la storia dell'uomo che si difese dagli insetti
- Milky
- 7 ott 2021
- Tempo di lettura: 16 min
Fiumestorto faceva cozzare tra loro roccette e conchiglie di molluschi che raccoglieva da un greto svuotato. La bimba scettica era salita fin lassù, dove si vedevano le cinte montuose intorno all’anello di foresta, come per andare a trovare il vecchio. Questo, lui credeva, non gli turbava più di tanto i piani. Altre volte gli capitava che varie cose si muovessero nei paesaggi in cui si sedeva, rannicchiava, alla cui terra accostava le orecchie per coglierne cose che nessuno sapeva. E in questi casi lui procedeva, studiando le briciole del terreno, la polvere vegetale, le impronte, le rughe sottili sulle cose più minute. Se gli animali o i bambini o i curiosi che gli gironzolavano intorno gli poneva una domanda, lui taceva per alcuni istanti, che potevano sembrare lunghissimi, assorto nella particolare cosa che stava sollevando al cielo facendo tremare senza un lamento quel polso ossuto e consunto, incapace di sopportare il peso delle cose senza che si vedessero arrossate le vene scoperte; poi rispondeva, con una voce nasale, dicevano che fosse perché tutte le idee che poi diffondeva a tutti quanti per domare certe notti spaventose gli si rintanassero a riposare nella grotta mucosa tra il naso e la fronte. E poi ritornava a toccare, manipolare, talvolta riporre con cura estrema e quasi dispiaciuta di aver sconsacrato una stasi, tutta una famiglia di cose nelle quali nessun altro tranne lui scorgeva il legame con ciò che poi ne ricavava. Insomma, cosa potevano incastrarci le foglie secche masticate da vermi e grillitalpa, con le reazioni prossime degli spiriti di terra profonda e di quelli di alto vento, con quando sarebbe crollata la montagna e quale demone fluviale si sarebbe incarnato nel prossimo cacciatore? La bimba scettica lo guardava, e non capiva, non riusciva a saperlo: ma era lo stesso per tutti gli altri laggiù in valle da dove veniva, nessuno riusciva a saperlo, dunque non era questo a renderla una bimba scettica.
Fiumestorto si era accorto che alcuni dei sassi lisci e piatti, con qualche foro qua in là come un morso di baco, conservavano una patina fredda d’umidità sul dorso che non volgevano al sole. Il fiumiciattolo era morto, eppure, così dicevano i sassi tutti figli suoi, qualcosa di lui rimaneva sottoterra, magari dopo aver incontrato le piogge scomparse già da giorni ma che continuavano a vivere una nuova esistenza sotterranea, irrorandosi per tutta la terra, lontano dagli occhi degli esseri che credevano la pioggia esistesse solo cadente dalle nuvole. Passava un indice sul bordo in cui quella pelle di pietra si smussava, curvando, ricongiungendosi a un volto inferiore che assomigliava all’altro segnato da passi di creature piccole ed enormi. “aaah”, faceva, in un rantolo come non se ne udivano da nessuna bocca. La bimba scettica allora si innervosiva perché se non udiva un suono o una sillaba da nessun altro al villaggio, dove tutto era per farsi capire, sentiva di non poter interpretare che volesse dire quell’unico che produceva una cosa priva di paragoni che potessero significarla. Insomma, che voleva esprimere Fiumestorto con quel “aaah”? Era uno stupore di vecchio rimbambito? Era commosso, o era la solita acquetta grumosa agli angoli dei suoi occhi?
E allora glielo chiese, e Fiumestorto sempre in quel suo modo caratteristico rispose “niente”. Ed era proprio quel tipo di risposte che la bimba scettica non poteva accettare: ce n’erano così tante. Molte risposte che venivano nascoste quando lei domandava, ma lei no, non si faceva fregare: la risposta non era mai niente, tutti credevano di averci qualcosa da dire su tutto quanto. Certo lo sapevano che a saperla più lunga di tutti era Fiumestorto, e nonostante ciò insistevano ognuno a pensare una propria cosa, per cui era impossibile che rispondessero “niente” a qualcosa. E infatti eccoli, li udiva a confabulare tra borbottii e risatine attraverso le tende nei più profondi e impensabili momenti della lunga notte, o appartati in una passeggiata tra i boschi, quasi, le sembrava, aspettando che non ci fosse lei a udire e domandare, domandare, che certe volte un passante la vedeva uscire da un angolo tra la legna ammassata e si girava dall’altra parte fingendo d’aver visto chissà quale scemenza a volarsene sopra i colli, come nel timore di sentirsi rivolgere a momenti un interrogativo impossibile. Oppure dicevano che a certe cose avrebbero risposto in un altro momento, chissà quanto lontano. A lei sembrava una cosa incredibilmente maleducata.
Tutto questo la frustrava enormemente ma ancor di più la frustrava il netto presentimento -e ci credeva molto lei, che sempre testardamente si diceva prima d’ogni altra cosa d’aver ragione- che quel vecchio con quella barba a nido di quaglia fosse l’unico veramente sincero quando rispondeva “niente”. Ma come? Quello che sapeva cosa aveva fatto la luna mille anni prima, e come aveva fatto il primo tasso a procurarsi le sue strisce in faccia, che più sincero di tutti le diceva quella cosa che poteva significare soltanto che in questo mondo c’erano delle risposte che non esistevano? La bimba scettica, che il vecchio aveva preso a chiamare Capellipazzi, allora scalpitava, si percuoteva la testa arruffandosi tutta, sperando così di scacciar via dai tubi delle orecchie il demonietto del mal di testa che le si infilava dentro salendo fino al cervello, attorcigliandocisi come un serpente in letargo. Credeva, Capellipazzi, che se un giorno a forza di veder spuntare dei “niente” da ogni parte, dai cavi degli alberi, dalle narici degli alci, dalle facce delle stelle o degli umani, avesse perso la sua voglia di fare domande, allora non avrebbe proprio saputo più cosa fare di se stessa che malgrado tutto ciò continuava a esistere, retta da due caviglie bianchicce su una linea accidentata detta “terra” e che stando in quel modo le cose avrebbe pure questa perso il suo nome.
-perché, perché, perché, perché??-, e si dava i pugni sulla nuca, e saltava su un lato e l’altro, e Fiumestorto paziente era passato alle alghe muschiose sulla riva che al tocco si sgretolavano appiccicose sui polpastrelli, polline anfibio.
-perché? Non c’è…
-tu me lo devi dire!! Me lo devi dire!!!
Poteva essere una bimba davvero esasperante oltre che scettica. In effetti doveva esser così come conseguenza dell’essere scettica nei confronti dello scetticismo stesso, ma quello era un problema che Fiumestorto sapeva bene di non poter risolvere. E allora doveva escogitare qualcosa, farsi inventore, lui che inventore non era, ma doveva diventarlo quando c’erano a tormentarlo (amorevolmente) quelli che in futuro sarebbero stati umani più grandi, madri e padri, cacciatori e cacciatrici e scalatori e cercatrici di noci. Nessuno lo sospettava, ma dentro di sé si diceva sempre che non sapeva mai cosa dirgli, ai bambini, e per quanto gli riusciva nella sua beata noncuranza d’ogni affanno, un po’ si preoccupava. Aveva imparato però, facendo sforzo costante, conciliando più mondi.
Visualizzava il volo d’un’aquila. E il volteggio della piuma caudale che si distaccava dalla scia del primo volo. E i fruscii prodotti da essa su di una roccia protratta tra i burroni. Sul fondo irraggiungibile mai penetrato da alcun animale o vegetale, un’arteria acquosa scintillava da sola nel mondo di roccia, e a Fiumestorto che la vedeva senza avere un corpo, o senza che ce l’avesse lei, pareva la cosa più viva che fosse mai esistita, e quasi voleva piangere, chissà perché. E si sforzava di tendere una mano immaginaria e di toccarla in un mondo in cui toccare era sempre immaginario, perché così avrebbe visto un’altra cosa ancora, e intanto sentiva col tocco vero e proprio quelle alghe e quei sassi, e capiva dai soffi sulla pelle quando avrebbe piovuto, e, a dargli una gran stanchezza nella fronte e una sudorazione per fortuna non copiosa, ci si metteva quella bimba scettica a gridare, a fare rumore scuotendo tutto, ridisegnando col suo scalciare il percorso delle cose disposto dal terreno. Fiumestorto salutò il rivolo, se ne separò, in un lungo risucchio a ritroso si riproiettò al di fuori da là, che era dentro, e quindi insomma ritornò fuori, o dentro sé che era da un’altra parte, e da quel sé riuscì fuori per dare a Capellipazzi una “risposta” che tanto attendeva, tanto per farla contenta. Perché era questo in fondo che doveva fare per loro in queste situazioni.
-perché, dici? Ma perché è come con gli alberi…-, cominciò allora, dopo la sua abitudinaria pausa. A quella, stranamente, anche Capellipazzi si adeguava, come se inconsapevolmente provasse un certo rispetto per i tipici comportamenti del vecchio, nonostante ritenesse che questi non la rispettasse allo stesso modo nel suo avere una testa che non ammetteva le cose come lei se le aspettava.
-gli alberi? Che c’entrano gli alberi??-, strillava allora Capellipazzi. Ma Fiumestorto doveva star calmo e rispondere con la stessa pazienza a quella prevedibile obiezione.
-dunque. Gli alberi. Sì.- e li guardava, là ai margini del prato attraversato dal greto prosciugato, o lontano tra le valli, in radure di montagna. Pareva impiegare le interruzioni tra ogni singolo intercalare per far trascorrere il tempo che ci voleva a quelli per rigenerarsi la corteccia sbucciata.
-allora, gli alberi di solito non parlano. Giusto?
-giusto. Certo che no, non parlano.
Era un buon inizio. Capellipazzi brontolava stizzita, ma allo stesso tempo s’animava perché veniva coinvolta ed era contenta di poter ritenere qualcosa un’ovvietà.
-eppure, se uno abitua per molto tempo le orecchie a star quassù a questa altezza… ma beh, capisco che per voi sempre al villaggio tranne quando siete a cercare delle cose in particolare, è un po’ difficile pensare di venir qui ogni volta che vi piace…
-quindi?? Che fanno gli alberi quassù??- Fiumestorto non poteva concedersi nessuna divagazione.
-ecco, sì, gli alberi, se si sa lasciar scorrere l’udito sulle cose del bosco, amalgamandolo alle brezze e quei piccolissimi rumori, degli aghi che cadono, e le foglioline che escono dal terriccio zuppo d’acquazzone, dopo un po’ si sentono gli alberi. Non che parlino, ma è come se respirassero, a volte anche piuttosto rumorosamente.
-davvero?
-sicuro.- (questa è una parola che certo le piace) -immagina che ha piovuto tanto e un pino rosso si senta tutto rinfrescato, quasi che gli viene voglia di scuotersi tutto e sparpagliare uno sciame di perline d’acqua rotonde, che si scompongono tutte nell’aria diventando gocce sempre più piccole e iridescenti. Come da uno strattone di un animale con la pelliccia che ha appena fatto un bagno.
-mi piace.
-allora dopo aver fatto così, all’albero è come se si aprisse un taglio in mezzo al tronco, così esce fuori una specie di bocca coi denti fatti di scaglie di corteccia. Da questa apertura il pino rosso manda un fiato soddisfatto, anzi, che quasi s’accascia sotto il peso dell’acqua che diligentemente assorbe in ogni sua parte, da quelle verdi che sembrano ringiovanire, a quelle che pare non cambino mai. Le radici si contorcono solleticate e lui manda questo sospiro di stanchezza buona, che a sentirlo sembra non ci sia niente di più bello in tutto il mondo. E fa così: aaaaaaahhhhhh… poi non lo senti più, perché è come la nebbia all’alba tra le conifere, sempre più sottile, finché non diventa invisibile. Però rimane, se uno la nota, sta ancora assimilata nell’aria della mattina. E così tutti queste cose degli alberi.
Capellipazzi incredibilmente taceva, annuiva. Fiumestorto, checché ne pensasse, qualche volta riusciva a raccontare nel modo che a lei piaceva. Ma doveva star cauto.
-…e allora, ecco, così come fanno gli alberi faccio anch’io. Vedi, ho questa barba che è come una chioma di foglie, heheh…-, si tirò una ciocca di pelame e goffamente ridacchiò scoprendo i denti bucati. -siccome assomiglio a un albero, allora faccio anch’io, di tanto in tanto, aaaaahhhhh……
Silenzio. Molto breve, quasi insignificante. In quegli istanti Fiumestorto provò una sorta di strana delusione, prima che subentrasse la consapevolezza del proprio errore, ma pensò che forse si avvicinava a capire cosa mai la irritasse tanto della parola “niente”. Su di un prato né lontano né vicino una torma giallonera di rigogoli e api circolava in saltelli o voli tra stelle alpine, gli uni fischiando melodie mattutine le altre ronzando placide. Uno strillo cacciò tutti via.
-ma non vuol dire niente!!! L’hai detto tu, l’hai detto tu!!!
(Che ho detto, che ho detto???)-, voleva strillarle dietro Fiumestorto, gesticolando, giustificandosi, e invece chiedeva pacato, cosa ho detto, piccola Capellipazzi, chiedi a me, che tanto ti sento anche se ho da fare. Negli occhi una lieve inclinazione disegnava un lieve rimpianto, rivolto per lo più alle magnifiche spirali e bitorzoli calcarei della conchiglia antichissima che teneva in mano, e alla quale, forzato dalle circostanze, non poteva dedicare tutta la concentrazione che avrebbe voluto. Riusciva a sentire soltanto una vaghissima eco, sprigionata dalla bocca carnosa come un orecchio di quel guscio vuoto, come un rifrangersi d’onde, laddove a far le cose a modo suo avrebbe visto invece una distesa d’acqua come non s’era mai vista, che ricopriva tutta la valle che conosceva, senza nessun albero o roccia e nemmeno le montagne, e la cosa lo avrebbe spaventato e meravigliato.
-l’hai detto tu, che il pino rosso lo fa perché si è rinfrescato! Te invece non hai fatto niente, non ti sei rinfrescato! Lo fai così, senza motivo, e allora sei uno scemo, altro che saggio. Le storie della luna e le stelle te le sei inventate.
Questa insinuazione provocò qualcosa che poteva perfino assomigliare a una leggerissima irritazione, mista a dispiacere, nell’animo sgombro di orgoglio di Fiumestorto. Comunque fosse doveva rimediare, non poteva certo permettere che Capellipazzi continuasse a infastidirsi e addirittura infastidire lui.
-stammi a sentire.- (esatto, imita i comandanti e i padri) -mettiti seduta, qua sul greto. Si sta comodi, non ti preoccupare… ascolta, se questo ti sembra assurdo, allora attendi di sentire questa storia.
-le so tutte le tue storie.
-lo so, ma questa è una storia che non ho mai raccontato a nessuno.
Capellipazzi sussultò e si portò le mani alle labbra, gli occhi spalancati che già cominciavano a dimenticare l’impazienza di prima facendola scivolar via sulle tempie come un fluido dalle pupille acquose.
-e perché non l’hai ancora raccontata?
-ma perché è così assurda che ancora nessuno mi crederebbe. Le storie, come forse hai già capito ormai che sei grandicella, si devono raccontare solo in momenti precisi.
-e perché la racconti a me?
-beh, tu hai bisogno adesso di capire una cosa. Che quello che adesso credi incomprensibile non è così strano e lontano come credi. E infatti questa è una storia di molto lontano, dall’altra faccia del Monte Zanna, pensa.
Indicò il picco più alto tra la cinta di dolomiti dentellate, tutte guglie e spuntoni che sgusciavano caparbi verso il cielo da ciuffi di foreste. Allora Capellipazzi guardò, battendo le palpebre, il Monte Zanna che riempiva tutta una parte del cielo, che divideva due vallate immense.
-quando avrai saputo cosa è successo laggiù, non dubiterai più né delle storie degli astri né dei sospiri che gli alberi o quelli che gli assomigliano fanno con un motivo o senza.
...
La storia dell’uomo che si difese dagli insetti diceva che dall’altra parte del Monte Zanna c’era una conca tutta biancastra come quella specie di ferite di montagna, le pance scoperte dei burroni e tutte quelle pietraie scarne che ricoprivano i prati sotto le cime più alte, dove non c’erano altro che nidi d’uccelli e licheni, se proprio c’era qualcosa. Un terreno del genere continuava per molte miglia alle pendici opposte della montagna, e da alcune scorrevano fresche sorgenti. L’acqua nei punti dove era stata tanto tempo fa aveva scavato delle conchette, e queste erano molte comode per gli uomini che vivevano tra quelle rocce: ci si accoccolavano, e incrociavano le braccia al petto, e dormivano con la faccia all’insù; vedevano in cielo animali di stelle diversi da quelli che vedevano loro dall’altra parte, ma la luna, quando passava di là, era la stessa, o meglio, cambiava negli stessi modi da una parte e dall’altra.
A quel punto dovette interrompersi perché Capellipazzi volle che fosse ribadito quel dettaglio sorprendente, che gli umani di là non dormissero dentro le tende ma in dei buchi duri e freddi per terra. E allora Fiumestorto dovette annuire e ripetere che sì, era proprio così. Tutto sommato non era stato aggiunto proprio niente di rilevante con questa interruzione.
Insomma, per queste condizioni in cui vivevano, gli uomini ogni notte erano tormentati da certi insetti notturni, a cui piaceva indugiare ronzanti sopra i vapori stagnanti d’acqua vecchia che smetteva di scorrere e si fermava a intorbidire in certe vaschette naturali coi contorni cinerei di pomice, frastagliati come quarzi, porosi come lava. Zanzare, mosche notturne e moschini, cimici, scolopendre, e anche altri animaletti a cui piaceva la roccia come certi ragni e scorpioni. E a tutti quanti piaceva mordere la ciccia delle braccia così piene d’acqua e sangue, che si gonfiava e sgonfiava scoperta al ritmo dei respiri sotto la notte. Nei sonni lunghi fitti di tenebra di quella gente che non accendeva fuochi, di continuo si sentivano sgomitate e lamenti, eppure continuavano a dormire, in qualche modo abituati a quei fastidi. Oppure, credevano di aver dormito, ma a ogni mattino sembrava proprio che non l’avessero fatto, dalle facce prosciugate con gli occhi violacei e il corpo tutto macchiato di gonfiori con una puntina rossa.
Ma come, non avevano inventato il fuoco? E allora Fiumestorto dovette spiegare che nel loro mondo non c’era bisogno del fuoco, e che loro sapevano vivere così. E poi avevano fatto un’altra scoperta.
Un giorno c’era stato un uomo che aveva avuto voglia di cercarsi un’alcova diversa da quella sua solita, allora si era allontanato un po’ tra le pareti scoscese per trovarne una che gli sembrasse avere una forma simile alla sua, così da entrarci comodo e dormire soddisfatto della propria conquista. Gli sembrò d’averne trovata una e ci si stava per sistemare, quando s’accorse che sul fondo non c’era il solito alone d’umidità della roccia, ma qualcosa di più vischioso, e che al contatto raggelante con la propria schiena cominciava a spargere un odore come resinoso. Per quegli uomini che non conoscevano benissimo gli alberi un odore del genere riusciva molto pungente, e subito quello si sentì quasi ubriaco nella testa rintronata. Ma poi infilò bene un braccio tra gli anfratti rocciosi, scoprendo che in quella zona la sostanza nasceva naturalmente dai minerali. Portò una mano ai raggi della luna piena e osservò la gelatina trasparente che la avviluppava riempirsi di lattea luce spettrale. Era un odore forte, ma buono, e decise che non era una sostanza pericolosa. Perciò ci si addormentò dentro. Si sarebbe abituato alla sensazione appiccicosa, e magari gli insetti quella notte non l’avrebbero tormentato, ricoperto com’era da uno strato odoroso, in cui le zampette avrebbero potuto invischiarsi.
E infatti le cose andarono proprio così. All’inizio l’uomo fu seccato e deluso di vedersi passare sopra le ciglia frementi la sagoma striminzita e aguzza di una zanzara o qualcosa del genere, pronta a circolare tra i lobi delle orecchie e il collo, per uno spicchio di pelle che non fosse stato già punto. Pazienza, si disse, e si addormentò cercando di concentrarsi invece sul fatto che finalmente aveva trovato un posto che gli piaceva quasi più di quello di prima. A un certo punto però accadde una cosa che non era mai successa. L’insetto che già ronzava il suo piagnucolio di proboscide nei timpani se ne stava volando via strascicando una nota che sembrava quasi agonizzante, lontano da un odore che gli faceva il volo discontinuo. E allora l’uomo che era capitato in quella vasca vide disegnarsi nera sulla notte ancora più nera l’ombra dell’animale in fuga, con le zampe retratte e la schiena ricurva, e delle fauci che quasi sembravano aprirsi e ringhiare, con uno scintillio invisibile eppur presente d’occhi che per la prima volta conoscevano il dolore; e dovette sembrare a lui di là come sembrò agli uomini di qua la prima ombra di quella bestia notturna, col pelo nero e irsuto e la coda folta e le orecchie appuntite, che è divenuta l’ombra madre di tutte le altre ombre di bestie notturne che ululano nella foresta e in agguato tra i sentieri.
Perciò gli uomini che non avevano inventato il fuoco avevano scoperto uno strano unguento, che da quella notte presero a spargersi sul fisico. E lo usavano poi per rinfrescarsi, e per rendere più buono e salubre il muschio che mangiavano, oppure nei loro rituali, disegnando con esso particolari motivi sulle pareti e gli scudi e i toraci. E intanto i moschini e le zanzare e tutto il restano s’erano fatti sempre più duri, e gli umani avevano imparato a combinare gli unguenti di diverse densità e provenienze per crearne di più efficaci, e allora di nuovo gli insetti crescevano, e arrivavano alle dimensioni della gente; ma anche gli uomini, vivendo da sempre nelle tenebre che non avevano mai visto accendersi altre scintille che quelle dei fulmini, avevano sviluppato la vista notturna del popolo ronzante e a vederli fronteggiarsi nei continui scontri tra le scogliere dolomitiche, gli uni con gli occhi giganti e gli altri ingigantiti nella stazza, si somigliavano sempre più tra di loro. Ecco che cosa succedeva dall’altra parte della montagna.
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Umani e bestie insettoidi, a lottare per sopravvivere tra le rocce, si afferravano e lottavano rotolando sui declivi, tendendosi imboscate. E allora Capellipazzi doveva ben riflettere sul fatto che un mondo del genere poteva esistere così vicino, perché per loro tutti era sì una distanza irraggiungibile, nemmeno in una marcia lunga cent’anni, ma se per esempio fossero saliti tutti sul dorso della luna, e cavalcato le code di quegli spiriti di cometa, avrebbero visto che c’era tantissima altra terra tutt’intorno.
La mente di Capellipazzi era ormai tutta rivolta alle novità di quella storia. In fondo era ancora una bimba, per quanto scettica, e non riusciva a stare troppo a lungo a pretendere le sue amate risposte su di un singolo argomento, così, sebbene non se ne rendesse conto, era stata contenta d’accogliere una nuova storia, che l’avrebbe occupata per giorni. Ma per quella mattina bastava così, Fiumestorto lo sapeva. Aveva scalpitato, gridato, e s’era sbalordita abbastanza, colmandosi di quella necessità, qualunque fosse, che la spingeva a comportarsi in questo modo, e cercare la compagnia di un vecchio che finalmente poteva tornarsene ai suoi molluschi. L’avrebbe rivista l’indomani, certo, più insistente che mai con nuove difficilissime domande, e lui avrebbe dovuto di nuovo farsi inventore in uno sforzo sfiancante per mantenersi sempre ieratico e sereno, nel modo che gli era indispensabile perché udisse soffi reconditi in tutte le cose che lievemente toccava con il suo corpo debole.
-allora hai capito?
-sì sì ho capito! C’è pure la gente che non ha il fuoco!
(certo che l’ha proprio colpita questo particolare, eh?) -pensò facendosi tra sé una smorfia. Forse aveva a che fare con l’età, e i bambini erano affascinati dal calore, dalla luce che pulsava senza sosta nella fibra fumosa di fiamme traballanti. Lui cercava i rivoli d’acqua nascosti nella terra, ed era un vecchio, e si avvicinava a una rinascita, un grembo di terra che richiudeva un ciclo, dopodiché di nuovo la sete… pensò che forse era lo stesso per la terra stessa. E allora dopo la fase che aveva intravisto, quest’acqua sconfinata, immaginò levarsi dalla superficie dei coni di roccia dalle cui boccacce chiassose, come quelle dei bambini troppo incontentabili, si levavano incandescenze arancioni e iraconde. Nella restante giornata avrebbe forse trovato un odore tale da ricordargli proprio quel tipo di scena, magari attraverso una roccia particolare…
-allora torna al villaggio dai, torna a giocare.
-sì! però…
Capellipazzi, la bimba scettica oppure eccitata, guardava col labbro ancora pendulo Fiumestorto che si rincurvava, debole e vecchio, voltandosi verso una riva scoscesa, con le mani consumate già pronte a rovistare. La schiena nuda bernoccoluta di vertebre si riempiva a fatica d’aria, cigolando un rantolo appena percettibile, ma che a ben udire era costante e sempre più interrotto, strozzato. Quasi s’immalinconiva a vederlo rimpicciolirsi quando si chinava di nuovo ai suoi studi, con pezzetti di foglia e legno tra i capelli lanuginosi, ma lo guardava, e voleva chiedergli come facesse a sapere che… no, all’improvviso si disse che non doveva chiedere come avesse saputo di chi stava dall’altra parte del mondo. Ed era troppo eccitata e distratta, confusa dalla nuova storia, per rendersi conto di quanto si sarebbe irritata in un momento qualsiasi a vedersi rinunciare così a una domanda -il suo essere ancora una bimba era in fondo qualcosa su cui non poteva ottenere ragione. Allora se ne andò balzellando di corsa giù per la discesa tra due lembi di foresta, tra le conifere sospiranti, senza salutare ulteriormente il vecchio.
Fiumestorto vedeva tante cose e con serenità le accettava, questo era comprendere, questo era ciò che accadeva dietro la fronte rugosa di chi era chiamato saggio da tutti. E doveva sforzarsi anche con le vite di questi tutti, che non gli appartenevano, ma che come la sua erano come uscite da una stessa cosa, una cosa enorme che calpestavano, e in cui nuotavano, e che respiravano, e allora doveva vedere uguali tutte le sue varie forme. Questo si diceva. Ma c’era una cosa che in quei momenti si ripeteva che proprio non gli riusciva di capire, e cioè quel tipo di vita che dovevano portarsi dentro le persone che a un certo punto diventavano “genitori”. Sospirò un nulla tossicchiante, come se l’ultimo suo racconto l’avesse svuotato d’ogni cosa dentro di sé. Pensò quasi scherzosamente agli alberi, chiedendosi se anche a loro capitasse in situazioni tanto disperate da farsi uscire dalle cortecce certe storie completamente inventate, di cui nemmeno avrebbero potuto dire la provenienza.
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