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n.s.i.m.

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 12 ago 2022
  • Tempo di lettura: 28 min

W. stava pensando alle voragini, le frane, burroni di diverse profondità, gole spaventose con aperture frastagliate simili a file di zanne aggettate su gelidi torrenti, e altre delle numerose cause d’incidente là su quella catena montuosa. Andava avanti ragionando così da chissà quante ore, quando apparve un ponte sospeso su un fiumiciattolo e ritenne che potesse essere un ottimo posto da cui gettarsi, uno a cui ancora non aveva pensato. Era uno strano ponte, massiccio cemento che come dolomite assorbiva già qualche fioco colore del crepuscolo imminente dietro l’inespugnabile coltre di nuvole, e il contrasto tra la spessa muratura da cui spuntava la ringhiera e la struttura tubolare metallica sorreggente il tutto faceva pensare che fosse stato traslato direttamente dalla sporca periferia di una grande metropoli a quel ruscello di montagna, con il letto bianco e sassoso tutto spolpato da incessanti lavorii di macchine -non li si vedeva mai, attendevano che ci si voltasse come gli animali della foresta, per esistere, muoversi ed eseguire. Corridoi di montagna, fatti di legno cigolante e tintinnanti perle di rugiada infilzate dagli aghi, venivano percorsi ogni momento invisibilmente nei loro recessi da movimenti di modifica. W., passi inquieti, trovava per via tante cose costruite e ben funzionanti, perfino ai margini dei sentieri più impervi, invenzioni grazie alle quali la vita inclemente d’alta quota sarebbe dovuta diventare più sopportabile, facilissima addirittura. Ma sai cos’altro è facile?,-chiedeva W. a se stesso, eternamente solitario e forzandosi un’ironia che potesse pungere le viscere di quell’altra parte di sé che aveva generato asessuatamente al solo scopo di avere un immaginario aggressore verbale, con cui insultarsi e rispondere male e fare dibattiti e alimentare il proprio reciproco odio (il quale poi era esattamente rivolto allo stesso soggetto). E gli spiegava, senza attendere che potesse rispondere: la caduta. Più facile di un cestino per l’immondizia in un parco naturale, più facile di una fontana d’acqua fresca a tremila metri sul livello del mare dai cui rubinetti escano anche cascatelle di dentifricio, c’è la caduta. Assecondamento e flusso primordiale, senza eguali. La caduta è così facile che è l’unica che conduce dove non c’è nemmeno bisogno di creare cose facili.


Certo non era il solo motivo per voler cadere. Nemmeno tra i primi dieci. Ma un’ottima giustificazione, nei confronti di chi lo stava guardando. Non gli uccelli né le pigne con gli occhielli neri sotto le migliaia di scaglie brune. Cosa…? Il ponte per esempio. Il ponte, come la foresta faceva con il druido, chiede un pegno prima che si possa penetrare, infrangere, violare. Varcare soglia: il ponte è pieno d’occhi inorganici e insensibili tutti sguscianti lungo la sua struttura e il pegno è un motivo per fare quello che si fa. Ponti e infrastrutture non sono tolleranti con la mancanza di struttura nelle decisioni. W. sapeva che i motivi per fare una cosa, per quanto intensi e lancinanti e fatti di fuoco che gli squarciava il sonno inducendolo a gridare e contorcersi nella notte, non erano comunque abbastanza per farla -ma sapeva anche che quelli che su questo aspetto avrebbero potuto criticarlo, umani o infrastrutture che fossero (ovvero praticamente chiunque) solitamente non arrivavano a ragionare fino a quel punto e quindi li si poteva ingannare semplicemente dichiarando i propri motivi. W. borbottava tra sé, arrivando a queste conclusioni, cose tipo “come se dichiarare significasse davvero qualcosa”, decidendo di darsi una tregua circa il proprio borbottio che, rumoroso e accompagnato ai tonfi degli scarponi sulla materia vegetale variamente viva e morta, era effettivamente una forma particolare di dichiarazione, disciolta nell’aria montana.


W. ne aveva così tanti, di motivi, che non si poteva nemmeno cominciare a elencarli, per paura di trascurare ingiustamente un qualche aspetto che certamente sarebbe sfuggito, in un tale fracasso cognitivo, mai ribadito e schifato abbastanza. E gli parve che il ponte, standosene in silenzio a calcificare nel vuoto tra due rive sopraelevate, accettasse quell’atteggiamento -tutti così dovrebbero essere i ponti, raggirabili per ottenere l’assenza di stramaledette, inadeguate, sporche spiegazioni. La caduta soltanto, alleluia. Controllare le sue condizioni. Come se lo si volesse attraversare illesi, saggiare compattezza di suolo, resistenza a intemperie.


Distanza troppo breve dall’acqua, e ancor più breve tra la superficie trasparente di questa e il basso fondale. Un volo doloroso, ossa che fanno un rumore sgradevole, un frutto scorzoso che crepita nella valle ed echeggia ovunque recando immagini di frammenti, color cranio color costole. Un posto squallido, dove le radici degli abeti cominciano a crepare e nella terra rimane soltanto a spaccarla una vena di sabbia bianca rivoltata. Una cava al centro della foresta, prosegue il letto del corso d’acqua camuffandosi da spiaggia. Spiaggia morta. W. sentì per qualche motivo un’aria familiare, sgradevolissima. Lanciò con sforzo dalle labbra secche e intorpidite uno sputo bianco, denso d’un sapore amaro e granuloso che gli si andava accumulando sulle gengive. Facendogli pensare all’aridità di quanto portava in animo e al cosiddetto futuro, incolore e inconsistente come schiumaccia calda. Oppure erano i pensieri a influenzare la salivazione. W. questo non lo sapeva, perché tra le ultime cose a cui aveva rinunciato rimanendo infine con uno zaino semivuoto nella foresta, c’era il suo potere di collegare, immaginare, cogliere qualcosa di segreto nella realtà, proiettato in luci per lui comprensibili da certi cristalli inizialmente meravigliosi che andava a dissotterrare nelle miniere dentro di sé. Si udì una risatina sarcastica, di tanto in tanto, tra abeti e pini. Uccelli scapparono senza farsi vedere o sentire. Non passi di cacciatori a spezzare rametti caduti, ma W. che rideva perché gli sembrava ridicolo, o desiderava che così gli sembrasse. Non c’era niente in lui! Ma quali miniere! Un tempo avrebbe potuto inventarsi una foresta come quella e anche più grande, facendola strabordare dal cuore e dimostrando che alberi e acqua sono la stessa cosa, che c’è un flusso nelle cose vive e nelle cose fresche e quindi che anche di fronte alle macerie aride ci si può riempire di una frescura e di un ineffabile che toglie il fiato, per poi sentirsi come dissetati a una sorgente sgorgante di purezza e trasparenza. Ma come un tempo le cose, mutando in immagini, avevano straripato e reso rigogliose le vallate e le miniere della mente, la costrizione o maledizione di W. di dover vagare nel mondo -la stessa poi di tutti- aveva infine prosciugato quelle risorse, consumate all’eccesso per aiutarsi a sopravvivere e volerlo fare, ancorarsi a quel sé orgoglioso che tutto questo aveva progettato e creato per se stesso. Ciò che aveva chiamato poesia doveva esser deriso: corvi selvatici e picchi da qualche parte dovevano pur stare ad ascoltare quella risata che diceva, in un mantra annaspante, ironia ironia ironia. L’ironia aveva condotto W. nei pressi di un ponte, lui che non aveva da raggiungere nessuna sponda.


Erano tante le considerazioni da fare, mentre si accingeva a percorrere, scandagliando le tegole coi piedi, il ponte sospeso su quel fiumiciattolo quasi evaporato, tra due sponde opposte di foresta. Con zaino e corde a ingombrargli il passo W. gironzolava, incerto. Un gabbiotto di legno, simile a una casetta per uccelli rinforzata da pareti di grassocci tronchi orizzontali e ingrandita, sembrava sorvegliare le sue azioni dal buco sotto la tettoia, controllare che i suoi passi agitati e i suoi ragionamenti li facesse per bene. Ci volle un po’ ma infine W. si accorse di un dettaglio fondamentale, a questo punto, non solo rispetto al momento presente ma in qualsiasi questione -tutto il mondo si era ridotto alla questione di quel suo certo progetto che andava a comporsi tra silenziose e letargiche nebbie mentali da quando gli occhi, indolentemente e per scoraggiata abitudine, gli avevano proiettato l’immagine del ponte. Anzi, quel dettaglio pareva quasi comparire per rispondere ai suoi progetti. Potevano succedere queste cose nei luoghi misteriosi, dove un tempo illudendosi avrebbe cercato gli spettri, gli spiriti degli alberi e altre “stronzate” che la sua risata di ironia negava.


Quanto al dettaglio: non era affatto una caduta come la pensava. Forse le cose accadevano ogni tanto ancora con mistero, lassù, superate le nebbie che avevano tentato di affascinarlo, e che per poco c’erano riuscite, ma nulla ormai poteva fregare W. e le sue mura di inscalfibile livellamento del tutto allo stesso piano desertificante, scavante, tutto uguale a quella cava di sassi e polveroni dannosi per la vista e per il respiro. Quelle belle nebbie le aveva osservate, poetiche sulle fronde lontane, poi attraversandole come in un sogno aveva presto cominciato a vederle caduche, sfuggivano ovunque, tra gli spazi nelle dita, via dagli occhi, e nei polmoni le sentiva sporche. Comunque, se il mistero rimaneva, e le cose accadevano per lui, quasi, precedendo i suoi pensieri o da questi generandosi, le nebbie in fondo qualche potere d’ipnosi lo conservavano, e quello era un posto con delle proprietà sacre, o si sbagliava? Forse solo un altro delirio dei suoi, ma certo la caduta non era un fracasso d’ossa, prosaiche ossa rumorose su un tappeto di rocce ammazzaturisti: inequivocabile, sotto di lui, proprio in una zona qualsiasi del letto sparutamente carezzato da rivoli puri e gelidi, si apriva una sorta di burrone nero, o piuttosto un buco ideale. Perfettamente circolare, pieno d’un buio senza dimensioni, e al tempo stesso profondissimo. Non si poteva sbagliare. Colore di centinaia di migliaia di infinità di chilometri che precipitano dentro la terra, e forse in un’oscurità ancora diversa. Il posto che andava cercando da tanto tempo! Buco perfetto in cui cadere infinitamente, molto meglio di qualsiasi burrone. Comodamente forato al di sotto di un balzo piuttosto facile, laddove in sua assenza il suolo avrebbe danneggiato lo scheletro. Ma cosa ci faceva un posto simile in montagna, nel cuore di una foresta? -certo avrebbe potuto chiedersi anche cosa ci facessero un ponte e dei lavori di scavo, ma queste cose W. le aveva oltrepassate, col suo passo e il suo ragionare guardingo ma mai pigro, deciso a gettarsi in fondo alle cose fin dove i recessi dell’esistenza imputridivano in cantine buie e poco accoglienti. Non c’erano pertanto problemi di superficie, di trafficare meccanico del mondo, tra i suoi primi pensieri. Invece, burroni, voragini. Molti buchi nella mente. E uno nel mondo esterno. Chi ha messo qua una simile voragine?


Un volto era apparso nella cavità sotto la tettoia del gabbiotto. Sentendosi le spalle osservate W. si voltò incontro a quella faccia un po’ animalesca, la creatura che pareva attendere l’espressione di qualunque perplessità con un sorriso cordiale, incapace però di non risultare inquietante in una sorta di generale atmosfera. W. sapeva oltrepassare la difficoltà di quella tensione, domandola quasi completamente. Senza scomporsi, senza che il grave sussulto brusco del cuore -che pure c’era stato- si dilungasse in tachicardia non necessaria, osservò il volto sormontato da piccole corna un po’ storte e ricurve, parevano conformazioni ossee innaffiate apposta, o conformazioni calcaree volutamente applicate alla sommità del capo per scopi sia rituali che estetici. E le punte delle corna parevano lucidare, affilare i vispi occhi, lentigginati di verde come certi ciuffi della sparpagliata barba rubea, e quegli scintillii come di vibrisse che in fili tagliuzzati e caotici si protendevano dai pori della pelle arrossata delle guance in prossimità delle orecchie qua e là seghettate e aguzze. La giacca che indossava, di un blu di poltrona d’autobus più lucente di una pregiata bava di molluschi, sembrava squadrarsi spigolosa sulle spalle al preciso scopo di farsi guardare e così comunicare efficienza. Che si sarebbe dovuta accompagnare a un certo senso di sicurezza. Ma W. da tempo era immune a tutto ciò, a qualsiasi consolazione o palliativo o subliminale tentativo di persuaderlo circa l’esistenza di uno stato d’ordine emotivo socialmente preferibile a qualsiasi stato di disordine emotivo, socialmente esecrabile. E ritenendosi immune, poteva solo guardare, con sguardo un po’ opaco un po’ analitico un po’ che ne aveva abbastanza di tutti gli aggettivi possibili di questo mondo.


-interessato alla Buca?-, chiese lo spiritello addetto dal suo sportello d’ascolto, il suo posto di guardia.


-la buca, eh. Come funziona?-, fece W., stupito di sentirsi uscir fuori dai denti secchi la sua voce tremendamente arrochita, come se in tutta la camminata fino a quel momento non avesse fatto altro che fumare sigarette.


-ci si butta nella Buca. Può provarla se vuole. Mandi il segnale se, prima di raggiungere una certa zona, vuole essere riportato su. Ma, visto che è bene aver delle regole e ancor più in montagna, sappia che una volta risalito non potrà mai più ritentare la discesa. Questa è La Buca, e Lei non ci può fare proprio niente.


Una brochure vivente. La postura conta, il modo di porsi e il tono contano. Cordialità che non sacrifica il pragmatismo. Tornava a sorridere, incoraggiante o chissà cos’altro. Per W., poteva trattarsi di un volto di carta o carne o fantasia senza differenza. Sussultò soltanto -ma davvero impercettibilmente, ancor più trascurabilmente di prima- quando il suo sguardo riuscì a sagomare nella penombra attorno al corpo di quello, dentro la capanna, due grossi ed eleganti corvi, i colli protesi come in ascolto.


-sono tuoi quei corvi?-, indicò W. con l’indice rivolto all’interno del gabbiotto. Si stupì una seconda volta di sentirsi la voce quasi intimorita. Pensò poi che dovesse esserci un trucco. Corvi selvatici, neri, fieri, non ammaestrabili se non in certi casi. Non certo da qualcuno che ha un ruolo così, come dire..


-sono davvero spiacente,- sorrise mellifluo lo spiritello guardiano del gabbiotto, riducendo gli occhi a due fessure parallele alle vibrisse tutte contratte per il digrignarsi della faccia -ma non posso rispondere a nessuna domanda di questo tipo.


W. non chiese che tipo di domanda fosse. Da tempo, non poteva ricordare da quando esattamente, gli sembrava d’avere delle urgenze, di dover risparmiare tante cose. Una domanda che aveva fatto, contro lo stesso volere della mente e dei suoi sistemi di controllo, era già un eccesso. Insomma c’erano domande di un certo tipo, si limitò a riconoscere. Insomma c’era un guardiano che, fosse stato ancora abbastanza sciocco da preoccuparsi di certe cose, avrebbe giurato lo stesse prendendo in giro con quel suo atteggiamento. Atteggiamento: non poter rispondere e compiacersi di questo; stare al bancone e giocare ai sorrisi; carezzare sotto il collo con un indice nodoso due corvi chiamandoli “bellezze”, “corve mie d’acciaio nero”: W., certo se fosse stato ancora capace di un simile linguaggio, avrebbe detto che a causa di queste cose, e di altre inspiegabili, sentiva crescergli nell’addome un’infiammazione corrispondente a forte antipatia e inafferrabile senso di tensione.


-sono disponibile a rispondere a qualsiasi domanda concernente La Buca e La Buca è disponibile ad accogliere qualsiasi cliente sia in condizione di incontrarla. La Buca non si manifesta a tutti, no. Stando alle Sue preferenze…


(preferenze?)


-…e i suoi dati, Lei accetterà di entrare nella Buca. A un certo punto crederà pure di volerci cadere all’infinito, pure arrivare a un presunto fondo nascosto mai raggiunto da nessun altro che le faccia percepire l’esistenza tutta, ma sceso di qualche livello ancora cambierà idea su tutto quanto e…


-aspetti. Io non ho fornito miei dati, e anche se l’avessi fatto, tutte le sue congetture…


Il guardiano scoppiò a ridere ostentatamente. Falsità che non sacrifica la capacità di convincere. Risata recitata più vera di qualsiasi risata genuina di W., il quale peraltro si specializzava in risate ironiche miste al fiatone della marcia nella foresta. L’altro continuava il suo discorso introduttivo cancellando dalla sua memoria e dalla memoria della storia del cosmo qualsiasi interruzione insignificante.


-dunque un trattamento di tipo ***. Capisco, vedo. Lei è della specie dell’idealista segretamente collerico.


-ma…


-e lo si vede dal modo in cui è disgustato. Io faccio il mio lavoro,- sorrise più disponibile che mai- sono qui per fornirLe la Sua migliore esperienza. Indipendentemente da quanto questa sia completa o monca.


-ma non posso buttarmi nella buca da solo e basta?


Quello rise di nuovo.


-dicevo, è un idealista nel cui disgusto del volto e dei tic tutt’attorno alle spalle e il collo si dipinge un odio per l’antropizzazione, ma anche per la foresta. Un tempo cercava un senso in posti pieni d’alberi e veniva a passeggiarci. Tanti altri facevano come Lei, sa? Poi ha preso a odiarla, questa foresta che Le bastava guardare per sentirsi meglio. La vita è pericolosa e glaciale, quassù, e nelle ombre quando non le si può vedere le cose vive si assaltano le gole a vicenda e si rubano l’ossigeno e l’anima. Ma veniva qui, perché anche se la vita qua è così, lo nasconde con la quiete e la nebbia, mentre è esplicitamente spietata e sanguinaria tra i palazzi. Il ponte nella foresta, il male dentro il male, lo odia di conseguenza, non è così?


W. voleva provare a dire qualcosa. Gli uscì un lungo sospiro. Mettersi a discutere arrivato fin laggiù, sarebbe stato assurdo, grottesco. Lui aveva sempre dovuto andare soltanto avanti, senza curarsi delle analisi degli altri, ma solo delle proprie. Gli altri: uno dei motivi per cercare un posto in cui gettarsi. Avrebbero sempre e comunque cercato di incasellarlo, e lui non doveva che proseguire sul suo sentiero, cercare i percorsi inusitati della foresta, mentre muscoletti e nervi delle gambe in segreto recalcitravano e volevano dedicare una parola o un calcio a quelle innumerevoli teorie altrui. Questo un tempo: ora nemmeno così. Il sospiro di W. cercò di essere il più liberatorio possibile. Si librarono dalle labbra piccoli sbuffi di fumo denso, piccole nuvolette biancogrigie ben visibili a contatto con l’aria, umida per la vegetazione rorida di pioggia trascorsa.


-odia le costruzioni e odia la natura: poco da fare, Lei è proprio un disastro. Odia il prossimo Suo e odia se stesso. Fugge poi dalla storia,- pareva mettere delle spunte su una lista -detesta la storia con le sue battaglie e predazioni e spade, fino ai liquami ribollenti in fabbriche sovrastate da aria insalubre, cioè i prodotti che mangia a pranzo e cena ogni giorno aggiustando con spezie ed erbette. Colte da schiavi in campi di vetro, o in campi veri o in questa stessa foresta della natura da mani ruvide di gente che certo riterrebbe feroce se con questa avesse anche il più particellare scambio di opinioni. Giusto?


Domanda retorica, artificio, inganno. W. non si lascia fregare, W. sa che quello ha domandato solo perché sa benissimo che W. arrivato a questo punto non nega e non conferma, una disposizione sempre rovesciata dai cosiddetti “figli di puttana” nella maniera più funzionale ai loro scopi. W. lascia solo a se stesso il permesso di farsi fregare.


-posso entrare nella buca o c’è una procedura?-, chiese, i gomiti incrociati sulla ringhiera e lo sguardo vagante per le alte cime attorno alla valle.


-ma certamente! Può entrare nella buca, certo.


Il guardiano scoprì tutti i denti in un sorriso scintillante, come il piumaggio dei due corvi. Un lumicino nell’angusto gabbiotto.


-quanto alla procedura, ci siamo già. Parlavo solo di un tipo di cliente: il Suo tipo. Non vuol sapere quale altra gente viene a cercare La Buca? Spesso aiuta. Molti lo chiedono esplicitamente. Sapere chi viene qui, perché, “sentirsi meno soli”. Ma Lei non è del tipo che chiederebbe mai certe cose, come già detto.


Non era stato detto, ma si vede che nel descrivere questi tipi si davano per scontate molte altre caratteristiche trascinate a forza dall’appartenenza. Era ridicolo, grottesco, dover appartenere a qualcosa anche in un posto del genere, dove W. e tanti prima di lui erano giunti con la volontà di cancellare il proprio nome da tutte le liste dell’universo.


-mah, se fa parte della procedura…


E allora W. ascoltò un elenco asettico di tragici trascorsi, gente come lui, gente “come Lei e perfino come me”, tanta sofferenza, tante ragioni che portano lì, eh il dolore universale e intrinseco eh il dolore nuovo e peculiare della temperie, eh i mutamenti malevoli che s’uniscono in linee dirette soltanto al baratro, eh al contrario l’ambiente che non esiste ed esiste invece solo una fondamentale mancanza in se stessi… possibilità dell’esistere: tutta spazzatura cognitiva che fluttuava, infinitamente, facendogli pensare alle ossa disordinatamente sparpagliate nel sottosuolo della montagna, a masse di rifiuti sospese tra la superficie e le profondità del mare di notte. E anche se molte di quelle ragioni le trovava ridicole e indegne di imparentarsi alle proprie, cominciava a sentirle tutte sue. E a sentire che proprio non c’era altro posto dove andare e che tutti, sin dalla nascita, ragionevolmente dovrebbero volersi recare lì, e che se non lo fanno è solo per la snervante presenza di quell’addetto alla faccenda, o se non altro per i suoi modi impostati per forza in quel modo che probabilmente lo rende peggiore di quel che è. W. ascoltava però la sua voce. Mezzo per un contenuto, solo un mezzo per un contenuto. E si disse che una voce migliore, più tollerabile, non l’avrebbe cambiato. Due lacrime povere d’acqua e sali, due lacrime quasi di niente, gli rigarono il mento irruvidito da una barbetta malfatta e caddero nella Buca, mentre cominciava a guardarci dentro dall’alto della ringhiera, e a immaginarsi tutte quelle ragioni che sentiva elencate a spiraleggiare, come tra mulinelli, quando in forma di rivoli venivano risucchiate circolarmente là dentro, nel punto che doveva celarsi in attesa oltre quell’oscurità senza dimensioni. Punto dove sarebbe dovuto cadere.



-non occorrono le corde portate da casa. Lasci, le teniamo in custodia noi.-, fece affabilmente il guardiano sporgendo il braccio dal gabbiotto, senza uscire. Prese le corde che W. si era portato e le ripose in un cassetto nel nulla sotto di lui, attorno a lui, in quell’assurda penombra incoerente rispetto alla tarda ora del pomeriggio tutto tinto di grigio e bianco nebbioso.


W. notava nella Buca strani lampi, strani rumori che di tanto in tanto s’innalzavano, come evaporando da quella bocca nera, a procedere verticalmente per gli strati superiori del mondo, dell’atmosfera. I rumori! W. li aveva lasciati fuori dalle orecchie, divenute scorza tappata, e non sapeva per quanto tempo La Buca avesse continuato a sbuffare come un drago di caverna. E la pioggia, e le infinite gocce e rugiade ticchettanti sul sottobosco e gli aghi di conifere? Occorreva forse che tornasse indietro, a sentirle stavolta con attenzione, a sentire se esistevano ancora, sentire se la foresta era un posto che lo circondava veramente? Rumore di rovistare, il guardiano che armeggia tra i suoi cassetti invisibili, mentre senza rumore le corve s’allisciano le penne su trespoli invisibili. Quel guardiano aveva parlato di “prendere in custodia le sue corde”, come sapesse che già voleva tornare indietro, andarsene via, farsi restituire quanto ceduto in un momento lasciato a metà. Abbandonato il suo proposito, un fallimento anche quello. W. si grattò il torace dove c’era quel fastidio, composto tra le altre cose dal fastidio che provava quando si accorgeva che nonostante tutto ancora provava fastidio per certe cose. Un fastidio tipicamente appartenente a qualcosa che si dimena per continuare a vivere, pateticamente. Riavvicinandosi al gabbiotto per cedere i suoi oggetti, attraverso i buchi della ringhiera s’immaginò sul letto ciottolato del torrente le ultime trote che dovevano aver annaspato lì mentre l’acqua spariva, le branchie lacerate dal vento e la viscida muscolatura tutta invischiata in sabbia bianchiccia diluita. Un tempo avrebbe lasciato una preghiera per quei pesci. Muscoletti e nervi gli tiravano sulle guance una specie di sorriso, agonia incarnata.


-anche lo zaino, prego.


W. passò lo zaino leggero. Poche cose dentro. Vuoto che internamente contorce il tessuto, miocardio incartapecorito.


-oggetti metallici?


-nessuno.


-per evitare certi movimenti, si capisce.-, ghignò il guardiano in maniera allusiva -o che qualcuno recida le nostre corde. Perché non si tollera indecisione, La Buca stessa non tollera indecisione: una volta scelto un metodo, non sono ammessi gli altri. Altrimenti non funziona niente.


W. annuì due volte scetticamente. Non aveva chiesto niente. Le corde, questo gli interessava. Imbracatura, sostanza simile a pelle. Daino? Non importa, qualcosa che in quel momento comunque subiva l’uncinazione dei resti della sua carne, bucata per farci passare i gancetti. Aggrappati come tanti speroni alla carne attorno all’ombelico di lui. Da cui si dilungava, flaccida ed elastica, una fune rosea e bulbosa d’un materiale particolare, sgonfia e rigonfia, l’aria trattenuta o lasciata soffiare all’interno, a far sembrare che respirasse. Il guardiano dal suo mondo invisibile sotto il bancone continuava a srotolarla in gesti consumati, sotto i riflessi metallici negli occhi delle due corve. E W., soppesando pezzo per pezzo quel lombricone i cui rotoli senza fine s’attorcigliavano in bobine tonfanti ai suoi piedi, si disse che si sarebbe sentito almeno un po’ meglio se avesse potuto cancellare dai propri pensieri qualsiasi parola o campo semantico relativo a ciò che la consistenza e il colore di quell’attrezzatura gli ricordavano. Notò solo un punto particolare, vicino al culmine da legare all’imbracatura, in cui si vedeva sbiadito un graffito nero informe, un marchio registrato. Non si leggeva niente e non si distingueva un disegno, quasi non fosse davvero sbiadito per il tempo e fossero piuttosto gli occhi a diventare appannati quando vi si posavano. La peggior cosa che possa accadere a un marchio registrato che vuole farsi trovare dagli occhi. Se ne vada al diavolo. Se c’è una situazione in cui gli occhi possono ammalarsi senza troppi rimpianti è proprio questa.


-bene, adesso è pronto!-, disse raggiante il guardiano, esortandolo a riavvicinarsi al punto che proprio lui s’era scelto da solo prima, per guardare La Buca, e a tratti le altre parti del paesaggio. W. aveva cominciato a respirare forte e il petto gonfiandosi urtava le giunture della ringhiera. Dall’altra parte, macchiavano l’orizzonte lontano le cortecce scarnificate degli abeti rossi, protese dai rami più esterni denudati degli aghi. E un lampo ancora, come d’occhi gialli e scintillanti lame di battaglia, saliva soffiando e gridando eco lontane dai cerchi neri della Buca -gli pareva di vedere adesso, calando lo sguardo e mai più distogliendolo, che c’erano davvero dei vortici là dentro.


-ma cos’è che fa rumore lì? Ci vive qualcosa?-, chiese non trattenendo un’apprensione sudaticcia.


-aaah, carissimo, quello è solo il livello più superficiale. Le cose del mondo, sa, quello che vede di spaventoso in questo posto e, alla fine, in tutti gli altri. Senta quanto rumore fa il Suo problema con la storia e la geografia! Feroce per sua natura. O per la natura che Lei vuole vederci. Io, per esempio, non la vedo così, e ho imparato a…


-e sotto, allora?-, lo interruppe in tempo W., che non voleva certo ascoltare opinioni altrui.


-mph.- risatina, soddisfazione non cala mai -sotto comincia a non vedersi più niente. Vede quei lampi che affiorano di tanto in tanto? Parliamo di un sotto che sta sotto quelli là.


Niente. Dove c’era l’essenza di quel colore nero senza dimensioni, popolato da zeri capaci d’esser peggio dei numeri positivi e negativi.


-Lei capisce, dopo un po’, quando si comincia a scendere in fosse speciali come questa, che s’aprono in certi punti particolari di posti particolari come appunto queste montagne… basta scendere, o precipitare se preferisce, e non si ha più bisogno di cose come “concetti” o “forme” per provare angoscia.


-e allora cos’è che fa paura lì?


-tutto. Il tutto e il niente, tutte le forme e la loro assenza.


W. sentì un lampo laterale, coda dell’occhio nella vaga direzione dove si trovava il gabbiotto discosto dal ponte. Sguardo agghiacciante del guardiano fermo, inscritto in un rettangolo d’ombra, corvi simmetrici. Un demone. Incorniciato in un quadro d’inferno. Peggiori deliri mentali di quelli che aveva percepito in certi incubi, risvegli bruschi. Dov’era e da dove veniva quell’essere? Il sudore voleva uscirgli vivo e gelido dalla schiena, dalla spina dorsale trascinandosi il midollo, contro il volere del cervello. Ma lo ignorava, e nemmeno poteva smarrirsi in quell’immagine da febbre. Tamburi pazzi nel petto. Quello sguardo immobile lo infilzava. Svuotata ogni impressione di cortesia mentre non stava a guardarlo. Come una bestia silenziosa sulla scia dei passi trascorsi. W. però non lo riceveva direttamente. Continuava a tenere il proprio sguardo sulla Buca. La Buca, non quel maledetto coso. È cambiato in un lampo dopo aver detto quell’ultima cosa. Agghiacciante. La Buca, guarda solo La Buca.


Una decisione, oppure un altro fallimento. La corda fornita dal servizio clienti gli penzolava palpitante dalla pancia e si contorceva, assicurata a chissà quale appiglio. Gli pareva che la sua nausea, immaginabile come una bile gialla e grumosa, scivolasse fin là dentro uscendogli dall’ombelico e appesantisse tutto il tubo. La nausea. Vertigine di una caduta insignificante. E un essere che, in quel momento, sembrava volerlo solo terrorizzare. Merda! I discorsi teorici, il tutto e il nulla, non sarebbero dovuti uscire da quella bocca! Fammi precipitare e basta!-, così pensavano i respiri intrappolati nel torace, visto gonfiarsi sempre più a ogni boccata, e le gocce di sudore che si spintonavano in fondo al dorso. Era dall’altra parte della ringhiera, le braccia avvinghiate all’indietro alla struttura scheletrica di metallo. Non ricordava quando l’avesse scavalcata. Ma era pronto.


-quando vorrà risalire su, afferri la base del tubo, vicino all’attaccatura dell’imbracatura, e prema ripetutamente dando al contempo degli strattoni. Non si preoccupi se sentirà le braccia… intorpidite, diciamo: basterà la volontà di compiere il gesto perché il movimento si concluda senza impedimenti. A quel punto verrà riportato su.


-grazie, ma voglio andare fino in fondo. C’è il mio posto, là.


-sicuro.- scoprì denti e gengive. Tremore eccitato nelle conformazioni ossee sulla testa.


W. staccò le braccia dal ponte. Sentì i talloni sollevarsi, una sfoglia che si separa lentamente dalla base, tenendo gli occhi chiusi, toccati con sensibilità improvvisamente intensificata dal vento freddo, sulle ciglia, nell’interstizio tra le palpebre. Cominciò a cadere mentre un lampo giallo della superficie cercava di valicare con la sua luce innaturale il mondo protetto delle palpebre chiuse, per forzarle a guardare.


-allora a presto!-, salutò il guardiano. Prese a leggere con aria soddisfatta un dépliant verde decorato da conifere e stambecchi e mamme orso e latticini e funivie senza nemmeno guardare il corpo di W. totalmente molle a braccia e gambe semiaperte che in un vorace istante spariva dentro La Buca.



(tutto ciò che son venuto a fare, tutto ciò che ho sempre visto che mi ha portato qua. Lampi: il buio qua è frastagliato e si vedono i suoi contorni nell’istante di quella luce terribile che fa scappare i branchi d’animali e gli uomini primitivi e i timorati degli dei e i costruttori di case e gli abitanti delle case. Il buio diventa vivo quando la luce lo sferza e fa più paura del fuoco è un antico incendio nel cielo, terrore che esiste già nel mondo e ci si chiede perché mai dovremmo nascere dove già esistono certe… un lampo più forte che porta rumore, precipita i pensieri tuono uccide orecchie e cranio. Possibilità di perdere uno dei propri sensi o l’uso degli arti, intorpidimento. Il lampo mostra come qua il buio abbia delle sagome contorte deformi frastagliate aguzze contorni di dolomite o di castelli arroccati o di alberi di foresta le forme sono vive e succhiano sangue dal sottosuolo. Il lampo: un’ombra di giallo tagliente, che urla battaglia, zanne e artigli, spade, fumo di bombe. Ossa che scintillano sotto la luce quando si rivelano fuori dalla carne, piene di contusioni. Marchiate colpite ferite da qualcos’altro che diventerà identiche ossa. Un altro lampo che giunge da dietro. Spada che cala inarrestabile sul dorso, gente che corre nei boschi per confliggere o scacciare aggressori. Istinti, belli o brutti, più veri e migliori di oggi ma in realtà no in realtà uguali a oggi per questo contenuto brutale, estinti da istinti più feroci che li hanno dominati, foresta e monti si riempiono di civiltà si riempiono poi di croci e campane e luce si estinguono fuochi notturni in onore di stelle e ululati, una nuova brutalità nasce dove si è estinta la precedente. Sopravvivono i lampi mentre si continua a precipitare. Nella barbarie.)


I lampi cessavano, riducendosi a flebili riflessi sopra di lui, sempre più tenui.


(poi c’è un fondo: ha forma solo nel momento in cui lo si tocca e attraversa. Forma di onde concentriche come placido lago. E al di là, un altro nero, senza forme.)


W. aveva superato precipitando quei livelli superficiali, popolati da lampi feroci. E attraverso un fremito freddo che gli aveva trafitto i filamenti del cuore capiva che il suo corpo, proprio quel corpo che per tanti anni era coinciso così scontatamente con quanto chiamava “io”, stava adesso attraversando quei mondi che rendevano più nero d’ogni altra cosa il fondo della Buca.


Occhi e orecchie gli si erano sfaldati, in maniera indolore, in banchi sparpagliati di polvere, risalenti verso l’alto mentre lui continuava a cadere. Il tubo sbatacchiava dipingendo quasi invisibile nell’aria una lettera corsiva, saldissimo al ventre e infinitamente lungo sopra di lui. Vagamente connesso a qualcosa che vagamente si sarebbe potuto concepire come mondo in superficie.


Quasi invisibile. Vedeva? Vedeva se stesso in assenza di qualsiasi fenomeno fisico e ottico. Solo perché doveva vedersi, e vedere i pezzi di sé che si sgretolavano. Doveva essere una di quelle regole. Doversi vedere sfaldati, avere coscienza di tutto il processo.


Nel buio invisibile e perfetto si muovevano nonostante tutto delle “cose”. Suoni attutiti. Inascoltati, orecchie perse. Ascoltati per mezzo di qualcosa. Scopriva ricettori nuovi in sé come frammenti di ferraglia incastonati dentro il cervello, mai conosciuti prima, in assenza d’orecchie si rivelano adesso baluginando, al termine dell’evoluzione -no, lascia fuori cose come l’evoluzione, lasciale ai livelli superiori. Qua è altro. Voci: sembrano eco di ricordi. Perlustrano, se ci fosse la terra la frugherebbero col grugno, correndo scheletriche. Voci che mormorano, che guardano circolando tutt’intorno senza che le si possa guardare. Non ci si vede, si sentono solo mormorii.


(hanno la bava nelle fauci e le cavità oculari lunghe, le voci corrono più veloci di te. Vattene via vieni qua stai zitto parla più spesso ti amo troppo non ti amo affatto quando pensi che non sei stato amato abbastanza sei presuntuoso sei stato amatoodiato il giusto quando pensi che sei stato amato troppo hai ragione ridacci il nostro spazio e ossigeno, certe cose proprio non le puoi dire c’è un regolamento da seguire è odioso che tu ce lo chieda devi indovinarlo devi viverlo non devi scappare abbi il coraggio d’essere te stesso ma per carità non davanti a tutti e impegnati un po’ e ti impegni troppo dimenticando il resto e pensa solo a te anzi pensa a tutti meno che a te e non andare da quella parte grgrgrgrg aaaauuuu -si contorcono le bestie. Non andare da quella parte quando pensi di curare la tua anima, la tua malata anima che ci oltraggia abbiamo visto abbiamo udito abbiamo l’olfatto per sapere cosa hai fatto e tu non ci puoi vedere no non ci puoi vedere perché siamo l’ombra e noi col mondo ci intendiamo noi siamo cuciti a lui noi siamo vivi un solo respiro e tu ti sei escluso: impara a parlare come noi impara a capire che è orribile la tua anima)


W. a cui sembrava di avere il vomito in gola, e al tempo stesso di non avere una gola, rimpiangeva quei cerchi d’acqua che s’erano increspati, gentili, quando aveva penetrato il diaframma dei livelli più bassi. Dove sono i cerchi concentrici, la superficie del lago sepolto nel torrente? Torrente: c’era un torrente, nel mondo da cui era venuto. Se lo ricordava ancora. Un braccio si tese verso il tubo, quasi a voler chiamare, ma… lo riportò dov’era, nel punto indefinito dove galleggiava. Senza più gli occhi, aveva fastidio per le lacrime che senza rimedio lì si accumulavano, non potendosi sfogare poiché non avevano corpo. Più fastidio di quanto gliene suscitavano sulla terraferma per motivi che in quel momento si sgretolavano, come avevano fatto gli occhi, di fronte al motivo dell’assenza d’occhi.


W. attraversò cadendo in un’altra voragine profonda. Non poteva vederla. Solo sapere che c’era entrato.


Non aveva più gli arti, nemmeno più il collegamento tra la testa e il torso. Parti che penzolavano, pur legate in qualche modo, all’attrezzatura, il sistema. Univa le parti. Frammenti scoordinati della sua mente fantasticarono se stesso -nostalgia del corpo-, un brandello d’invertebrato carnoso appeso a una lenza. Con un pezzo d’esoscheletro biancheggiante da qualche parte, poco riconoscibile. Teschio che aveva voluto cancellare il proprio nome.


Il buio non aveva forme lì e nemmeno più cerchi d’acqua. Solo aria, illusione di temperatura, nell’attraversare una voragine profonda. Nuovi organi, nuovi ricettori puntiformi che costellano le pareti interne ora frantumate ed esposte, insegnano che la temperatura è qualcosa che si sente ancor prima d’avere la pelle.


Qualcosa di freddo s’avvicinò. Sembrava voler abbracciare W. da dietro. Il fiato gelido parla, comunica senza linguaggio. Lingue di ghiacciaio s’agitano gassose nell’aria vuota e nera, dicono a W. qualcosa che non capisce, qualcosa riguardo a un abbraccio. W. vorrebbe dimenarsi per scacciare il linguaggio mormorato dal gelo. Grigie dita, lampi nell’immaginazione, che è l’organo che sembra voler morire per ultimo, e risiede nei polmoni. Tutto il resto se ne va via. Può sempre vedere le parti di sé, anche senza occhi, anche senza luce, nemmeno luccicassero nell’abisso. C’è bioluminescenza nelle parti di sé che si sgretolano, in tutti quegli organi spappolati e ossa polverizzate che evaporano e in flussi incantevoli a forma di Via Lattea compongono rivoli precipitevoli verso l’alto, i piani superiori ormai antichi e distanti dell’abisso.


W. non era che un osso spolpato con due flaccide sacche avvinghiate ai suoi solchi quando attraversò un’ultima voragine senza confini. Si percepiva un respiro tutt’attorno, un rantolo che sembrava più antico del tempo.


W. sente che non sta più nemmeno cadendo. Eppure sa che non c’è un fondo. Sa che la caduta continuerà, per sempre. E che già sente d’aver urtato qualcosa, che lo schiaccia tra un sopra e un sotto. Una caduta inesorabile senza un tonfo autentico, ma con l’eterna illusione del suo dolore. Una trappola infinita. Sa che sta continuando ad andare e che non sentirà mai d’andare. Non ce la faccio, non ce la faccio. E sa che quello che gli sembra di vedere a volte, mischiato nel rantolo che assorda perfino la materia nulla del nero vibrando in monoliti d’aria moribonda -(non ce la faccio, non ce la faccio)-, sa che è un volto. Si spalanca sotto di lui, sopra di lui, ha le sembianze che una volta aveva, ha le sembianze d’altre cose che ha visto, spalanca le fauci e gli viene incontro, e lo afferra senza mai farlo davvero, e incombe mentre la caduta continua a essere infinita, e inesorabile, e……


(un volto che scintillava, come dal vetro d’uno specchio, nel cuore del nulla. Incisioni vitree sulla faccia riconoscibile, la più riconoscibile di tutte, a immagine e somiglianza di tutto ciò che negli occhi e nelle orecchie era entrato. Una mappa di tutto.)


Si precipitava contro i resti del corpo nel momento in cui stavano per scomparire, ignari che presto non avrebbero sentito più niente. Ignari di cosa significa non sentire più niente. Senza più nemmeno il desiderio di scoprirlo. Senza più niente a parte un osso e mezzo polmone.


-…hey! Hey!!! Non ce la faccio!


Gridò nell’abisso. Senza braccia desiderò che le braccia afferrassero il tubo. Il gesto si compì, mosso dalla volontà, come aveva detto quello. Il guardiano. Ricordò il guardiano e il tubo che andava a stringere. Qualche difficoltà delle braccia immaginarie per la resistenza dell’atmosfera rantolante, simile a nuoto controcorrente. Le mani: compaiono attaccate al tubo. Un pezzo di tubo s’illumina, s’illumina quel disegno mezzo cancellato e vibra, vibra fortissimo d’energia aliena. C’è un altro rumore, interrotto, sussultorio: pare che il tubo venga attraversato internamente da grumi, vibrano al suo interno singhiozzi gutturali e melmosi. Fosforescente, il marchio stampato e mezzo sbiadito lì s’accende, una spirale scancellata, o forse due cunei, o forse un segno lasciato da fauci, o forse due corvi in volo circolare. W. strattonò con tutte le sue forze, anzi come se la forza venisse a raccolta lì dov’era, precipitando e ritornando al padre che la richiamava a sé, appesantita dalla pressione degli strati superiori e l’infinità della distanza percorsa.


Due femmine di corvo, veloci e agilissime negli eleganti volteggi aerei privi di suono, giunsero con le ali spalancate del bel piumaggio lucente che accendeva piccoli lumicini argentei nel buio, comunicazioni. Una afferrò con gli artigli un margine dell’osso appeso alla lenza, l’altra posò il dorso sotto i residui di carne e cominciò a sbattere freneticamente le ali, generando così una spinta ascensionale. Stavano risalendo. Molto più lentamente che nella caduta.


W. pensava. Aveva tante cose con sé, mentre i suoi pezzi ritornavano e ricomponevano l’immagine del suo corpo, in movimenti di nastri di polvere che si riavvolgevano all’indietro. Tante Vie Lattee di polvere sua che convergevano al centro di lui e lo ridisegnavano mentre aveva tante cose con sé, nei pensieri. Tanto per cui amareggiarsi e nessun buco in cui buttarsi per risolvere il problema.


Le due corve mandarono sguardi elettrici per scacciare minacciosamente i lampi che s’aggiravano in cerca di prede ai livelli superficiali. A quel punto W. aveva tutti i pezzi del corpo, e alla luce intermittente vedeva perfino gli abiti vecchi che aveva indossato in quei giorni d’escursioni, riconoscendo le macchie di terra e gli strappi che s’era fatto tra scalate e cadute. Gli venne una risatina senza alcun senso guardandosi gli scarponi e le mani morte ciondolanti nel vuoto.



Sarebbe venuto un altro temporale. Non voleva un raffreddore di montagna, nessuno l’avrebbe voluto. Farsi cogliere dall’acqua gelida mentre si è lontani, tra alberi e fulmini. Avrebbe voluto sentire solo le gocce picchiettare, lo strumento musicale cristallino della foresta, tornare a sentire rumori e una musica. Ma non avrebbe avuto modo di pensarci, perché a quel punto aveva fretta di scappare dalla pioggia. Un secondo tuono parve squarciare una nube, bianca e viola attorno a un picco di roccia. W. si accovacciò con la schiena ancor più vicina al suo macigno bianco e fradicio ai margini del ponte, doveva s’era messo a far riprendere la circolazione sanguigna tutta addormentata.


Quanto era passato? Forse una mezzora da quando s’era fatto riportare su, tutta in silenzio. Il guardiano sfogliava, armeggiava sue cose. Tutta procedura, tutto previsto. Forse aveva detto “brave” alle due corve, ritornate sui trespoli. Forse aveva dato loro un premio. Biscotti e polpa d’ossa. W., accasciato al masso, sentiva un freddo bestiale nella schiena, un’umidità appiccicosa all’inguine. Grattandosi tra orecchie e capelli scacciava al contempo i tremolii incontrollabili della faccia come fossero mosche. In silenzio guardava intorno, presagiva il pericolo del temporale.


A un certo punto il guardiano uscì dal gabbiotto, fischiettando tra sé. Possedeva una metà inferiore del corpo. W. si sorprese nell’istante brevissimo, di strano disgusto, in cui girandosi appena lo incrociò. Distolse presto lo sguardo. Aveva altro per la testa e per il corpo, tremava senza ragione. Non c’erano ginocchia piegate di camoscio sotto la cintola del guardiano simile a un fauno. Traballanti e ragneschi arti neri informi che circolavano velocissimi ed efficienti, sfuggendo alla capacità dello sguardo di fissare qualcosa. Lo spiritello guardiano che per la prima volta usciva dalla sua tana, la sua scorza, quasi scivolava fluido per arrivare in pochi istanti vicino al cliente, a porgergli qualcosa con un braccio tozzo . Standogli vicino W. udì il fruscio come di fumo e fiammate esalato da quella metà inferiore che gli s’era avvicinata quasi a toccarlo, stesso colore e inconsistenza della Buca da cui era uscito. Arti d’aracnide vicino a dov’era seduto, e un braccio antropoide che invece gli toccava la spalla, accompagnato da parole e toni consolatori per obbligo professionale. Singhiozzando W. s’abbracciava le gambe piegate mentre quello gli offriva qualcosa e lo minacciava con tenerezza materna affinché staccasse dalle ginocchia quella faccia tutta contorta che stava diventando brutta e umida, perché doveva guardarlo mentre gli parlava.


-su, su. Prenda questi. Non c’è nessun acconto, e nemmeno si accettano mance. Nei casi come il Suo, li forniamo noi e deve solo accettare. Allora?-, sorrise riciclando uno dei vari sorrisi che aveva usato precedentemente.


Il palmo di W. s’era aperto. Tra i solchi sporchi di terra bianca e cicatrici e succhi di calli sfregiati, stavano posate certe noci e bacche di bosco e pasticche bianche e blu. Pianse, rumorosamente e con visibile fatica dei condotti lacrimali, cascate di muco e certa merda gialla che gli s’era accumulata negli occhi spesso svegli. Quello gli sorrideva ancora. Prendili e vattene, tornatene a casa, all’albergo, dove ti pare. Tanto più che pioverà! Lo avvertì che prima di fare effetto spesso inducono sonnolenza. Ma dopo si è funzionali, si dimentica.


W. si gettò in gola noci e bacche e pasticche senza pensarci, senza pensare più a niente. Pioverà. Cercò di sentire tra i singhiozzi fangosi il ticchettio, il vento, l’odore di bosco. Ingollò tutto senza pensare più a niente e vide in lontananza sbiadirsi e mescolarsi tra loro in indistinta nebbia le sagome delle montagne disegnate sull’orizzonte bianco e grigio. E vide poi un lampo scuro -una caduta di palpebre stanche-, e poi di nuovo il mondo chiaro quasi bianco, cinto ai margini da foreste simili a macchie… e vide infine, senza più interruzioni, tutto scuro e uniforme. Le palpebre s’erano chiuse. Seduto lì, si addormentò senza coscienza.


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