nella bara
- Milky
- 11 set 2021
- Tempo di lettura: 23 min
La chiamavano “la bara” ma dopo esserci stato mi sento di dire che questo la fa sembrare più lugubre e spiacevole di quello che veramente è. Anche io, quando fu stabilito che dovessi andarci a stare per qualche giorno -ora non ricordo quanto- reagii con una certa stizza un po’ intimorita. Avevo detto all’Anziano, dai, ma devo proprio, e lui, alzando le spalle, gli occhi mezzi addormentati, mentre già si girava per andare alle sue carte e telescopi, disse eloquentemente:
-eh…
Aveva proprio ragione. L’aveva sempre, perché era lui la ragione del villaggio, e questo nessuno lo discuteva, perciò nessuno discuteva nemmeno la bara perché era una sua idea, avuta epoche fa, quando era giovane. Ma di certo quando a qualcuno veniva prescritto un periodo da trascorrere lì dentro era difficile che, per quanto poco avvezzo all’iconoclastia e il dubbio circa la giustezza delle saggezze del vecchio, fosse esattamente felice di andarci. Adesso invece io spero solo nel momento in cui ci debba andare di nuovo.
Il mal di schiena mi perseguitava da giorni impedendomi perfino di intrecciare i canestri e disegnarne di nuovi, i lavori che mi riuscivano meglio. Così ero andato alla Cupola Celeste, come si faceva in questi casi. Alcuni apprendisti mi avevano toccato, tastato scapole e muscoli vari della cui esistenza mi accorsi soltanto mentre mi stavano toccando. A ogni strattone, ogni massaggio circolare e ritmicamente perfetto, mi sembrava quasi di veder comparire dentro e davanti ai miei occhi un liquido blu profondo, dai quali come molte lucciole brillavano infiniti puntini elettrici, che poi scorrevano insieme in una marea, e infine sembravano comporre le trame del mio corpo, ogni sua particella. Su quello sfondo scuro e sconfinato mi sembrava di capire per la prima volta la forma dell’essere umano.
Dopo gli apprendisti venne il Capo, gli incensi accesi agli angoli della stanza degli studi. Passeggiava a mani incrociate dietro la schiena, sempre sonnolento, con la bocca storta in una smorfia enigmatica, ma sempre così equanime, senza un solo impropero per tutte le infinite cose che non andavano e che cercava di riparare con l’arte del suo ragionamento. Portò un unguento odoroso di felci e midollo di camoscio, lo applicarono, e presto i fumi dagli incensieri e dalla densa pomata a contatto con la mia pelle fluirono intrecciandosi in spirali di incandescenza e freschezza su per le mie narici, inebriandomi un nervo nella congiunzione tra il naso e la fronte. Probabilmente lacrimai molto. Sprofondato tutto in questa sensazione non sentivo le altre, e deve essere stato in quel momento che anche il vecchio mi ha esaminato la schiena per pronunciarsi sul mio male. Si sarebbe aggiustata nella bara, ma non dovevo preoccuparmi perché capitava a tutti. E poi, diceva, a un tipo come me sarebbe anche piaciuta. L’Anziano era solito compensare alla sua aria un po’ distaccata con commenti del genere, che rivelavano una sorta di profonda conoscenza di tutta la sua gente, anche di quelli che aveva visto una sola volta; sapeva tutti i nomi e le abitudini, gli aggettivi che s’erano dati. E sapeva che per loro sentirsi riconosciuti in qualcosa era strana fonte di gioia.
Così mi rassegnai e, cambiato d’abiti, attrezzato per la sopravvivenza ininterrotta in quella scatola stretta, mi recai in silenzio al seguito di due attendenti verso la cosiddetta bara. Certo, l’avevo vista molte volte passeggiando tra i prati di collina, un po’ discosta davanti alla Cupola, ma in quel momento dovevo proprio entrarci. Certe volte, da lontano sdraiato su un pendio scosceso, casualmente inserendo nello sguardo sopraelevato anche quel legno bruno che se ne stava immobile volto al cielo, m’era sembrato di vedere come un bagliore bluastro sulla vetrata, il respiro baluginante del paziente che forse la occupava in quel momento. E m’ero accorto che tutto intorno a me erano tante cose che respiravano, i fili d’erba, le cose che tra queste erano acquattate. Le cose dentro i legni e le anime dentro i sassi, alle quali pregavamo. Non era forse tutto degno delle nostre preghiere? Avrei potuto dire una preghiera anche a quella persona, chissà chi era, che stava a far trascorrere e dissipare la sua malattia in quella scatola sacra. Perché aveva un’anima che respirava, riflettendosi sul vetro. Saliva come tutto saliva dai prati verso il cielo, insieme ai canti di insetti campestri.
Sistemai l’ampolla di rugiada nutriente a tracolla secondo l’uso, gli attendenti s’accertarono che scorressero bene le linfe per il tubo che sarebbe stato la mia sola fonte di nutrimento. Uno di loro apriva il coperchio della bara, lucidava il vetro con alcune gocce nettarine, trasparenti e inodori, da un fiore giallo. Poi si inginocchiava e a occhi chiusi mormorava parole inaccessibili ai laici, per la rituale consacrazione dell’oggetto prima di ogni uso. Non sempre chi si faceva male poteva entrarci, anzi, era un’invenzione che l’Anziano aveva creato solo per un certo tipo di mali che non si sarebbero potuti curare altrimenti. Nessuno sapeva come l’Anziano l’avesse progettata, se adoperando trucchi e logiche di cui aveva appreso in un suo lontano viaggio per il mondo, o se, come voleva una leggenda, gli fosse stata suggerita da una dea in un bellissimo sogno dopo una notte di ispirazioni e inebrianti pire campestri, in una grandiosa festa del raccolto estivo.
L’altro attendente mi ripeteva alcune di quelle cose che ci erano state insegnate così tanto tempo fa, ed ebbi una sensazione strana nel sentirmele ripetere proprio in quel momento.
-bene… oh, ricordi cosa diceva l’Anziano sul vetro?
-il vetro?
-sì. Del suo rapporto con il Sole.
Ricordai la dimostrazione, il potere del vetro che l’Anziano aveva conosciuto e insegnava alla gente. Poteva creare il fuoco, il fiore più velenoso. Un composto d’acqua e terra, il vetro duro e trasparente, ne evocava uno di terra e aria, e attraverso questa unione garantita dalla terra che cingeva i due composti in un abbraccio, la terra che sempre faceva nascere nuove cose, sprigionava il suo potere il fuoco che si manifestava nella sua forma presente nel mondo degli uomini, l’ultimo aggregato. I raggi avevano attraversato il frammento di vetro, e in un attimo le fronde sul vecchio ramo reciso s’infiammarono, impollinando l’aria col suo spirito di linfa sciolta e fiori convertiti in fantasma, per sacrificarsi e rinascere nelle nostre coscienze.
-ricordo.
-ricordi cosa ha detto sulla bara?
-che nel momento di entrarci ci saremmo ricordati del suo insegnamento e avremmo avuto paura di essere bruciati dal Sole, stando per giorni esposti ai suoi raggi sotto una copertura di vetro. E che allora avremmo dovuto ricordare un altro insegnamento, e cioè che questo non sarebbe successo.
-bene. È mio dovere ripeterlo a ogni persona che deve guarire. Ciò non impedirà alla paura di riposarsi accanto a te nella bara. Sa infilarsi anche quando sta stretta. Ma va ricordato che non occorre preoccuparsi e che comunque, una volta sigillati, non si può uscire prima della fine del proprio tempo.
Le ultime parole mi suonarono come un monito sassoso lanciato in un lago abissale, di cui non esistesse il fondo, e del cui tonfo, per quanto grasso e soddisfacente, si fosse ormai perso il ricordo nell’inesorabile precipitare attraverso le acque sempre più scure, finché tutte le cose che avevano avuto un corpo e un rumore perdevano forma.
-ma anche se si è soggetti avvezzi a quel tipo di timore, ci si abitua presto. O meglio dimentica, o… beh, lo capirai.
Dissero che era tutto pronto e ringraziai. Lasciarono la porticina aperta, mi spiegarono come tirarmela dietro entrando e che era tutto predisposto perché si sigillasse senza che io dall’interno facessi niente, sarebbe stata per me come un mero materasso, e allo stesso tempo una dimora. Se ne andarono salutando con un cenno della mano. Mi stiracchiai, forse inconsapevolmente prevedendo il lungo letargo delle giunture, e guardai un’ultima volta l’alternarsi dei prati sulle colline circostanti, quelli color cenere di sterpi nere e rocce granulose, quelli chiazzati di rosso d’erbe spigolose, quelli verdi bianchi e gialli che ronzavano d’api e fitormoni. La schiena palpitò colta da una vampata come un taglio attraverso la carne, e in pochi passi mi calai tirandomi dietro il portello, pronto a vedere solo il cielo.
Un soffio sonnolento comincia ad appannarmi abbastanza presto le pupille. Non erano passate nemmeno due ore nella bara, a schiena in su e durante il giorno, ma presto volli addormentarmi, speravo gradualmente e sentendomi svanire. Il soffio spirava infilandosi da un sottilissimo interstizio in una qualche apertura invisibile dentro quel contenitore di legno e vetro? Cominciava a produrre i suoi strani effetti, era pur sempre un oggetto con delle proprietà misteriose e non sapevo cosa avrebbe fatto alla mia schiena per cancellarne i dolori e, suppongo, “farla rinascere” come si diceva a volte. Una bara come quella guardandone bene la forma assomiglia a una specie di porta, di una capanna oppure di certe caverne nascoste dalla vegetazione del fiume; e da questa porta si possono prelevare cose provenienti da un altro tempo -una schiena come era una volta- se uno conosce gli spiriti con cui dialogare per recuperarle. E allora le parti rotte del corpo o dell’anima vengono ridisegnate qui dentro, sostituite. Non era giusto dubitare della bontà di quell’oggetto in cui avrei dovuto passare molti giorni, né dubitare delle arti dell’Anziano Capo e tutti gli anziani che da lui avevano appreso sapienze profonde. Il soffio, che mi addormentava, mi faceva sparire trasparente sotto la vetrata come un sasso che guardasse da un fondale una superficie cristallina. Il soffio allora doveva provenire dalla mia stessa stanchezza, che mi portavo dentro. Non avevo fatto nulla di faticoso, e la camminata verso quelle colline dei sapienti e delle preghiere silenziose non poteva dirsi un viaggio lontano dalle vie comuni. Ma che fossi stato veramente stanco lo capivo, sempre più rilassato e come colto da una specie di arguzia quasi ilare, sciocco ottimismo, che non ho più ritrovato, lasciandolo tra le venature di quel legno. I dolori che sentivo mi avevano reso più debole e cominciavo a vedere, dentro la bara, vedere acutamente sebbene mi addormentassi, che mi consumavo, che il mio corpo era più malato di quello che potevo percepire in una giornata in cui normalmente dopo il sonno avrei proseguito le mie attività, semplicemente credendo di dover soffrire un po’ di più.
Ero popolato di infiniti altri sfuggenti soffi, disposti a ragnatela su tutto. Nel sangue, nei respiri, dentro gli occhi a generare la vista. A ponte tra i muscoli e uno strano vuoto, che non capivo se fosse in me oppure mi circondasse. Ed erano luminosi, lattei, uguali a certe scie del cielo notturno alle quali il mio popolo alza gli occhi e lascia che nella loro polpa d’acqua bianca si riflettano, e sale dai petti un canto, a volte silenzioso, e fa eco tra strane montagne che sembra appaiano solo chiudendo gli occhi. Ricordo bene che questi erano i pensieri discontinui che comparivano in sequenza quando per la prima volta mi stavo addormentando nella bara. Caddi comodo e vuoto nel sonno nello stesso istante in cui capii da me che era proprio come un letto, tra le varie cose che significava.
Quando mi risvegliai da quel primo sonno per prima cosa vidi il cielo che diventava blu, sempre più scuro, con pochissime stelle. Ero ancora un po’ stordito e me ne restai forse molto tempo, tutto quello che ci metteva il crepuscolo a sciogliersi tra fluidi nascenti della notte, guardando senza soffermarmi sui piccoli movimenti del mondo di là dal vetro -praticamente i miei occhi in malattia. Non conoscevo quel tipo di torpore ed essendone uscito credo di avere dimenticato un po’ come fosse, ma doveva esser sempre legato alla presenza in me di piccole energie brulicanti, in quel caso concentrate in cerchi attorno agli occhi e in venuzze della fronte. Prima di entrare lì mi ero chiesto a volte, come altri, se si potesse smettere di pensare, e ricordo quel momento come la cosa più vicina a questa idea. Se la sento domandata da qualcuno non ho però l’impulso di darmi questa risposta, perché ricordandomene i pensieri prendono una consistenza molle che non riesco a controllare e il controllo mi serve per rispondere. Dunque ho capito che è una domanda senza più senso per me, non sono più capace di pormela. Può capitare di sentir dire che stare dentro la bara in certi aspetti ti cambia. Si sentono allora certi uomini e donne sollevarsi dal lavoro, dai compiti che richiedono forza e sveltezza, per dire che deve essere la noia, star fermi troppo tempo. Ma se tra le varie cose che ho conosciuto nella bara ce n’è una del tutto diversa dalle aspettative più immediate, quelle che si fanno da Sole dopo un semplice sguardo, è proprio questa. Mi sembra di poter dire che donne e uomini di questo villaggio, come le mandrie e gli alberi, la corrente e i picchi lontani, stiano sempre fermi e credano invece di muoversi, mentre la bara appare loro ferma, un oggetto morto come farebbe pensare il modo in cui è chiamata. Era ancora presto per accorgermene, ma avrei sentito quasi come parte del mio corpo, che era diventato uno con il legno e il vetro e il cielo, quell’unico costante movimento della bara, ed era un movimento che diceva: io mi annullo, tu ti annulli, le cose si annullano. Ma prima di poter ascoltare queste cose devono passare molti giorni, e come dicevo ero appena uscito dal primo sonno.
I pensieri riprendevano una consistenza normale e diedi una strattonata ondulatoria alle spalle: era per abitudine di stiracchiarmi sul materasso, ma lì dentro non potevo distendere le braccia. Distrattamente bevvi da quella specie di tubo, del tutto indifferente al primo sapore che sentivo al mio primo “pasto” -soltanto al secondo o terzo mi sarei accorto di aver perso la sensazione nuova che si sperimenta le prime volte. Intanto comparivano altre stelle, fori nel cielo mezzo bruno in certi angoli toccati dalle ombre delle ombre del Sole fuggito altrove per andare a caccia tra gli astri, secondo il mito. Notai, non particolarmente allarmato, una cosa curiosa che non si può spiegare: ai bordi più lontani del vetro spuntavano parti nebulose di certe chiome d’alberi, coi rami già riempiti del nero venturo e più scuri anche del cielo attorno; vedendola da fuori, però, la bara era collocata molto distante, quasi centrale nel prato scosceso, rispetto a questi alberi che s’ergevano ai lati dove il pendio emergeva dalle terre piatte, con i pochi sassi a scalino diretti alla Cupola. Non si sarebbe mai pensato che si vedessero da dentro. Ma il vetro seguiva la curvatura del portello e tra le cose raccolte nella sua superficie, componenti quello che per me era stato un intero mondo intangibile, alcune quasi si distorcevano, provenendo dalle zone più remote delle possibilità del visibile; e se avessi riscritto io i miti nel mio riposo là dentro, avrei allora raccontato che il viaggio antico condotto dal dio esiliato aveva proprio valicato i confini di quegli alberi. Ma sarebbe stato difficile ottenere una piuma di pernice da intingere nell’inchiostro e anche solo rannicchiarsi per muoverla, come avevano fatto gli scribi. Così mi limitai a osservare le chiome che vagamente potevo vedere, anche discernere qualche piccola fogliolina che faceva da scaglia al mosaico vivo, respirante al venticello che vedevo strisciare sopra di me senza sentirne la frescura. Qualche ramo usciva acuminato e storto dalle masse sfruscianti, come punte di corni. Guardare queste cose sui lati concavi del vetro dopo un po’ faceva male alle cavità oculari perciò riposizionai lo sguardo dritto sopra di me, e tutto quanto era disegnato in una metà del mio mondo, quella della veglia, mi apparve come su una mappa. Lo schermo mi concedeva una visione d’insieme, non mi chiedeva altro che stare con la faccia all’insù e aspettare che nelle altre parti, gli angoli nascosti, lo strumento operasse per sanare il corpo.
..
Rare ali di pipistrello, ancor più raro scivolar di nubi disfatte, le ultime di una massa scomparsa, sospinte dal venticello che le porta altrove, sopra altri villaggi al centro di altre conche di montagna. Vidi nascere la notte. Avevo solletico dentro gli occhi, mi abituavo a sentire il sangue e le più piccole pulsazioni dentro di me come sentivo le braccia e le gambe che lavoravano nei giorni di Sole, e sentendo il solletico del sangue degli occhi vedevo quel movimento riflesso lassù, come fosse per me, a farmi da specchio irraggiungibile. E c’era corrispondenza tra i miei battiti e fermenti interni e il colore del cielo che si diluiva, macchia dopo macchia, punto per punto sostituendosi finché non accoglieva in sé un uniforme mare cosmico, immobile e sul quale a muoversi erano soltanto altre forme che vi galleggiavano, o che forse vi erano riflesse da un altrove in cui nascevano incandescenti, chissà. Oppure le stesse ali di pipistrello di prima. Quella fu la prima volta che vidi la scena ripetersi, le storie comporsi, un poco più diverse ogni notte, ma quasi indistinguibili in notti vicine. Finché non si formavano, proprio davanti a me, colando in quelle acque vuote e lontane, nuovi capitoli, che stravolgevano gli eventi, e comparivano nuove divinità e personaggi.
Vidi attraverso le lunghe notti le stesse cose che videro gli spaventati esseri ancora deformi, deboli, malfermi nella loro consistenza che era solo povera e vulnerabile argilla, quando uscirono dai loro ripari dischiusi dal Ghiaccio dei Tempi. E dopo aver marciato e scoperto questa terra, conclusosi il primo giorno di cento o mille anni, era nata la prima sera e, sfiniti e quasi senza alcuna speranza di poter vivere in quella piana fertile e fresca, piansero invece un muto canto di sbalordita speranza, quando gli spiriti gli erano apparsi tutti sopra di loro, a salutarli e premiarli del giorno e della marcia. A svegliare l’oscurità ch’era stata l’unica cosa che ricordavano da prima che nascessero, l’unica cosa che s’erano portati dentro, deboli e doloranti, dal proprio riparo caldo. Nacquero le stelle e la Luna, che non era ancora una maga nei loro miti ma un astro impassibile, l’unica luce, e non avrebbero più ricordato l’oscurità allo stesso modo. Avrebbero solo sentito un po’ di quella stessa paura nella quale precipitarono molti dei primi estinti nel viaggio, in quelle notti in cui un velo di nuvole nascondeva gli astri accesi e vento e piogge minacciavano un contatto gelido sulla pelle e dentro le ossa, e non si riusciva a governare il fuoco sulle torce.
C’erano tutti, e sempre immobilizzato mentre lottavano malattia e guarigione, seppi poco a poco riconoscere dei personaggi il nome. Alcuni li avevo appresi, perché mi piaceva osservare la notte anche prima. Ma non essendo uno degli attendenti della Cupola né un dottore o un cacciatore, la mia non era che una conoscenza notevole solo per chi le stelle le guardava solo in quelle cicliche occasioni festive, quando tutte le teste del villaggio si levavano quasi volessero ululare. Nella bara invece capii ogni forma, seppi dire quali erano le leggende che vedevo fluire davanti a me, immutate dal ricordo più antico, e che sarebbero continuate uguali per tenere insieme il mondo con tutti i suoi aggregati, fino alla rottura.
E cosa c’era dopo la crepa, come dopo la morte? Ritornava il Ghiaccio dei Tempi a tinger tutto di bianco, attendendo che una neve sconfinata e gravida del nulla sospendesse ogni cosa nel suo silenzio? Ho come la sensazione, come una febbre, che mi dice che se riuscissi a ritornare nella bara per un periodo ancora più lungo di quello che ho passato riuscirei finalmente a vederlo… essere il primo della mia razza a risolvere l’enigma forse più grande. Se ci penso i brividi mi impediscono anche di camminare e bere, e mi ritrovo a escogitare maniere di farmi molto male così da ritornarci; ma quella che è, come dire, la mia nuova posizione, non mi consente certe cose, e i costanti sguardi del vecchio che mi sento passare all’improvviso alle spalle col suo passo gufesco mi danno l’impressione che abbia capito tutto, e il suo non dire niente è una forza che arresta più dei rimproveri. Non so dunque se riuscirò a saperlo, ma non lo so adesso, e quello che so, e che so essere bello, è che prima di quel momento divinità, eroine e maghe, suonatori su alberi magici di bestie elusive, continueranno a rivivere le loro esistenze. Piene di insegnamenti per noi, che ci chiediamo, almeno io lo faccio, perché debbano insegnarci alcunché. Piene di significato, sembrano, più delle nostre, nei momenti in cui fermandomi dal lavoro molti minuti si cancellano da soli, accumulandosi il pulviscolo trasparente nell’aria, e io sto fermo con affianco il mio canestro incompleto a chiedermi cosa sto facendo e il labbro mi scende e fa entrare il pulviscolo e il sapore appassito dell’aria. Prima che un brivido mi riscuota e mi rimetta tutto concentrato sulle mie trame.
Come dicevo, c’erano tutti: l’Uovo Gigante in cima all’albero, col suo latte più inebriante del vino stillato dalle crepe e colato lungo il fogliame; la piccola Arciera che mirava alle nuvole cercando di abbatterle, e i Cento Milioni di Nani. E il Gigante scalciante nel ventre della montagna cava, nel momento in cui accende la lava e il fuoco dalla sua bocca, e la Talpa che per espiare la colpa diventa messaggera dell’abisso, e le storie di tutte le altre creature che furono punite e ancora vivono. Ogni notte mi incantavo, col fiatone che quasi mi ostruiva il vetro nonostante conoscessi bene la fine di tutte le vicende, ma con la vertigine di fronte alla fantasia, che mi si profilava giunta da chissà dove, di vederle improvvisamente cambiare nel corso di un fenomeno assurdo di cui diventavo il solo spettatore, un’anomalia che m’avrebbe fatto urlare di spavento e meraviglia e godimento, e sarebbero accorsi udendomi ovunque, oppure non sarebbe giunto nessuno perché erano tutti scomparsi ed ero il solo a vedere, a respirare sopra la terraferma.
Leggevo le storie senza i caratteri scritti d’inchiostro, colmo di compassione e sangue che s’arroventava, quasi volessi imbracciare un’arma e infilarmi nelle storie e viverle. Accanto ai guerrieri, ai cacciatori che videro la corsa dei primi cavalli selvatici, fuggiti sulla loro scia scintillante di crine e zoccoli proprio su questi nostri colli che ci danno il frumento e l’acqua. E quasi prego alla storia del Sole, e godo dell’ironia di vederla composta nel reame della notte che non gli appartiene, con la Luna che guarda, partecipa col suo viso cangiante. Ma è evidente nelle forme che compongono le stelle: quella è l’altra forma del Sole, quella che assume quando non vola nel biancoazzurro dei giorni, proprio uguale a come c’è stata descritta. La creatura quadrupede, la lunga coda con la fiamma in cima, il bel manto aureo che si fa criniera intorno a un ruggito bianco di zanne e rosso di gola spalancata, sfodera gli artigli e a poderose zampate sfreccia sulle lontane superfici dei Campi del Cielo. È lì che va dopo il tramonto, nei luoghi più lontani di tutti. Lui sa che un giorno sarà spoglio della sua carne, il suo corpo d’energia pura, rivelando uno scheletro secco, bianco accecante, d’un materiale mai visto; e conoscendo il suo destino, e ruggendolo al vuoto dell’infinito, nelle notti insonni non può che rovesciare la sua incontenibile forza in una caccia priva di tregua. Salta al collo dei demoni, veloci e cornuti, che col fiato di froge tonanti a ogni pioggia vogliono circondarlo e portargli la sua fine, ma lui li sbaraglia, troppo pochi in numero per contrastarlo, e i premi della sua caccia li riversa trasformati in calore diurno sopra di noi, che riverendolo gli infondiamo il coraggio e l’impeto dei colpi, allungandogli la vita. Il dio suscettibile dona la vita agli alberi, e tramuta gli animali a sua immagine dando loro la stessa forma che avrà lui, spolpata e deposta a seccare sotto i suoi raggi, che entrano nei buchi del cranio poi inghiottito nella terra… certo molti dettagli della storia non erano presenti, lì a brillare nel buio -si poteva distinguere chiaramente la forma della belva slanciata contro il nemico, con le zanne sfoderate, le stelle della criniera più luminose. Eppure più guardavo la scena più mi sembrava che tutto ciò che si raccontava fosse vero e profondo. E più cacciava nei Campi, il Sole, più si nutriva e brillava forte, e bello si faceva il suo scheletro dentro di lui.
Certo, a volte mi addormentavo. Erano sonni molto irregolari, semplicemente dormivo quando mi andava, e poteva capitare in qualunque momento di quelle giornate che così potevano parermi brevi o lunghe, di sola luce o solo buio. Era particolarmente strano quando mi addormentavo nelle ultime ore della notte, e risvegliandomi appariva il Sole, l’ultima cosa che avevo visto in forma di bestia notturna quando conservavo ancora un senso di ciò che vedevo, e ora stava sopra di me raggomitolato in una sfera di fuoco giallo. Solo la corolla dei raggi rimandava alla regale criniera (come me disteso, il Sole perdeva le zampe, o ero io a emularlo come suo suddito). Non si trattava nemmeno dell’unico aspetto paradossale in quel modo di viversi i movimenti astrali, influenti sulle nostre esistenze. Capitava più spesso che passassi gran parte della notte da sveglio, così che potessi ammirare le vicende ancestrali, e il giorno si riempiva di riposi e dormiveglia, mentre da sveglio il cielo m’appariva, nel suo irreale azzurro, ancora un altro sogno, in cui si manifestassero cose proiettate dagli angoli della mia mente dentro il visibile e intangibile oltre il portello. Ma anche la notte, che passavo a guardare attento, era di per sé ammantata di sogno, e ciò che mostrava per quanto reale, di una realtà distante, sembrava mostrare di sua natura un’essenza onirica. Ne risultava che i due spicchi che componevano la mia vita, veglia e sonno, si equivalessero nella consistenza incorporea: sognavo il giorno e sognavo la notte, sveglio o addormentato. E nel giorno, vissuto storditamente, come un vago ricordo simile alla sete che segue un riposo o un mal di testa dopo un’influenza, vedevo impressioni di ciò che l’atmosfera diurna produceva intorno e sotto di sé, la vita che andava risvegliando: così mi pareva di sentire i prati che non potevo vedere, riflettersi nei corpuscoli dell’aria ognuno con i suoi pigmenti vegetali di verde e cenere e rosso, e dei fiori aleggiava il polline nella densità talvolta ingiallita dei venti oppure nevicando da ali di pigre farfalli dal volo che cadeva in balzi sul vetro, per poi levarsi, passare; gli uccelli sfrecciavano, gruppi di rondoni e cardellini solitari, falchi in volteggi alti e bruni. Quandanche il Sole si fosse celato in un guscio brumoso simile a onde bianche, il giorno sempre si mostrava figlio del sogno, respirando le nebbie dai pori rugiadosi del terreno fino alle altitudini raggiunte in salita letargica; poi la pioggia, che attendevo trepidante, e vedevo sfrangersi in gocce meravigliosamente distrutte nell’impatto col mio schermo. Le vedevo diritte, chiodi cristallini, farsi sfere nella vicinanza e in un attimo rompersi e diventare così enormi viste da sotto, che le credevo custodi di grande energia acquatica. Attraversate dal grigiore soprastante ne assorbivano l’anima d’argento e ingigantendosi prendevano seguendo i rivoli forme mai viste, contorte, policefale, poi sparite e amalgamate in un uniforme diaframma liquido traballante come un secondo vetro messo a pellicola su quello del portello. Credevo di berle.
Ricordavo le gocce, e mi sembrava di sorbirne l’energia, quando senza mai pensarci molto e decidendo di concentrarmi su altre parti della mia esperienza prendevo il nutrimento dallo strano tubo. Pareva fosse fatto di visceri di ruminanti, in cui un tempo stavano scritte le svolte labirintiche del tempo. In anticamere del legno e attraverso fori e cunicoli dovevano star nascoste le sue diramazioni, giacché non le si vedeva da fuori la bara, ma era certo che raggiungessero una scatola del sottosuolo dove era riposta la mia ampolla che avevo portato, e che lì riposta e adeguatamente curata dagli attendenti, garantiva il nuovo ruolo di nutrice che doveva avere intanto che la malattia veniva debellata. Non mi era concesso di sapere l’esatto funzionamento, nascosto dentro la bara così come a uno è nascosta la vista dei battiti del proprio cuore. Si capiva che l’ampolla era rifornita costantemente, per reazione delle linfe preventivamente disciolte al suo interno con i nettari del micelio sotterraneo e l’essenza di succhi minerali depositati nel sottosuolo sopra il quale giacevano la Cupola, la cima di quel basso colle, la bara sapientemente collocata proprio dove a fulcro s’addensavano nervi e ramificazioni d’un giacimento di cristalli. Raramente non ignoravo, fantasma di momenti di tedio, il lontanissimo sapore quasi nullo che mi friccicava impercettibilmente dal palato al naso uno zucchero d’erbe alpestri infuse in acqua ghiacciata di caverna, lasciandomi quando me ne accorgevo una traccia appena urticante come quella che sale dal contatto con le formiche. Schioccavo la lingua e le labbra per disfarmi di rimanenze appiccicose, così rimbombando nell’intorpidimento che mi annuvolava la testa ogni volta che vivevo un risveglio lentissimo a compiersi. Risputavo sonoramente la punta del tubo, che si ritraeva nel suo buco come un germoglio irretito da una gelata. Fissavo in su. Nelle lunghe ore obnubilate mi sembrava talvolta d’avere accanto al guanciale un lumicino, quello arancione soffuso e titubante tipico delle camere protette in un temporale invernale. Da ciò che so nessuno si avvicina alla bara durante una guarigione, ma mi ero chiesto se nella mia semi-incoscienza avessi mancato di avvistare sopra di me degli attendenti che venivano a sistemarmi accanto il lumicino, una tenera candela per tenermi conforto; forse s’accendesse da sola, insieme ad altri trucchi della bara, l’oggetto magico, o ad altre allucinazioni che ravvivavano i pomeriggi.
Sentivo vibrazioni disciolte nella quiete del mondo là fuori. Vedendo solo il cielo credevo si riempisse di sorgenti lontane, schiamazzi di bambini in gioco, canti d’uccelli, preghiere. E nei sussurri che così nascevano nel mio mondo, attutiti nella dolce ostruzione che mi circondava e cullava, mi pareva d’udire come delle formule a me indirizzate, una comunicazione che era scaturita, insomma, da un’insondabile volontà di contattarmi, da parte d’un essenza collocata in un luogo inconoscibile oppure acquattata in fondo al nulla. E mi soffiava dentro, e capii che era un arte bisbigliata, il cui ascolto reiterato mi era sufficiente a farla mia. Un suono recondito che intuivo assomigliare alla visione che ebbe l’Anziano, la dea che lo visitò per rivelargli la bara. Se il giorno era per me diventato la fonte del sogno, allora stavo sognando una voce del futuro o d’un mistero ignoto. Ne fui certo per gli eventi accaduti in seguito che mi hanno portato a ricoprire il mio ruolo attuale.
Completamente guarito, con la mia nuova schiena, passai giorni di riposo, e subito poi reclino ai miei canestri. Ma uscivano dalle mie mani brillando, quasi aurei nelle fibre, d’una bellezza mai vista. Ero un apprezzato artigiano, ma i miei non erano mai stati più che pratici, resistenti, sebbene piacevoli oggetti. Si ricoprivano di nuovo fulgore e insieme a essi creavo, come m’uscissero da soli, dei recipienti intrecciati in forme perfette, forme che incantavano chi le vedeva, come statuette sacre. Venivano ad acquistarle per ammirarle, tenerle per riporre al loro interno soltanto i cimeli più preziosi delle proprie famiglie. Erano canestri alti come eroi e che ne riproducevano la forma, assurdamente stabili nonostante la materia lontana dalle pietra che si modella nelle mani degli scultori. Erano grossi pesci ricurvi, con l’occhio tondo e la bocca aperta a fare da foro, erano cigni dal collo sinuoso, e l’Arciera e i personaggi che così a lungo s’erano affacciati sul mio solo specchio… fu allora che l’Anziano, con un cenno nascosto e che tuttavia mi giunse diritto come un dardo in mezzo agli occhi, m’invitò a seguirlo, senza farmi vedere. Mi condusse, incredulo, attraverso corridoi bui e infiaccolati sotto la Cupola, fino a una stanza circolare vuota dove le sue parole echeggiavano ampie e acquose, figlie di stalattiti. Mi disse d’averlo capito dalle mie creazioni che ero pronto, e che la mia permanenza nella bara m’aveva trasformato nel modo auspicato. Così quel mormorio aveva proprio il senso che credevo, mi dissi. In letargo dentro la bara avevo perfezionato il mio mestiere. E com’era evidente, questo mi conduceva in un altro luogo, diverso da una bottega, dove sarei diventato un tipo d’uomo diverso. Ero stato ritenuto idoneo dall’occhio del vecchio, che mi raccontava tutto con il suo stesso tono di sempre, senza far entrare nelle inflessioni delle polverose corde vocali alcun indizio di favoritismo, stupore, gioia, pragmatismo. Era una formula. Seguiva la formula come da un libro, un libro che amava leggere ma senza traboccare di questo amore come faceva la gente con le proprie tenere spontanee manifestazioni. E questo libro assomigliava al tomo che mi mostrava, lo teneva nelle mani ingrigite, volume muffito che non usciva mai da quella stanza, che scritto nel sotterraneo non aveva mai sentito il tocco dell’aria in superficie e mai l’avrebbe sentito. E l’Anziano Capo mi spiegava pacatamente che stava scritto un lungo destino di questo ordine segreto di cui entravo a far parte, avrebbe condotto l’umanità attraverso vie straordinarie. La profezia del testo esoterico, che un giorno sarei stato in grado di sfogliare con le mie mani e decifrare coi miei occhi, lanciava nell’oscurità del futuro la luce dell’influenza dell’ordine, nato per volere di quelle pagine. Ascoltavo e accettavo tutto, con tranquillità, col corpo privo di dolori, attraversato da flussi. Ma per la prima volta provai un brivido senza forma, e mi sembrò d’affacciarmi su una scena come quelle che m’avevano nutrito, e comprendere qualcosa proprio in quel momento in cui il vecchio mi spiegava cosa fossi, con il libro in mano:
sono anche parte di qualcosa che non è il mio villaggio, ma che sta sotto di esso.
Sono nella gente e nelle ombre della gente, sono nel giorno e sono nella notte. Come vedevo dalla bara. Sognavo sotto il Sole e sotto la Luna, la mutevole strega, che dalla sua torre solitaria nell’isola poteva vedere fino ai Campi lontani dove l’altro era una bestia in perenne caccia, e macinava il fuoco da lui prodotto per versarlo in pozioni nel suo laboratorio d’altura così da mostrare le cose nella tenebra. Sapevo che anche lei si sarebbe trasformata, ogni volta una pozione diversa che le cambiava il volto, finché la falce non fosse uscita dalle proprie spire, a illuminare il cosmo nero col suo corpo draconico, un filamento risvegliato. Così come avevo guardato il Sole nelle sue metamorfosi, la Luna aveva guardato me ch’ero sempre rivolto al cielo, come fossi il più grande devoto delle maestà lontane e divine, e invece ero solo un malato. Ma ero stato entrambe le cose ed ero diventato ciò che guardavo e che mi guardava indietro, perché un malato deve necessariamente trasformarsi, o morire. Così sono in una cripta. Così sono parte dell’interezza dell’esperienza e nel mio cuore s’apre a sprofondo la possibilità che io conosca ciò che nessuno sa. Nemmeno l’Anziano. Questi sicuramente lo vede e non dice niente, continuando a scrutarmi di nascosto. Se mi spingessi troppo, ove gli umani non possono osare di conoscere, diventerei un figlio degli dei esiliati, e, vuole ricordarmi l’aura del suo sguardo occultato, dovrei aspettarmi in tal caso le stesse punizioni.
Continuo a essere un artigiano, e molti apprezzano i miei cesti; ma conosco nuovi linguaggi invisibili degli attendenti che m’avvisano quando, del tutto inosservato nelle ore più scure e nelle spettrali assenze del villaggio sprofondato in un sonno d’oltretomba, è necessario ch’io mi rechi dall’altra parte della mia vita, quella nuova, simile al volto che la strega draconica della Luna nasconde dietro la nuca. Così vivo adesso. Onestamente, non so davvero dire quanto importante sia questo strano ordine. Non ho nemmeno interesse nelle idee che il libro ordina di mettere in pratica, collocate con precisione lungo un tempo assurdamente lungo. Voglio solo riprovare l’ebbrezza che ebbi dalle visioni, dal godimento della malattia. Mi chiedo talvolta se questi qua, tutti come me al di sotto del vecchio, possano un giorno dopo aver accumulato il potere che desiderano addirittura inserire con propria invisibile mano la malattia dentro chi vogliono, per farlo rinascere nella bara, e così esser loro quelli che stabiliscono le differenze tra la gente, tra chi merita d’evolversi e chi no. E mi viene voglia in quei momenti di indagare, sfruttare la stessa furtività e ingegno che loro mi danno per scoprire le parti oscure nella morale del mondo che creano… ma ogni mio desiderio, passeggero e fiacco, è sovrastato dal solo costante impulso di ritornare là dentro. Nella bara, trascorrere così la fine dei miei giorni, capire le cose del mondo lì dentro e da solo, indifferente agli effetti che hanno sul mondo, capirle per me, per goderne, e vedere per sempre solo la bellezza del cielo. Simile alla gioia di disciogliersi, sparendo lentamente sempre più invisibili, o lasciare che il proprio corpo s’inglobi nella terra o nelle acque. Mentre sopra di me, nell’alto mondo degli dei, il leone si fa scheletro e la strega si fa drago. Questo è l’unico sogno che può tenermi sveglio, per lunghe ore, disteso sul mio letto a guardare il soffitto, scosso da sporadici brividi così incantevoli che mi sembra d’esser pazzo.
Comments