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La Memoria

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 5 ago 2021
  • Tempo di lettura: 18 min

La Matrona stava al centro della magione. Sospesa in una struttura viva simile a un bozzolo, e pulsava, un nervo collegato a tutte le sue radici. Da lei si districavano, ramificavano in reticoli complicatissimi di varie dimensioni, uscendo prima dalla sua vecchia carne, consunta come polvere sgretolata dal tempo e quasi trasparente, si vedevano le vene viola sottostanti. Sgusciavano prendendo la consistenza del legno, acquisendo nuove rughe che raccontavano il tempo. E in alcuni punti del pavimento lucido, ora impolverato e sporco di gusci di roba irriconoscibile, macchie nere e umide, le radici crescevano fino allo spessore di tronchi secolari, in altre parti erano sottilissime come sfilacciamenti selvaggi da nodi strappati di capelli. Abbarbicavano le pareti, le bucavano, le squarciavano. E fin sopra al soffitto si levavano le chiome dei vecchi alberi che da essi si erano generati, formando una perenne coltre d’ombra nera fluttuante al di sopra della casa, una chioma policefala anch’essa invecchiata: sia i rami che uscivano fuori, che le foglie, si ingrigivano.


Ma la Matrona sembrava ferma. Mezza arborea, felice del rigoglio che da lei, per quanto lo si potesse dire consumato dagli anni, comunque cresceva e ancora era forte. Perciò restava, al centro della casa, la dimora che era come un castello. Fuori, molto lontano, dove non si potevano leggere e mai si potevano comprendere i sentimenti degli altri, ancora i contadini passanti guardavano oltre il cancello, verso la cima della collina che incombeva sulla campagna, quella casa scura in rovina con gli alberi confitti nel tetto, eppure ancora così imponente. Ci abitavano fantasmi, diceva qualcuno, o peggio era del tutto vuota. Ma aveva conservato l’autorità di un tempo. E avrebbero ricordato gli anni in cui era la più ricca, la casa dei signori. Gettava ancora ombra sulla campagna: un’ombra solenne, rigidità e un qualcosa di sinistro poco definibile, ma anche bei ricordi. Insomma una storia importante e influente, impossibile racchiuderla. Nessun giudizio morale dai contadini. Stavano un po’ fermi, rammentavano. Poi spronavano l’asino e procedevano, lasciandosela alle spalle, ricordandola a volte, dimenticandola altre, nelle loro vite.


Sembrava che la Matrona attendesse qualcuno. Alla porta d’ingresso del salone, in corrispondenza degli alti stipiti, come sfingi inarcavano il collo e stendevano avanti le zampe composte le due cagne giganti. Digrignavano la bocca, mostravano zanne bianche. Avevano sempre protetto la casa. Non solo la sua sicurezza interna, c’era stato il tempo in cui, vive, correvano per i campi là fuori, con i loro collari di pietra chiara, e difendevano la terra zappata. Ululavano e ringhiando raccontavano alle creature che quella terra apparteneva a qualcuno, e lo sapevano, in tutti i villaggetti che componevano il paese. Difendevano non solo i pollai dall’attacco di volpe e faina, ma anche la cavalla, l’unica cavalla del paese: si raccontava che le streghe della zona, donne d’ombra in agguato tra il frusciare sinistro nei noci del bosco, rubassero gli animali preziosi, li facessero impazzire. Era questo il genere di storie che si raccontavano in quella zona, e le parole si rimescolavano ancora nell’orecchio di chi le aveva udite, confuse al mescere infinito delle acque del fiume, mai taciuto in tutta quell’esistenza arcaica del sud. E da quelle storie, dai loro aspetti più macabri, s’era erta e difesa quella casa, pur serbandone in gran segreto il fascino. La casa che allontanava il demonio, nel cuore della campagna; ma il demonio tornava a rannidarsi, astuto e indomabile, nel fondo di un intrico nascosto, di cui nemmeno la casa poteva essere del tutto cosciente. In qualche sotterraneo? Nell’inestricabilità, ormai maturata al parossismo, di tutte quelle radici sguscianti dalla Matrona, riparato similmente a un ragno in una tela? O nei mattoni dislocati, le crepe sul soffitto da cui un tempo altri demoni strisciavano a invadere gli incubi dei dormienti con gli occhi all’insù. Negli angoli ciechi soprattutto, quelli che mai si possono vedere nell’anima o nelle case dell’uomo.


E tutte quelle storie le avevano udite anche tutti quelli che erano venuti dopo, e se n’erano stregati, perché l’incanto delle streghe, le nemiche delle storie, si trasmetteva, un potentissimo sortilegio, e arrivava alle immaginazioni, popolava le foreste dei sogni di tutti. Si moltiplicavano le loro ombre nelle oscurità di tutti, ne alimentavano un fascino. Spingevano a interrogarsi, segreti d’erbe e formule, donne che sapevano troppo.


La Matrona sembrava aspettare qualcuno. Ma non è detto che sapesse chi sarebbe venuto a visitarla: restava sempre così, al centro della casa, al centro delle ramificazioni, e si sarebbe potuto dire che quella irradiata da lei fosse sempre un’aura d’attesa. Solo fremevano un po’ le piume brune della barba striata, adornante il petto scoperto. Impercettibilmente vacillavano, forse percosse da invisibili lacrime, le venature sottostanti gli occhi, argentei come per un’elegante cataratta. Forse, quando fuori trascorrevano il sole, dorando le spighe soffiate dal vento campestre, e la luna blu come nelle leggende degli scomparsi libri della casa, protetta sotto i rami e il tetto fracassato la Matrona versava innumerevoli di quelle lacrime minuscole. Il naso a becco, corto e di pelle ingiallita, sorrideva incurvandosi.


Nella stanza fa freddo. Un tempo, era stato un grande salone, con un tappeto, delle librerie a ogni parete, le uniche della contea. Piene di tomi antichi, alcuni proibiti. Bruciati in cortile quelli che recavano parole maledette. E un fuoco ardeva anche dentro, un camino. Non possiamo vederlo, perché il corpicino della Matrona, reso apparentemente enorme dalla maestosità delle sue ramificazioni onnipresenti, copre il fondo del salone in cui s’apre la bocca del vecchio camino. E intorpiditi dal camino sedevano sui divani, ascoltando le parole, le vicende di chi sapeva leggere. E il sole di collina, come il burro e il caglio caldi della colazione, scivolava accendendosi d’abbaglianti rifrazioni nei reticoli della finestra alta e stretta, ora priva di vetro, piena di liane di rampicanti, dita verdi e nere che s’attorcigliano delicate su tutte le mura esterne. Sento freddo: il sangue mio è freddo. Divento come la casa, standoci dentro. Il mio ingresso nella sala, così raso al pavimento, mi sparge vene e intestini d’un gelo quasi paralizzante, per il contatto della pancia con la fredda pietra. Sento liquami colarmi dal corpo. Spero di coprirli con la mia figura, la allungo, mi appiattisco, ostile a ogni vergogna. La stanza è enorme. Il suo cuore pulsante, la sua dama custode, al centro, è di un’enormità ancora diversa, inspiegabile. Incolpo il modo naturale in cui reagisco all’ambiente del tentennamento costante che contraddistingue il mio incedere. Incerto, creatura che brama sicurezza, tana buia calda umida stretta. Questa tana maestosa, dove il vento soffia libero e prendono forma le cose enormi, la loro potenziale minaccia, non fa per me.


Giunge la Gufa Delle Nevi. Nacque come civetta, come quelle il cui canto echeggia nelle sere primaverili ancora su queste campagne, come ogni notte che è stata sulla terra. Perciò si vede ancora nel suo aspetto la casa, si vede la stessa specie di quegli occhi notturni che come lucciole s’accendono nell’oscurità rurale, che carezza la terra estesa attorno al fragore del fiume, ai fumi delle fattorie dormienti intorno. Crebbe sapendo, uccello di visione e saggezza, gli intrichi e gli angoli nascosti che permeavano tutta la dimora. Fu imbeccata in questo nido, mutò il piumaggio attraverso i nidi che da questo ereditavano forma e sostanza. Volata poi sola, si temprò del freddo, ma d’un freddo nuovo che aveva conosciuto nella sua migrazione, il suo viaggio lontano dalla dimora. Così, bianca con gli occhi ardenti, più grande tra gli uccelli, era ritornata, serbando in sé un inverno forte, custodito in ghiacciai del nord. In planata silente si adagiò alla finestra, ma quando atterrando veloce gli artigli s’aggrapparono d’un primo contatto ai viticci e la pietra del davanzale, questi gelarono crepitando all’istante: dagli artigli soffiava il potere del suo gelo, che non poteva più toccare le erbe di questa latitudine senza generare il ghiaccio. Alzò la testa roteante, guardò la Matrona. Le cagne, alla porta d’ingresso, avevano mandato un ringhio, ma di più non fecero. Non s’erano mosse dal posto, con il busto rialzato a sentinella immobile, e di più non potevano. La Gufa Delle Nevi parlò per prima.


“Matrona, Matrona della villa sulla collina, sei signora di un nulla. La tua influenza è grande e potente, scorre dalla linfa nelle tue radici, e così raggiunge non solo la pietra delle incrollabili pareti, ma anche il terreno, su cui tutte le creature crescono, dei cui frutti si nutrono. Ma, ferma come sei, incatenata dalle tue stesse appendici di corteccia cigolante, agli occhi miei, che sono una creatura del cielo, appari in realtà come una schiava.”


La Matrona non parlava: in questo contesto non poteva. Pareva limitarsi, come prima, a piangere e al tempo stesso sorridere, il suo aspetto inaccessibile come lo è il volto d’una quercia agli occhi di una bestia selvatica. La Gufa continuò.


“è su questo che io vengo a interrogarti. Da te, così pare, tutto si genera. Le piante, la casa, la collina, tutta la campagna circostante. E chissà ancora quante altre di queste terre confinanti. Secondo logica, basterebbe questo a fare di tutti noi degli schiavi, essendo te sovrana. Ma è anche secondo logica che, se sei il principio di tutte le cose, e tu stessa sei soggiogata, ne deve seguire che non può generarsi in questa terra sotto il cielo e le stelle un essere che non sia superiore a questo principio, pertanto non soggiogato. Io però nacqui con le ali, so sollevarmi dalla neve caduta a terra. E mi chiedo se, visto che posso ancora comunicare con te, questo non sia perché anche tu hai, nascoste da qualche parte, due ali spezzate. Recise in un tempo lontano. Ci rendono consanguinee. Nonostante i destini diversi: le mie funzionano.”


E così dicendo, la Gufa Delle Nevi accennava con la capoccia mobile al petto piumato della Matrona che non dava cenni. Poteva darsi che non avesse capito tutto, ma nello sguardo argenteo e per le trame delle sue molte cortecce trascorrevano come linfe strani privati pensieri ed ella capiva tante cose a modo suo, come gli alberi. Forse il fantasma d’un sorriso? Dovevano esserci delle ali in fondo, se erano stati generati esseri alati. Sopra di me, timido come un baccello al freddo di novembre, sentii la presenza dell’Aquila. Anche lei era alata, nata da quaggiù. Eppure, per quanto non mi voltassi a guardarla e proseguissi strisciando sull’uscio, sgomitolandomi dal sottosuolo in cui mi ero messo al riparo, mi sembrava che l’Aquila restasse arroccata al trespolo che si era trovata e da cui vegliava sopra il pavimento. Come inchiodata dai suoi stessi artigli al bordo della porta, voleva fare da sentinella alla stanza: le ali le apriva da là, senza batterle, da sopra alla porta similmente a una statua imperiale incolonnata. Non c’erano state obiezioni da parte delle due cagne dagli occhi spenti davanti agli stipiti. Ma erano solo automi dal pelo rado, ignorate dagli esseri, che riuscivano soltanto a far tremare me; e io nella mia avanzata letargica già tremavo per ogni cosa. E, con un brivido ambiguo, percepii il suo sguardo su di me. E all’improvviso non seppi come sentirmi. Mutare la pelle adesso, lasciarmela dietro, una possibile soluzione (rinascere, rigenerarmi, quando mi toccherà?); ma c’era una forza misteriosa (forse, mi dicevo, opera a causa del freddo della stanza abbandonata), un terrore muto, e gli strati superficiali della mia pelle rimanevano aggrappati a quelli inferiori, dando pesantezza intollerabile a ogni mio movimento. Arrancavo piano avanti, verso il discorso della Gufa e la Matrona, la riunione nella magione attesa da tutti. Con un altro occhio poi l’Aquila si rivolgeva, un po’ più in là da me, dov’erano alcuni scaffali marciti rovinati a terra, alla Ninfa Proteiforme Del Mare, che aveva ascoltato le parole della Gufa e pareva sul punto di dire qualcosa, nel tremolio lieve del passo coraggioso, nella carne di seppia dei suoi capelli che già cominciava a cangiare in un rosso bollente. All’improvviso però fu interrotta.


Un brusco tepore ventoso sbuffò per un istante tra i viticci e le liane, spazzando coltri di polvere da pareti e angoli. Attraversò in lunghezza il salone e scomparve rapidissimo: forzando le porte aveva fatto irruzione il Demone Del Fiato Caldo. L’Aquila sopra l’uscio, per un momento disarcionata, si ricompose, e il Demone non attese cenni dai presenti. Deciso avanzò, con gli occhi color del vino diretti alla Matrona, al centro, al nervo pulsante. Per poco non venni calpestato, perché il Demone non guardava il suo passo, ma più di tutti lo spingeva in fondo, vicinissimo alla Matrona nel punto in cui si tendeva sospeso nell’aria il suo bozzolo ligneo. E fermo lì, tozzo e nerboruto, il demonietto quasi con aria di sfida ora si volgeva all’insù verso la sconfinata dama, ne guardava gli antichi occhi d’argento serbando un indispettito e irrisorio silenzio. Si spiluccò i baffoni rubicondi con le lunghe grinfie d’una mano, mentre con l’altra si teneva a spalla il suo luccio penzolante sulla schiena nuda, ghermendone a fondo la mollezza della pelle. Portava sempre uno di questi pesci, catturati a mani nude, grandi quasi quanto lui: nelle fattezze egli sarebbe potuto essere la deformazione, o evoluzione, di uno dei folletti delle case, dispettosi o servizievoli a seconda delle simpatie, tipici della zona. Fece occhietti in un ghigno strano, che gli fletteva in alto come antenne le orecchie aguzze, e parlò, com’era suo modo, nella maniera di chi sta facendo un gioco. E in questo gioco berciava a volte, o si chetava, mischiando l’ira allo scherzo.


“sai che dovrei fare?! Ti dovrei prendere, là dove stai, così con questa zampaccia mia!!”


Distese il braccio corto verso il bozzolo sospeso su di lui, e s’ostruì la vista di lei col palmo spalancato. Lo serrò a pugno con fare drammatico, le vene che affioravano sui muscoli.


“e poi dovrei tirare, tirare, finché non ti strappi via da qua!! Come avremmo dovuto fare tanto tempo fa!! Così almeno saremmo tutti morti, e niente problemi!! Hahahaha!!”


In un istante fu sbalzato da una forza invisibile verso l’ingresso. Non capimmo. Dalle onde termiche, le sento con la lingua, m’era perso che tutti avessimo sussultato per un momento. Comunque lui stava bene. Si stava rialzando, con l’Aquila che lo aiutava e rimbrottava piano nell’orecchio. Con il volto contorto di stizza e delusione, il Demone si schermiva e borbottava, come a dire di non voler essere toccato, e l’Aquila offesa se ne tornò sopra in un salto. C’era un po’ di tensione. Strano come la stanza (sì, sembrava quasi fosse la stanza a poterlo fare) riuscisse a muovere le cose quasi a evocare in un istante un vento temporalesco, rispondere a ciò che accadeva. E in fondo alla stanza la Matrona per la prima volta piangeva visibilmente, con vere colate sottili di lacrime a scorrere dalle guance, uguali in brillantezza a rivoli eburnei di una sorgente segreta. Una prima reazione che tutti potessimo vedere.


Il Demone raccolse il suo luccio e se lo riaggiustò a sciarpa. Si batté a manate la polvere dal corpo, e ancora brontolando lanciò occhiate a tutti quanti, che restituivano lo sguardo. Io, da parte mia, l’abbassai subito e mi misi a spirale. Espressioni diverse, ognuna un enigma, parevano interrogare.


“beh, che volete?”


Disse il Demone. Forse lo guardavano solo per capire cosa era successo, se si fosse fatto male, e forse lui intendeva sguardi di rimprovero, intollerabili. Era pronto a riceverli dalla Matrona, non dagli altri, ma la Matrona restava nel silenzio.


“sentite, io le cose le faccio a modo mio e voi a modo vostro, e il modo mio è così. Ma quando sente me, piange, dunque succede qualcosa. Se sente voi non succede niente. Fate come vi pare. Saluti.”


Orgoglioso si voltò e uscì dalla stanza, dandosi pacche sul luccio appeso al collo. Per un po’ ci fu silenzio. La Ninfa Del Mare serrava le labbra e chinava il capo in un silenzio irritato, indecisa se parlare.


Poi si fece avanti il Cane Lupo, che pareva ridesse gioviale dalla lingua ansante fuori dalla bocca. Passeggiò a balzelli verso la Matrona, quasi quanto aveva fatto il Demone. Il volto di lei non si mosse, spento e inflaccidito verso il basso, senza veder niente. Osservai la carnagione pallida: pareva trasportata altrove, rivolta a una lastra di mente su cui vedeva comporsi lettere d’una lingua a noi muta. Ma il Cane Lupo richiamò la sua attenzione: abbassò le orecchie e ringhiò aggressivo, il muso ondulato di pieghe. Lei allora lo guardò, sorpresa. Era come in un suo ricordo, che ci era stato raccontato, quando vide un lupo abbeverarsi al fiume, e limitarsi a ringhiarle allorché per gioco gli aveva tirato un sasso. Ma in quel momento il Cane Lupo probabilmente voleva solo smuovere la fissità opprimente dell’aria. Dunque lei lo guardava. E lui, riflettendo a lungo come a scegliere le parole, alla fine decise di ululare e basta. Ululò a lungo, modulando note gravi e acute, fraseggiando su accordi di sesta e settima, sui grilli nel buio incipiente e gli altri lontani ululati di campagne circostanti, soffianti dalla finestra. Le lacrime erano sparite dal volto della Matrona. Il Cane Lupo tacque, s’abbassò un istante. Un inchino mette in mostra il pelo caffellatte delle zampe protese avanti. Poi si scrollò tutto lateralmente come a spazzar via dalla pelliccia una pioggia che non c’era, starnutì, e scorrazzò verso l’ingresso. Indugiò un po’ vicino all’uscio con aria indifferente, annusò per terra. Guardò distrattamente in giro per la sala, gli occhi ora placidi e malinconici. L’ululato sembrava avergli richiesto un certo sforzo, tirar fuori dal torace una melodia imprigionata. Sentendosi ora in pace, agitò la coda irsuta, se ne andò nel buio dei corridoi, e nel trotto che lo faceva sembrare sempre allegro se ne sparì, tuffato nella notte ormai imperante sul contado. Rimanevano le orme terrose su tutto il pavimento, una scia che faceva pensare, come una fiaba scritta, a un ritorno in una tana lontana. Dovere notturno che lo chiamava, uno degli ululati lontani uditi dispersi nel mondo della notte là fuori, un’altra attesa per lui.


“guardalo che se ne va tranquillo! Ha fatto il suo.”


Disse qualcuno, non riesco a ricordare chi. Non avevo guardato, concentrato su altri pensieri. Ma aveva ragione il Demone: subito la Matrona aveva ripreso l’espressione vacua di prima, l’immobilità nel bozzolo in cui l’avevamo trovata entrando. Sempre uguale. Fluttuavano ancora, nell’aria, le vibrazioni. Il discorso della Gufa, il vento caldo del Demone, quello strano ululato. Ero sordo, non mi arrivava immediato il nucleo di quelle note. Nella mente le scomponevo, palline di mercurio, cercavo di capire. Schiavi? Sì, eravamo schiavi, la Gufa aveva ragione, forse proprio perché era la Matrona, che possedeva le terre, la prima a essere schiava. Ma non era forse così per tutte le creature che nascevano laggiù, nel loro tempo antico? E tra tutte, lei se non altro seppe generare molte cose. C’era, in lei, un principio positivo vivo nella terra, toccato dall’avvicendarsi di cose…


“generare! L’unico compito, l’unico significato che ti è stato affidato, vero?!”


Come in risposta al mio pensiero (o ero io a leggere il suo?), la Ninfa s’incoraggiava a portare i suoi dilemmi. Li parlava con fretta, immediata, impeto di vortici e mulinelli. Ma fluendole le parole dal cuore annegato tra complesse correnti, il discorso usciva come un insieme orgiastico di rimproveri e canzoni e risate strozzate dal rimorso, che confluivano in un unico pianto.


“nasci donna in campagna, la più povera come la più ricca, stessa cosa. Genera, sii l’immobilità stessa della tua casa, e della tua casata. Angelo o diavolo del focolare.”


Ruggì la Matrona, in un lampo brevissimo, sentendo la parola “diavolo”. Lei aveva generato, dalla collina fino ai confini dei territori. Molte ramificazioni si spargevano dal suo cuore. E profumava, simile al rigoglio d’un giardino curato, di buona terra appena divelta; in questo non c’era del male, c’era il bene che poteva fare. Eppure, era apparsa in un luogo e in un tempo che avevano volto le cose in un certo modo. Ed eravamo tutti in riunione presso l’antica magione, quel luogo che era rimasto nei racconti, rudere austero.


Intercettavo pensieri taciuti sotto le onde che s’accalcavano per uscir fuori dalla Ninfa, in un apparente disordine privo d’argini. Pensava anche lei a quei rami: li vedeva, e riconosceva in quelle parti della Matrona una divinità arcaica di raccolto e samhain, pagana come lei, ma quelle parti non sarebbero mai state ammesse. E in questo c’era un problema. La Ninfa, mutaforma, era scossa dall’impeto. Le vibrisse traballavano in volto, i colori, rosei e verdi e azzurri, baluginavano a ripetizione lungo le scaglie sulla pelle e sparivano sotto il pelo delle manine prensili; perdevano sabbia accumulata le nervature delle conchiglie che la adornavano, mentre sul carapace s’abbattevano i tentacoli fluenti dalla testa. E gridava, e si pentiva del grido ma continuava, per la marea innescata e la luna fuori, perché la fede sua era di segno opposto e intensità uguale a quella della casa, riflesso del nome della Matrona.


“hai accettato di non valere niente, difendi la tua condizione inferiore. Per questo siamo tutti ammalati. Come la corteccia, nel punto in cui perfora il tetto, in cui legno e foglie incanutiscono. Tu invece, come tutti, eri più di quello che volevano fossi. Amen.”


Le lacrime della Ninfa erano molto diverse da quelle della Matrona. Si muovevano molto, si gonfiavano, sgonfiavano, sparivano in vapore, rinascevano. Osservavo, commosso, la danza di quei cavalloni riversati a terra. La Matrona, e anche l’Aquila dietro di me, parevano infastidite dalla salsedine. L’Aquila mandò un trillo d’allarme a gola aperta, a mo’ di avvertimento alla Ninfa in tempesta. Mi sembrò che la Matrona udisse l’Aquila e decidesse di ignorarla. Sbuffava? Qualcosa l’agitava in volto, una scena imprevista. Ma anche quel tumulto durò poco. Eravamo in una casa inamovibile, sulla terraferma, nel cuore d’un delirio di leggenda. Stavamo in realtà facendo domande a noi stessi, intercettati da quella figura imponente, interposta nei nostri dialoghi. Ci s’infilava, nascendo ovunque ci fossero terra e vegetazione e rischio di dubbio. Cresceva in su, sbocciava un volto, e chiedeva: “dove credi di andare?”, perché così chiedevano un tempo a lei bambina, quando passeggiava tra i campi seguendo uno sciocco pensiero, vedere un po’ il mondo con gli occhi suoi.


Nel rimpianto della Ninfa, come lo guardassi riflesso in superficie liquida, vedevo un paesaggio agitato da molte forme, ali minacciose; ma anche altre creature che volavano libere senza ali, a cavallo di una scopa, o su cavalle rubate. La Ninfa stava portando la mente là fuori, oltre le pareti della casa, fantasticando di streghe che ancora erano in circolazione dopo tanti anni da quelle parti, proprio come nelle storie udite tanto tempo fa. Donne nascoste nel fitto e nel nero, come le ninfe anche loro senza vergogna delle arti, così ammantate di buio. E quelle storie le aveva udite proprio dalla Matrona, avversa alla magia, ma che pur doveva avere nell’animo una parte che la custodisse e carezzasse, per poterla raccontare con parole di timore e nostalgia e verità. Si dissolsero le forme dal pensiero della Ninfa, da me sognato in ipnosi autoindotta. Gocce d’olio scisse nell’acqua d’una bacinella, un rito apotropaico.


Cominciavano ad andarsene un po’ tutti. Ma io, che ero là presente, striminzito col corpo a vermicello, che avrei potuto dire? Alzai il collo, cappuccio aperto, e lo ritrassi. Non so usare la mia forma per farmi capire, al momento. No, dovevo passare più tempo a interrogare le cose. E mi vidi, come lei, simile a lei, incastonato in una sola tana. Un lungo letargo per comprendere, o per sopportare, prima di parlare o agire. Si sarebbe fatta mattina, forse, sulla collina là fuori.


Certo se fossi stato donna sarei stato come lei. Uguale. Fortunatamente non sono donna, sì, mi rendo conto che sarebbe stato ancora peggio. Eppure…


No, non dovrei. So che è sbagliato. Non posso sapere. Ma che c’è di male? Neanche loro possono sapere. Cosa ho dovuto patire anch’io, maschio non maschio lacrime da celare. E cerco di non attribuire tutto a quanto vedo qua. Certo però quest’aria gelida. Sono irretito, non posso fare niente. Che rabbia! Allora vedi che qualcosa vorresti fare anche tu, che ti schermisci con l’inettitudine e una maschera innocua? Che rabbia! Allora vedi che c’è anche tanta rabbia? Potresti essere più onesto, come qualcun altro. Ma non sono bugiardo. Non è essere bugiardi prendersi del tempo. Mi serve molto tempo. Lo scorrere della storia. A lei è scorsa via dalle dita, dai rami. Un secolo intero, le follie più inenarrabili. Tutto ha visto, tutto. Ed eccola ancora qua. Come fa a reggersi in piedi? Non lo fa, è un bozzolo a sorreggerla. Bozzolo e mantra a profusione. Fragile dentro. No, non sono d’accordo, la fragilità non la si tratta estirpandola. Però, se fossi stato donna, io l’avrei manifestata senza tanti problemi e passivamente accettato la passività senza che questo suscitasse indignazione e problemi e perché non usi i denti che ce li hai e anche belli lunghi e mortali ma come perché lo hai appena detto sono mortali maledizione! Mi fa male su una costola dove ero stato quasi schiacciato. Non capisco se tutto questo sia una tragedia oppure è sublime. Ma è ovvio che è entrambe le cose per te che sei un essere ctonio. Ritorna alla tua tana e avvolgiti in fantasticherie, solo a te stesso puoi parlare e toccare il cuore. Saresti stato come lei dici? No, lei è stata anche forte. Nonostante le ansie sparpagliate dai suoi rami lei è sopravvissuta in quel caos, conservando una mente vigile. Tu ci saresti riuscito? Al posto suo, adesso, loro non verrebbero a discutere con te con se stessi a questionare a riflettere ma verrebbero a decapitarti senza possibilità che tu parli. Quella che ora hai e che non usi. Perché? Definisci vigliaccheria: quella cosa per cui c’è sempre qualcosa che ti schiaccerà la testa e le insidierai il calcagno.

..


Mi riscossi dal mio rimuginare: allarmata dalla pupilla mia immobile, che fossi io in quella casa il maligno insospettabile? Comunque mi svegliai. Ma come? Era stato un raggio di sole dalla finestra, l’alba in arrivo? No: aveva parlato. La Matrona aveva parlato. Ma forse non c’è da stupirsi: una stupida fantasticheria, può accadere di tutto. Calò il volto, che si muoveva normalmente, normali espressioni di un volto normale, per caso messo là su d’un corpo piumato e dotato di rami. Volto che si vede nella vita normale. Scese verso di me, tra scricchiolii di funi arboree, sorrise, disse:


“dove vai?”


Stavo per rispondere, ma venni distratto. Un altro cigolar di giunture, radici attorcigliate su se stesse mi porgevano qualcosa: su una mano di fronda raggrinzita c’era un topo. Un topo di campagna, di quelli che per generazioni avevano popolato i cunicoli e i silenzi notturni della casa costruita in campagna, secoli fa. Raccattato da un qualsiasi angolino buio, ce n’erano migliaia in tutta la struttura. Dai tetti alle segrete dove stava nascosto il diavolo. Cantina e fienile abbandonato nel campo. Le radici e i rami raggiungevano tutto.


Volevo andarmene. Sì, volevi andartene, e allora perché non l’hai fatto?


È l’istinto, l’istinto, è una forza su cui io non ho controllo né potere di scelta! Io non volevo mordere il topo!


Non pensai. Ero stato una creatura di riflessione ed enigma, tutto perduto. Ero solo una bestia: dopo un’immobilità demoniaca, fredda del mio stesso sangue, avevo infine afferrato l’istante giusto, rapido. Avevo addentato il topo offerto. Piansi ipocritamente sentendone il fischio smorzato sotto i denti. E dalle ghiandole sentii fluirmi copioso il veleno dentro i suoi tessuti, e mentre con la vittima mi scusavo mentalmente, la vivevo, patendo il suo male, e vivendolo mi irroravo del mio stesso veleno. Giungeva al cervello, lo infatuava d’estasi senza legge. E vidi quello che credetti di vedere.


(Una casa. Galline inseguite nei campi per gioco. Cavalla, gravidanza isterica, acqua nella stalla. Morirono, con il somarello, sparirono come le cose, finché una macchina, motori mai visti, città che meraviglia strana, lampioni, e luce fu nel medioevo infinito delle campagne a sud del progresso. Campane ogni mattina, latte, campane di nuovo, sempre campane rintronavano nella testa. E scendere nell’incubo alla notte, il diavolo il mostro che si calava dal buco nel tetto. E riemergere alla mattina. Campane, poi aerei. Fischi, coprifuoco. Celesti, occhi, altri ancora, parlano strano. Croci a casa croci e campane croci uncinate su bianco rosso e poi stelle e strisce su bianco rosso. Doni, parole, promesse, giornali, altra città, altra ancora. Solo lui. La divisa la nazione l’amore. Qui, vivere. Qui, in questa casa. Ci sono ancora i molti sospiri che abbiamo lasciato.)


Visioni esplosero in luce portentosa, nella sensazione che mi seguiva per i corridoi, pensando alla memoria rinchiusa tra le pareti, i pesi lasciati indietro o portati.


Mi sembrava che la Matrona mi guardasse, ma forse era solo immaginazione. Anzi, sicuramente. E tremavo, incontrollabilmente, peggio di una foglia sottile sbatacchiata dall’autunno. Sul legno, di fronte a me, comparve un bocciolo chiuso. Proprio sotto di lei. Era stato là tutto quel tempo, non lo avevamo visto. Ce ne erano altri, più piccoli, là vicino, come nei o segni strani sulla sua pelle, trasferiti alla corteccia che le apparteneva tutt’intorno. In un punto così vicino al corpo di carne. Boccioli forzatamente chiusi, incancreniti e marciti, un puzzo nero intollerabile. E guardando capii che dovevano essere lancinanti. Ancora sentiva ogni segno sulla corteccia. I boccioli così bloccati, una bruciatura, una scheggiatura. Una croce storta sulla spalla dell’albero, un’altra nera sul petto dell’albero. Tutto era enorme.


Così, senza lasciare la preda, svuotando tutto il veleno della mia bocca, rimasi nella sala ancora un po’, senza sapere che fare.

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