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  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 6 gen 2024
  • Tempo di lettura: 23 min

-nel frattempo-, dicono sibilando i rettili -approfittane per metterti in testa una cosa: noi non siamo sogno, né metafora. Dici che gli altri, che stanno in questo posto, non ci vedono. Però, lo sai benissimo, questo non ti riguarda. Vero?


(Nel frattempo. Di cosa? Quale prima, quale dopo? I prima e i dopo di tutto il mondo si mangiano a vicenda e restano solo ossa. E almeno questo è bene, in parte, in una sua piccolissima parte, è bene. Perché le ossa sono quelle che ovunque ti circondano, specchiando le tue col riflesso biancastro del loro vetro, della loro polvere cristallizzata e pronta a disfarsi ancora: compagnia che senti mormorare quando la solitudine in certi suoi spasmi muta forma e si addensa e comincia a sembrarti strana, diversa dal solito. E allora eccole. Ossa del sottosuolo. Che visiti.


Sei nel buio metropolitano, sei nel treno sotterraneo, lo stesso di uno dei tuoi mondi di finzione di cui hai scritto. Ci sei entrato apposta. Hai aperto con una lama una crepa dentro il foglio di carta, vi hai fatto irruzione. Dall’altra parte del velo, hai visto che l’inchiostro l’ha penetrato, e accumulandosi lì dietro in quello spazio sottile d’ombra, ha formato un secondo foglio, dalla consistenza d’abisso. In questo buio tu nuoti, anzi: nuota il treno. Treno di tuoi racconti, serpente di sogni, insondabilità celebrate in prosa inascoltata, quasi una preghiera private. Ci sono wyrm nel profondo di una metropoli che è un gigante sdraiato a guardare nel cielo sopra di lui piroettare gli storni, incrociarsi i rami di pino e i fili elettrici e le nuvole; il cielo arrossisce sentendosi guardato da cotanti occhi ibridi di cemento e vegetazione, e di rimando il gigante, tutto disteso, sente che nel corpo suo, tra interiora di cemento e di terriccio e di fiatone dal sapore nettarino, si contorcono numerose rumorose serpi, e si sente presente sulla terra, insostenibilmente. Spande, inascoltato come un bimbo che s’abbraccia le ginocchia su un declivio deserto, un pianto di infrasuoni che rimbomba per ciascun grano di terra; diventa una città di ronzii, per quel momento soltanto, per la durata della contraddizione di volerlo cancellare ed estenderlo in eterno come guglie di edifici e spire di reti elettriche che si dilatino ad occupare tutto lo spazio, riempendolo d’affanno, paura di morire, scintille.)


Il rettile sfiora alcuni sedili e alcune ginocchia che sporgono, fa frusciare gli orli di abiti tenuti svogliatamente in mano per non sudare al chiuso. Quello che lo ascolta, senza mai mutare espressione in un automatico tentativo di assomigliargli, gli sta frontale, più appartato, verso l’angolo in fondo all’ultimo vagone. A lui pare di sentire che in quel momento, in superficie, per lo sconquassare della ferraglia sotterranea i palazzi si agitano simili alle matite strette tra due dita in un gioco ottico da scuola elementare, se li sente vacillare tutti vertiginosamente dall’impressione che li ha eretti così fin lassù, sopra di lui e i sedimenti del buio, che non può vedere: gli scossoni del treno sotterraneo si propagano attraverso le viscere del suolo e risalendo strato a strato fanno sì che il suo viaggio, posandosi di tappa in tappa, faccia ballare nella skyline certi condomini e uffici e ristoranti e negozi e palestre e cantieri vicino ai quali potrebbe esser passato in un suo girovagare dimenticato, scritto solo nei solchi del tempo, che rivedrà, forse, soltanto alla fine di tutto, se esiste qualcosa che laggiù infine liberi del corpo e del primaedopo e del causaeffetto e faccia sentire tutto, in un solo istante, per come è stato, un punto, un fiato. Di stazione in stazione vengono fatti tremare i palazzi. Di passo in passo tremano i palazzi mossi da quella forma di sé parallela, che in una giornata qualsiasi sta all’esterno a passeggiare nella città nuda, di passo in passo trema il treno sotto quei piedi. La città è un sopra e un sotto, un prima e un dopo, e lui che è senza meta, meglio di altri si perde nei suoi spazi, riconoscendola come rete.


Le luci violente dentro il vagone lo rianimano dalla fantasia sdoppiata: come inalando chimica ospedaliera, strabuzza gli occhi destati da tanto fracasso visivo, dimenticato solo momentaneamente, mentre teneva le palpebre calate ostinatamente a iniettarsi liquido nero. Distillato di musica. Scosta una cuffietta: quasi qualcosa l’avesse importunato dandogli un colpetto su una spalla, per chiedere magari un’informazione, un soldo, o per prepararsi a disfare le sue carni e i suoi muri (tutto, tutto ciò che s’avvicina ha l’intento di disfare i muri, ripete a sé, per pungersi i nervi del sospetto, amici d’abitudine). Ma non c’è niente che richiami la sua attenzione. Solo i rettili sembrano esistere assieme a lui, in uno stesso mondo in cui, se volessero, potrebbero intendersi a vicenda. Su di loro consuma per un po’ la vista, fissando e dimenticando di fissare, ma quelli non conoscono soggezione. Assomigliano a ciò che un corallo sarebbe se fosse una lucertola. In una monolitica polpa di dure scaglie verdastre, capace di muoversi arrancando a zampate di sauro o strisciate di serpe, stanno costellazioni di buchi dai quali i polipetti -grumi amorfi di pupille verticali e code appuntite e lingue biforcute- fuoriescono mandando in fuori voci soffianti, moniti, risposte. Non ricorda quando sia salito in metro, questo Rettile, o I Rettili che dir si voglia. Gente di metro non nota niente. Non ne avverte odori o graffi quando agita le code ruvide a destra e sinistra, ticchettando con le squame sui vetri e su quelli che vi stanno appiccicati in attesa di sentirsi dire che l’uscita è su questo o quel lato. Ma come hanno detto queste stesse bocche, la loro non è un’esistenza da mera ombra, non un ologramma. E come hanno detto, il fatto che non si lascino catturare da una rete di percezioni sensibili del tutto separate dalla quella di lui, non lo riguarda affatto.


(non ti riguarda. Non ti riguarda. Ripetitelo sempre. Cosa ti riguarda? Le tue leggi soltanto. Come quella di ripeterti che non ti riguarda. Questo, e anche quello. Perlomeno, non dovrebbe riguardarti.

Erra per sempre solitario, per la landa e sotto di essa; girando, incontri il drago e la sua semenza. E se ti rivolgono parola, tu rispondi nella loro lingua. Poi di nuovo muovi i passi. Nel paesaggio che è abbastanza grande da annullarli, azzerane il rumore e lo spazio percorso. Così da tenerti fermo pur nella tua andatura incessante.)


-tu lo sai, vero…-, parlano i rettili, ancora, nello stesso modo.

Le ciglia s’impigliano tra di loro, non ancora abituate alla luce accesa. La mano sudata scivola su e giù lungo il maniglione argenteo nell’aspetto, già unto di pelle per la presa sua e di molti, e perché lo tocca soltanto con gesti circolari, che allietano i nervi, avendo incamerato ciò a cui una gamba ha rinunciato arrestando il suo tremito.


Io so?


-sai dove stai andando. A volte, all’errabondo accade di ricevere un invito, o di dover sostare per altro motivo da qualche parte. Ci sono stazioni, lungo la sua via, alle quali si può fermare, come un uccello migratore vede profilarsi simili a miraggi le isole che possano far da trespolo sopra il mare d’acqua, sotto il mare di nebbia, quello che fumiga bianco, impenetrabile, uniformandogli la vista sottostante; terraferma affinché trascorra il tempo, fino al suo diradarsi.


-il tempo! Ah! Affinché passi il tempo!-, gracida o gracidano I Rettili in un’altra loro parte, sgusciata d’un fianco con bocche floreali da iguana, facendo eco o contrappunto o antitesi o post scriptum a quella che per prima ha dischiuso il messaggio.


-e dunque- continua l’altra, -sai già discernere quanto accadrà.


Sì, lo sai. Sai che gli sguardi… e la presenza… e la voce tua…

(immagino di bussare a una porta. Oltre la soglia dell’appartamento in cui si prevede il mio arrivo si estende, fendendo l’aria pulviscolare di uno spazio privato altrui, una mappa di corridoi, strettoie, porte chiuse, angoli tutti in cui dimorano agguati. Predatori nelle case. Da me generati. L’ombra striscia dal suo padrone, libera s’infiltra negli spazi suoi. Ombre che mi predicono l’assalto: che fai tu qua? Che fai tu qua? È stato un errore, un errore soltanto, capirlo dovevi, chi erra deve errare, ed è allora incertezza della tua scelta da smarrito che ti induce a fermarti non appena ti viene chiesto, eh?, e non ci piace l’incerto, non ci piace quello che va per strada a tallonare l’orizzonte, sciò, non sporcare questa casa, non spaventarla, non imbarazzarla, era tanto per dire, perché non vai in fondo a dove t’eri diretto? Perché non rispondi com’è corretto? Perché c’è nel tuo viso un eccessivo tremore o un’eccessiva sua assenza? Porta via di qui i tuoi estremi, era tanto per dire, oppure resta, e cuoci zitto e immobile, non porre lo sguardo di sbieco per non vedere quello che sei e quello che hai fatto, e quello che noi ti abbiamo detto, e se ti si vede ancora a rimuginarci, o che strazio d’uomo!, e se ti si vede impassibile, oh che ingenuo, sordo ai segnali! E di altro e di altro ancora parlano. O tacciono, emanandolo, vapore e sudore dall’abito e dalla pelle, odore umano, pieno delle particelle della reazione chimica che esplode nel vedersi esserci. Errori nell’incontro. Nello spazio tra me e loro. Panico che dimora identico in tutte le case. Come un’infiltrazione. Ne seguo i contorni, la geometria piovigginosa dipanata in arabescanti macchie muffite sopra i termosifoni.)


-sai che non appena sarai entrato in una stanza che ti accoglie e già vuole rigettarti, infiniti sguardi come zanzare affilate si poseranno sugli spazi carnosi della tua pelle e del tuo starci, impedendolo, spolpandolo, lasciandone però sempre una parte, perché possa sentire quelle mancanti. Sai che per l’azione di un globo goffo che piomberà dal nulla ad ottunderti la presenza sostituendosi a te, galleggeranno, come in un impiastro denso di scoramento e lentezza, la tua mente, la sua capacità reattiva in stato progressivamente letargico, il tuo cuore, la sua capacità di darsi una misura nell’uscir fuori dal petto e darsi al mondo, se troppo poco o troppo, sempre inopportuno. Sai che ogni volta che le tue labbra si apriranno, recando un fiato che incorpora notizie di te, te, te, sempre te!, sai che pronunciandoti, a ogni tratto e fonema ti sgretolerai; cedendo parti di te, vanificando quella gran cura della tua pellaccia che anche adesso, e sempre, senza nemmeno accorgertene, investe tutte le tue attenzioni. Sei autoconservazione e sei assieme il caos che la scalfisce: perché vai dove ti annulli? E perché retrocedi sempre a un passo prima di annullarti del tutto? Perché non scegli, una volta per tutte, cosa vuoi? Come ti vuoi? Distrutto o integro?


(scelta. Vedo lato destro e sinistro della metro: da una parte della catacomba nera di là dai vetri veloci galleggia un beato cosmico, seduto e incolore, che come con un anello sacro fora se stesso al centro, indicandomi qui una caverna, fredda come lo spazio, in cui entrare, in cui sciogliersi, e mormora un rosario ciclico, “vieni, entra”; e dall’altra parte, un’ombra, sagoma di una monaca un po’ insanguinata tra i capelli e la fronte, i cui accennati sorrisi e mudra lanciati dalle mani, per la prima volta, dicono “non aver paura, ti puoi avvicinare, vieni da questa parte”. Sto in piedi nel treno, tra l’uno e l’altra.)


E si sente barcollare l’interpellato, con la mano ancora al maniglione come il viaggiatore in nave che afferra nella cecità della tempesta i bordi delle cose vicine, e invano tenta di stringere nella presa quelle lontane, e si fa piovra nel tentativo di moltiplicare ciò che dal suo centro s’estende, prendendo una forma, divenendo capace di toccare, se solo lo vuole, e dire “qui ci sono io”. Si sente barcollare, perché in un rettile sta incastonato uno specchio, e lui s’è visto specchiato (uno specchio. Nella O tra i ventri di biscia che a mezz’aria danzano in corteggiamento, tracciando simboli della ricorsività. Nel centro scintillante di un occhio protetto da una membrana trasparente, diaframma che respinge l’acqua limacciosa d’immersione. Nella spirale cheratinosa che trapana il mondo dentro l’uovo, spargendo nutrimenti, dati elicoidali, discendenza. Nel carapace che sorregge la terraferma. Nel veleno vitreo e perfetto serbato dalle zanne.).

Nei Rettili che con lui stanno a bordo, compagni di viaggio, nelle loro parole scorge il modo in cui lui stesso si affanna, vede tutto l’agitarsi delle sue membra così pavide, così incapaci di nascondere quanto ossessivamente si vogliono bene, tutto il contrario di come le vorrebbe la psiche, che quanto a bene di se stessa…


-e per quanto riguarda la tua “psiche”- anticipano i rettili -quanta voce in capitolo credi che abbia? È incredibile la tua presunzione, anche in questi momenti.


Lui si guarda intorno. Sono trascorse appena due fermate. Il tempo di un EP con il volto di un pollo in copertina. Nulla di più, no, non sa quanto è lunga la strada da fare a piedi, potrebbe non bastare per un LP. Verrebbe interrotto, e cose nefaste accadono quando c’è interruzione nell’ascolto. S’incrinano rumori negli angoli del creato, e s’incrina l’aria nella strada buia che del creato è il mondo speculare, scaturito da ogni fenomeno, e in cui sempre si deve camminare -una stanza che si apre per far passare attraverso le cose, senza che reagiscano. Perciò poche canzoni. Quanto basta.

Per tenere gli occhi chiusi nei pochi minuti tra una fermata e l’altra, riaprili per la prima metà di un minuto da fermo, e richiuderli e riaprili per il minuto successivo che si getta nella gola nera in cui i passeggeri precipitano, verso il prossimo pezzo di tratta. E per confrontare il buio suo e il buio fuori che l’ha inghiottiti, simili, diversi: uno sta scavato tra le fosse di un bestiario personale, di abissi intersecati; l’altro sotto le strade, sotto i monumenti, tra fosse di romani e di altri mostri con spade e sguardi grifagni che sono esistiti realmente, vivendo uccidendo morendo. (sparpagliando quelle ossa che qui dormono, ovunque. Come ragni. A meno di un metro da te ogni momento della tua vita. Ossa che ovunque dormono e circondano. Non viste. Non rinvenute. Lavori della metro che non possono mai concludersi. È la magia, è la magia è la maledizione di questa città, è il romanticismo, delle catacombe delle ville dell’olimpico dei cavalli dei leoni dei lupi delle aquile dei perseguitati martiri degli schiavi degli scheletri delle macerie, tutto è maceria, nella città del cielo che colora di sangue pini e cipressi, e di nero i serpenti, di nero la tua visione da talpalombrico, il tuo respiro sotterraneo.)


E a occhi ora chiusi ora aperti guarda solo ciò che vuole, per ambientarsi, per non abbandonare mai la casa, da testuggine rettile, che trascina sempre. Corridoi e cunicoli indispensabili, per cacciarci dentro la testa. E a occhi or chiusi ora aperti sta col volto riflesso nei vetri, spettrale sovrapposto ai cartelloni pubblicitari dall’altra parte dell’oblò, che si avvicinano intanto che il cigolio rallentando si posa cacofonico sui binari e mostra sempre la stessa nuova folla che si avventa, e un cestino che gli occhi trasmutano: lo vedono fumare dalla bocca come un vaso pieno di spettri di sarin, samovar di morte del 95.

Il cigolio si risveglia, scivolando di fianco a una stampa incastonata nel muro raffigurante un sorriso sintetico congelato in eterno e raffinato in post-produzione, di modelle attori testimonial panini mostre in città animali da non abbandonare eventi concerti emozioni, sempre nuove grandi emozioni. Poi di nuovo il sottosuolo, il suo contenuto. Poi la gente. Sbirciare i titoli dei libri che alcuni leggono. Per forza di cose affondare il muso sospinto dalla calca nelle conversazioni che scorrono, i nomi dei gruppi su app varie di messaggistica, inside jokes, gif danzanti con gioia verso gli abissi di dimenticatoi individuali e collettivi. Alcuni conversano diteggiando, e altri senza vergogna, chissà come, pronunciano ad alta voce gli audio che devono inviare. Tutto questo.


E adesso?


-eh, e adesso?-, dicono I Rettili, ricordando al girovago ciò a cui va incontro: quello scempio di sguardi, e di coscienza, e di corridoi in agguato, e di voce mortale, eccetera eccetera, insomma, quella roba di cui si è già detto.


Superfluo ritornare sull’argomento, dice una bocca. Ritornaci costantemente senza mai distrarti, dice un’altra. E non si contraddicono, e dicono la stessa cosa.


-eh, adesso, lo sai te. Una cosa hai: la capacità di scorticarti. Usala.


Quello, sentendosi dire così, ficca istintivamente una mano in tasca: all’improvviso ci trova degli artigli, là riposti. Come se nei pantaloni fossero cucite le guaine callose dei suoi polpastrelli -suoi di chi? Del girovago, o di un ramarro? Forse di uno scipionyx nato dall’uovo in una palude del sud e subito morto, con le unghiette ricurve ad arrancare in eterno nell’inconsistente vuoto di una camera di roccia, senza poter afferrare nulla.


-li hai trovati, vedo. Beh, che aspetti a usarli? Conosci il modo. Lo hai appreso. Per lungo tempo hai affinato l’abilità. Sai che adesso tutto quanto ti circonda ti si fa nemico: ogni cosa, i lettori silenziosi, quelli con gli auricolari filiformi come i tuoi e quelli con i wireless, quelli che elemosinano, quelli che gridano, quelli che vivono qui, vivono in tutta la città come fosse una mappa di casa, li riconosci che stillano dal giacchetto e dalla curvatura delle loro spalle le ore accumulate qua, rendendoli le ombre che tu vedi ora: tutti questi, senza esclusione, si rivestiranno dell’inevitabile: ciascuno di loro si tramuterà, per te, in un pezzo di sguardo, una voce, una presenza, un eccetera, un eccetera: e ti assaliranno, prima ancora che t’assalgano i dubbi che ti attendono nell’appuntamento dove sei invitato, dove sarai rigettato, dove lascerai una porta dietro te, in un momento di silenzio tombale, pronto a vagare ancora una volta al freddo, nell’indefinito, fino alla successiva sosta. Senti? Già accelera il battito cardiaco.


Diavolo, perché il girovago sente il petto affannarsi? Fermo in metro, succube delle membra che vogliono salvarsi, chissà poi per far che. Tremito della gamba poi del dito poi della goccia che imperla là dove più infastidisce tra cervelletto ed etichetta della camicia. Non c’è motivo. Un invito, una stazione, una pausa nella marcia senza meta. Sarebbe cosa buona. Anche gli sguardi, le parole, le vertigini: il gran camminare dovrebbe averli ammaestrati, dopo tutto questo tempo. E l’ha fatto, un po’. Ma poi basta che accada questo.


Basta un giorno che i rettili, chiamati dal grande odore di chiuso che locomotivamente ti sbuffa dai pori, salgano in metro per percorrere con te un pezzo di strada. E che sussurrino parole che sono assieme, e senza contraddirsi, un nettare e una tossina, un balsamo e un acido, una nostalgia e una rovina. Perché, checché se ne dica, quelle lucertole multiformi sono, in fondo, un singolo organismo.

Basta che accada questo, perché il petto del girovago torni a tremare come una volta. E sperduto cadrebbe, facendo metamorfosi in un malloppo inerme di ginocchia rannicchiate, sul pavimento virulento della metropolitana, calpestato dai molti, spettri di romani sanguinari antichi e di romani stanchi di oggi, spettri della fretta e di quel dolore di tutti che sembra a volte di udire fin dentro la testa, talmente martella, che ci si sofferma a volte a chiedersi, “questo dolore in giacca, e quest’altro occhialuto, li abbiamo mai incrociati, totalmente per caso, lungo la via? E una sola volta, o in più camminate che non sanno niente l’una dell’altra, come noi non sappiamo d’esserci già incrociati?” -così, nella polvere che fa angolo in un vagone, in quel pavimento così battezzato, ci si percuote, nonostante in teoria si sia entrati attraverso l’inchiostro in un luogo di immagine, propria immagine, e qui si sia al sicuro, in teoria, dagli esterni, dai voleri avversi.

Ma basta che accada poco, in fondo.


E allora presta ascolto al suggerimento ricevuto.


Sembra di sentire ciò che qualcuno dei passeggeri sta ascoltando. Può essere? Riconosce dalle cuffiette vicine: zampillano impulsi elettrici fuori dal recinto privato delle orecchie. Un beat trap, accordi sanremesi, Tears for Fears e Arcade Fire perfino -può essere? Sono come ronzii di mosche bramose di toccare, che svolazzino non lontano dalle squame purulente di un vecchio varano. E un re di cose draconiche sta là vicino, in effetti, a mandare colpi di lingua intermittenti, a viaggiare per recarsi da qualche parte, forse con una tessera ATAC infilzata da qualche parte nelle spire, accanto a una spada antica.


E sembra di ascoltare i ronzii dentro le conversazioni. Stanno litigando? O è un licenziamento per telefono? Una confessione, una separazione, una tosse, incubazione di influenza. Poi si attutiscono. Poi è nulla: un tappo su tutto. Tutto si eguaglia e precipita in un punto. Poi quel punto sparisce. Ostruito.


Sta per entrare in un’altra stanza. Esclude ogni legge diversa.


Estrae gli artigli dalle tasche dei pantaloni.


Come ha imparato, affinandone l’arte, li affonda al centro della camicia, aprendovi un grembo. Ci entra.


In metro si squarcia il ventre. Sparisce dentro un buco che ha fatto.


.


(entro nella ferita. La bocca della caverna è scivolosa, un sangue scuro fangoso la invischia. Ma so come ci si cammina. Poco oltre la soglia, statue guardiane, ai bordi della strada cieca. Bodhisattva di pelle nera e marrone sporgono le numerose braccia inanellate di bianco larvale: si va per di qua. Con altre statue sedute poi retrocedono, man mano che la via precipita indentro, le loro foreste di braccia e gambe nude si confondono, compattano, diventano l’atmosfera stessa, perdono contorni o li espandono ovunque. Se mi volto, vedo ancora il buco che mi sono fatto per entrare, una luce elettrica abbacinante là fuori. Vuol dire che sono ancora troppo lontano. Vado avanti e non mi volto, nel modo che si usa a volte durante un pellegrinaggio per strade selvagge.)


Nuota e cammina, nuota e cammina, in quell’altro buio, alternando i movimenti o mescolandoli tra loro in una singola indistinta processione attraverso una strada dritta, che non si vede. Dal buio si scontornano forme abituate a questa vita. Eco di distante gocciare ininterrotto, simile a un pensiero fisso, genera stalagmiti, solletica nidi di batteri corruschi in cima alle loro punte calcaree, svegliandone la bioluminescenza dormiente: la goccia frangendosi accende per un istante la luce, mostra su una parete viscida le nervose carni color verme nudo di una strana scolopendra gigante che, disturbata nel sonno, si contorce e brulica altrove, cercando fessure conosciute. Altre gocce rotolano dalle escrescenze minerali, convergono in un corso d’acqua ipogeo. Groppe di protei come delfini ricurvi biancheggiano fuori dai flutti. Non c’è tatto che sopravviva a lungo qui, ma un presagio di ruvidità annuncia che un ponte di roccia calcarea passa sopra il torrente. Prima che il visitatore delle profondità possa valicarlo, viene attraversato da una famiglia di orsi neri in fila indiana, che sembrano aver preso forma da manciate di tenebra più densa rispetto a quella circostante. Cosa significate, voi?, sta fermo a chiedersi il malandato girovago di se stesso sull’orlo del ponte, sentendosi commuovere per la vista degli orsetti, della forma tonda e fragile del loro andare ancora fiducioso dietro un’ombra più grande. Che è già sparita, già immersa, nel fondo. Dove si deve procedere, dove fendendo la foschia procede ogni cosa che vive qua.


E allora procede il girovago. Trova infine, in una stanza, una specie di ventricolo stanco. Grigiastro polmone da fumatore, appena distinguibile, fioco chiarore gibboso. In un buco tumorale di quella massa deforme ed elastica accosta le labbra, comincia a gridarci dentro. Forse in questo modo un messaggio, che attraversa tube e forse raggiunge un altrove a esse collegato, verrà recapitato. Dice cose che ha ripetuto già, altre volte. In circostanze simili. Grida dentro all’organo:

(--tutto è uno e uno è tutto. E tu non sei niente e niente è tu e di conseguenza niente è niente ma non per questo non ha un’anima non per questo non puoi passarci accanto e ricordare. E qui nelle tue vene s’intersecano prendendo fuoco e ghiacciando i tremila mondi che fanno big bang in un singolo pensiero. E nei tremila mondi scende una quieta nebbia nera, che unifica, dal pensiero che li ha fatti, che torna a essere un punto. E non sei nulla e nulla sono le cose che hai sentito dietro te, storia umana, e del vostro essere nulla tutti assieme gioite e siete proprio in quanto non siete. Vedi te stesso che capisci questo in una sera d’aria cristallina, seduto attorno al falò con gli altri ominidi. Vedi strane lucciole-libellule di forme mai viste che imperlano l’aria e vi incantano gli occhi nella sera pleistocenica in cui nacque la poesia, e una a una spariscono, assieme alle scintille che saltano dal fuoco, cuore del calore, e descrivendo archi nell’aria glaciale spariscono e diventano fiato, diventano condensa della notte, e ora credete in fate, in stelle che vi guardano, in occhi vostri che hanno sentito prima ancora che visto.--)

Crede di tessere mandala soltanto pronunciando queste formule riciclate da passate preghiere, crede di essere come quei bonzi sporchi di terra che sotto il primo Shogun camminavano scalzi. Sa di non esserlo. Sa di non farlo. Lo fa comunque. Non esisti. Sei in un mare. Visualizza il tuo affanno: vola, rettile, sfodera le tue ali di pelle: e vedi dall’alto quella tua minuta ansia biancheggiare appena fino a farsi indistinta e irrilevante, in un mare di fosforescenti angosce che ricoprono il mondo, che bruciano, e spariscono, e vengono sostituite… e vola ancora più in alto: vedile indistinte, tutte: vedi una matassa senz’occhi. Vedi tutto diventare fiato, incamerato in un istante di respiro, esalato da qualcosa, un gigante dal collo lungo, titano lucertola del cosmo. Dormi qui dentro.


E la mano del gigante, di un altro che sta sdraiato sul suolo dei colli e della pianura, lo tocca ancora. In quella parte del piede che ancora poggia a terra.

Apre gli occhi. Cerca di crederli sereni, uguali beneficiari del respiro ora regolato. Regolato appena. È ancora sottoterra. Nel treno, nella serpe che striscia dentro al gigante sdraiato.


Sono quasi le otto di sera

8

e nella skyline che non si vede, spiragli sottili dalle froge di vetro dei palazzi emanano sentori di cene in ebollizione. Forse soltanto immaginati. Forse sono tutti identici questi camminatori, infreddoliti sotto le luminarie delle vacanze invernali. Tutti credono di ricordare un’ora di stufati e zuppe che intridono l’aria volgendosi in vapori dalle finestre, senza esserci mai davvero passati accanto, e tutti gridano di ricordare quell’ora placida e di amarla, lo ripetono per rassicurarsi dentro un cuore grigio che stanno consultando e che poi ripongono nello stesso antro profondo dopo averlo usato, un organo che esiste solo per urlarsi dentro, protezione, quiete.


.


Il Rettile, la sua matrice di squame, sporge una zampa di lunghe dita e artigli minacciosi, quasi leonina. Fa come a vedersi il polso, leggendovi sulle ossa e i muscoli robusti un segno.


-è il momento che scenda.


Il girovago annuisce appena. Una bocca e occhio di rettile s’accordano per sorridergli.


Uscita lato destro.


La linea apparentemente così ostinata che cuce tra loro le porte a vetri di colpo si disserra, stantuffando sonoramente aria stanca; fa entrare un altro refolo, stantio di stazione che incamera caldo e freddo e pisciate e trapestio ossessivo: si apre oltre la soglia una banchina bruna, una linea gialla squamata da non superare, ancora i cartelloni, ancora i viandanti. L’animale si gira intero verso quell’apertura. Strisciate viscide, poi secche e sabbiose, poi ticchettanti di scaglie, s’accordano tutte, volontà univoca. Il girovago non legge il nome della fermata. Non lo riguarda il posto in cui un rettile scende, a sbrigare le sue faccende. Una singola coda si vede ora più netta che mai, trascinata dietro il corpaccione. Lunga muscolosa verde. Sormontata da merlature a sangue freddo. Strattona a destra e manca accompagnando il movimento del corpo intero e multiforme che si appresta a lasciare la tana temporanea del treno, ingombrandone l’uscita. La coda spinosa saluta, occupando tutto il loculo delle porte aperte e ansiose di ricongiungersi.

Si sente ragliare il solito uomo brizzolato di queste occasioni, “fate scenne prima l’altri”, e gli ansiosi di salire aspettano effettivamente che il rettile a loro invisibile finisca di far uscire le sue parti più ingombranti. E mentre ombre di nuovi passeggeri poco a poco entrano accalcandosi negli spazi ai lati della coda, la punta di questa scivola infine oltre l’abisso filiforme sospeso tra il treno e la banchina, un istante prima che le porte si tocchino, di nuovo serrandosi come prima. E il rettile diventa solo un’altra tra le macchie opache che si distanziano nel mondo che sta dall’altra parte dei vetri, da lasciarsi dietro, soltanto un’altra macchia che passa i tornelli e sale le scale per spuntare tra una piazza e un parco e una rotatoria sferzata dal vento invernale.


Otto passate, fermata di ******: una creatura strana tocca la pavimentazione di una banchina e, superato un tornello, comincia a sciogliersi. Dove c’era una sola schiena ora ci sono tante lucertole, infinite piccole lucertole che si sparpagliano migrando verso chissà quale meta, passano indisturbate tra le scarpe dei romani orchestrando un fruscio umidiccio. Un allarme binario annuncia che le porte, aperte forzatamente dai ritardatari, si devono richiudere definitivamente.


Si riparte. Un frastuono si leva ovunque, da angoli e strutture e meccanismi e altoparlanti e ossa e nevralgie del treno, che pare sul punto di crollare a ogni suo risveglio, che pare guadagnare cent’anni a ogni viaggio, mantenendo però inalterata l’età, per la capacità di cambiar pelle, e di rivestirsi di un’altra esattamente identica, stessi graffi stessi graffiti. Un altro stantuffare sofferto che echeggia nella galleria, e tutto si muove. Ombre fameliche assiepano gli angoli dei finestrini in corsa e cancellano le luci della fermata, e il rettile, e quelli che sono scesi. Si vede là fuori solo un muro nero di galleria, occhi di ratto scintillanti ovunque come gemme di miniera. E il girovago cala ancora per un po’ le palpebre sentendo annunciare la sua fermata, la prossima.



Vigila sempre.


Nella strada coi marciapiedi ghiacciati riconosce le orme, già passato di qua, in un altro tempo, e sentiva le cose uguali, ascoltando cose uguali: lo scroscio di ruote su una tangenziale lontana, una canzone natalizia frammista alle luci fuoriuscenti da una porta che si affaccia per strada invitando a bere e appartarsi e poi andarsene, gli scricchiolii e gli ansiti di qualcosa. Un fruscio di animale ramingo, tra marciapiede e siepi smorte. La via è lunga e dritta, nemmeno lui ci si può perdere. La stessa percorsa in occasioni simili, sceso dalla stessa metro. Possibile che i pensieri nel frattempo non siano mutati affatto? Era vero quanto vide allora, quella sensazione di ripetere ciclicamente tutto quanto, la stessa cosa, e di incontrare di luogo in luogo gli stessi fantasmi, di sé o di altri o chissà che altro?


A volte pensa a quella sensazione, quella in particolare, che non sa mettere in parole né finire di sondare con salda volontà, se non ammutolendola e mutandola in palliativi, nelle canzoni della sua testa che sa ritrovare nascoste nell’aria d’inverno -sono, anche quelle, note ripetute, già udite in questi luoghi, e stanno qua, inseparabili dai posti che stanno scritti in loro. Ma la sensazione sa trapassare le musiche. Neanche sostituendole con musiche che concretamente provocano spostamenti d’aria, uscendo da auricolari: a nulla vale lo sforzo di evitare di ascoltare quanto si ascoltò nello stesso posto alla stessa ora in un altro anno, per una scettica scaramanzia di ritornare sì sui propri cicli, ma incontrando chissà che animale diverso. Sì, la “sensazione” rimane, e a volte, pensando a quella e al modo in cui tutto si riavvolge, facendolo camminare sugli stessi marciapiedi della landa che trapassa le coste del suo girovagare, si mette a tremare. E non sa perché, e non sa dove altro si cammina.


Ma la notte che si avvicina è bella. Il ghiaccio, su quel marciapiede, non c’è davvero. Ma lo sente. È sempre, quando la luce e l’atmosfera sono così, sul cemento e sui bordi delle aiuole malcurate ai piedi dei condomini, sempre nel fango brutto attorno ai tombini, sotto le labbra artiche delle transenne ingombrate da annunci pubblicitari. E sotto ogni passo qualcosa scricchiola, come avesse nevicato dentro le particelle cristalline dell’aria, e non per terra -qui non attecchisce.


Supera filari di alberi noti, alcuni morti, altri d’aspetto immortale, statuario. Le finestre uguali a quelle in cui ha immaginato di vivere, intruso incorporeo di case altrui. Affacciarsi su questa via ogni mattina. Sentire campane, riconosciute, suono quotidiano. Foliage giallo cucito ai giorni, indistricabile dal loro ritorno. Muso di tram scivola mansueto nel territorio suo, lo lascia, ritorna. Rondinelle sotto i cornicioni, svegliate dalla messa.


Ma ora tutto questo dorme. Si muovono soltanto le cose ferme ai lati, le insegne e i citofoni che non ricorda né sarebbe in grado di ricordare e collocare mai, neanche percorrendo questa via ogni giorno. Neanche, appunto, abitando per sempre qui, in questa zona, e nell’impressione vitrea in cui intera si tramuta, facendosi tessera rappresentativa dei suoi inverni di cammino. Neanche prendendo dimora stabile in una placida fantasia passeggera, in una circostanza specifica, una tappa solitaria della marcia senza conclusione.


Si ferma, esita, vicino ad altri citofoni che ha sfiorato, senza ricordare forma, colore, odore. Allaccia le scarpe o fa un’altra cosa sciocca di queste, appoggiandosi a una di quelle transenne con gli immaginari dentelli gelati come ghiaccioli all’entrata di una grotta. Nel corpo tubolare della transenna, simile ad alluminio e ghiaccio, sa specchiarsi, mandare fiato bianco su quel muso di riflesso deformato. Ghiaccio o alluminio? Compaiono clan di ominidi, impellicciati in difesa dal gelo, che in questa via correvano cercando caverne in cui accendere fuochi: corrono i loro spettri accanto al suo orecchio, superano gli alberi e le auto parcheggiate, dietro alle tracce di un rinoceronte lanoso scappato in fondo a quell’istante del tempo in cui tutto, qui, era bianco. E bianco è il loro fiato, uguale a quello che lui manda ora.

Tutto sparisce, ricompare un’altra scena, presente, silenziosa: la traversa che deve imboccare sta là immobile com’era, scura senza lampioni, la faccia di una chiesa vecchia sorvegliata ai lati da tronchi guardiani, corteccia rugosa; e fili, ancora, fili di tram, ancora, mezzi congelati anche loro, sicuramente. Gira nella direzione opposta, attraversa la strada dall’altra parte, tergiversa. Palle di fiato balzellano, separandosi dallo spazio antistante le labbra, continuano a muoversi libere dopo averle abbandonate, i loro branchi si inseguono e spariscono, fluttuano nel vuoto nero che accerchia gli spazi tra le fronde degli arbusti urbani e le superfici lucide del benzinaio chiuso, parrebbe, da decenni. Più lontano ancora, in uno spazio visibile in mezzo ai condomini, un campo nero, lumi fiochi nella sua terra blunera -quasi stesse guardando dalla periferia di un’altra città a lui nota le luci notturne dei colli addormentati. Forse solo gocce di umidità, o lucciole morte in un altro inverno. Non giunge qua nessun suono di festività, dalle strade adiacenti, dal traffico pazzo che s’incontrerebbe percorrendo una breve distanza -l’atmosfera è densa, fa muro, fa valanghe. E per un attimo la quiete è senza limiti, un liquido che inonda il visibile fino a dove cade il cielo. Anche se cammina da tanto, stranamente dimentica spesso che una cosa così grande -che sia una metropoli, o un mucchio di colline bianche infestate da spettri e megafauna-, un gigante molteplice, non può star sveglio per intero: ci deve essere sempre una sua parte che dorme. Dandosi dello stupido si fa un appunto, s’impone un’altra legge, come ha già fatto invano: di non dimenticarsi, di scavare un’altra via di fuga, quando serve, anche se non è il tempo imposto; se occorre, anche chiedendo in prestito artigli, per aprirsi un varco, attraverso il quale giungere a questo momento. O aprirne un altro in petto, ed entrarci, e reimparare la respirazione, fino a che serve.


Sa già che ritornando qui, ogni volta, sentirà lo stesso affanno dolce e flebile, quasi rimpianto, perché sempre tornerà a desiderare di fermarsi in questo o in un altro momento, in un’altra sosta di identica, brinosa quiete, e che il momento della sosta dovrà terminare, ancora e sempre, lasciandolo a dover ripercorrere tutto, di un anno, di una vita, prima di ritornare nel riposo, nel cammino solitario tra le due coste di ghiaccio. Aguzza la vista lontano: vede, a una finestrella o bocca di caverna, un lampo arancione, un fuoco acceso per scaldare dentro le pareti, dove fermarsi per un po’ con la faccia rivolta all’albero natalizio e alle pitture rupestri, e ascoltare voci che cantano delle scene lì descritte, ognuno del modo in cui le vede, senza timore che si facciano ostili e assalgano, anche se, sicuramente, succederà che… no. Non pensare a questo.


(perché sei ancora fuori, ancora per strada. E ora c’è solo questo. E ci sarà solo questo anche in quell’altra ora. E un girovago se ne va sempre, dalle ore sue e dai loro spazi, dalle loro zone.)


Attraversa la strada.


Affonda nella tasca la spirale dormiente degli auricolari, qui s’impicciano tra loro. Passando, distrattamente scorge un muro che allinea con la sua protezione alcune case, e la rete verde di un campo da calcetto dall’altra parte. Due scheletrici balconcini attaccati s’affacciano da un primo piano quasi ostacolando le tozze cime degli arbusti del piano terra: alle sbarre di uno stanno abbarbicate lucine natalizie accese, l’altro è decorato da un rovo di luci ormai fulminate.

 

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