le descrizioni
- Milky
- 26 ott 2021
- Tempo di lettura: 30 min
Si fumava una sigaretta. Il fumo sottile, striminzito come un morto di fame, violaceo come soffrisse per molti lividi, si levava piuttosto dritto. Poco vento, riusciva a incurvarsi e uscire dal cerchio rappresentato dal corpo in piedi che ne reggeva la miccia soltanto quanto bastava per liberarsi dal soffitto bianco del porticato esterno. Aleggiava sopra le sedie di plastica verde consunta impilate l’una sull’altra, quelle che venivano disposto attorno al tavolo e in parte sul prato nelle festicciole estive. Il ragazzo fece qualche passo: ora il fumo era del tutto libero, saliva da un punto rialzato sopra i fili d’erba sbiadita. Guardava avanti: in pochi altri passi l’avrebbe fatto librare attraverso gli occhielli della rete, e sarebbe volato più sicuro di mescolarsi alla composizione densa e bianchiccia che saliva, saliva come calura fino a plasmarsi nelle nuvole onnipresenti in quel cielo opaco. S’immaginò di infilare una mano nella rete. Era capitato altre volte che quelle stesse dita, piegandosi allo stesso modo, afferrassero la plastica nodosa, per poi rilasciarla in uno scatto violento. Erano i giorni in cui afferrare la rete del cortiletto di casa, accanendosi su di essa come a volerla strappare, infrangerla con dita che s’immaginava artigli, era il modo che sentiva più immediato per fare qualcosa di una specie di rabbia soffocante. Ma erano giorni lontani, come le estati di festa, in cui le sedie, ora dietro di lui ma sempre vigili con gli sguardi di fenditure verticali e parallele nello schienale, venivano sparpagliate casualmente.
Passeggiava, equidistante dalla casa e dal perimetro del suo confine. Il supermercato dall’altra parte della strada emergeva come un’ingombrante isola grigia, riempiendo tutto un pezzo di paesaggio. Gli alberi anonimi qua e là rimanevano sospesi tra l’ingiallire e un’ostinazione di mantenere un verde posticcio tra le venature e i fiotti vitali nei rami, tentativo di essere immutabili come la plastica a cui un po’ assomigliavano. Le case della zona erano basse, e lontane si alzavano quelle che avevano più di due piani, componendo la città con le sue altre parti, adombrate in una foschia che sembrava evaporare dalla linea dell’orizzonte. C’erano ombre di uccelli e tossi catarrose di macchine che si accendevano in parcheggi vicini, c’erano grigiori di marciapiedi che sembravano amalgamarsi all’atmosfera in cui si dilungavano, come infiniti tappeti, accasciati sull’asfalto di un lungo e ampio quartiere perennemente assorto in un tedio senza stagione.
Perché non dare un pugno alla rete in quel momento? Che conseguenze ci sarebbero state? La struttura flessuosa del reticolato avrebbe solo rimbalzato indietro una pancia oscillante, ora una schiena protendendosi dall’altra parte, di nuovo una pancia di fronte a lui e così via, veloce nello scrollarsi dalle giunture l’aggressione insensata. Attraverso di lei avrebbe vibrato riempiendosi di cigolii lo sfondo plastico dall’altra parte. Che in risposta avrebbe continuato a tacere. Sotto quel cielo immobile nessun uccello sarebbe volato via infastidito dal colpo improvviso, non tanto per la familiarità della scena ma per indolenza. Nessun volto si sarebbe profilato pettegolo dietro tende rovinate di piani terra e seminterrati, o dall’unico palazzo più alto nelle vicinanze, il cassone popolare con le pareti simili a tegole del bagno.
Ma non avrebbe avuto conseguenze nemmeno per lui. Avrebbe fatto oscillare la rete, e allora? Tutto sarebbe rimasto com’era. E anche se l’avesse colpita così forte da farla crollare, non sarebbe cambiato nulla. Poteva uscire da casa sua, non era certo un prigioniero, non almeno in senso fisico. E non aveva comunque nessun posto in particolare dove andare: infatti stava nel giardinetto morente della casa simile a un box, allineato a identici quadrilateri di vegetazione dissipata, alcuni abbelliti da orticelli. Però, almeno si sarebbe sfogato, no? Poteva esser bello e salubre, ogni tanto, colpire qualcosa con le nocche nude e spellate, soltanto per poter colpire, trasferire un flusso di energia a un oggetto che l’avrebbe accettato senza scandalo, simile al silenzio di un genitore comprensivo. E allora, perché non farlo?
No: era un modo strano di metterla, ma in quel momento sentì di essere “cresciuto per quel genere di cose”. Voleva forse dire stanco, ma comunque fosse, si limitò a girare nella stessa orbita che le scarpe da ginnastica avevano solcato inconsapevolmente, e a batter via con la mano aperta dalla maglietta tutta bianca neri granelli di cenere.
Forse nemmeno uscire fuori aveva un senso. O forse, gli venne il dubbio, la spontaneità di appartarsi là, visibile potenzialmente a qualunque cosa apparisse in strada ma solo grazie alla misericordiosa stasi del sonno del quartiere, a fumare una sigaretta dopo l’altra, a guardare asfalto e cielo e il loro confine senza riuscire a scorgervi niente di chiarificante… tutto questo poteva in qualche modo alludere, in qualche maniera inconscia e incontrollabile, a un suo impulso di trovarsi là fuori, e quindi, anche di uscire in strada, dirigersi per quel posto che i pensieri gli dicevano inesistente. In teoria, non aveva l’umore di consumare energia per qualunque cosa inesistente. Tanto, stare in giardino o stare in giro, apparivano due azioni ugualmente ineffettive; e allora, secondo questa logica che d’un tratto gli affiorava per inquisirlo, tanto sarebbe valso proseguire questo movimento esterno, inoltrandosi per le vie, divenendo per gli occhi delle cornacchie un punto nero e bianco strisciante dentro lunghe e intricate linee, e non dentro una stessa ellissi, a sua volta in un quadrilatero, in cui pareva che pure i vermi avessero smesso di muoversi.
Proseguendo in quel modo, si disse di ripercorrere gli stati d’animo che avevano preceduto la prima sigaretta, il pretesto inconsapevole per uscire -quanto tempo fa? Non che le camere fossero più sporche quel giorno rispetto agli altri, o le tensioni più penetranti. Tutto era sempre uguale, per un qualsiasi ragazzo della sua età e della sua città, ne era istintivamente certo, e le due cose in un modo che non avrebbe saputo dire si equivalevano, come poligoni di uguale area e perimetro -l’arco dei vent’anni è un quartiere, uno spazio squadrato e ordinato dagli abitanti, e non una misura di tempo. E l’altra gente che viveva la stessa condizione, gli stessi edifici, lui l’aveva conosciuta nei vari posti, dalla scuola, ai tabacchi, il supermercato là di fronte e il cinema là in fondo al traversone, coi manifesti sgualciti di là dall’ultimo semaforo. Erano tutti così, non c’era bisogno di chiedere: le cose non potevano cambiare da nessuna parte. In effetti nelle case dei dintorni, con le loro pareti sottili attraversate da risucchi da mostro marino degli sciacquoni e i brontolii attutiti ma distinguibili, la lite non superava mai le grida stridule, non si udivano colpi, e se delle fronti sanguinavano lo facevano senza produrre rumore o memoria. Erano questi i riverberi che gli provenivano da pareti identiche a quelle della sua nascita e crescita, era questo il rimbalzo di vibrazioni dal mondo circostante. Ed era uno specchio, era una cosa in cui rivedeva (forse per suggestione prona alla proiezione di se stessi, ma foriera di percezioni sentite molto intensamente) le stesse cose che avrebbe potuto vedere guardando la sua carne, lì temprata, o consunta a seconda da come la si guardasse, dalla sfumatura che gli sporadici raggi del giorno assumevano penetrando gli strati di nubi, ricoprendosi degli elementi polimorfi lì disciolti.
Se tutto era d’una stessa forma, e se il tempo e lo spazio non erano che misure di una stessa cosa, distesa a trapunta uniforme su tutto l’esistente, allora non c’era ragione d’aspettarsi che mutassero, nella vita sua come in quella di tutti gli altri.
Mutavano i particolari: c’era un giardino, che non era come la camera, c’era una camera che non era come l’altra camera, e in una ci si poteva chiudere a chiave solo per poco tempo, in un’altra per quanto si voleva, in una non c’era una porta e si era prigionieri di umori non propri. Ma ciò non serviva a vagheggiare l’idea d’un prossimo stadio in cui si sarebbero conservate le cose spiacevoli e disfatte quelle che gli suscitavano repulsione, in maniera fin troppo conveniente. Forse serviva solo a fumarsi le sigarette. La differenza tra una finestra chiusa e una alzata, che lasciava libero un davanzale stretto di riempirsi di braccia affacciate… L’esistenza di un’assenza di pareti che serviva a fargli provare la discesa d’un fumo in dei polmoni che prima non lo contenevano, così che diventassero gli unici ricettacoli in tutto il mondo della mutevolezza, in una sua forma che poteva essere piacevole. Dava assuefazione e necrosi di cellule. Indugiò come indugiava coi passi sull’impulso ad accendersene un’altra ancora. Cominciava a sentir svuotare di sensibilità le gengive intrise d’un sapore rovente.
Mah, forse erano stati gli scarafaggi. Stavolta uscivano anche dallo scarico della doccia, non li aveva mai visti arrivare là. Il loro numero probabilmente rimaneva sempre lo stesso, proliferante e invisibile tra gli irraggiungibili interstizi di pareti e tubature; ma quando apparivano saettanti, loro altri, gli abitatori delle forme più grandi, i tavoli e i divani e i letti, perdevano per un istante la compostezza nella fuga di un brivido che rivelava la pelle per la sua vera sostanza, un mosaico brulicante di pori appiccicati l’uno all’altro e rispondenti a un sottostante strato di nervi. La pelle degli scarafaggi si mostrava invece linearmente coriacea, nera rossa o marrone, lucente, forte del numero. Roteavano antenne, probabilmente ogni momento, vicini in qualunque stanza si fosse, resistenti a ogni parvenza d’igiene. Lui lo sapeva: leggeva il libro o la rivista appoggiati alle ginocchia da sdraiato sul letto, e vedeva muoversi cose scure, ora striature d’ombra e luce proiettate su porta e armadio dai fori della serranda, ora zampe o ali d’insetti indefiniti. E in ciascun movimento comprendeva la presenza inesorabile di forme lucifughe da ogni dove, virulente, adatte a sopravvivere. Bisognava credere che abitassero la casa più delle persone, o degli sporadici gatti elemosinieri. Eppure era rivoltato per la loro presenza in doccia o nello sportello delle merende, scadute ma inodori negli involucri. Come era per tutti, nei reciproci odi si riversava un disgusto per un qualcosa che in realtà -sorrise cinico al pensiero- si poteva anche voler identificare nell’anima stessa della casa, di certo la più pura e resiliente. La dimora è una dimora di blatte. Lui almeno poteva domare quell’odio col fumo e l’aria aperta, forse ancor più tossica, di cui si gonfiava nel respiro irregolare, d’automatismo nervoso mentre ancora s’agitava senza fermarsi tra pensieri e dietrofront su se stesso.
.
Un giorno vagava con le mani ben infilate in tasche di jeans, che arrivavano a toccargli i genitali. Non importava che giorno fosse, questo si diceva lui. Nemmeno se fosse stata soltanto cinque minuti fa la fine di quello stato in cui s’era ritrovato, palpitante e nevrotico come in astinenza da una qualche sostanza; gli era parso di affrontare un risveglio dopo un sonno indefinito, un tempo simile a quello trascorso troppo lento e lungo tra le strisce d’erba e terra desolate del solito giardino.
Erano le centinaia di sigarette che s’era messo dentro? Le dita frenetiche che stuzzicavano il tessuto esterno delle mutande avevano in effetti un sinistro tremore sottopelle, un palese abuso della propria salute.
Aveva sognato? Mah, sarebbe potuto essere un sogno di centinaia di altre volte, oppure proveniente dal futuro. Si affacciava da una finestra, che diventava quasi un balcone, e aveva davanti una specie di notte desertica. Vi riconosceva però il suo quartiere, o un posto raggiungibile comunque a piedi, o in pochi minuti di macchina. Soltanto appariva sotto una sua forma un po’ diversa. Questa distesa di spoglia terra o sabbia violacea nelle tenebre presentava solchi rialzati, un andamento accidentato che bruscamente si riabbassava uniformandosi in piattezza dalla quale si ergevano strane sculture. D’un viola ancor più intenso della terra stessa, sembravano esser state modellate da una mano gigante e poi lasciate incompiute, queste torrette di cera o pongo, piene di bozzi, di nicchie più scavate. Comparve la luna sullo strano paesaggio, irrorò i fianchi delle conformazioni, che parevano umidirsi e far evaporare cristallini fiocchi di luce. Bello, pensò. Stette un po’ ad osservare -gli pareva di ricordare, del resto non era nemmeno certo di aver sognato e stava ricostruendo qua e là, dicendosi deciso che era una perdita di tempo e che era proprio quello che intendeva fare, essendo tutto il resto una perdita di tempo peggiore, dunque alcuni dettagli li andava quasi inventando in quel momento.
(Se fosse un mio sogno, impregnato di incontrollabili, viziati, annoiati desideri, di certo allora avrò cercato una sigaretta mentre me ne stavo a contemplare il chiaro di luna sopra quella specie di apocalisse placida. Si, da una tasca cavo un familiare tubicino, solo che è rosa e carnoso, e la bocca aperta con i fili di tabacco pendenti è invece una ferita recisa grondante di grumi, per metà seccati per metà accesi di gocce pronte a raffermarsi, mandare un odore pungente lungo il bordo dentellato… mah, sarà un dito, o un’appendice sconosciuta di qualcuno, o di qualche essere che adesso abita questo mondo… mi fumo un pezzo di carne.). Allora se l’accende, la fiamma prende tranquillamente, alla boccata di prova si convince che è lo stesso sapore di sempre, forse soltanto con un retrogusto insolito. Dev’essere una di quelle stecche aromatizzate, tipo menta o mela verde. Dopo aver guardato fuori quanto basta si gira e, quasi in maniera speculare al balcone la cui soglia ora accoglie la sagoma nera e solitaria delle sue spalle, trova una moltitudine di insetti posizionati in righe disomogenee, distanti come lo sono le sculture là fuori. Quasi lo attendessero. Non saprebbe dire che insetti sono, la forma è un po’ quella delle blatte, con le stesse antenne lunghe che si attorcigliano ricadendo, ma il corpo è più rotondo, come batuffoli di polvere, a volte macchiettato di nero e grigio -sembra la pelle di un malato. Sono grandicelli, ma non quanto le strane conformazioni là fuori. Direbbe grossi più o meno come i gatti. E allora sta a guardare un po’ anche quella scena, e quelli lo guardano di rimando. (Mah, non è che possa fare molto adesso, io sono uno che sa ragionare e capisco che cosa significa questa situazione: ormai la sala l’hanno presa loro, è ovvio. Non mi respingono né mi attaccano, il loro star qua e farsi vedere da me è sufficiente a significare il tutto. Inutile negoziare, se deve succedere dovranno essere loro i primi a proporlo e in tal caso si dovrebbe riflettere, ma da parte mia non vedo perché debba accettare qualunque cosa che non sia la natura stessa di questa mia condizione, sconfitta o esilio o come la si voglia chiamare. Ma neanche mi sembrano intenzionati a far nulla o parlare, emetter suoni da quella specie di aculei o baffetti che sbrodolano nelle fauci. Quindi niente, sto in piedi, appoggiato al bordo in legno della porta del balcone, picchiettando sfaccendato il vetro con le nocche, lasciando sulle lastre l’untuosità dei miei pori). A un certo punto uno strano fluido denso e rancido comincia a riversarsi in ondate affannate sul pavimento, inglobando le cose che incontra con uno sciaguattante rumore di risucchio, sgradevolissimo. Sembra cerume. Ma da dove viene, lo scarico?, si chiede. Sì, gli sembra che una parte cominci a filtrare anche da sotto la porta del bagno, dalla doccia. Poi lo scarico della cucina, difettoso, ecco perché tutta quell’umidità che tormentava le pareti da mesi. Che schifo, dice, ma non era nemmeno più un suo problema. Al massimo sarebbe potuto esserlo per degli insetti sconosciuti, ma non credo, si diceva, che per loro sia un problema, anzi. L’ondata li investe e non si scompongono, anzi, sono là immobili, ciascuno sulla propria postazione nella sala, e semplicemente al riabbassarsi della marea li si vede riemergere tutti imbrattati di liquame che ricade dai loro esoscheletri, dalle testine schiacciate e le antenne, gli occhi senza palpebre. Non un cenno di nulla, come fosse una normale pioggerella. Si era sporcato i piedi? Fortunatamente non aveva l’abitudine di girar scalzo per casa: solitamente ci si potevano trovare molti frammenti di vetro.
..
Si sentì osservato soltanto per un istante. Credette di sentire un fruscio, come di giornali accartocciati dietro file di vasi vuoti, o di là d’un ponte pedonale, elemento di sfondo. Ma non ci sono barboni che vivono tra i giornali, nessuno che li usa per rimuovere la propria sporcizia come si fa con i cani. Solo fantasmi di gente di strada, lui è il solo solido.
All’improvviso comparvero delle facce, ma non erano nessuno. Poteva sembrare una contraddizione ma gli parve che fosse invece una cosa del tutto normale, trovandosi lì per lì a pensarci. Persone di carne e fibra stampata, di tasselli che insieme formano un colore riportato da una fotografia: nient’altro che pubblicità sui cartelloni, corpi e vestiti e occhi ridotti a questo. Un sorriso sprezzante proveniente da chissà dove gli affiorò in faccia da una qualche profondità ignota. I muscoli facciali vacillarono sentendoselo salire verso le occhiaie, per armonizzarlo tentarono una serie di impercettibili spasmi che avevano a disposizione, per lungo tempo perfezionati e adatti a qualsiasi occasione. Questi erano i suoi modi più o meno consapevoli di rapportarsi ai volti. Per qualche inspiegabile ragione che gli dette una sorta di fastidio immediato, ricordò una conversazione con una sua vecchia compagna dei tempi della scuola, una tipica ragazza del quartiere dove diceva di essere cresciuta. Nomi di persone e cose celebri che portano storie, lampioni, pizzerie e varie forme di sporcizia. Le stesse storie di tutti gli altri, così che tutti potessero parlare una lingua comune alla scuola famosa dei ragazzi poveri e disagiati e problematici e molti altri aggettivi di cui la collettività graffitava una certa parte della città, in maniera ormai non più seria di una canzonatura la cui origine si è dissolta nel tempo. Nonostante molti punti di contatto concretizzati in queste cose, la lingua comune gli riusciva stentata, rozza. La faccia gli si riempiva di tremori quando la sua compagna gli diceva che avrebbe potuto, avrebbe dovuto, avrebbe forse voluto… ma che ne sapeva una nata a ***? E che cosa deve risponderle un deficiente nato a *** come me?, così pensava, digrignava i denti, cominciava un insieme di tic che, sapeva, avrebbe dovuto domare, prima di valicare i confini dell’abitudine, e trascinarseli per sempre finché avessero ricoperto completamente la sua persona. Sapeva anche che quei confini erano ormai da tempo superati, ma la coscienza nel riconoscere l’emergere del fenomeno sempre si irretiva come rimpiangendo quel suo ormai inutile impulso ad aggiustare la cosa. Tutto questo accadeva e si moltiplicava senza sosta al comparire dei volti, proliferava imitandone il numero.
Forse guardavano. E quello sguardo andava raccordato alla curva della bocca, quasi sempre ridente (anche lui, con quel ghigno…). E allora voleva dire che sbeffeggiavano, ma di uno sprezzo diverso dal suo che se li lasciava dietro senza mai più voltarsi: no, lui sprezzava perché era cinico nel considerarli equivalenti alle loro ugualmente piatte controparti di carne, ammesso che esistessero, mentre quelli, quasi se la ridevano perché se ne stavano sempre comodi lassù, per sempre incastrati nell’euforia di un singolo momento in cui, che goduria, un oggetto piccolo o gigantesco o astratto li aveva soddisfatti come nient’altro mai era stato capace. Ecco, pensava, quest’uomo piccolo e non stampato, che si muove nelle tre dimensioni di questo posto desolato, volesse soltanto, potrebbe cancellare per sempre la vostra faccia. Con un pennarello, con una bomboletta, come nei muretti sormontati dalla transenna concava, i graffiti comuni sui nostri muri; con un sasso o un pezzo staccato di carreggiata altrettanto solido, con il fuoco. Avrebbero fatto un frastuono di cristalli esplosi, perché erano come specchi, gli specchi che si rompevano in casa sua e nelle altre, nelle lotte combattute trasferendo la propria volontà di far del male agli oggetti (quelli che vi piacciono tanto!).
Perché lui conosceva bene la natura dei cristalli e del loro infrangersi: si separavano e volavano nell’aria in microscopiche nuvole di storni, immediati nella reazione, come se il loro aggregarsi fosse sempre stato una menzogna trepidante per l’occasione di rivelarsi, rompersi, liberarsi. Quando accadeva, una voce stridula e tabagista diceva che erano sette anni di guai; un’altra catarrosa e tabagista replicava connotando l’ultima come una donnetta deficiente, proprio in virtù di questa combinazione di scaramanzia e stridore di voce; infine una terza, tabagista ma silente, connotava entrambe come “stupidità”, distinte l’una dall’altra, dell’uomo e della donna, proprio le stesse voci che gli avevano insegnato questa parola, e che ogni giorno ne rappresentavano una conferma.
L’uomo, la donna, la città. Le vie, la strada grande che le incanalava tutte, come un fiume. Il cane randagio con un respiro smorzato, lo si sente quando si avvicina, fruga nelle aiuole scarne. Il cielo uniforme di nuvole e foschie multiformi come tanti rivoli dai tetti. Uniforme nero e di lampioni, una barriera che si solidifica a mezz’aria.
Questi elementi costituivano il mondo. Li aveva scomposti così, dovevano esser queste le cose fondamentali, il resto era superfluo oppure era soltanto una riproposizione di questi elementi, combinati in diversa misura delle parti in un’inesauribile generazione di superficiali differenze. Stava camminando, era uscito di casa, e si diceva, “al primo tabacchi, mi ci tuffo dentro, prendo le mie sigarette e me ne vado”, ma ne aveva già superati tre -ce n’erano molti, in zona, dappertutto, in tutto il mondo. Apparentemente vuoti, un blackout concordato in massa. Si chiese se non fosse il caso di tornare sul suo postulato e aggiungere ai costituenti basilari dell’esistenza anche le tabaccherie. I cestini a forma di idrante con il pannello roteante, il tabellone dei gelati di metallo flessuoso, la carta bitorzoluta di pacchetti di gomme, erano tutte parti in cui il tutto rifletteva se stesso.
Lui, parte esterna a tutto, un ulteriore uomo diverso dal primo, uomo che osserva e nomina, avrebbe potuto interagire con quest’altro elemento e con gli altri. Non era forse questo che faceva da sempre e che intendeva fare? Entrare, chiedere una sigaretta, che è parte del tabacchi, ma è anche la città, con la sua bocca di fuoco inquinante, con le sue viscere di vegetali morenti. È anche l’uomo e anche la donna, ma non sa dire perché. Mette in bocca l’uomo e la donna, li appoggia sul suo labbro, si soddisfa si riproduce e muore: resta il fumo che getta dalle narici, che condensa tutto ciò, e poi sparisce pure quello.
Poteva scavalcare un parcheggio dal muricciolo per evitare di entrarci facendo il giro e facendosi largo tra macchine e motorini in sosta da un’eternità, sembravano fossili. Poteva mandare una voce per allontanare il cane venuto a dissotterrarli per ciancicare le ossa. Discosta il predatore e saprofago con combinazione di gesto manuale e richiamo istintuale di corde vocali. Se ne va allora quel rantolo persistente, accompagnato dal quadruplice tocco di unghie sull’asfalto, ha relegato questo insieme a un angolo dietro la sua mente (è così che l’uomo, il secondo uomo, sconfigge il cane selvatico, mettendolo in un angolo, evitando di affaticarsi in calci e ginocchiate come avrebbe fatto il primo). Poteva varcare una soglia, chiedere a un buon uomo del tabacco di una certa marca, e andarsene. Ma allora perché non lo aveva ancora fatto? Superava ai suoi lati i cartelloni pubblicitari, lungo la strada larga. Doveva essere questa, la prima strada mai costruita. Superava i tabacchi che su questa si affacciavano, la croce sporgente di una farmacia, un autovelox dove il volto circolare di un poliziotto, forma atrofizzata sormontata dalla sagoma di un copricapo riconoscitivo, s’alzava più in alto degli eventuali umani passanti in macchina o a piedi, standosene tutto nero di un vuoto ammonitore tra due lucette arancioni lampeggianti. Tra tutti quei volti, lui, così semplificato, il più comune sulle strade, che cosa voleva vendere? La città dovrà pur andare avanti, e lo fa vendendo merci… che merce vende questo volto qua? Vende paura, risponde il ragazzo -il secondo uomo- a se stesso, o a una parte di se stesso che risponde al suo popolo coi suoi insegnamenti di strada. Vigili o poliziotti, si apprendeva tra i caseggiati a temerli, e assumere sguardi che facessero capire la presenza indesiderata. Ma erano solo dei venditori. Come i tabaccai. Magari avevano anche loro in qualche modo uno scaffale immerso nel silenzio, stipato di incartamenti pieni della città riprodotti in miniatura. Luoghi che fungono da base, conferma, certezza.
Eppure esitava, non entrava. Sarebbe stato un problema, aveva finito i suoi pacchetti. Avrebbe dovuto trasformare la sua interazione con quegli altri costituenti dell’aggregato del mondo in una capacità di sfruttarne le parti per combinare qualunque cosa volesse. Creare una sigaretta dagli altri atomi. Strappare un’erba selvatica moribonda sul ciglio della strada, spezzettarla, bruciarla. Sentirla gemere come sanguinasse, una volta ogni mese o per la sua violenza. Quel giorno, si disse, faceva i pensieri più insulsi. Fino a quel momento aveva interagito in altri modi che in maniera armoniosa s’adagiavano su dei pattern, rendendosi individuabili al bisturi della ragione. E lui era un chirurgo che operava su un corpo fetido.
L’uomo, il padre di famiglia, aveva bevuto -acqua del fiume, acqua della strada maestra, insomma aveva bevuto asfalto. La granula grigia, pregna di incandescenze e smarrimenti di cose perennemente perse per via, gli ribolliva nello stomaco, inacidendogli il fiato, inasprendogli lo spirito. Sprofondava in un divano, mangiato da blatte, gli arrancanti saprofagi come cani di strada. Lanciava una bottiglia con un braccio smorto, appena integro da potersi capire esistente ed eseguire quel singolo movimento prima d’abbandonarsi. Altri vetri, frammenti rotti. La donna grida, la donna si connota per le grida, l’uomo connota se stesso proprio perché beve l’asfalto, lui che ama la sua città più della sua donna altrimenti non sarebbe così pestilente, e aggiunge che se tutti gli uomini che conosce -un campione a dire il vero meno vasto di quel che lui crede, e poco rappresentativo di un’umanità varia del mondo urbano- bevono come lui, e c’è tra loro chi fa scenate molto peggio che al confronto lui è un santo e lei un’ingrata, allora vorrà dire che ha il sacrosanto o qualcosa del genere diritto di non farsi rompere le palle. La donna, d’altronde, per potersi destreggiare in quella vita d’ombre tra le pareti, macchie che non si levano e che crede di dover eliminare lei soltanto, nell’accettare questa e altre definizioni connota se stessa come una piaga, una rompipalle, un fastidio. Lasciato il marito e la macchia di intruglio puzzolente di cose fermentate e bavose, suo simbolo che si spiaccica colante sulla carta da parati sgualcita, la moglie “rompe le palle” al figlio, l’uomo esterno, che sta dando i nomi a tutti, che se li ricorda mentre cammina lontano, là fuori “da qualche parte”. Laggiù, dovunque sia, costantemente rinviene i principi che hanno dato la vita a questi nomi, e tutte le istruzioni per viverla che gli erano state sempre comunicate da questi “stupidi”, pensieri inerenti a una carne semplice e poco inquisitiva. E allora la donna dice a questo detentore del punto di vista, il soggetto, che deve trovarsi un lavoro, lui che si era mangiato tanti di quei soldi per la sua inutile scuola, morta da anni, in cui non era cambiato niente, rimanendo solo uno stupido ragazzo. E questo ribatte, quasi annoiato da quante volte si ripete la stessa scena, che non ce l’avevano un lavoro loro alla sua età, e che non avevano studiato, e che suo padre non aveva un lavoro, e che affogava nell’alcol… la donna rispondeva che aveva smesso di combattere con l’uomo. Il giorno dopo, o forse una mezz’ora più tardi (molto difficile distinguere i momenti, ci sono eco da fuori che sono forse soltanto riflessi della scena, rimbalzante di casa in casa, oppure ciascuna casa con la sua variante), la donna colpisce ripetutamente il petto dell’uomo, che è in piedi, che ha i peli attorcigliati come pampini d’uva a fargli da cuscinetto tra il bordo della canotta e il pomo d’Adamo. Lei prende un coltello da una coltelliera e minaccia di farsi un singolo taglio orizzontale su un polso.
.
Trovarsi un lavoro, trovarsi uno bravo. Un centro diurno con consultorio famigliare non mostrava volti sul suo cartello, solo una scritte verde abete su uno sfondo bianco. Aveva visto un counselor, scuola e fuori, concluse che si assomigliavano, lasciò perdere. Ma era tempo fa: ecco, superato uno studio medico, un altro che forse è proprio lo studio di uno psicologo, non entra nemmeno in questi. Non ha da curare né il corpo né la mente, ha solo da proseguire. Dove cazzo sto andando, si chiese, ma in fondo non se lo chiese con la stessa serietà che impiegava nel definire da capo le cose attorno a sé, secondo quel principio di sua scoperta, in grado di aiutarlo nel caos che attendeva da entrambi i lati: quello dietro di sé, da cui egli si era generato, e quello avanti a sé, qualunque cosa potesse mai essere e se mai fosse qualcosa, dove infine si sarebbe forse arenato e poi scomparso. Un corpo accasciato sul bordo della carreggiata, come una carcassa di volpe rachitica in una piazzola di sosta della provinciale che vira verso le campagne sporche, i boschetti pieni di taniche, buste bucate, sedie a sdraio macerate…
Balle. Una cosa del genere non poteva certo dirsi scomparsa. Nulla si evolveva e questo voleva dire che anche in ciò sarebbe stato raggirato dagli elementi del tutto, affinché ne restasse parte. Sarebbe scivolato tra i pori dell’asfalto per trasformarsi nella strada, e quindi sangue d’uomo ubriaco che ne beveva il distillato. Sarebbe stato trovato dal cane masticaossa. Si sarebbe disciolto nell’aria, evaporato tra i fumi, e in una nuvola di smog e grandine si sarebbe faticosamente rannicchiato come in un grembo scomodo. Insomma non poteva veramente scappare morendo, poteva scappare e basta. Quindi andava avanti, pronto a mettere in questione anche che quello potesse dirsi scappare -per quanto ne sapeva la strada si stava allungando ben oltre quello che ci si poteva aspettare (era stata sempre così lunga e vasta, senza neanche un camion?), e allora sarebbe potuta anche essere un grande cerchio, che l’avrebbe fatto risbucare tra gli orti dei vicini e infine mostrargli nella distanza la rete del giardinetto di casa. I passi cozzavano e strusciavano in alternanza sul marciapiede rugoso, un ululato s’alzò melanconico simile al figlio bastardo di un pianto e uno sbadiglio, proveniente forse da dietro di lui, o forse da tutto il mondo.
Forse non entrava perché c’era qualcosa di inesatto nell’idea di entrare. Posare i soldi sul bancone, per esempio. Prendere un pacchetto, frugarlo tra gomme e gratta e vinci. Andarsene, non una parola, nessun buon uomo. Non ce n’erano in quella città, c’erano la città e gli uomini e altre cose ma tra queste non il bene e non il male. Allora forse avrebbe dovuto solo rubare, e allora sì sarebbe potuto andare da qualche parte. c’era bisogno di un’azione radicale di quel tipo. Lui passeggiava, aveva freddo, si era messo in testa di uscire a vagare in quel giorno a caso, quel giorno disgraziato in cui era rimasto senza niente da fumare rendendolo disperato e solo come suo padre senza bottiglie di vetro da vuotare e rompere. Ma era solo un ragazzino come tanti di quelli che riempivano le case basse, di quelli che erano andati a scuola e che poi andavano scomparendo giorno per giorno dietro ombre di vie minori. E allora era solo uno dei tanti che nella città deserta, svuotata soltanto apparentemente d’ogni anima, vagavano in giro in cerca di un posto adatto dove procacciarsi ciò che cercavano.
Vedeva trascorrere sulle vetrate un’ombra scolorita, nient’altro che un guizzo di consistenza incerta, quasi gassoso, in fondo insignificante. Era emerso là, lungo lo stradone, non appariva sulla rete di casa. Ma era patetico. Doveva essere colpa di quegli odiosi cartelli. Più li odiava più si sentiva prender forma. Le mani gli tremavano, le gambe, il basso ventre dentro la felpa che si era buttato addosso, un bollore crescente là sotto la stoffa sdrucita della tasca anteriore. Comprese l’apparente ovvietà che per andare nella strada e attraversarla in maniera continuata, fin quasi ad allontanarsi dalla città, uscire dai suoi confini, prima di tutto era necessario avere un corpo. Che avrebbe potuto usare in molti modi inutili e stupidi. Ma sarebbero stati i suoi, almeno, no? Era un altro dei pensieri che proprio non andavano in una giornata priva di chiarezza -no, forse era scorretto prendersela con la giornata, che era solo come tutte le altre giornate, bastava confrontare tutte le previsioni del tempo che c’erano state. Il fiume che era stato centro di quella civiltà non aveva mai straripato. Le piogge e la grandine dalle nuvole scendevano laconiche, poi sparivano, come se ciascuna goccia o granello ritornasse sempre nello stesso punto dove si trovava in cielo, che così si ricomponeva per com’era sempre stato in un ciclo infinito e perfetto. La città era autosufficiente, era il mondo che integrava alla perfezione quella sua economia di principi… ma lui aveva un corpo che poteva illudersi di uscire e forse questo non era così inutile come aveva sempre creduto, come tuttora credeva, ma d’un credo complicato da certi elementi confusionari.
Era importante che fossero i suoi modi stupidi e inutili, i suoi, e non quelli, per esempio, delle facce idiote che lo guardavano immobili da dentro i cartelli, schermi plastici che occupavano pezzi di cielo, sostituendolo, incarnandolo. Non era ancora certo però che fossero gli stessi modi stupidi di quella sua forma riflessa sulle vetrate dei concessionari, quelle pennellate che si scolorivano sulle superfici scure, opacizzate dal buio dentro gli edifici. Corpi mostruosi dormienti di macchine e jeep vincevano sul riflesso che si proiettava, mostrando le proprie ombre con vitrei occhi di fanale di là dalle lastre uniformi. Inglobavano la forma che imitava una deambulazione nervosa, una felpa con cappuccio a capo chinato di uno che procede caparbio. Distolse lo sguardo dal concessionario, dimenticò i deprimenti bandieroni che si susseguivano in fila dalle sue guglie, li bruciò nella sua mente.
Un cartello senza volto, finalmente. Triangolo dal contorno rosso e la polpa bianca, vuoto. Nonostante ciò guardava anche lui, diceva: abbandono. Non si può proprio sfuggire a ciò che si è imparato, disse allora al triangolo, giacché esisteva dunque costringendo il corpo appena nato a una sua qualche forma di rapporto. La forzatura chiamata comunicazione l’aveva inseguito fin laggiù. Avveniva per associazioni stratificate, per esperienze avute: dovunque si dirigesse, non avrebbe mai potuto vedere un cartello stradale triangolare completamente vuoto e non pensare a niente. Al niente che era la sola cosa che voleva rappresentare, ma creato da e leggibile solo per le creature che non erano in grado di immaginarselo. Sarebbe stata una lunga camminata, mai priva di intrusi sul suo tragitto, per quanto il tessuto urbano, compatto su una pianura comatosa, fingesse l’evaporazione dei suoi occupanti. Erano tutti là, i segni lasciati da loro.
C’era stata la scuola guida: altre grida di uomini, istruttori o compagni impazziti d’ormoni. Era diventato un uomo: capace di far correre il suo veicolo sulla strada, si può muovere liberamente per l’unico reame conosciuto, la città da cui non si esce mai. E ancora avrebbe potuto o dovuto incontrare una donna, sottometterla. La vede nell’aula dei test di teoria, a scuola, ne vede un giorno dei jeans, un altro una gonna, spesso la sagoma china a rigirarsi la penna tra le falangi. Evita gli occhi, scaccia come fumo nocivo quello che talvolta dice. Per esempio: se non sei d’accordo con quello che dicono, dovresti provare a parlarci, non sei un bimbo, non sei più una cosa che se ne sta là inerme. Doveva aver capito, lei così tanti anni prima di lui, che aveva un corpo che occupava uno spazio sotto quel tetto prima ancora che da qualunque altra parte, e prima ancora della sua vita quotidiana. Doveva essere perché eri una donna, pensava, guardando le nuvole come se ci fosse un volto lassù, meno profano di quelli vicini. (La donna che ha accettato di eliminare le macchie di questa esistenza, tutte brave pulitrici le donne, sanno lavare e attaccano le lavatrici sconquassate che qualcuno getta ancora buone nella discarica. Lo accettate, mentre l’uomo sfreccia sull’asfalto o lo beve, e lo vedi là, seduto nella fila davanti che mette la crocetta sullo schema di una precedenza a un incrocio: l’uomo sfoggia catene, lo conosco, è uno delle parti mie. Catene e cose di ferro lucido, adorna anche lui il suo corpo come la donna con il trucco. E le sfoggia nella scuola per gente disagiata, come dice qualcuno sempre secondo quei modi di dire. E allora perché accettate tutto questo? Perché non posso anche io combattere le macchie della mia esistenza? Perché usi con me la gentilezza di indurmi a cambiare le cose parlando con dei genitori che non sanno parlare, e non ti rendi conto di questa contraddizione, del fatto che tu sia necessaria per me affinché io faccia qualcosa per me stesso? Siamo ugualmente sottomessi.)
.
Un impatto. Sembrava un sasso dal cavalcavia. Alza gli occhi: vede quella specie di ponte sospeso con le inferriate blu al di sopra carreggiata, tra due eucalipti. Non si vede niente e nessuno che faccia cadere pietre, ma c’è stato un impatto. Deve aver scagliato con la forza senza controllo della sua mente indomita un pezzo squarciato d’asfalto, e deve aver preso in pieno un cartello, sfracellando una faccia, magari anche quella, apparsa nell’insieme, della “donna”, che gli aveva detto di “comunicare”, e così lui ci aveva provato ed era successo quello che era successo. Levata di mezzo l’ultima rompipalle della terra, dopodiché eliminare anche l’uomo sarebbe stato facile, bastava uccidere l’uomo che era dentro se stesso. Questo poteva dirsi fatto se si considera che da un po’ aveva smesso di pensare al suo appetito per il tabacco, simile a quello per l’alcol e per la dominazione gerarchica. L’appetito che era stato l’unica cosa a farlo migrare dalla rete del giardino. Chissà se ondeggiava ancora laggiù, tesa tra i suoi pali confitti nella terra gravida di gatti sepolti, mozziconi, pesticidi.
Altri ululati lontani e gracchi, rispondono all’unico rumore. Oltre il cavalcavia il ragazzo vede alberi, formano macchiette su bordi di campi lontani, come se stesse entrando in un diverso bioma. In realtà, sa che più avanti i negozi si agglomerano in isole posizionate su lastre tediose di parcheggi, galleggianti tra sterpi separatori, l’habitat dei bar e delle tavole calde prive di anime. Supera il cavalcavia, i suoi scalini toccati da decenni soltanto dagli amanti dell’abbandono, i graffitari, i teppisti, i perdigiorno, la gente del quartiere, con le catene o col trucco scaduto sulla pelle -i suoi uomini, le sue donne. Supera la muratura interna che si riempie di tenebre angolari, sporche di macerie e cianfrusaglie e scarpe abbandonate. La striscia d’ombra sotto il ponte sospeso è più buia della notte. Sulla parete s’affrontano slogan di svastiche e falci e martelli e manifesti circensi, di boicottaggi, di svendite concluse all’inizio del secolo. Un odore d’urina si leva da un grumo simile a fieno annerito. Oltre il cavalcavia c’è su un montarozzo d’erbacce una sedia verde come quelle impilate e inutilizzate in veranda, se ne sta a contemplare il vuoto senza un culo seminudo che la riempia. Uscendo da sotto il bordo, valica un confine. Benché sia scarsa, opaca come se un mal di testa impedisse ai sensi di distinguerla meglio, la luce che lo investe uscendo da quel limite e confine quasi lo acceca: dopo poco riabbassa l’avambraccio scattato a schermire gli occhi, avanza con la cautela di chi si abitua. Ma per il fastidio del primo impatto -un primo impatto così insignificante, ha solo traversato sotto un ponte- ha un atteggiamento diverso. Chi si avvia per quei campi e silos abbandonati, sempre visti soltanto dai finestrini della corriera, è un individuo più irritato di prima.
…
Quando ricomparvero le persone, videro vetrate in frantumi, ruote lacerate in squarci irregolari, carrozzerie ammaccate, marciapiedi divelti. Qualcosa, un’enorme furia, doveva esser passata di lì. I crateri di un decadente tratto di strada si erano espansi e si erano aperti nuovi loro figli, disposti a nidiata tutt’intorno. Non sembrava però esserci stato nessun temporale, nessun segno lasciato dall’acqua. Sedie ribaltate e scagliate oltre le fratture dei vetri, aste segnaletiche piegate, nient’altro che alberi sorpresi dalla tempesta. Una prostituta era giunta alla sua postazione passando per vicoli che conoscevano lei e pochi altri, dove occorreva accucciarsi a terra e farsi sfiorare la testa da rovi e fronde discendenti. Nella lunga camminata, vide dai campi la devastazione. Disse, fumando una sigaretta seduta sulla sua sedia, quando già i primi camion ricominciavano a sfrecciare tra i pochi bagliori d’alba visibili oltre coltri e foschia, che aveva visto qualcosa, come un riflesso eppure troppo vivo. E che era, un fantasma?, aveva commentato qualcuno; lei aveva riso, senza aggiungere altro. Era un ragazzo che urlava e lanciava, scalciava, colpiva, attraverso lo stradone, sempre che l’avesse visto. Vedeva molte cose, lei, standosene là talvolta per intere giornate, soltanto a fumare, a vedersi sfrecciare avanti il latte, la legna, i gelati, i cosmetici, perfino cavalli col muso fuori da grate di container. Ma su quello che aveva visto quella volta, per quanto confermasse più volte essere proprio la verità, aveva qualche specie non meglio chiarita di dubbio, come si rapportasse a una traveggola per quanto nitida e indubbiamente vera. Un personaggio fuori da un mito -o meglio, una leggenda metropolitana- aveva corso gridando, rimbombando l’eco, ignaro di tutto ciò che succedeva. Ignaro, certamente, di lei che lo guardava, nascosta in rovi e fogliame alla periferia di una giornata deserta. La sua forza, disse, era straordinaria, e come senza pensarci o capire cosa era in grado di fare smontava come gli pareva tutto quanto. Lo vide sparire oltre l’orizzonte, dopo l’autovelox e la fabbrica abbandonata dove gli eucalipti si fanno frequenti al primissimo punto in cui la strada piatta si solleva su un declivio, e tutt’intorno cominciano a vedersi poche colline prossime a scomparire in una grigiastra lontananza con qualche noto palazzo e punto riferimento qua e là sullo sfondo.
…
(“voi siete feccia. Voi siete gli scarti. Sapete che si dice? Ritrovarsi in questa scuola è una punizione per qualsiasi insegnante.” -forse non aveva detto esattamente così. Avrei voluto chiedere se allora non fosse il caso di interrogarsi sulla pena che dovevano aver commesso. Nessuno chiedeva loro di insegnare a gente come noi, mentre per loro era l’inferno, la scuola per noi era solo una cosa che esisteva, come il pranzo e la cena e la doccia. Devo proprio aggiungere anche la violenza a questo mio elenco, professore? Guardi che quella è una categoria di chi viene da un altro mondo, è il vostro giornalismo sensazionalista -qualcosa ho imparato anche io, vede. Per la feccia di queste parti, così vicine alle vostre case, è solo ciò che si vede e respira. Fa comodo associarla a noi, giusto? Mai scriverne troppo esplicitamente nel tema, però. La professoressa non ha gradito il linguaggio usato.)
Se soltanto avesse avuto delle fiamme a disposizione. Sarebbe stato enormemente più soddisfacente se le facce fossero scomparse poco a poco, incenerendosi nei tratti somatici, nelle mollezze imprevedibili della faccia, così irritanti. Immaginare che l’umidità degli occhi si secchi, fino a poter lacrimare soltanto un fumo nero e maleodorante. Doveva accontentarsi di restituire soltanto dei pugni. Un impatto di nocche di roccia. Il cozzo era simile a quello sulle ossa, sugli specchi, a seconda del materiale che incontrava, duro o fragile. I suoi pugni erano la terra stessa, l’asfalto, i sassi e il cemento levigati dai millenni o dal frastuono mattiniero dei lavori, dalla costruzione che si espandeva a macchia mangiandosi la prateria. Il bersaglio: fattezze, tic, sorrisi. I denti dietro questi, nati per mordere, per dissimulare. Non sarebbe stato magnifico veder bruciare tutto ciò? E immaginarsi dentro ogni volto qualcuno che osasse farlo incazzare, di quest’incazzatura di cui non aveva mai saputo che farsi, e che adesso lo riduceva a quel modo. Suo padre era alto e corpulento, la barba pungicava come un sottile strato di fil di ferro. Rosso e unto, alitante. E invece no, solo cenere. Poi si trasformava negli occhiali e il colorito malaticcio del preside, la riga dei capelli da un lato. Poi il muso da statua del professore, il naso della professoressa e i brutti nei della madre. Lo sguardo al pavimento del counselor. La treccia, calante in spirali delicate da un orecchio appuntito a un seno, che quella ragazza si era fatta quel giorno in cui gli aveva detto: reagisci, e lui rispose tacendo, quella volta e tutte le altre. Digrignandosi quando si voltava dall’altra parte.
Cosa voleva dire “reagire”? Sciocco credere che basti uscire dalla rete del giardino sul retro e andarsene, buttare a terra le sedie da esterno estive, dimenticare i ricordi parzialmente piacevoli per potersi liberare di quelli brutti. Cosa voleva dire? Lanciò un bidone. Si arrestò: gli sembrò che dei movimenti si spargessero dalla macchia unta rimasta dov’era il bidone, come la sua ombra appiccicata all’asfalto. Seguì il frusciare d’ombre fino a un angolo con altri bidoni e un parchimetro, le prossime cose che avrebbe sfasciato come un animale, e gli sembrò di sentirsi osservato, dalle tenebre lì acquattate, da molte paia di occhi di scarafaggi. Corpi grossi come braccia umane, avrebbe goduto nello schiacciarli.
Procedeva in scatti furiosi e non aveva tempo di farsi paura da solo.
(“lo sapete che questo è un compito da ragazzini di quinta elementare, prima media? Davvero non potete fare di meglio, da costringermi a darvi queste tracce ridicole? Come si può venirvi incontro?” -la traccia chiedeva di descrivere la propria famiglia, oppure il proprio gruppo di amici. Doveva essere un compito facile. In un certo senso, lo era. Non c’era stato un solo compito che l’avesse accontentata, mi sembra di ricordare. Ma che voleva? Che scrivessimo meglio, o che avessimo altre vite? Mi convinsi con la testardaggine di quell’età che dovesse esserci una verità inconfutabile in questo episodio, e cioè che a scuola la verità stessa non è quello che si richiede quando si pone un quesito, al contrario la si rifugge. Era meglio allora che me la mascherassi, che affibbiassi io delle definizioni alle cose. Professoressa e professore, altri che impongono una propria forza. Ecco perché la prossemica di molti che passavano per i corridoi o stravaccavano le scarpe sopra i banchi, sprezzanti e colpevoli, ricordava così tanto quella che assumevano in presenza delle guardie.)
Non era così assurdo pensare che fosse rimasto ancora un po’ accecato, uscendo dal ponte, incontrando dall’altra parte del tunnel una misera luce. Se non altro perché non vedeva le cose con la vista ben funzionante di due occhi umani, in grado di discernere i colori e le forme. Discerneva con molta efficacia soltanto i nemici, li separava dalla linea di terra: costituivano l’interezza delle cose. Per autosuggestione, o forse solo per sogno, proseguì a distruggere tutto ciò che gli capitava, a correre, correre, come uno che se ne vuole andare lontano.
(“cosa credi, anche da me le cose non vanno bene” “lo so, in case come quelle è facile sentire cosa succede attorno” “invece non lo sai. Non irritarti, lo dico per te” “non mi serve niente, grazie” “ma come puoi dirlo? Ti serve aiuto, come a tutti noi. E se non c’è possiamo solo sforzarci”, poi eravamo stati zitti per un po’, non lo ricordo, ma ci scommetto che stavamo fumando una sigaretta. E allora le dissi ridendo che avrei compiuto un furto, un omicidio, appiccato un incendio, sfondato una vetrina. Ma lei non rise della battuta. Mi disse invece che dovevo volermi bene, una cosa senza senso del genere, che a fare altrimenti voleva solo dire che mi stava bene quella situazione. Potevo usare il mio corpo e la mia mente, in molti modi forse stupidi e inutili, ma gli unici possibili. Poi usò una metafora. Da allora la cancellai dalla mia mente. Raccontai al counselor il mio strano sogno, con la cenere e le macerie, con gli insetti… voleva diventare un animale, squarciare e afferrare, saltando da una parte all'altra come un pazzo drogato... per la prima volta sollevò lo sguardo e mi guardò, con quei baffi del cazzo. Disse solo: tu qua non ci vuoi venire più. Non ci dicemmo più niente. Ricordo però che quel giorno faceva stranamente bel tempo. Cielo limpido, azzurrissimo, le foglie rosse del viale alberato parevano formine incollate a uno sfondo a tempera. Ero tornato a casa dicendomi che le giornate calde d’autunno in città facevano proprio schifo. Fortunatamente almeno i giorni della scuola sono finiti da un pezzo e scomparsi per sempre.)
...
La prostituta sedeva sulla solita sedia. Mattinata fredda, nuvolosa. Pochi bagliori, albeggiare incerto nel buio attorno alla sopraelevata. Un tozzo macchinario della nettezza urbana si aggirava per le piazzole adiacenti la superstrada, con l'aria abbattuta di una bestia da soma. Si risucchiava una scia di mozziconi di sigaretta, mezzi mangiucchiati come da un cane randagio, mezzi calpestati. Sparivano uno dopo l'altro in un istante, e sembrava non ci fossero mai stati.
Comments