la tana del Signor T.
- Milky
- 19 lug 2022
- Tempo di lettura: 25 min
Facciamo così. Mi potete chiamare Signor T., e questi sono tre giorni che ho trascorso in compagnia di una mia “fantasia”, che mi piace definire Persistente e Pestifera. Tre giorni, o forse è stato tutto in un giorno? Potrebbe anche essersi trattato di un mese. Il problema è che ero da poco guarito da una malattia, che mi aveva riempito le vie respiratorie di muco, ogni tubicino dentro me ostruito da un denso fluido trasparente, gravido di bolle d’aria. Per giorni non c’era stato altro che un trafficare di gorgoglii, rotolandomi nel letto e premendo ora su un lato ora sull’altro avvertivo soltanto variazioni nel generale sciaguattare in cui perfino i pensieri, tutti quelli che fossero altro dalla mia debilitante condizione fisica, andavano ad affondare vischiosamente, in questo intruglio idrobatterico come in un pantano primordiale. Ma ecco, guarisco, sparisce tutto il muco senza, mi sembra, alcuna gradualità. E i giorni successivi che trascorro per riprendermi -cioè, parafrasando il dottore, osservare il processo della mia ombra proiettata dall’abatjour sulla carta da parati che riacquisisce massa- mi sembra di attraversare qualcosa come delle fasi. Saranno cose da malattia. Dico, perché così mi va, tre giorni, di polmoni ancora strani a galleggiare nel petto, ancora lenti, invischiati di pece residua del pantano primordiale. Facciamo che mi chiamo il Signor T. perché, stando a questa importuna sdoppiata coscienza che dal suo mondo di fantasmi era arrancata fin da me, “dalla malattia deve riemergere una individuazione”. Non ha fatto alcun commento che potesse farmi capire se avessi interpretato bene le sue parole, ammesso che fossero proprio queste. Ma forse per altri motivi sembrava aver approvato che chiamassi me stesso in un certo modo. Avrà visto una qualche comodità nei nomi.
Ma ora occorre che dica chi è questa cosa. È molto semplice in realtà: stavo seduto su una sedia, non ricordo che ora fosse e cosa facessi, anzi ricordo che non facevo niente, e da sotto le gambe della sedia, mischiandosi poi alle ombre delle gambe del tavolo della cucina e a quelle di certi angoli impolverati, strisciò un fascio di linee scure, tutte che andavano a convergere in un punto a circa un metro da me, sotto il davanzale dalla finestra. Tenevo la testa a ciondolare, rivolta più o meno al pavimento, sul collo inerte svuotato di soffio vitale, ma in quel momento ammetto che non riuscii a trattenermi e sbirciai, riprendendo vita squallidamente. Allora in sincronia allo scricchiolio del collo, forse per suggestione o perché è così che deve andare in circostanze del genere, l’ombra così addensata assunse una forma che non mi era del tutto sconosciuta. Un globulo d’ombra nella parte superiore -perché cominciava a mutare in modo che si potesse parlare di parti superiori e inferiori- si restrinse rispetto al resto, si dilatò e contrasse, fino ad assestarsi in una forma vagamente triangolare dove in breve tempo si squarciò un sorriso bucherellato. Riconobbi un gatto nero francese, fortemente deformato eppur riconoscibile come una figura stravolta incontrata in sogno, un gatto nero (nessuno a parte me l’avrebbe definito così) che avevo visto su qualche manifesto artistico e che, sa il diavolo perché, doveva essermi rimasto dentro fino a quel momento, immagazzinato da qualche parte. Sarà che deve andare così, che una forma deve prenderla. Non si presentò né disse niente, non in quel momento. Ricordo che finii di fare quello che stavo facendo in tutta tranquillità, senza alzarmi dalla sedia, il sole bianco e distante sotto lo spiraglio della serranda della cucina trascorse insieme alla penombra su di me e sulla stanza. La polvere, sottili squame semitrasparenti, nevicava lenta dal soffitto, infinitamente, assorbendo in sé i bagliori indiretti e sembrando in questo modo che incarnasse una specie di luce molto più reale della fonte originaria, che distante e indifferente se ne stava da qualche parte nel vago mondo di là dalla serranda. Produceva un’influenza inconsapevole sulla mia capacità di concentrazione, nel fare quello che stavo facendo. Dopo aver finito andai a non far niente da un’altra parte. Cambiando di stanza in quei giorni sembrava di ricevere un’anticipazione uditiva del silenzio alla fine di tutto, perché solo così ci si accorgeva di quanto forte e introiettato fosse il ticchettio di un orologio vecchio, forse rotto, appeso da qualche parte in cucina. Non ne sono certo. Perché non ricordo che aspetto avesse. Non è che l’abbia mai visto. Però lo sentivo.
Questo coinquilino della mia post-degenza mi fece qualche domanda. Non che ci spingessimo in lunghe conversazioni, ma qualche volta è successo. Ci intendemmo istintivamente circa il reciproco bisogno di riservatezza. Per un po’ spariva, ma, in una maniera che non si può spiegare, sapevo sempre che non si trattava di sparizioni definitive. A volte erano interrotte da improvvise ricomparse, soltanto per pochi istanti, per esempio mi pareva di vederlo aggirarsi lungo una via immaginaria verso un punto di congiunzione tra un muro e l’altro, svelto e con la coda dritta in su come un vero gatto su un davanzale. Poi spariva. Poi dopo un po’ rispuntava fuori e se ne stava fermo lì per un tempo molto più lungo. Comunque, nonostante condividessimo la riservatezza e altre cose che non sto a spiegare, cominciò presto a irritarmi. Se non altro perché prese ad assumere, come un pappagallo che si diverta a imitare senza capire niente, certe voci che conoscevo bene e che già da molto tempo prima della malattia mi circolavano attorno alla fronte, forse per un sistema d’autodifesa preventivo nei confronti di un momento ipotetico in cui fossi uscito di casa e avessi incontrato individui. In quei momenti non faceva altro che recitare le frasi che avrebbero detto loro, dandogli però consistenza e peso maggiori proprio perché era dalla sua gola d’ombra soffiante che uscivano, e non più dai cerchi di nulla nebbioso attorno alla mia testa. Ma insomma, gli ho detto una volta, non si è mai vista una cosa ridicola come un gatto-pappagallo ed è disdicevole che tu non lo voglia ammettere. Al che mutò radicalmente, facendo passare sul “volto” quello che addirittura poteva sembrare un baluginio di veri occhi gialli, con pupille verticali d’agguato, e senza più rubare voci altrui disse di testa sua una cosa, una sua risposta ragionata per opporsi alla mia osservazione, del tipo che tra gatti e pappagalli non c’è poi tanta differenza perché entrambi li teniamo ingabbiati in casa per poterli guardare e che uno sta in una gabbia nonmetaforica mentre l’altro, mah non ricordo, francamente non ricordo il resto dell’argomentazione. Ma ricordo che balbettai ammettendo che non faceva una piega.
Comunque, queste sono tre di quelle volte in cui ha indugiato nelle mie vicinanze per un tempo piuttosto lungo, talvolta interrompendo i pensieri con quei commenti più o meno suoi. In quei giorni ero un perfetto animale d’appartamento e in questo ci assomigliavamo. In questo e altre cose che non sto a spiegare.
Mi ero annotato tre situazioni.
..
1
Oggi sono vissuto per cinque minuti. Com’è stato? Strano, certo, e come altro poteva essere? Se mi fa male la testa? Assolutamente. Altrimenti non verresti qua a farmi queste domande. Dai, siediti anche tu. Ti porto nello stesso posto dove è successo.
In balcone. La cosa non è banalizzabile nel modo che credi. Non è perché uno è in clausura, a studiare o a guarire o a impegnarsi in qualche altro nonsenso, che all’improvviso gli sembra di vivere solo quando esce a prender l’aria. E non è nemmeno che quell’altra attività, protratta inverosimilmente, comincia a significare morte e vuoto. Guarda dal davanzale: tutto significa la stessa cosa! Ma per cinque minuti in questo tutto, senza nessun preavviso, si infilano piccole cose brulicanti come dita microscopiche di tarme rimpicciolite e incorporee, in tante file simili a gocce di trasparente sporco in turbinio sulla retina. Piccole, difficile estrarre. Ma in quei cinque minuti che vivi, i sensi, anzi certe cose che nei sensi si nascondono, si fanno chirurgiche e riescono a prelevare in un mondo d’ombra l’essenza di queste cose che brulicano. E riescono a portarla per essere esaminata davanti a uno sguardo più ravvicinato. Di che roba si tratta? Avendocele in mano, tra dita o tra dita fantasmatiche di sensi altri dentro i sensi nonaltri, sembrano sfuggire ancor di più.
Oggi ho visto tante forme, creature d’illusione d’ottica o qualcosa di più. Forse per capirle bisogna tornare non su cosa fossero, ma su dove erano.
Ero al davanzale che mi accasciavo, diventavo lo stesso bianco arroventato dell’unico dente del labbro aggettato sulla via. Dente insanguinato di pidocchi rossi qua e là. Parassitariamente entro in flusso con il suo smalto, la sua anima minerale, e il calore che assorbe e mi ammazza dentro per quanto è violento. Ma meglio così. Volevo solo guardar fuori, senza vedere niente. Obiettivo preciso di chi sente l’aria viziata, e ha organi e arti pesanti. Cercare cose mobili, senza vederle. E allora mi accorsi che qua e là, impercettibilmente e senza che capissi bene la natura di tutto ciò, cominciavano a emergere queste essenze brulicanti, in punti scollegati tra loro, apparentemente senza un’anima da condividere. Tranne il vuoto in tutte le cose che ero capace di vedere? Ma quello era scontato, quello non era abbastanza per poter ritagliare un messaggio da portare all’interno di nuove forme che stavano nascendo. Non era una cosa loro individuale. Ma c’erano, nella città e nella strada. Un cagnetto nero su un balcone è un apostrofo posto tra questo momento e tutti gli altri momenti in cui questo quartiere e i suoi incroci, che guardo dall’alto, sono esistiti. Queste vie tutte con lo stesso colore. Nelle linee interne al colore, testimoni della sua logica e lunghezza d’onda, si mettono in fila i passetti. Sguardo zoomato, sguardo accelerato? No, al contrario, è lentissimo. Come quel fumo di sigaretta. Lo vedo, respira da uno spiraglio del palazzo che ho di fronte. Una zona fumatori con sbocco sul mondo. Zona senziente che vuole respirare e vuole sentire un sapore, affumicatura di lingua e assuefazione metodica. C’è un tizio che se ne sta a fumare per un po’, le gambe nude che formano carnose illusioni ottiche frangendosi tra le sbarre del balcone. Il fumo salendo edifica la città intesa come quell’organismo che prende autocoscienza quando è guardato dai trespoli sopraelevati. Più o meno alla stessa altezza dei nostri balconi la curva protesa del semaforo traballa sotto il peso irrisorio ma irrequieto di tre passeri nerastri che ci saltano sopra.
Ah, se anche io fumassi sui balconi, vedrei la città e la sentirei sulla lingua con tutt’altro sapore… cessa presto la fantasia. I miei polmoni sono già neri d’altra sostanza. Intracorporeo, ciò che vivo in un simile momento è intra ed è corporeo: un polmone palpita oltre i mattoni di un condominio, davanti a me. Altre interiorità le sviscera agli occhi degli altri osservatori dai balconi, mostra gli interni delle cucine e di un soggiorno, il pavimento dello stesso tipo di quello che so, per altre mie esperienze, esser tipico proprio di queste vie del quasicentro, queste vie di stesso colore. Gli scintilli che sul simil marmo s’appiccicano e perdono progressivamente lucore, strisciando in un ammaestrato color cinereo, ospitano un movimento: fin lì si sospinge la catena di particelle brulicanti, entra insomma anche nelle case come le file di formiche che risalgono i muri bollenti d’estate, brulicano nella puzza marcia che indugia sui secchioni lasciati nel pianerottolo.
Ho visto oggi una moltitudine di particelle che svelavano il mondo.
Qualcosa, un accadimento un flash un’intensità una caducità dei secondi che si imprime come ultimo sforzo, e sembra riuscirci. Signore, ancora a fumare la sigaretta? Pelle color terracotta, ventre cadente in mostra al mondo dei nonbalconari nonfumatori. Vede tutto, si accorge delle stesse cose? Stiamo entrambi fumando o stiamo entrambi vedendo l’invasione di spiriti particolari? C’è la strada sotto. Nei rumori si ficcano questi cosi. Una ragazza forse delle medie forse ultratrentenne laureata bassetta che si spintona caparbia tra i competitivi arrivisti del design sembra guizzare, vista dall’alto, sulla matrice brumosa dell’asfalto, e raggiunge speranzosa come vedesse un faro la base del semaforo, e lì sottobraccio lascia che una leggera brezza agiti un grande foglio, una pergamena gialla dove s’addenserà inchiostro d’architettura. E anche lei, mi chiedo, vedrà forse comparire, in uno studiolo sotto una luce vecchia di una lampada anni xx tipica di questi appartamenti vecchiotti, tanti microrganismi sul foglio. E capirà forse che le erano saliti addosso dalla città attorno a lei proprio mentre non ci stava facendo caso, mentre tutto il suo mondo si era ridotto al semaforo e il fatto di dover attraversare l’isola di sua sorveglianza. Nel semaforo, nelle sue vene, scorrevano tanti batuffoli, tanti esserini, tanti cosi…
Finito. Esprimi delusione? No, non è nemmeno quella malattia che nomini, con le tue labbra nonlabbra, ma insomma perché vieni a cercarmi?, ti chiedo intanto che rientriamo in camera, le spalle a quel mondo della strada che si riduce nei suoi elementi fino a esser solo luce attraverso un vetro, e tu ti riduci impercettibilmente a meno che un’ombra normale, cominci già a sparire. E smettila di fare certe domande aventi un subdolo intento riguardo quel che ho visto, e basta mostrarti e apparire. Basta parlare di malattia mentale. A parlarne così tanto si può solo renderla squallida oppure renderla reale, entrambi risultati indesiderabili. C’è molta più poesia di quel che credi, sì, molta più poesia nella comparsa di piccole particelle del movimento sulla scena di istanti assolutamente, torridamente immobili nel traffico di un pomeriggio estivo che non riesce a sfumare in sera, sotto un’ora prepotente. Non ci credo io per primo? Sarà… ma è per questo mio non crederci che, polmoni neri con me, andrò nuovamente in un certo momento a credere di respirare l’aria esterna. E allora rivedrò e sentirò brulicare sotto la pelle certe cose, e per quei momenti soltanto crederò immobilmente a certe cose e a tutto quanto, e mi sembrerà di vivere all’improvviso. Come la via che viene brulicata dentro.
..
2
Il giorno dopo il quadro comincia a parlarmi. Si apre una fessura, specie di bocca, in un punto basso sulla tela, nell’acqua disciolta per produrre il colore, e il mal di testa già mi sale pensando a quante cose doveva pensare il pittore per concretare nel mondo reale una semplice e perfetta immagine di mente, non complicata da movimenti che è necessario mettere in atto. Maledico con tutto me stesso le pulegge e i trabiccoli di questo mondo quand’ecco che mi avvicino quel che basta per segnalare a chi mi manda messaggi che sono disponibile, posso ascoltare.
La bocca apertasi proprio lì, dove il bel colore imita l’acqua bassa di uno stagno sulla cui superficie si riflettono e diluiscono nei loro costituenti i borghesi avventori del parco, mi dice: fratello, mi gratteresti la schiena?
Per un po’ faccio finta di essere distratto, è chiaro. Indugio sugli odori, per esempio quello polveroso della poltrona -mi sembra di sentirmi scricchiolare fin dentro gli occhi i suoi meccanismi interni, la macchina poltrona. Facciamo che la ignoro e che se ne sta là con la sua faccia di tessuto in silenzio. Continuo però a sentirmi lateralmente osservato, nel mio stesso appartamento nelle stesse mie ombre in cui ho sguazzato, mentre mi pongo, quasi a volermela gridare dentro, una domanda molto importante: come si fa a grattare la schiena a un quadro? Bisogna staccarlo, grattare dietro, basta questo? Nemmeno l’ombra di gatto, attrespolata lì vicino a osservarmi, mi sa rispondere, ma la cosa non mi stupisce.
E poi il prurito di un quadro, se assomiglia al mio di certi giorni, vorrei dirgli, è meglio che rinunci. I quadri però hanno una vita tutta diversa, bisogna pensare in maniera diversa. Bisogna mettersi nei panni dell’altro, questo anche i quadri lo insegnano, anche l’arte lo insegna, l’arte figurativa almeno ha l’onestà di ammettere costantemente e semplicemente esistendo che non è altro che una finestra su una scena cristallizzata nel cristallizzarsi dei pigmenti, e questo ti dà tutta una pazienza che altrimenti non avresti avuto nei riguardi di una collettività di uguale insignificanza, e venendo trascinato in un panteistico trasporto lacrimoso di pochi istanti capisci che c’è un cuore solo e che il prurito del prossimo tuo è il tuo prurito e sta bene grattarglielo. Nonostante tutto questo, per un po’ non so che fare e tutto ciò che mi è parso di comprendere si dissipa in una nebbia d’emicrania lieve e indefinita e per questo più fastidiosa -un comune effetto delle riflessioni estetiche prodotte nei corridoi e salotti di casa propria, particolarmente nell’ora in cui un esasperato barrito emerge con regolarità sorprendente da un certo punto dei muri in cui transitano verticalmente certe sottili tubature che trapassano il palazzo, e sembra che un odore di cloro si sparga in manciate lungo un intervallo ben scandito e orologiato. Intanto so che il dilemma non lo posso risolvere con la mia testa, con le mie numerose teste -hey, nessuno qui ha invitato altre teste! Tacete. La poltrona mi minaccia, dicendomi che lo vede che non mi sono davvero dimenticato di lei. Il ghigno del gatto là accanto si fa ripugnante, facendomi rimpiangere una wonderland d’appartamento in cui i gatti non ghignano -ricordo così un piccolo libro, altro esempio dell’arte che ci ha insegnato l’empatia dell’essere tutti matti. Ma sto divagando. Per una ragione precisa, una strategia attenta che si costruisce molto prima di contemplare l’eventualità di toccare chi mi sta parlando.
Sai, dico al quadro per cambiare discorso, una volta ho fatto un esperimento. Moltiplicare, volontariamente, le mie teste. Applicando una miscela acidabasica alla base del mio collo. Poi ho aspettato di vedere la pelle che ribolliva e reagiva mentre sotto la sua superficie andavano gonfiandosi escrescenze sotterranee. Così nacquero anche i monti di questa terra, le teste di questa terra, no? Per vedere le cose dall’alto, come ieri il balcone. Il gatto borbotta digrignando i denti qualcosa di relativo ai disturbi del comportamento.
Il quadro non si interessa di antroposofia geografica, è tutto preso nel suo pomeriggio ombroso del parco, il suo pomeriggio di benessere ottocentesco o giù di lì, dove le oscurità sotterranee di occulte teorie non si insinuano a disturbare una pace prima di cena artefatta e forte perché egotisticamente consapevole di essere tale. I cappelli piumati delle signore sono abbastanza per esaurire lo scibile dell’esistenza, pensa il quadro coi suoi occhi -avrà anche degli occhi, o no, se apre delle labbra come gli pare e piace? E saranno pure degli organi pensanti, trattandosi di un quadro, una roba così, così piena di informazioni…
Mi accascio di nuovo. Su una poltrona diversa. Non è mica possibile andare avanti così. Troppe cose, troppi elementi fanno venire il mal di testa. Se per esempio mi allacciassi le scarpe: e cosa dico, a quelli che hanno fatto i lacci, e a quelli che tanto tempo fa inventarono i lacci? L’umanità è in debito anche con loro? Appartengo io abbastanza a questa specie d’umanità, da poter essere vicariamente responsabile dei suoi trascorsi, come per la mela e il genocidio e gli incendi appiccati ai villaggi e la crisi e millenaristica follia collettiva del graal e molto molto altro? O saranno proprio questi dilemmi ad allontanarmi dall’umanità e tutto ciò? Vedi, quadro, non posso nemmeno allacciarmi le scarpe, nemmeno guardarmi il naso che vedo spuntare al margine meridionale del mio campo visivo, senza precipitare in un grande sconforto fatto di incapacità di comprendere, di memorizzare tutto con lo stesso identico peso, di vedere il senso del fatto che alcune cose ci siano e altre no e altre proprio in quella forma che hanno. Secondo te, posso mai grattarti la schiena? Io non posso agire, fratello mio di tela colore e prurito.
Il quadro però aspetta perché è bravissimo a farlo. Intanto la polvere cade in tutti i modi possibili. Spettri di parrucconi di appartamenti sei sette otto centeschi si proiettano fin dentro questo appartamento qua, lentamente con lunghe e precise dita di primitiva soffocante curiosità raccolgono ed esaminano la polvere. Tutti vicini di casa mia. Chissà i vicini quegli altri invece, quelli reali. Chissà tutti gli appartamenti della zona. Sempre affascinano i mondi privati oltre le finestre oltre le retine. Io indago le fronti, la mia fronte è il massimo paesaggio del mondo. E là non devo pensare alla materia che compone la fronte perché quando ci si è dentro non la si vede e non si vede proprio niente. Si crede. Si vedono solo proiezioni e no non è un banale inganno di caverna illuminata da inganni nelle gallerie profonde. È una caverna di inganni dentro la caverna di inganni, dico e rivendico come fanno gli artisti quando assumono per se stessi il nome datogli da chi li critica; e vinco anticipandomi nell’umiliazione della mia impotenza e ipnosi autoindotta -sei un paraculo mi dice il gatto, Persistente Pestifero. Il quadro intanto aspetta. Mentre ombre di condomini vicini si spostano nel cielo, tutto si sposta nel cielo e le ombre cambiano d’umore qua dentro, facendo sprigionare gli odori da tutti gli angoli, da tutti i tipi di polvere e mobile, e tappeto e carta da parati, e legno e marmo e telefono con la cornetta, al tocco un giocattolo di un colore liscio perfetto, e sapone e borotalco e calamite e… altre cose. Tutto vortica, ne sono centro, antropoegocentrico. Il quadro aspetta, e infatti a un certo punto, come dire, “mi passa”. Riesco ad alzarmi ed eseguire.
Insomma stacco il quadro dalla parete. Guardo dietro. Vero, c’era una specie di cisti, gonfio sangue raffermo sulla superficie beige simile a compensato. Molto acuto, questo quadro, nel percepirsi i mutamenti corporei pur non avendo un corpo. E allora ci gratto. Ma non è questo il punto. E forse nemmeno che prima o poi mi sarebbe passata, senza alcun motivo e senza alcun senso di soddisfazione dato dalla continuità delle cose, tic toc tic toc da qualche parte echeggia fin qua, dalla cucina sicuramente. Il punto è che adesso mi ha costretto a guardare la forma lasciata sul muro, il riquadro vuoto con la puntina rimasta attaccata al suo centro settentrionale. Voleva farmi fare questo? Farmi vedere il quadro senza il quadro. E non si capisce se è polvere a riempirlo o se al contrario è vuoto e tutto il resto del muro, dell’intero ambiente incredibilmente più opaco, è polvere sconfinata.
Mi sa che sono rimasto a fissarla almeno tre ore. La sera è arrivata, ambiente completamente diverso. Completamente diverso il messaggio dell’appartamento, la polvere non si vede più. Ma diavolo, quanto si faceva guardare quella forma rimasta sulla parete. Sembrava la planimetria del mondo. Ci sono forse un sacco di cose da sollevare, staccare da pareti e pavimenti per poterne vedere una momentanea assenza, eppure inequivocabilmente ibridata alla propria presenza. Orma di quadro: devo cercare le orme dei quadri e farmi riuscire più sopportabile il tutto.
Presenza Persistente Pestifera. Non ha parlato poi tanto questa volta, ma giuro che standosene là a guardarmi in una situazione di imbarazzo prolungato all’inverosimile ha fatto anche di peggio alla mia psiche.
..
3
Stanco e sbadiglio. Scatto in piedi, pensieri senza controllo che sfumano gli uni negli altri senza identità. Ma pieni di volontà. Devo correre fare qualcosa, tendere a qualcosa. Una necessità fisiologica o dettata da altro imperscrutabile.
Sul pianerottolo c’è una stanza con lavatoio. Colore marmoreo invade tutto tinge le frange di luce dalle sottili finestrelle in alto o meglio blocchi tripartiti di vetromattone. Presumo si affaccino su una specie di balconcino condiviso dove si stendono i panni. Non viene mai nessuno qua, questa roba è tutta mia, questa roba è casa mia. Posseduto da uno starnuto che non riesce a uscirmi, da delle prime parole che non riesco a pronunciare, esco frettoloso e febbricitante e mi tuffo di là dentro quella porta. È casa mia! Questo lavello è un mio lavello. Nessuno entrerà qui, nessuno entra mai qui. Ma non mi sono disperso tra simili problemi. Non mi sono preoccupato che potessero incrociare me, uscendo da una porta, vedendomi entrare in quella. Ho attraversato distrattamente il vago biancore del pianerottolo, si staglia nella mia mente forse solo per suggestione, per prestito dalla memoria -io non ero attento, io ho camminato meccanicamente. Sto agendo meccanicamente. È ora che presso questa sorgente segreta del palazzo mi riappropri del mio corpo, della coscienza di ciò che passa attraverso me e vi lascia un segno, in maniera automatica. Nessuno alla prossima riunione di condominio rimprovererà il Signor T. per essere quello che non guarda in faccia quando lo si incrocia.
Qualcuno ovviamente mi segue ma non è una persona. Diventa veloce, nervi strattonano sotto i contorni. Molto più pantera questo gatto questa volta, svelto che quasi mi supera e il suo scatto sembra quasi soffiare, di vento e di vegetazioni fitte di notte. Forse ha pure gli artigli lunghi letali. Si riposa, si assesta dietro di me. Davanti, il lavabo di granito si protende per accogliermi, invitarmi a sporgermi. Mi accorgo in quel momento dello stesso odore di sempre, polvere e muffa umida. Angoli dello stanzotto segreto. Tranquillo, mi dice gocciolando senza fine, nessuno entrerà, sei in casa tua, a nessuno viene in mente di ficcarsi qua dentro. Perché poi? Nessuno si sciacqua qui nessuno lava i panni qui nessuno strizza pezze che rimangono fradice a fermentare tutte arricciate. Hanno tutti altre cose con cui lavarsi, dispongono d’acque diverse per fare queste cose. Io, tu, non sono non sei qui per lavarmi lavarti. Devo spiegare proprio tutto a questo gatto? No, sono ingiusto: non ci siamo spiegati poi molto a vicenda in questi giorni. Non è per comunicare che ci siamo visti, non è per lavarmi che vado al lavatoio. Vengo a guardare le gocce che picchiettano, vengo a vedere il rumore e sentire la trasparenza in cui distorta e ricurva si raccoglie la stanza intera con la sua penombra non attraversata da alcuno. Una tana d’animale. Ma gli oggetti collezionati qui, appartenevano a gente, gente di pianerottolo. Non c’è il rischio che vengano a gettare altra roba, si sono disfatti di tutto il disfacibile. Solo io, solo io sono il disfacibile che entra ancora in questa stanza scura, al centro tra le porte del pianerottolo, isolata dai rumori degli appartamenti. Solo rumore d’acqua sopravvive. Scovarne origine. Come origine di me stesso della mia malattia dei miei polmoni, rumore fondativo di tutto ciò che sono qui dentro.
Mi sembra che alle mie spalle e nell’alone d’ombra attorno ai miei piedi e gambe qualcuno -che continua a osservare- rida, quando mi sente dire, o pensare, o vagamente visualizzare per immagini, che io sono “il disfacibile”. Ride forte, pare trovarlo irresistibilmente buffo.
È come la sete a trascinare qua dentro, ho corso -l’ho capito dopo, una fitta al torace. Acqua per gola arriva a polmoni, lenisce incancrenimenti interni. Non la bevo. So senza averlo mai sentito che il suo sapore è di ruggine e polvere e muffa, come leccare in una sorsata l’intera essenza del palazzo, delle sue zone d’ombra (un sovraccarico intollerabile, peggio che bere se stessi disintegrati in poltiglia). Ma respiro lentamente, chiudo gli occhi. Mi sembra che all’improvviso arrivi una quiete preziosa, qualcosa di fiabesco qui dentro, nella luce debole e morente incastonata nei globi del vetromattone in alto, nella vicinanza dello scarico.
Mi sveglio, guardo nello scarico. E prima che me ne renda conto sono ricurvo, quasi tutto il corpo versato dentro il lavabo largo e profondo. Sento grattarmi le narici l’odore di pietra impregnata di tessuti e solventi e calore cinetico di spazzole. Rimasto qui dentro decenni fa, mezzi secoli fa. Molto interessante, dici, mentre sembra che soffi.
Sono vicino alla goccia d’acqua. Scandiva qualcosa, ecco perché vengo qua. Il fenomeno causato dal cadere intermittente della goccia -lo sento come una febbre infilzata nel mio torace- ha a che fare con me, direttamente con me, è disperato. Ricorda orologio cucina. Ricorda acqua, gorgoglii di tutto il pomeriggio, movimenti psicocardiaci. Qui s’originano tutti. Qui c’è la vita del palazzo. Ma io è l’organo vitale del palazzo che cerco o solo il mio per poter resuscitare?
Stai facendo nel modo sbagliato, s’irrita il gatto nero. Ma cosa ti irriti. Stai di nuovo facendo quella cosa, gli dico, non fai che occupare col tuo noncorpo e la tua nonvoce gli spazi lasciati dalle voci altrui mie persecutrici. Anche qui dove nessuno viene a disturbarmi la pace. Dico questo e soffia infuriato. Cosa lo fa infuriare di questa situazione?
Tu non sei in casa tua, tu non hai una casa, tu occupi una casa. Tu non sei immune dalle intrusioni, hai solo sbarrato la porta, lo fai sempre quando entri qua. Tu sei uno che si tuffa nello scarico senza nemmeno sapere perché.
Fastidioso, fastidiosissimo. Io lo so perché. E non devo dirlo a nessuno, men che meno a un coso del genere, che quando si arrabbia soffia peggio di un gatto col cervello fulminato. Eccolo, certo non lo vedo ormai che sono tuffato dentro, ma lo sento là fuori che estrae la lingua e mi malocchia la schiena con quegli occhi gialli, e scuotere vibrisse, incarna minaccia che si tramuta in martellare di timpani. Spiacente, sto qua a non dover spiegar niente: vedo le incrostazioni, le vedo formare da sotto il bordo del lavabo fin giù al fondo i bellissimi pattern matematicamente rigorosi e significanti di un mondo intero; mucose d’aurore in miniatura, incrostate nella scoloritura lacerata della pietra ruvida, molti colori di microrganismi e alghe vengono a occupare in prolifiche colture i buchi lì lasciati, perlopiù tonalità di verdegrigioazzurro. Io sono corso qua dentro, pensavo di voler capire l’origine dei gorgoglii e trovarvi un residuo di chi sono. Capire se si può scendere ancora nello scarico, se facendolo si diventa la casa stessa. Ma…
Non stai ascoltando te stesso, non stai ascoltando te stesso, soffia infuriato.
Un ritornello di insulti fabbricati da me per me, sì salve buongiorno sì sto andando allo stanzotto e quello mi guarda male anche se non l’ho guardato in faccia lo capisco benissimo sono dotato di intuito superiore. Intuito superiore va a vedere le aurore, le incrostazioni le bibbie incrostate sulla pietra ruvida qui c’è scritta la grammatica tutta del vivere in questi mondi chiusi e d’inesauribile fascino chiamati condomini, inesauribile fascino inesauribile emicrania si alternano al posto di luna e sole e fanno da cardini manichei del nostro mondo. Del mio tuo mondo vorrai dire. Occhi gialli mi scrutano e scavano il dorso mio indifeso, diventato anzi più molle dell’addome. Che sta appiccicato alla pietra perché qualcosa dentro, un pezzo ansioso di budella, voleva andare a plasmarcisi diventare la casa i suoi organi le sue camere d’aria camere d’acqua stagnante. È stagnante, l’odore è stagnante, l’odore pian piano sparisce.
Stai cercando di ascoltare te stesso? Ci stai provando davvero nel più esauriente dei modi? Devi farlo fino a ridurti a un orecchio senza buchi, una faccia senza attributi, un occhio senza pupilla, uno scheletro senza struttura, devi consumartici e uscirne una cosa deforme.
Il gatto aggiunge liberamente alle frasi basilari rubate altre frasi che hanno odore di viscere, forse le mie. Mi si chiude il naso, il solvente e la muffa sono abitudine, il ticchettare dello stillicidio è sopra di me, è in me, siamo la stessa cosa e di sicuro dice qualcosa di me stesso.
Eppure non lo so. Saremo pur tutti la stessa cosa. Tane d’appartamento, animali d’appartamento. Non saremo tutti scritti qui, su queste complicate incrostazioni? S’impenna la sagoma di un grosso animale mitologico, chissà forse un dio di blatte un dio di muffa da infiltrazione. Lo domano i cacciatori di costellazioni. La caccia rituale continua in eterno. Fine. Fine, in eterno. Non sarà così? No è solo la storia mia che cerco qui se ho detto che la stanza è solo mia solo a me appartiene sono un prepotente del pianerottolo. E certo! Sono stato malato e voglio guarirmi.
Ecco bravo, deficiente, sbagli tutto sempre, stai andando bene. Non è perché sei malato, qua nessuno si guarisce.
Lo so…, gli faccio, perché questa volta sono d’accordo con lui. Ma mi dice di andare avanti. Ascolta te stesso soffia, e come ci si riesce con tanto soffiare. Le orecchie a un certo punto vogliono esplodermi, odiano la minaccia delle fiere selvatiche. Io non faccio che scendere ancora, verso lo scarico. Lontano dai lucori dimezzati del vetromattone, lontano dagli appartamenti eppure nel fondo loro, nel fondo di quel che significano almeno per me. Io sono o non sono l’appartamento in cui vivo, in cui cerco disperatamente di guarire da malattie mucose di polmoni e malattie immortali d’altra specie?
Così ravvicinato, vedo che un grumo nero s’accorpa sulle eliche dello scarico. Discosto, un tappo nero giace mezzo capovolto al termine del cordoncino a catenella, argento topo tintinnante allo scuotersi. Un’acqua nera, discende, spiraleggia, sempre più a fondo, sempre più in nucleo a quegli occhielli d’oscurità là sotto, oscurità di densità costante e perfetta.
Sono nelle acque infere, da qua pian piano emerge la storia -è ai miei lati mentre mi calo ma la osservo solo di passaggio anzi già non la osservo più anzi è ticchettio orologio e goccia è abitudine è pianerottolo è vedere senza vedere. Qui invece altre cose si vedono.
Non stai ascoltando te stesso, non stai ascoltando me.
Ed ecco nelle acque nere le ombre come questa. Si levano e mi soffiano, mi osservano e dicono di appartenermi e io di appartenere a loro. Ciao io sono quello venuto a guardare per un po’ dentro l’acqua dal colore nero che cadeva ticchettando qui nella pietra odore stagnante. Noi invece, rispondono le forme che ho incontrato, noi siamo quelle che vengono a visitarti in casa in certe circostanze. Ah, dico, quindi quello là è uno dei vostri, quindi ce ne saranno di altre in futuro. Si voltano e se ne vanno, alte ombre, gambe lunghe, giganti. Facce tutte diverse, possono cambiare, lo so, come fumo, far spuntare orecchie triangolari e occhi minacciosi come vogliono loro. Il fatto che si voltino e se ne tornino alle loro alcove, invisibili nell’indistinto nero, mi sembra rispondere alla mia domanda in una maniera affermativa che si sforza d’essere cordiale per rassicurarmi, e al tempo stesso sembra che mi ritengano indegno di risposta.
Ascoltarti non è un pugno di illusioni, inconsistenti come fumo in mano. Illusioni, gettale, guardale collassare ed esplodere -sento a un certo punto, come un bisbiglio. Da là, fuori dal lavatoio, fuori dai confini in cui mi sto infilando. Annaspo.
E cosa devo fare? Chiudere gli occhi e basta?
Con l’idea di scendere, scendere sempre più giù nelle tubature multiformi e profonde originate dal condotto di scarico, modificando come un fantasma liquido la mia consistenza e composizione, mi sono ficcato nella vasca. Ci sono rimasto, ci sono incastrato. Per un po’ sono rimasto rannicchiato fetale lì dentro, goccia a nutrirmi e scandirmi.
E vedendo il buio, ma immerso lì in quell’odore che scompariva in quei graffi di ruvida pietra che diventavano pelle in quell’oscurità di palpebre avente per cuore una goccia che ritorna sempre la stessa -qui dentro ho visto sfilare immagini, riflessi. Una fiaba di sorgente e luci di vetromattone, una fiaba di segretezza nascosta nel pianerottolo: c’era in una fiaba antica uno specchio fatato. La sfilata nel sogno febbricitante, come tanti specchi mi mostra delle immagini. I quadri sono questo, arte figurativa mostra me con la malattia, la mia malattia, una macchia, l’alterazione che ribolle come melma dentro me. La parte di me che, sognando e sudando tra brividi torridi, ha evocato autonomamente una figura che si lasciasse riempire di parole, in questi giorni. Mi addormento, a lungo mi addormento, dimenticando quale sia il dentro in cui sono entrato. Orecchio accostato allo scarico, su un flebile costante gorgoglio che significa vita.
Mi sveglio. La stessa luce nei blocchi trasparenti lassù, tempo immobile. Fradicio su un lato, quello esposto all’acqua caduta dal rubinetto: ancora in dormiveglia, mi sembra che sia nera, che un lato del mio corpo sia tinto tutto di nero, come un cormorano zuppo che riemerge da una pozza. Fatto quel che dovevo. Emergo anche sul pianerottolo: stessa luce introiettata, quella di prima, che non avevo visto, ricostruita dalla mente. Clangore, legname disincastrato da metallo e viceversa, ombra che si profila in groppa a tonfi felpati di zerbino: un signore, sagoma scura, si affaccia. Passo svelto per il pianerottolo. Lo vedo lateralmente, guardarmi, osservarmi come uno che non riesce del tutto a ignorare la sua esistenza. Un signore può molto assomigliare a una poltrona molto giudicante.
-salve!-, esclamo, più forte del solito. Devo avergli tossito in faccia della saliva, marcita per giorni in camere di gengive totalmente spoglie di linguaggio. È indignato, per quel poco che vedo. Un cerchio di luce di pianerottolo proveniente dagli androni di sopra e di sotto si assesta sopra il collo, sopra il resto del corpo fatto di macchia vorticante e furente. Ma anche a guardare soltanto di lato e di sfuggita così si riesce a captare l’indignazione. Ma lei, ma lei, balbetta. Sì, sono tutto nero. Decido che mi vede tutto nero, come ho visto in allucinazione il lato del mio corpo esposto al gocciolio. Defilato verso la mia porta. Sento ancora sguardo dietro, stupefatto. Cerca orme scure fangose sulla mia scia, verso il mio zerbino, una sporcizia indecente sul pavimento lucidato. Ha visto un essere scuro grondante acqua nera e forse puzzolente emergere da una porta, traversare il suo comune pianerottolo e sgarbatamente dileguarsi.
Macchia che rappresenta un signore in piedi là in mezzo, vista senza vedere, la prossima volta magari ci faccio più attenzione e provo a guardare in maniera diretta ma adesso sono stanco, devo lavarmi nella vasca che ho in casa -la casa principale si intende. Soltanto quando chiudo la mia porta con quello stesso trafficare di legno e metallo vecchi degli anni xx mi accorgo che il mio accompagnatore è sparito, e che non mi sono accorto di quando è sparito. Nessun gatto. Chiusa la porta, per un istante la sensazione di migliaia d’ombre come quella in piedi lì indignata che fuoriescono dalle pareti per affacciarsi e guardare, con occhi vuoti curiosi e pronti a scandalizzarsi. Chiudo e sono solo, senza ombre affianco, di nessun tipo.
Mi accolgono il silenzio di un appartamento lasciato chiuso per qualche ora e il ticchettio che comincia pian piano a ricomporsi nell’aria.
…
Queste quindi erano pagine di appunti presi in quei giorni. Sto meglio adesso? Preferirei non rispondere a certe domande, almeno adesso che sono di nuovo completamente da solo. A proposito, quella specie di animale, quell’animale d’appartamento come me. È successo che un giorno, facendo come sempre, spariva e ricompariva, sempre là in cucina. Io quella sedia in quei giorni l’amavo, ci sprofondavo sempre. E forse proprio perché era comparso da quelle parti -ma è rischioso parlare di una logica nei suoi movimenti- si è rimesso là, a ripetizione, diverse volte, come a volermi annunciare che se ne partiva. Allargava le “zampe” (le faceva spuntare apposta) e la gola, in maniera sgradevole.
E una di queste volte è scoppiato come una palla d’inchiostro.
Prima che lo facesse, maledetto d’un diavolo, non era mai stato altrettanto consistente e vivido. E invece, proprio il giorno che ha deciso di esplodermi in cucina, il suo corpo si è impegnato a farsi di inchiostro, di melma bella densa. Macchie vischiose che cominciavano a sfiatare sul pavimento spargendo un misto di resina e gomma bruciata. Quella roba si appiccicava con un’insistenza anormale, come se possedesse una volontà. E insieme mi accorgevo che, tentando di figurarmelo per intero per come era stato in mia compagnia, quando si facevo vedere, sentivo crescermi in fondo al torace un’inspiegabile quanto snervante fatica, come una resistenza incontrata nel voler affondare con la forza un oggetto che galleggia. Se provavo a ricomporlo intero, inevitabilmente soffrivo. E allora la cosa che il gatto aveva fatto rimanere di sé per scherzo era più d’ogni altra quella schifezza lanciata a mo’ di saluto sul pavimento e le pareti, sulle gambe della sedia, là attorno al davanzale. Con indicibile sconforto mi alzai in piedi e andai a prendere spazzolone e pezze bagnate. Quando accidentalmente quella roba mi macchiava pareva venir risucchiata dai solchi irregolari della mia pelle e insediarsi nelle vene.
Se il ticchettio dell’orologio mi avesse dato un senso del tempo generale oltre a quello di uno diverso, molto specifico, che appartiene a questa cucina soltanto, sarei riuscito a calcolare. Per esempio, avrei potuto dire qualcosa come “quella fatica mi ha tenuto lì in piedi a pulire per un mese, prima di riuscire a cancellare davvero l’ultima traccia”. Tracce ritornavano, riflessi neri si manifestavano a diverse luci laddove parevano esser stati estinti. Non so quanto. Ma mentre mi logoravo non so nemmeno cosa in quel processo di pulizia insieme tedioso e assuefacente concludevo la mia degenza e mi preparavo ad accogliere l’autunno in cui sarei dovuto scendere per strada. E una sera con un certo disappunto notai una verità nelle parole che avevo parafrasato dal dottore, la mia ombra che alla sera, proiettata sulla parete della camera da letto, si era ingrassata come se avesse inglobato qualcosa.
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