luna in volpe
- Milky
- 24 nov 2021
- Tempo di lettura: 32 min
Giunto in quel posto, non dovette girare molto tra le conformazioni rocciose e calcaree prima di vedere all’orizzonte l’alta figura di un uomo intenta a certi suoi marchingegni. Allora si ricordò che gliene avevano parlato, doveva essere lui, quel tizio di cui dicevano. Procedette con circospezione, spronandosi con decisione a ignorare le eccessive raccomandazioni di cautela che gli erano state fatte, quel mucchio di superstizioni. Se non ci aveva pensato fino a quel momento doveva esserci un motivo. Nel suo tortuoso percorso aveva dovuto superare ostacoli incredibili, che l’avevano fatto tremare, trovandosi di fronte alla grandezza di qualcosa che si sarebbe potuto mutare nel corso degli anni in una leggenda, da collocare al fianco delle altre di cui si era nutrito e che per secoli avevano stregato le menti del suo popolo. Sentiva che quella vertigine di trovarsi in una leggenda sarebbe stata la cosa più memorabile e importante di quel viaggio, se fosse riuscito a concluderlo, a ritornare, sfinito ma vittorioso. Mancava poco: basta valicare, secondo le indicazioni, quell’ultimo strano paesaggio, passando sopra le gallerie sotterranee. Una volta trascinati i piedi su quel suolo duro e scivoloso, rorido sotto la luna come il fondale di una bacinella sacra, sarebbe scivolato giù per un fianco scosceso, lasciandosi alle spalle le fiabesche architetture naturali e i cunicoli profondi nascosti dietro quel sottile, ma impenetrabile, guscio esterno di materia minerale plasmata variamente. Lì avrebbe trovato bassi arbusti ed erbe alte, alberi solitari sul ciglio di un greto vuoto. Si diceva che l’antico spirito dell’acqua scomparsa si fosse trasferito all’ambiente circostante, conferendo alla vegetazione e i cumuli di terra un’umidità intensa, lì dove si respirava la quiete millenaria propria di un buio e placido alveo. Ma forse lo si diceva soltanto perché la presenza dell’acqua doveva essere sempre necessaria affinché gli oggetti rari conservassero il loro potere, ed era in cerca di un materiale portentoso che egli era stato mandato in missione.
Era stanco, era furibondo, di quella furia serena che può appartenere solo agli eroi -non che pensasse a se stesso già in quel modo, ma credeva nell’importanza del suo compito e nello sforzo che lo aveva condotto sino a quel punto, e che ancora lo avrebbe portato avanti, e di nuovo indietro, ripercorrendo le valli attraversate con rinnovata saggezza nell’occhio e il portamento; nelle vecchie storie nulla accadeva al ritorno: gli eroi terminavano l’impresa, e c’era un balzo, erano subito a casa, oppure non la terminavano e non tornavano mai più. Non c’erano ritorni tortuosi da raccontare presso quel popolo, perché superate tutte le prove, scomparivano anche le insidie, si scansavano briganti e fiere e mostri vedendo passare quegli individui d’andatura calma e ferma senza eguali, la statura inamovibile bastante ad ammutolire la terra e il cielo. Questo almeno era il modo in cui si spiegava quelle vicende. Un uomo poteva diventare solo due tipi di avventuriero una volta presa la via: quello che vince e quello che, dimenticando la sua terra, se stesso e venendo dimenticato, cede a qualche male ignoto nascosto in terre lontane, viene imprigionato, non ritorna mai più, annientato da forze oscure. A quale tipo sarebbe appartenuto? La forza che sentiva acquisire, la durezza progressiva dello sguardo e i tratti del suo volto, quasi mutato in statua quando lo vedeva specchiarsi nell’abbeveraggio, erano elementi che gli suggerivano di abbandonare ogni ansia. Otteneva esperienza vincendo il dubbio e le ipotesi peggiori che potevano moltiplicarsi di fronte ai pericoli, pur rimanendo abbastanza lucido da comprendere quando una certa cautela fosse necessaria a salvargli la vita. Gli sarebbe bastato, in quel penultimo territorio così vicino all’anelata polvere di gemma, affrontare tutto ciò che era possibile mantenendo lo stesso sguardo, espellendo il timore. Non staccava la mano dall’elsa del coltello ormai da giorni. Il sudore del palmo e il legno casalingo, intagliato in infanzia, combaciavano fondendosi in un’unica essenza, un organo motore in fondo alle bracciate avanzate in corsa o arrampicata per le lande selvagge o desolate, senza confini. Le costellazioni e la luna non rivelavano ombre minacciose su quell’orizzonte. C’era solo un uomo strano, c’erano sagome forse un po’ sinistre, ma non erano che inerme e fredda roccia, che sembrava antica come i pianeti, e insieme incantevole come una melodia misteriosa, da non versare in eccesso nelle orecchie: l’anima può perdersi in certi labirinti.
Una materia solida cristallizzata in colate che sembrano ancora vive, una sovrapposizione di gocce ora lisce ora frastagliate: così erano quelle colonne, basse arcate, stalagmiti che si ergevano dalle irregolarità del suolo. Il ragazzo partito in cerca della polvere si accorse che non era così facile correre mantenendo la stessa velocità, da quelle parti: il terreno si incurvava impercettibilmente, facendogli provare l’inequivocabile sforzo della salita anche su quei cigli, simili a gusci capovolti, che apparivano dolci e tranquillamente percorribili. Affannandosi, sporgeva di tanto in tanto la mano libera ad afferrare un appiglio di quelle conformazioni, qua e là un bulbo prodotto dalla pietrificazione di una goccia d’acqua sorgiva o sotterranea. Nel tempo d’un respiro il ragazzo, intenzionato a non sprecarsi in riposi eccessivi, si fermò di fianco a uno stalagmite e si sfregò le dita le une contro le altre. Pareva quasi di poter sentire in quello strato evanescente di polvere tra i polpastrelli la stessa sporcizia che aveva informato quelle acque calcaree, il pulviscolo antico come la terra e che non cessava mai di scorrere. Doveva essere stata un’inimmaginabile attività delle acque e dei minerali ad aver scolpito quella regione per come era.
Sferzando sulla liscezza di quelle caverne senza entrata, quei cunicoli per sempre ricoperti da un carapace incantevole come cristalli, il vento aveva infine trascinato fin nella pianura che si stagliava dall’altra parte quella polvere magica. Anch’essa era stata un tempo una gemma, una roccia riflettente la luce che raccoglieva energia ormai dissipata per gli angoli della terra. E l’intero suo popolo, per mezzo della sua mano, ne avrebbe preso possesso. Sarebbero diventati dei guaritori, avrebbero generato energia. Non poteva perdere altro tempo, doveva precipitarsi, perché tutto ciò era necessario. Più rapido ancora del vento, sollevando altra polvere, scattò verso il punto più visibilmente rialzato, sapendo di doversi ancora sforzare. Quella salita quasi invisibile sembrava più faticosa delle scalate degli impervi picchi del passato, più aspra delle barriere montuose dove aveva incontrato il ghiaccio, gli artigli di rapaci impazziti, le lacerazioni della dolomite. Lì non c’era niente di tutto questo: solo una notte simile a un sogno, piena di un attrito inspiegabile. Era un luogo strano ed era noto per questo, ma era una meraviglia geologica, una geometria figlia della terra, così che gli occhi di chi raccontasse d’averla vista sempre luccicavano con la limpidezza dell’acqua di una cascata che sgorga echeggiando tra pareti di una galleria profonda.
Passò accanto a quell’uomo che chiamavano Q., anzi, per meglio dire gli passò davanti, ostruendo la vista a quel suo marchingegno su cui si chinava insistentemente, sembrando impiegare una mostruosa concentrazione soltanto per rimaner rannicchiato e nervosamente risollevarsi in cerca di qualche altro strumento, che poi subito applicava e manipolava e staccava da una specie di tubo; oppure, indossava buffi strumenti ottici che forse appartenevano a quella specie chiamata “occhiali”. Sbuffò seccato, gli disse di scansarsi. La voce rauca faceva pensare alla dentatura aguzza di un pesce.
-sei tu l’uomo che chiamano Q.?-, chiese Lwi, il ragazzo partito da un lontano villaggio. Nel porre la domanda scacciò, quasi consumando nello sforzo una parte di quello stesso atteggiamento con cui allontanava le paure, anche le voci che si era portato da laggiù. Secondo queste non avrebbe dovuto interpellare quell’individuo, le cui stranezze o perfino malefatte erano giunte in tutti i distanti luoghi dell’orizzonte dove era nota l’esistenza di quella misteriosa landa dove aveva preso rifugio.
-e scansati, maledizione! Scansati, oppure resta.
“oppure resta”, gli aveva subito detto. Aveva sentito dire qualcosa del genere. Lwi non poteva certo obbedire a quell’individuo, eppure, forse non rendendosene conto, nemmeno stava proseguendo: la scarpata era lì a poche centinaia di metri, bastava un’ultima surreale salita di quelle, e poi sarebbe arrivato in scivolata a sentir l’odore pregno di fresco terriccio levarsi dal greto, di sopra ai giunchi; e invece, suo malgrado si era fermato, aveva posto una domanda. Osservava ora quell’uomo, studiava gli aggeggi che teneva sparpagliati attorno, come fosse la postazione fissa di una vedetta. Non aveva mai visto nessuno di quegli oggetti dalle sue parti, ma poteva immaginare di che tipo di cose si trattasse.
-cosa fai quaggiù? Che cosa c’è di tanto importante?
-rilassati, non me ne importa niente della vostra polvere magica. Puoi andare a prendertela e sparire per sempre con essa, per quanto mi riguarda.
-tu conosci la polvere?
-sei sordo? Ti ho detto che non me ne importa niente.
Lwi si sentì infastidito dall’atteggiamento dell’uomo chiamato Q., che sembrava arrogante al punto da voler sempre anticipare ciò che l’altro avrebbe detto, quando ancora la formulazione del pensiero non si era compiuta. Cominciava a rivalutare le maldicenze venute fuori quando prima della partenza in tanti lo avevano avvisato, dicendo di ignorare un uomo di aspetto minaccioso che perlopiù se ne stava a contemplare il cielo tra le rocce.
Portava i “pantaloni”, come quelli degli uomini precedenti alle antiche guerre, o come quelli indossati dalle genti delle città oltre il mare che una volta erano giunte a commerciare al villaggio. Chissà se ancora vivevano, di là dalle onde, sulle isole irraggiungibili. Non si poteva andare a vedere, perché nessun altro oltre a loro sapeva governare le navi. Forse erano ormai tutti scomparsi, ma quel Q., era forse uno di loro? Tutto nel suo aspetto ripeteva la stessa impressione trasmessa da quegli stessi pantaloni lunghi, neri, sottili. Smilzo e alto come l’ingresso di una casa, il suo manto sotto le galassie silenziose assumeva la stessa tinta blu profonda, e sopra, come nei raggi di un astro, la testa spigolosa si circondava d’una barba lunga e frastagliata, unita dalle lunghe basette a una chioma che si sarebbe piuttosto detta una criniera scura e lasciata crescere come un organismo indipendente. Nonostante ciò non c’era trasandatezza nel suo portamento, e si levava come un profumo la curiosa impressione che non fosse capace di emettere odore alcuno, nemmeno mancando di lavarsi per decenni (forse perché a depurarlo era quella gelida luce lunare).Da quando l’aveva veduto nella distanza, a quando infine gli si era accostato interpellandolo, Lwi non aveva notato nell’uomo mutamento alcuno, o un cenno che gli facesse intuire le reazioni alla presenza di un forestiero; semmai, soltanto una cupa ombra -ma poteva trattarsi di una esagerata suggestione, indegna di uno come lui- gli si era accentuata sulla fronte, come si generasse nella mente lì dietro nascosta e stillasse poi dalle pieghe sempre aggrottate in grevi meditazioni.
Lwi sollevò il capo e inspirò forte. Un soffio gli sollevò le narici assetate dalla lunga marcia nella polvere e i pollini di terre straniere. La brezza portava l’odore della piana, degli steli spinosi stormenti in file ondose, di quell’umidità che attendeva paziente sempre in uno stesso luogo. Ci sarebbe andato presto. Prima intendeva chiedere altro, capire chi fosse. Diceva a se stesso che fosse un suo dovere: quello era stato soltanto il suo primo viaggio, ma era un’impresa d’importanza vitale, e sentiva di aver vissuto attraverso essa le mille altre imprese passate e future, dunque affermava con certezza che in molte di queste, proprio in prossimità di un oggetto promesso, attendeva un custode. Poteva trattarsi di una bestia guardiana, di un dispensatore di enigmi, di entrambe le cose. O ancora, di un’ultima sfuriata del paesaggio, una frana inviata in compensazione d’un lungo letargo degli elementi, la calma che aveva permesso all’eroe di raggiungere quel punto. L’uomo chiamato Q. poteva essere tutto questo, o altrimenti era un individuo di presenza sinistra, in quel luogo, casualmente proprio dove c’era la polvere cui diceva di non essere interessato…
“c’è qualcosa di pericoloso in lui, tipo guardare in faccia una bestia selvatica appena sveglia e di cattivo umore… beh, è difficile da spiegare. Ma se lo vedi te ne accorgi. Anzi, meglio se non lo guardi proprio.”-Lwi rammentava frammenti, forse li riassemblava un po’ a modo suo, da lungo lontano e poco a poco dimentico delle qualità appartenenti a quelle voci. Ricordava solo che c’era chi si mangiava le sillabe, c’era chi sembrava serbare braci sopite nella voce roca, c’erano singulti nell’ansia implicita delle voci contadine. C’era chi si manteneva vago, e chi aggiungeva dettagli, tanto più contraddittori a ogni aggiunta. Ricorreva però spesso una voce tra le varie ansiose di avvisarlo su quel possibile incontro, “è capace di convincerti di qualsiasi cosa”. Poteva essere una dote, fece notare con giovialità quando era lì a raccattare gli strumenti utili nella bisaccia di montone, e da destra e sinistra provenivano i saluti, gli avvertimenti, i pianti speranzosi. Non che volesse mettersi a discutere in un momento del genere -forse voleva solo scherzare. Ma quelli lo presero sul serio, era stato il fabbro forse? Ricordava gli attrezzi appoggiati sulle panche e le striature nere sulle mani che giravano concitate. Chiunque fosse, aveva detto che non poteva paragonarsi certo, quella sua diabolica parlantina, alla dote della parola che lucidava il carisma di un capo come un miracoloso unguento. Non si trattava della comunicativa di un grand’uomo, ma di un mero sfoggio di bugie velenose atto al solo gusto di capovolgere la terra su cui uno mette i piedi, e mettere il cielo a soqquadro. Un tipo del genere era particolarmente fastidioso per un fabbro, o chiunque trasformasse gli schietti e saldi elementi estratti dal suolo in utensili e altri prodotti. Tanto per lasciarsi andare alla conversazione, mostrando che ci teneva all’affetto di chi rimaneva al villaggio, Lwi commentò che non riusciva proprio a immaginare cosa ci fosse di tanto pericoloso in quello che altro non era che il carattere di una persona, non certo un potere stregonesco. In quel momento era comparsa una donna vecchissima. La conosceva a malapena, se ne stava sempre rintanata in una capanna intrisa di pioggia sulla riva del ruscello, apparentemente a non fare altro che invecchiare spaventosamente ogni secondo. La sua trasformazione sembrava essersi fatta più inesorabile da quando il ruscello aveva cessato di scorrere, e chi l’aveva scorta, in forma d’ombra rattrappita nel buio di là dalle finestre, aveva creduto di vedere una morta. Eppure era là per la sua partenza, e udita la perplessità, fece un buffo segno che non aveva mai visto, toccandosi fronte e petto, spalle e bocca. Disse: “se ti porta con lui, tu non puoi portare più niente.” -una frase criptica, come si addiceva a quella vecchia elusiva, che sembrava averle sbrindellato l’ultimo fragilissimo lembo di voce pronunciabile. Lwi rassicurò bonario che dopo un cammino tanto lungo, riportare un po’ di polvere sarebbe stato uno scherzo, al che la vecchia, riacquisendo una forza sepolta chissà dove in chissà quale rachitico e polveroso ricordo immagazzinato tra le sporgenze delle rughe, gli diede tre manate ritmiche al petto. La bocca seghettata da numerose pieghe era retratta e gli occhi iniettati di sangue saettavano penetrantemente una sorta di strana deferenza. Doveva esserci, in quelle tre manate, tutta l’importanza delle questioni più umane, che si protraggono immutabili fino a quella tarda indicibile età (poveretta…). Comunque, di quelli che avevano accennato a quest’uomo, altri avevano detto che fosse un avaro, uno che avvelenava le donne, uno che era scappato da un altro villaggio dopo aver condotto per anni una vita rissosa… altri, che non entravano nella conversazione, limitandosi a lanciare a Lwi cenni silenziosi o saluti formali, smentivano una a una quelle dicerie. C’era chi si concentrava più sull’aspetto del paesaggio, sinistro e ingannevole nella sua ineffabile bellezza, particolarmente durante la notte -il precettore del tempietto, che se ne stava sempre a controllare gli oracoli, si diceva convinto che comunque si fosse messo il destino, sarebbe arrivato dopo il calar delle tenebre, e non si era sbagliato. Ma in tutto ciò c’era stato ancora qualcuno che aveva trovato necessario chiosare: “Q. è pazzo. Anzi, è un vero stronzo.”
Lwi non ricordava più nemmeno il tramonto, nemmeno il giorno che mutava la sua luce mentre le pianure si addormentavano e risvegliavano, mentre scalciava come un cavallo impazzito per le praterie. Non ricordava di aver visto una variazione nell’aria: ciò che rimaneva, come unico ricordo, ritornando con la mente al suo sforzo per arrivare laggiù, era soltanto una polvere cieca. Sgretolati granelli che si ammassavano agli angoli degli occhi non protetti, che avevano cessato di sbattere le palpebre. Accoglievano il vento e i detriti senza resistenza, senza avvedersene. Similmente ai buoi spronati da ciò che lascia segni sulla loro carne, anche Lwi era convinto che ricoprirsi di numerose impercettibili ferite su tutto il corpo contribuisse alla forza in cui sperava, quella che avrebbe scelto ancora di consumare in infinite altre battaglie che lo separassero da un giusto finale. Era una forza sacra e sacro era il suo accumularsi: se adesso si stirava e chinava sulla gamba, raccogliendo perfino un po’ d’acqua glaciale da una bassissima conchetta sotto i suoi piedi, non era per medicare la ferita, ma per compiere un rito. L’apertura rossoscura, quasi nera, rivelava un intrico di vene violacee al cui centro, dove una striscia di carne era stata logorata, si estendeva una macchia sporca, ogni giorno più grossa. Perfino Q., indifferente a tutto meno che al cielo e i suoi aggeggi per osservarlo, dovette cogliere l’aura di quel marchio, lancinante anche solo a vedersi, perché vi diresse una rapida occhiata. “Mph!”, fece, come vi leggesse uno schifo senza pari, non nel ribrezzo tipicamente evocato dalle deturpazioni del corpo, ma in qualcosa che questo implicava; dopodiché, senza commenti, si limitò ad agitare una mano, come a dire che se proprio doveva mettere in mostra quell’obbrobrio, almeno si allontanasse per sempre dalla sua postazione. Lo spazio era così vasto da assomigliare a un cielo in cui fluttuasse solo qualche frammento di meteorite, cioè, le numerose colonne calcaree sulle quali si sarebbe potuto accasciare, e raccogliere dai solchi alle basi i resti limpidi e pungenti di lunghe piogge invernali. Ma Lwi lasciava che la sua ombra, disegnata diafana nel pallore lunare, si incrociasse all’ombra lì autoctona e alla figura che la proiettava.
-mi disturbi le stelle! Me le scacci via, ma insomma, che vuoi?
-ma che dici? Le stelle non si muovono.
-mph! Lo dice un ragazzino ignorante come te.
-lo dicono tutti, dai saggi fino ai più stupidi. Lo dice il cielo.
-non sai niente del cielo.
Lwi lasciò cadere le gocce dalle dita alla cancrena palpitante. Rispose mandando fitte brucianti al tocco del fluido medicamentoso, comune pioggia, raccolta forse in un altro mondo. I grumi di sabbia e invisibili organismi lì rintanati si dissolsero, il gelo incontrava nella carne il bruciore. Lo scorrere dell’acqua sulla pelle ricordava a Lwi il tempio.
Alla luce delle torce, molti giorni prima della partenza già quasi certa, aveva ricevuto in quel clima d’emergenza tutta la sapienza che rimaneva presso di loro, di quella necessaria per sfuggire alla pestilenza. Si pensava che quelle pietre crescessero spontaneamente nelle terre più lontane, e che un’altra guerra era nata in quelle isole dove ancora sopravvivevano, come leggendari paradisi, le grandi città. Ma c’erano state alcune pietre anche sul continente natio, nelle montagne prima della costa, nelle grandi conche dove un tempo erano stati i laghi. Oppure, alcune di queste erano state trasportate da quei popoli ingegnosi che avevano migliorato il commercio e ricostruito le strade. Era un’energia, quella contenuta nelle gemme verdi, capace di rimettere in moto il ruscello inspiegabilmente arrestato. Non sapevano come adoperarla, ma ne avrebbe raccolta molta, di quella finissima polvere rifluente in rari giacimenti, un granello della quale bastava, secondo gli anziani che in un tempo lontano l’avevano vista esplodere, a sprigionare onde sismiche; e allora l’avrebbero bruciata in pire, poi l’avrebbero scagliata verso il basso fondale, l’avrebbero disciolta nell’acqua per renderla di nuovo potabile, avrebbero tentato tutte le formule note ai loro sacramenti finché quel rigagnolo, congelato ma senza ghiaccio, immobile ma non ristagnante, non fosse ricomparso per come era sempre stato, e il mulino non avesse ripreso il suo monotono sussultare legnoso. Se non si muovevano le acque, il vento gravido di veleno aumentava la rapidità delle sferzate, picchiava contro i legni delle porte minacciando anche le case più sicure della gente dura, determinata a vivere. E se si provava a bere quell’acqua o a spargersela addosso, compariva una nuova malattia, diversa ancora da quella soffiata nel giorno oscuro: una nausea senza rigetto, una costipazione d’aria inesistente, un’immobilità del corpo e degli intenti che producevano stasi fin nelle grame espressioni del volto; e la pelle assumeva il colore livido della pervinca. Tutti ricordavano il dolore straziante, lanciato per settimane dalle gole ormai spente di un uomo e una donna, illusi di destare la figlia sempre più appassita nel letto, lei che aveva bevuto del rivo immobile. Soltanto a Lwi era concesso nella sconfinata lontananza da casa di dimenticare il suono, l’ineguagliato singulto di quella morte, perché era l’unico a cui fosse concesso di allontanarsi dal villaggio del vecchio ruscello e non per questo esser cancellato; perché era giovane e coraggioso, perché lui se ne sarebbe andato soltanto per poter un giorno ritornare stringendo in mano una sacca piena del pulviscolo di quelle miracolose gemme. Lwi, però, aveva dimenticato anche il giorno e la notte, non ricordava che la furia degli ultimi giorni, finché la notte gli si era stagliata davanti imbevendo di candida rugiada cosmica quel vasto suolo carsico, di spelonche senza tetto, echeggiante di tintinni cristallini. L’oracolo si era così rivelato infallibile perché soltanto la notte poteva esistere là, aveva pensato in un fuggevole momento di calma. Cucita sul paesaggio da un antico sogno.
La luna imperlava ogni rivolo facendo luccicare sereni i più intricati disegni sulle conformazioni, conferendo alla bruna tinta di crepuscolo della mineralità circostante un fulgore adamantino. Sul filo della gobba di quello che poteva chiamarsi una specie di colle schiacciato, con la pendenza nascosta in un’illusione ottica, avvenivano invisibili danze di spiriti di caverna, festanti in omaggio agli infiniti pallori che rischiaravano la volta simili a lacrime.
Lwi non era mai stato in un posto che facesse risaltare così tanto la bellezza del cielo, tanto da sembrare appartenente allo stesso elemento. Aveva passato moltissime notti solitarie immerse nel sublime della natura selvaggia, dove chiunque avrebbe potuto avvertire la propria piccolezza in rapporto alle titaniche catene montuose, gli altipiani più estesi del mare della cui vastità favoleggiano quelli che l’hanno visto. E sapeva anche che in quella piccolezza ci si poteva sentire grandi: da soli si aveva la sensazione di diventare la terra, pullulante di tenebre oppure regale nel rifulgere dei raggi solari precipitati al suolo, e serbando tale convinzione nel proprio petto si poteva credere di esser protagonisti in una storia chiamata destino. Chi aveva la possibilità di diventare un eroe, e recuperare un oggetto che sarebbe presto diventato parte della propria stessa esistenza quasi quanto un nome, non esitava certo a chiamare in quel modo, “destino”, il mero allineamento delle proprie esperienze ed eventi assistiti. Forse a Lwi questo non era noto, ma era necessaria una certa incoscienza in quelli che venivano incaricati dalla collettività di incarnare le loro speranze, il sopito ma unanime desiderio di schiacciare con legittimata violenza tutto il brutto del reale che nel sogno si mutava in calamità divine, demoni, grifoni, draghi, orchi (malattie, ingiustizie, degenerazione…); e anzi, proprio perché qualcuno aveva scorto in lui quella caratteristica, gli avevano concesso di partire sapendo che, nemmeno di fronte all’infinità della natura e il cosmo, egli avrebbe mai dimenticato se stesso. Grazie a questo non avrebbe mai creduto che la missione fosse futile, ed erano stati proprio fortunati ad avere tra di loro un giovane in salute, non contagiato dal nuovo morbo, fatto in quel modo -in precedenti simili catastrofi, gli antenati non avevano avuto la stessa fortuna, inviando a sparire oltre la linea di orizzonte personaggi mai più ricomparsi. Questi erano stati più suscettibili alla bellezza dell’abbraccio tra il cielo e la terra, e i saggi sapevano quanto quella bellezza potesse essere insidiosa, malvagia, seducente. Rendeva più facile il tranello agli stregoni, agli ipnotizzatori, quelle figure d’ombra dipinte sul fondo di racconti immortali, che nessuno sapeva se esistessero o meno, ma che certo rappresentavano qualcosa di molto vero e pericoloso.
Lwi però sentiva una strana sensazione. Era a un passo dalla polvere e già quella sua pausa egli stesso -per come era stato negli ultimi tempi- l’avrebbe giudicata con dubbio e rimprovero, se l’avesse vista compiere a un altro; certo poteva essere concessa, giacché egli si era raramente riposato, se non per permettere al fisico di funzionare correttamente nel limite minimo delle sue possibilità, e recuperare un necessario calore da un piccolo falò di tanto in tanto. Ma cominciava a esserci qualcosa di diverso. Se in quegli altri posti non aveva avvertito che un’immensità nella quale comunque esisteva una cosa chiamata “se stesso”, e anzi la ingigantiva come fosse stato l’unico titano vivente su un’enorme terra calpestabile e piena di frutti estirpabili dalla sua manona, adesso invece gli sembrava piuttosto d’avvertire una solitudine, pur accanto a un uomo, non descrivibile altrimenti che quella di una roccia fluttuante in un vuoto. La roccia, indifferente a tutto, rotolava laconica, e su di essa non potevano esserci aria o atmosfera, e gli unici costituenti del cosmo sembravano essere la sua stessa materia e il freddo che era la materia di tutto il resto, e l’unico colore il buio, e l’unico rumore quello d’acqua nelle viscere, crepitante in ghiaccio non appena sgorgava da una ferita.
Non riuscì nemmeno a vedersi completare quell’immagine nella sua testa, perché fu richiamato, come compulsivamente preda di uno stimolo impossibile da ignorare, da un fruscio rumorosissimo. Allora avvampò in un istante l’immagine del fuoco che bruciò ogni altro pensiero. Sollevò di scatto la testa, sentendo provenire dal cielo quel frusciare di fiamme. Ma nulla s’era mosso tra le stelle, e nel cielo non compariva nessun fuoco. Soltanto un raggio brinoso tagliava dritto e orizzontale uno squarcio di galassia, serbando al suo interno una moltitudine puntiforme di bagliori che andavano spegnendosi, e che sembravano in quella distesa l’unica cosa in grado di produrre un rumore. Fissandoli con intensità, quasi a imprimerli sugli occhi nudi, poteva credere di sentirli ancora sfrigolare prima di dissolversi del tutto, prima che anche la scia da cui erano partoriti non diventasse che una sfumatura soltanto vagamente più azzurra nell’impero del blu quasi nero.
-mai visto un meteorite, villico?
Lwi scattò di nuovo, voltandosi per la voce zannuta. L’uomo chiamato Q. lo stava adesso fissando. L’aggeggio per guardare il cielo se ne stava con il collo reclino, un po’ ricordando una gru addormentata con la testa sotto l’ala, e Q. si era seduto su una sporgenza che lo costringeva a tenere le gambe piegate -in questo modo fu possibile capire quanto spaventosamente lunghe fossero. In mano teneva una pipa nella cui ampolla di vetro biancheggiava un fumo insignificante, privo di brace, e al colletto stava appeso un apparecchio ottico.
-che c’è, non ti interessa più il cielo? Che ti importa di cosa ho visto e non ho visto?
-mph!- Q. ebbe uno strano sorrisetto beffardo. -li scelgono sciocchi i loro campioni, ma non sia mai che manchino d’esercitare una certa lingua tagliente… eh, no, un giorno potrebbero eleggerti capo, e allora smette di far comodo uno che obbedisce e basta, senza un briciolo di insolenza. Non è forse così?
Lwi si limitò a guardarlo torvo. In verità non era sicuro di capire a cosa si riferisse l’enigmatico uomo senza odore. Era un misantropo, o qualcuno che cercava seguaci? Dapprima non s’era degnato di guardarlo, ma ora continuava a osservarlo con gli occhi chiari, d’un colore non ben definibile alla luce della luna. Non li batteva mai. Neanche Lwi batteva mai gli occhi, perché li temprava nella corsa. Quell’uomo invece stava seduto immobile e immobili erano le sue grosse pupille. Lwi, senza sapere perché, fu scosso da un brivido lungo tutta la schiena, e temette per la propria incolumità nemmeno avesse una febbre mortale.
-sei un uomo di città?-, gli chiese all’improvviso, suggestionato forse dalla foggia insolita degli abiti, la criniera portata disordinata, gli oggetti d’un’altra epoca.
-scommetto che se non lo sai muori.
-sei stato tu a chiamarmi “villico”.
-sì, l’ho fatto.
-e perché?
-non c’è una ragione e non sono un uomo di città, di campagna o del diavolo che vuoi e che ti maledica. Anzi, sono tutto quello che ti soddisfa che io sia. L’ho detto perché mi piaceva ripetere quella parola, da una frase di una vecchia storia.
-una storia che io non conosco. Non avrei potuto capire.
-e chi ha detto che tu debba capire?
-perché parlarmi allora, se tanto odi chi fa scappare le tue stelle, e se non vuoi comunicare niente?
-perché io parlo come mi pare e piace. E perché posso permettermi di fare qualcosa che di per sé non ha senso in una maniera che a maggior ragione è insensata.
-io invece no?
-certo che no, tu devi sforzarti di fare domande giuste. Chiunque conduca una vita povera di domande, quando le fa dovrebbe almeno sforzarsi di rifletterci.
-capisco perché tutti siano arrivati a temerti. Perché ti odiano. Tutti ti odiano.
-chi sono “tutti”?- chiese insolentemente Q., con un’espressione ostentatamente vispa che rizzò come spighe le ciocche sparse di basette e barba.
Lwi fu spiazzato dalla domanda. Q. manteneva la stessa espressione, con gli occhi sgranati sotto i quali si stiracchiavano certi ghigni indecifrabili, che apparivano sporadici e subito lasciavano spazio all’impassibilità piatta e uniforme sull’incarnato pallido-grigiastro. Non capiva cosa quella domanda potesse voler dire. E dire che era stato lui a dirgli di riflettere prima di domandare! Era chiaro che fosse uno squilibrato. Eppure Lwi non se ne andava, rimaneva là vicino. Sentiva che qualcosa lo stava conducendo sempre più a fondo in un labirinto dal quale non si poteva far ritorno. Dubbiosamente si guardò intorno, chiedendosi se davvero esistesse una terra con quell’aspetto, simile insieme a una grotta scrosciante d’acque sotterranee, a un deserto roccioso, alla luna e allo spazio in cui fluttuava. Da moltissimo tempo non era stato fermo, in piedi, su uno stesso posto. E ora, reggendosi sulla sua gamba dolente, gli sembrava di sentire il suolo ruotare tutt’attorno, facendo perno sulle piante dei piedi che a questo lo tenevano unito. Le sculture simili a canyon in miniatura si mescolavano, giravano, e giravano le stelle sopra di loro, il nord e il sud.
La quiete interrotta dai rari gocciolii e sfavilli fu nuovamente sfrangiata da un secondo meteorite. Lwi andò nel panico. Ripensando a quella sensazione di vorticare in unisono al terreno, si sentì sopraffare da ogni piccolo rumore: le gocce, il battito cardiaco dapprima sopito, la scia del meteorite, tutto s’accresceva nei cunicoli più minuti delle orecchie, minacciando di abbatterne le pareti. Era inginocchiato, la gamba tremante. La macchia al centro della cicatrice stava di nuovo cambiando colore. Tenendosi al suolo, stringeva violentemente l’elsa del pugnale, sempre tenuta in mano. Che gli stava succedendo? Forse era il prezzo della sosta?
-…io.. sì, li conosco… - disse con voce tremante -al villaggio, le chiamiamo stelle cadenti. Le… le ho viste, certo. Le guardiamo, per esempio durante le feste del raccolto.
Q. non diceva niente. Non accennava indifferenza né interesse, e lo fissava. Ma dietro quegli occhi pareva trasparisse altro, come se non vedessero davvero Lwi, la cui sagoma si proiettava intera al centro delle pupille. Nessuno avrebbe saputo dire di cosa si curassero. Nonostante ciò Lwi continuava, forse nemmeno lui rivolto all’altro, oppresso da un dolore che non aveva conosciuto per un tempo troppo lungo del suo “destino”: il dolore fisico, nemico impronunciabile di tutti i guerrieri.
-..c-ce ne sono tante, di feste così. Nel corso di un anno. Fredda, calda… e le stelle ci sono sempre, sono sempre periodi in cui.. le stelle cadenti, voglio dire. Periodi in cui le stelle cadenti precipitano numerose. E noi raccogliamo le spighe, e forse, qualche volta, dai campi si raccoglie pure una stella caduta.
Q. non diceva niente. Sembrava però che tornasse a osservarlo incuriosito. Lwi si contorceva quasi. Con sforzo protrasse un braccio verso una pozzanghera, e nuovamente portò l’acqua sulla ferita. Restò rannicchiato a lungo, battendo i denti per il freddo.
Gli sembrò che il tempo scorresse velocissimo, bruciando i secoli uno dopo l’altro nelle scie dei corpi celesti, che sentiva girare su di sé, e sotto di sé la terra… in quel tempo fu come se dormisse. E come alla fine di ogni dormita si destò, sentendo diminuito il dolore. In piedi, vide che Q. era ritornato al suo strumento. Non c’era traccia della pipa. Quell’uomo altissimo era di nuovo assorto in cose lontane da ciò che lo circondava. La notte era rimasta, ovviamente, ferma su quel luogo. Forse, però, una nuova ombra si infittiva nelle sue profondità. Sembrava più scura di prima. Si poteva immaginare un gorgoglio grave farsi via via più cavernoso in proporzione al rafforzarsi di quell’oscurità. Forse in un linguaggio arcano e tetro stimolava nelle cose vive gli istinti alla fuga, alla ricerca della luce.
-devo affrettarmi.- disse Lwi, spronandosi, cercando a tastoni la coscienza del proprio compito. -attendono che porti la polvere, e poi, forse…
-quella polvere non ti curerà dalla ferita.
Lwi si innervosì e per la prima volta avvertì l’impulso di colpire Q., tanto insolente da insinuare che intendesse usare la polvere pensando per prima cosa a quello scopo egoista, e indegno di qualcuno che non deve anteporre il proprio dolore a niente.
-stai calmo. Stai male, no? A dire il vero, stai messo malissimo. E allora perché non ammetterlo?
-ci sono cose più importanti! C’è un intero villaggio, che sta morendo per una malattia!
-ma tu non vuoi morire.
Lwi rimase in silenzio. Certo, non voleva morire, ma forse avrebbe potuto anche farlo, fintantoché fosse riuscito a ritornare. Si sarebbe potuto accasciare una volta consegnata la sacca, o forse non sarebbe stato contento di questo?
-non vuoi morire, e anzi vorrai applicare una manciata di quella polvere inutile sulla ferita non appena ne avrai raccolta dalle fessure del suolo in cui abbonda. Ma è ovvio che ti comporti nella stessa maniera di quegli altri come te, che chiamano se stessi “guerrieri”, così spocchiosi da credere che al ritorno i mostri si disintegrano e le vallate si aprono per farli passare e… bah, ma perché parlo?
-è proprio quello che ti ho chiesto prima.
-già, e nemmeno sei riuscito a chiedermelo bene.
Lwi ebbe la sensazione fulminea che Q. conoscesse più cose riguardanti la terra di quanto non dava a vedere col suo distacco rivolto all’universo e poco altro.
-conosci altri guerrieri? E la polvere, anche prima, hai detto…
-la polvere non ti cura. Porterà altre malattie.
Lwi, sempre più nervoso, irritato dall’altro ma al tempo stesso incalzato dall’oscurità che ancora pareva aumentare inglobando le stelle più piccole e periferiche, non riusciva tuttavia a dubitare minimamente di quelle parole. Anzi, sapeva, in un organo lucido e freddo come ghiaccio che per la prima volta scopriva in se stesso, fitto di reti tra la testa e il torace, che Q. non mentiva affatto.
-che significa?
-significa che tutto su questa terra funziona per equilibri, questo lo sai perfino tu. Non è il momento per voi di prelevare la polvere. Non è il momento, checché voi possiate pensare. Per quanto vi convinciate di essere importanti e di meritare di resistere alla catastrofe. Certo, potreste estinguervi come altri che non lo meritavano né più né meno di voi, oppure sopravvivere, come è già avvenuto, attraverso gli stenti, finché all’alba d’un bel secolo non avrete dimenticato di nuovo tutto, tranne qualche leggenda…
Al lato di un occhio di Lwi sussultò un ultimo tic sbalzato da emozioni nascoste sotto la faccia, responsabili del desiderio di credere a quelle leggende, un tic ormai incerto della sua stessa speranza.
-…leggenda bellissima, che tuttavia per la bellezza cancella dalla storia molti personaggi, molte vite. Di uomini e di mostri scannati, sacrifici della narrazione. E allora verrà un’altra pestilenza, e qualcuno in un tempo così lontano d’aver dimenticato anche il nome del tuo ipotetico ritorno, ripartirà per quel greto vuoto di là da tutta questa roccia e questo calcare.
-ma perché non possiamo prenderla e basta? Dobbiamo morire chiudendo gli occhi, come se niente fosse?- domandava Lwi, che già era passato alle domande, che non aveva più voglia di colpire, agire come un tempo, il tempo che l’aveva eletto paladino della sua impresa.
-perché nulla finisce con “e basta”. Certo, farete quello che potete. Farai quello che puoi, arrivando fin qui. Ma far quello che si può non è fare più di quello che si può, e non è farlo perché ci si sente intitolati a farlo da chissà quale privilegio. Significa che se non vuoi più proseguire devi ammetterlo.
Lwi era senza parole. Guardava le venature sottilissime della roccia, la sua ombra nella bellissima perlacea luce lunare. Su quel tappeto si rifletteva l’oscurità annuvolata come un temporale, e insieme a essa quasi uno strano rossore. Ma non guardò in su per vedere da cosa fosse generato. Q., all’improvviso, assunse un tono diverso, meno ruvido. Sentirlo quasi comprensivo, con una voce limpida come una superficie dove il pesce zannuto andasse a boccheggiare placido, era ancora più assurdo e inquietante.
-ascolta. L’acqua manca a quel fiume sin dalla guerra antica: non è mai più ricomparsa. E in tutto il resto del mondo si arrestano i corsi d’acqua. Tutto patisce ancora di quella distruzione, quando ancora a governare la brama degli uomini c’erano quelle gemme ormai sbriciolate, e altre sorgenti d’energia mai più riapparse. I principi nel mondo non sono cambiati, e non appena avrai applicato la polvere alla tua ferita, la malattia si sarà già insediata in essa, convivendo camuffata con la guarigione. E nei villaggi di chi recherà la polvere riprenderanno a scorrere le acque, scacciando le infezioni, ma la terra, sentendo mancare eccessivamente da un certo luogo la polvere sua figlia, manderà un diverso soffio infetto dalle sue numerose bocche nascoste nelle caverne e nei monti e nei mari, perché chi ha compiuto il furto lo compensi donandosi alla decomposizione, alla trasformazione… il tutto seguendo il principio dei numeri e non quello del rancore. Nondimeno, è odioso, vero? Fidati, se il fiume vicino alla polvere è morto, questa non avrà il potere benefico dell’acqua, e non si distribuirà con la sua stessa generosità. Questo è l’ultimo posto al mondo in cui tu possa ascoltare lo scorrere placido di quell’elemento fresco, così simile a questa luna… qui si può toccare, raramente, senza mai immergersene del tutto. Ma la si sente e si fa il bagno nella sua presenza recondita. E qui c’è solo la notte, eterna come era quando nacque, così che ciò che è fresco non evapora, nessuna vitale invadenza infiamma il cielo.
Privo di forze e ormai invaso dai dubbi, col cervello sfinito da movimenti mai prima compiuti, Lwi si disse però che quell’uomo si impicciava fin troppo dei fatti umani, per essere uno che li disprezzasse così tanto, e da avere una simile mentalità così apparentemente ostile a tutto ciò che era vita.
-perché ti interessi tanto di quello che faccio?
-aah, ancora con queste tue risposte pronte da guerriero… non sto cercando di sconfiggerti: non me ne importa un nulla così sconcertante da far impallidire perfino la tua perspicacia. Non hai nessun onore da difendere. Perciò non ha senso che ti senta offeso dalle mie parole.
-però a me sembra che ne sprechi di parole, per spiegarmi come credi che stiano le cose.
-a me non importa niente! Puoi fare quello che ti piace. Ti sto solo facendo il favore di dirti cos’è, visto che nemmeno tu lo sai.
-e perché farmi questo favore, allora? Perché ti importa di me e di quello che faccio, o perché hai qualche obiettivo, magari. Una vendetta, forse, nei confronti del villaggio.
-non so da dove vieni e non mi interessa. Stai sbagliando tutto. So separare il corpo dalla mente, forse non puoi capire come. Dovresti aver vissuto un bel po’ nella notte eterna, per poterlo capire.
-quindi non saresti in te, quando mi parli?
-io, con la mente, sto pensando ai fatti miei. Il mio corpo ti parla. Mi serve per non perdermi nel cielo, per mantenere un collegamento. Hai idea di quanto sia spaventoso lassù? Per certi aspetti è quasi peggio di qua. Senti,- Q. si girò, e andò da Lwi. Gli si pose davanti, a un metro e mezzo circa, erto in tutta la sua statura. Dietro le lenti che stava adoperando, gli occhi, come prima, parevano davvero obnubilati da fantasmi distanti. -è qualcosa che puoi capire. Guardati intorno. Secondo te, questo posto, può esistere?
Sbalordito, eppure come se lo aspettasse in qualche modo, Lwi obbedì, con la bocca spalancata. Sentiva l’aria fresca della notte umettargli la gola, facendogli sentire la bava rimasta lì appiccicata simile a muco dal fiatone dei giorni scorsi. Gli cadde il coltello dalla mano, ma non se ne accorse.
-ora che cominci a vederlo bene, forse puoi capire.
Lwi fissò Q. per qualche secondo. Gli parve in un microscopico istante di provare la stessa paralisi che si sente nel corpo di fronte allo sguardo di una bestia. Poi , non capendo se fosse una realtà o una sua fantasia, vedeva se stesso strappare le lenti dagli occhi di Q., come a sfidarlo ad affermare di nuovo l’irrealtà di quel mondo, adesso che era privo dei suoi strumenti ingannevoli. Ma vide allora che Q. li riprendeva, e li gettava di nuovo, “al diavolo gli occhiali! Non sono loro, è questo posto! Guardalo di nuovo!” -Lwi capiva, immaginando questo, che gli strumenti di Q. non avevano lo scopo di fargli vedere le cose in quel modo, e forse non ne avevano alcuno. Nulla poteva dissipare le tenebre inesorabili, azzerare quella sensazione sinistra.
Q., in realtà, era ritornato al suo aggeggio senza aggiungere altro. Rovistò in una tasca del suo abito straniero, facendo tintinnare la pipa. Estrasse una pergamena su cui si mise a scribacchiare indecifrabili grovigli, mentre con un occhio curioso e l’altro spento alzava e abbassava a tratti la testa capelluta, eccitata da qualche fenomeno astronomico. Dai polsini sgusciavano mani pallide quasi trasparenti, pelle sottile che sembrava mostrare le vene, le palpitazioni là sotto.
A Lwi vorticava la terra sotto i piedi, il cielo sopra la testa, come prima, e cominciava quasi ad abituarsi. A dirsi, va bene, è così che stanno le cose. È qui che dovevo arrivare.
Gli sovvennero come dei lampi, simili al fuoco che aveva dissolto la sua immaginazione quando era schizzato un meteorite nel cielo. Erano elementi, dettagli di quel paesaggio non visibili a un primo sguardo, sopraggiungevano intensificati. Vide delle gallerie sotterranee. Non erano del tutto ostruite, c’era un’apertura, un cerchio nel quale calava in un unico fascio la luce lunare, splendida sulla bassa acqua di un placido rigagnolo. Vide, come se lo avvicinasse al volto, raccolto da sotto i suoi piedi, un sasso particolare, in cui era incastonata la sagoma di un pesce; affianco, qua e là, nascosti tra altre rocce più scarne ma belle come meteoriti caduti, altri sassi simili che recavano esoscheletri di crostacei mai visti, ramificazioni indistricabili -forse venature di foglie, o arti di animali- alla cui visione provò un’improvvisa fitta alle braccia, come invase da una linfa gelida. Vide una circonferenza piatta in incessante rivoluzione, finché il movimento non divenne indistinguibile dalla stasi. E infine, vedendo dapprima il vago riflesso caldo che, separandosi dall’oscurità, aveva ammantato la terra, alzò gli occhi al cielo, dove in un ultimo lampo comparve la visione più intensa. Quasi dolorosa, ma incantevole, eppure Lwi aveva voglia di gridare: vide, alta nel cielo, un’enorme luna piena rossiccia, al cui bordo stava avvinghiata una volpe.
Nel lampo vide da vicino la pelliccia rubiconda, ogni singolo pelo; vide le sfere ocra degli occhi squarciate da pupille fredde in cui scompariva qualsiasi senso della pietà, nella cui bruna fluidità si rimesceva invece un’ignoranza del bene e del male, della salute e della malattia, un’ignoranza che ineffabilmente serbava una meraviglia ineguagliata. E da essa si generavano le zanne, che sotto le vibrisse tese, il sottile labbro nero disegnato nel sottogola bianco, afferravano salde la carne rocciosa della luna. Questa, sanguinando, si arrossava, e il suo sangue gelava nel vuoto cosmico.
Pur non gridando, Lwi ansimava rumorosamente, echeggiando sulle superfici lisce delle conformazioni aliene. Aveva ragione Q., nulla in quel luogo poteva esistere, e lui doveva essere impazzito -così pensava in quel momento, mentre il petto quasi scoppiava per la larghezza del fiatone, ed egli malediceva per la prima volta quella sua ferita alla gamba, portatrice di morbi, di allucinazioni. Q. di nuovo parlò, ma Lwi non sapeva se stesse guardando lui o soltanto il suo aggeggio. Rinunciando alla vista, teneva lo sguardo fermo soltanto su quella che aveva definito la propria follia. Inconsciamente si era sfilato anche la sacca di montone, e l’aveva abbandonata a terra, affianco al coltello.
-mai vista una luna rossa?
Lwi singhiozzò e ansimò, un sussulto scoordinato che forse voleva dire: “certo che l’ho vista, ma mai così.”
-beh, è questa la forma che ha. È sempre così. Mai sentito parlare della volpe lunare? Io preferisco dire che “la luna è in volpe”. Però la si può vedere soltanto da qui in questo modo. Sapevi che, attraversando il mare, si vedono diverse costellazioni, diverse galassie? Certi posti cambiano radicalmente la percezione degli astri. Questo è ottimo per osservare il cielo. Per questo sono qui. Ma non dirò di più, altrimenti crederai che mi sia affezionato a te.
Lwi, al contrario, non credeva più niente, e per ultimo credeva in congetture che riguardassero se stesso o chi gli stava attorno, o lontano, al villaggio, sotto la terra come la figlia morta dei contadini, e chissà, forse come quella strana vecchia che lo aveva avvertito, e sicuramente come tutti gli eroi di cui aveva saputo le gesta.
Era un simbolo? Era un presagio, il più sinistro che fosse mai stato visto? Quell’organo pensante che aveva scoperto in sé gli diceva che Q. non era un bugiardo. Ma quello era l’aspetto della verità? Sentiva dolore come se la volpe mordesse lui e non la luna. Quella cosa, che Q. diceva esser vera, lo incantava e lo feriva. E non sapeva decidersi se accettarla o no, e se, accettandola, lo facesse perché non c’era nulla di più visceralmente innegabile, o soltanto perché era lui a volere che fosse così. Forse aveva assecondato delle menzogne, perché in fondo dentro di lui c’era qualcosa di storto? Una propensione per un’immagine morbosa, per un’esistenza inutile trascorsa a fissare una singola immagine fino alla morte, come un animale ipnotizzato da un plenilunio. Forse era caduto per questo, forse aveva per sempre rinunciato alla missione, alla sua gente, alla salvezza dalla morte, perché era meglio salvarsi in quel modo -fissando, cioè, qualcosa di estremamente doloroso? Sentiva la bocca infetta di rabbia dell’animale sulla sua stessa carne, vedeva il pelo e la sagoma perfetta, la sua longilinea figura attorno al cerchio lunare, altrettanto perfetto. Si presentava così perché era lui a volere che la verità avesse quelle caratteristiche, e voleva essere il solo a fissarla? Si faceva domande così. Per passare il resto dei suoi giorni in quel posto meraviglioso, plasmato dalla luce della luna, distante da tutto fino a quando la macchia in espansione dalla sua ferita l’avesse inghiottito completamente, e nel cerchio degli occhi suoi rinchiusi non fosse rimasto altro dall’impronta incorporea di quell’atto predatorio brillante nel cielo, simile a un mito.
Lwi non raggiunse mai la piana umida dove giaceva la polvere magica e infine cadde svenuto su quella superficie di roccia lunare.
…
Si svegliò in una grotta.
Nel soffitto alto si aprivano distanti tra loro dei cerchi, intagliati dall’azione naturale dell’erosione. Era la scena che aveva visto in uno di quei lampi, e la luce lattea penetrava attraverso questi fori della roccia. Era nel ventre di quella terra, e nelle sue acque basse giacevano le sue gambe. Come Q. aveva detto, nemmeno qui era possibile immergersi interamente. Ma non si era bagnato d’altro che piogge, non si era più immerso davvero da quando il ruscello del suo lontano paese era morto, così che anche un’abluzione tanto limitata poteva farlo rinascere. Scostò il dorso dalla parete rorida, piena di sottilissimi rivoli. Forse Q. (o meglio, il suo corpo) l’aveva deposto lì, in una specie di nicchia naturale. Doveva conoscere un passaggio segreto per il sottosuolo.
Lwi vedeva vagare indefinitamente come spettri per quelle gallerie carezzate dal continuo echeggiare delle gocce figure di uomini con spade al fianco, con pugnali nella mano. Riconobbe in alcuni mantelli degli stemmi descritti nelle canzoni, riconobbe un occhio guercio, una ferita famosissima… non ne conosceva nemmeno uno, non sapeva dire i loro nomi: erano persone scomparse da molto tempo, che forse avevano soltanto parzialmente ispirato i personaggi immortalati dai miti, e non vi corrispondevano del tutto.
-siete stati ingannati da Q.?- chiese Lwi.
-non temere. Non ci sono inganni qui. Ci sono solo queste grotte.- disse uno, e sembrò che parlassero tutti insieme, una liquida voce unica, la voce del sistema di caverne.
Lwi annuì. Sentiva un piacevole refrigerio sulla gamba. Si guardò intorno, ma Q. non si vedeva.
-lui dov’è?
-a guardare il cielo, come sempre. Nessuno più di lui studia i fenomeni astronomici.
-tipo la volpe lunare e i meteoriti?
-per esempio.
Lwi annuì di nuovo. Si accorse che tra loro c’era anche una donna. Aveva lo sguardo fermo e arcigno di un falco, e lo rivolgeva costantemente a un uomo che se ne stava accasciato con le gambe sparpagliate. Gli dava colpetti al volto inebetito con la bocca spalancata.
-tu chi sei?
-sono partita di nascosto subito dopo di lui. Sapevo che non ce l’avrebbe fatta a prendere la polvere. Sapevo che si sarebbe ammalato, e solo io posso curarlo.
-tu pensi dunque che la polvere funziona?
-non lo so.- disse torva la fanciulla -ma so che posso aiutare lui, una persona a cui voglio bene. Riuscirò a farlo riprendere, prima o poi, in questa eternità. E anche lui, lasciandosi curare, senza la resistenza mostrata in vita, quando voleva essere riconosciuto come “guerriero”, a sua volta guarirà le mie ferite.
Lwi guardava con rispettoso silenzio mentre lei passava un panno inumidito sulla fronte del compagno.
-sei appena arrivato e forse corri il rischio di avere ancora qualche dubbio. Ma ascolta: qualunque cosa strana ti abbia detto, per quanto odioso sia stato il suo atteggiamento, su certe cose ha ragione. Magari non su tutto. Ma di certo voi guerrieri qui non dovete dimostrare niente. E di sicuro, quando vi mettete in salvo e prendete la via del ritorno, nulla si sposta per farvi passare. Nulla su questa terra è capace di assoggettare il caos. Perciò, riposati. Riposatevi tutti. Siamo arrivati qui, ci resteremo fin quando durerà.
-e Q., perché è arrivato qui?
-si dicono tante cose su di lui. Pare che anche lui fosse uno mandato in missione, sai? Ma chi dice così sostiene che al suo villaggio l’avessero scelto soltanto per sbarazzarsi del suo caratteraccio, e che lui in cambio non aveva avuto intenzione di giungere alla polvere sin dall’inizio; così, trovando per primo questo posto, ne ha approfittato pe rfermarsi. D’altronde, c’è anche chi sostiene che in realtà sia un proteo della grotta trasformato in un uomo per il desiderio di osservare le stelle. Quindi non saprei.
Lwi sentiva salirgli il sonno. S’accorse che il coltello e la sacca di montone erano stati lasciati dove gli erano caduti. Gli parve una cosa giusta.
-comunque sia credo che nemmeno lui sia indifferente a tutto questo dolore, per quanto si comporti da arrogante. Chiunque, qua, sta guarendo da delle ferite, e credo che lui ci accolga e guardi il cielo perché in fondo non sopporta questo mondo e la sua verità, che osserva soltanto da lontano. Detto questo, non dovresti fare troppe domande. Pensa piuttosto a riprenderti, devi essere scosso.
Ma Lwi già si era addormentato, d’un sonno profondissimo, cullato dalle gocce che picchiettavano dagli stalattiti.
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