora non immaginava Il Farmaco.


L’ombra rise dentro le ombre. Si divertivano, erano compagni di scuola. Si vedevano (?) per l’ultima volta. Strade separate culminanti in oblii simili. Non avevano nulla a che fare l’un l’altra. Che cazzo ci ridevamo?, pensava nel futuro.


-(hey, è stata una bella serata. Io qua giro. Ciao! E mi raccomando, fammi sapere quando trovi casa!)


-certo. Buonanotte.


Agitò a caso una mano verso una porzione immaginaria di notte che non aveva forma. Soddisfatto e inquieto. Qualcosa di deluso, rassegnato quasi, oltre che divertito nella voce semisconosciuta che si spegneva. Passi che sparirono in un istante in direzione di villette lontane, di là da quello che di giorno doveva manifestarsi come campo incolto, ora un mare nero. Ebbe l’impressione di riuscire a sentire la chiave nonostante la distanza. Un ingranaggio si aprì in un recesso di sé, ma dimenticò presto cosa ci avesse trovato dentro.


Pensò che la sua sarebbe stata una giovinezza più piena se solo fosse tornato più volte nell’atmosfera della scuola di notte.


La faccia sul pavimento, ne sentiva il sapore e respirava la polvere. Addormentarsi era diventare una cosa sola con l’appartamento e con gli strati sotto la crosta terrestre. Imminente l’incontro tra questi e i condomini. E il suo condominio. E i testi che aveva scritto da ragazzo e giacevano accartocciati dentro pieghe di fogli che sembravano fatti della stessa polvere prodotta dalla stanza.





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