la maledizione
- Milky
- 9 ott 2023
- Tempo di lettura: 36 min
La notizia della sua morte fu accolta dalla gente del paese con il solito misto di estrinsecazioni collettive, che sempre accompagnava i pur leggerissimi sconvolgimenti del loro lento e inalterato procedere nei giorni bloccati alla periferia del mondo. Nelle voci raccolte in manipolo nei pressi della piazzetta, della fontana, delle sedie da esterni disposte in direzione del comune nel corso di pomeriggi strascicati attraverso l’infinità torrida del tedio, e anche per le strade costeggianti i pascoli che salivano verso i boschi -nel vociare di tutti quei luoghi eletti a punti di riferimento si potevano riscontrare diverse forme di un pathos morboso, non tanto grande da fare di quella gente immutabile degli amanti della drammaticità, ma comunque eccessivo per l’occasione, sfogo da riservarsi soltanto per momenti simili, come la devozione usa e getta di una messa natalizia o pasquale; e qui c’erano commozione, eccitazione risvegliata da una coltre di monotonia indifferente allo scorrere di stagioni e anni, pettegolezzo ed estro creativo nella formulazione di nuove leggende sul conto degli interessati, volontà un po’ vanesia di diffonderle come se ci fosse qualcosa di speciale nell’averle udite per primi; e anche un po’ dell’affanno seminascosto di una lucertola che cerchi di ricongiungersi alla coda recisa, ancora dimenantesi da qualche parte nei mucchietti d’erba già attraversati, i passati possibili e irreversibili.
Lei, dalla finestra, la mano ricurva a sorreggere le tende scostate per affacciarsi su quelle giornate inaspettatamente chiare, spiava quel sentimento da cui era volontariamente separata non con sdegno, non con quell’unione di disprezzo e distacco che forse avrebbe dovuto caratterizzare chi aveva conosciuto il defunto meglio di quanti andavano chiacchierando spudoratamente sul suo conto. Apprensione invece la teneva costantemente con gli occhi spalancati, così che se quelli là fuori, ancora presi dalla fretta di recarsi ai ritrovi e sentire altre notizie o darne di nuove, avessero per caso intercettato con lo sguardo la finestra in cui lei si stagliava, avrebbero visto un miraggio deformato dal vetro: ammantato di tende e lunga vestaglia verde e lunghi capelli ondulati, il fantasma del lungo collo nudo palpitante di sottili rughe sorreggeva un volto esangue in cui sclere dilatate incastonavano due pupille di sgomento quasi ultraterreno. Così in men che non si dica anche lei sarebbe diventata leggenda, vedendo loro la sua bocca serrata in perenne impercettibile fremito, il viso sfigurato dall’ansia, e ricordando che era stata amica del matto defunto, in una giovinezza lontana, pronta ad accogliere sordidi dettagli fittizi. Immaginandosi vista, non certa d’aver capito se quelle due vecchie calamitate verso la piazza dal suono delle campane mattutine avessero guardato nella sua direzione, Gracula ossessivamente chiudeva le tende dando uno strappo brusco, dopo aver spiato, e si rivolgeva alle ombre azzurre all’interno del soggiorno.
Così molte volte aveva fatto, creandosi l’illusione angosciosa di aver moltiplicato quei pochi giorni seguiti all’accaduto, rendendo impossibile contare le sue visite alle finestre da una parte all’altra della casa in cui viveva sola, senza uccelli che cantassero incarcerati nelle gabbiette appese, ormai meri involucri vuoti d’arredamento. Viveva come ombra dietro le tende bianche che assorbivano la luce solare, tanto chiara in quei giorni da sembrare un dispetto, e non ricordava d’essersi mai seduta. Ma il momento non poteva più essere rimandato, e anche se intimamente convinta che sedersi alla scrivania, fermarsi un solo attimo sarebbe equivalso ad annullarsi, ad annientarsi in uno sprofondo d’abissi sconosciuti sepolti sotto la casa e sotto la quotidianità di calma apparente -anche se sapeva che sarebbe stato come vedersi disintegrare il proprio corpo in un incubo lucido, era a lei soltanto che Ululone aveva affidato la sua storia. Non perché qualcuno la leggesse, ma perché fosse scritta: che esistesse, che possedesse una forma, da qualche parte, nel buio di qualche cassetto (e che quella forma, generandosi, concludesse ciò che nella circostanza narrata aveva già cominciato a generarsi, così da portare a compimento l’accaduto: questo aveva implicato Ululone senza affermarlo). Era la volontà di quel ragazzo che di lì a poco avrebbe cominciato a fare il matto, diventando anzi “Il Matto”, fauna locale del paese, quel ragazzo disperso in una nebbia mentale di esilio volontario che mai gli avrebbe fatto conoscere gioventù, maturità, vecchiaia, volti e parole degli altri che aveva conosciuto da bambino e adolescente, quando era vissuto in modo uguale a tutti quanti e a tutti coloro che c’erano stati, riempiendo il cimitero, costruendo silenziosamente da secoli la materia stessa del paese: tutte le cose per lui rimaste sconosciute o dimenticate, fino alla fine. E quella volontà finale che lei, ragazza in quei giorni, aveva custodito sin da quando era stata espettorata in un affanno animalesco, era una spina nel petto, un fermaglio che teneva ancorati al suo corpo slanciato i panneggi protettivi del suo vestiario dal colore delle erbe alpine. E ora, china sulla risma dei fogli e tremebonda per l’energia della sua costante circumambulazione costretta a confinarsi entro i limiti della posizione seduta, si preparava a rimuovere questa spina dal centro di sé. Cosa sarebbe accaduto? Una struttura che crolla su se stessa, privata di un invisibile ma fondamentale sostegno? Oppure la maledizione si sarebbe conclusa per azione di agenti esterni? Entrambe le cose, mormorava tra sé.
Chissà se vivevano ancora da qualche parte. Lepre e Coniglio, saranno diventati degli adulti normali, o dei non-adulti come lo era stato il loro amico-sentinella delle vacanze di infanzia? E là, entro i confini irraggiungibili e invalicabili delle loro vite, avranno avvertito una scossa strana, propagata dall’ultimo respiro esalato da Ululone, propagata da quel ricordo riesumato da un oblio che chiunque avrebbe sperato? Gracula in cuor suo pregava per quei bambini, sempre, da quando le era stato raccontato cosa c’era nella foresta, dalle parole inaffidabili di un pazzo, più sincere che mai.
-perdonatemi. Lepre, Coniglio…-, disse, impugnando la penna, credendo di provocar loro, vivi o morti e chissà quanto distanti, ancora mille altre scosse, presagi, incidenti sinistri, come se ciascuna particellare goccia d’inchiostro da lei depositata su carta in quel suo ultimo compito fosse capace di dischiudere i segreti vorticanti nelle profondità del colore nero, e tutto ciò che giace non detto e proibito nel fondo di tutte le cose. Con la punta della penna credeva di ferire, seguendo lettere che già giacevano lì, cicatrici riaperte; credeva di riportare all’esterno quanto era stato cacciato dietro una parete di cicatrizzazione e il suo camuffamento con la circostante materia.
-un’assassina, sono…-, diceva quasi piangendo, svuotata di lacrime. E nella casa, la tana che da adulta s’era fatta per sé, fece scendere il silenzio come una pioggia comandata dai numi. Un silenzio normale, appena interrotto, da suoi leggeri gemiti, dal pulviscolo nella penombra azzurrina in nevicata sulle trapunte e il mobilio e le gabbiette vuote, da un ticchettio d’orologio, dal grattare della scrittura.
…
Ululone sonnecchiava con le gambe incrociate sul nodo dell’amaca, un orecchio e un occhio semiaperto rivolti alla distesa gialla accecante di cicale e frumento, il campo d’estate. A risvegliarlo, lentissimamente, la brezza di quel giorno, che sembrava sussurrare la resistenza di qualcosa di fresco assieme ai lucori verdastri provenienti dai ciuffi di boscaglia al confine con le spighe più alte, dove la strada saliva in cima alla collina, verso la foresta. Dalla stretta feritoia delle palpebre dell’occhio sinistro vide ciondolare dal ramo dell’albero vicino il copertone appeso alla cordicella, e capì che qualcuno, una mano piccola, doveva averlo colpito, in un esperimento di gravità. Oppure era stato il vento, o entrambe le cose.
-Lepre, Coniglio..? siete voi?-, disse tirandosi su, facendo sgusciare con affaticata intermittenza da una poltigliosa cispa ormonale due occhi chiari da celta preadolescente, che lo facevano straniero tra gli abitanti brunastri del paese. Con quelli, attento eppure distaccato, guardava al mondo, cercandovi le figure di quei suoi due “amichetti” più giovani.
-ciao Ululone.
-ciao.
Dissero Lepre e Coniglio.
-ah.. e dove vogliamo andare oggi?
-alla foresta.
-sì, foresta.
-eh, come ti sbagli.
Ululone li teneva d’occhio. Mansueto, responsabile, piaceva ai bambini ed era l’unico da cui si lasciassero sorvegliare. I genitori si fidavano. Quegli adulti distinti Ululone li ricordava a stento, quasi le loro brevi apparizioni -di mattina quando qualche volta era lui ad andare a cercare i gemelli per i giochi, e ogni sera quando li riconduceva alla casa- non bastassero a definire le loro figure, troppo frammentarie, liquide. Sempre in casa, indistinti dalle traballanti immagini degli interni che si potevano scorgere da fuori, dalle finestre o dallo spiraglio della porta che al crepuscolo faceva entrare un refolo. Erano infatti molti a chiedersi cosa ci venissero a fare, dalla città, a passare le estati lassù. Solo un ricordo, una parentela, un qualche dovere cui non potevano sottrarsi? Diverso era invece per i figli, Lepre e Coniglio, bambini tranquilli, ma curiosi di girare, e registrare delle campagne e dei boschi le cose più rare, e avere al loro fianco l’unico amico che avessero trovato, un ragazzo più grande e simile a un cugino lontano, che passava le sue giornate da solo ad accudire le capre, o seduto su una staccionata accanto a una ragazza silenziosa dai lunghissimi capelli, sempre vestita come una fata dei boschi. Guardava Lepre e Coniglio giocare, senza dir loro una parola, ma rivolgendo un sorriso chiuso, parsimonioso di benevolenza. Perlopiù ascoltava i resoconti di Ululone. Fatti della giornata, poco variegati. E senza far commenti dopo un po’ se ne andava. Altre volte invece si dedicava alle sue tele e disegni, figure del paesaggio appena accennate, parevano acquerelli filtrati da una lente, che assorbivano in quei momenti di ispirazione in plein air tutta la sua capacità di concentrazione.
-andiamo da Gracula?
-sì, da Gracula.
-mmh, sì, non si vede ancora.. strano. Forse è ancora in casa?
-chiediamo a lei se viene.
-sì andiamo.
-va bene, va bene. Fatemi alzare…
Ululone gemette sforzandosi d’uscire dal letargo che l’aveva steso nel primo pomeriggio, e in un balzo si mise alla testa del gruppetto, guidando i gemelli con una camminata ancora sonnolenta. Chiacchierava per svegliarsi gradualmente, passo dopo passo.
-c’avete i fogli, eh?
-sì. Voglio disegnare gli insetti.
-voglio disegnare gli gnomi.
-ah, prendete ispirazione. E Gracula magari dipinge.
Ululone bussò alla sua porta, ma la ragazza non rispose. Fece allora il giro della casa, per bussare alla finestra della sua camera. Chiamava il suo nome, e Gracula non rispondeva.
-mmh.. che strano. Non c’è. Che facciamo?
-io non ho portato la carta per disegnare gli gnomi! Gracula ce l’aveva...-, esclamò Coniglio, indispettito.
-eh? Un grande scrittore di fiabe come te, che diventerà famoso in tutto il mondo, gira senza carta?
-non ridere!- riprese Coniglio con lo stesso tono, riferendosi allo stupore sincero che intravedeva nella presa in giro di Ululone. -solo Gracula ha quella carta ruvida per dipingere. Gli gnomi che ci disegno, quando dopo li riguardi, sembrano vivi. E io riesco a scrivere fiabe migliori. Degne dei Grimm.
-non so chi sia questo Ehigrim, ma scrittore o non scrittore, non sta bene aspettarsi che gli altri facciano le cose al posto nostro. Intesi, Coniglio? E tu, Lepre, su, prestagli la carta.
-ma ci poteva pensare lui.
-lo so, lo so, siamo d’accordo, ma…
-scusate…!-, interruppe una voce quasi piagnucolante, come un riverbero d’acqua sorgiva di là dalle tende e il vetro della finestra.
-oh, Gracula? Sei tu?
-oggi andate senza di me. Non.. non mi sento tanto bene.
Per pochi istanti tutto sembrò tacere come pietra fredda. Ululone, la bocca dischiusa per una perplessità ottusa, sembrava davvero scemo.
-oh! Ho capito, e.. ma stai bene, sì?
-..se ti ho appena detto… cioè… sì, bene. Cioè, starò meglio. Fra non molto. Non vi preoccupate. Voi andate a giocare.
Lo stesso silenzio avvolse le pareti e lo spazio esterno della vecchia casa di campagna dei nonni di Gracula, dove lei allora viveva e passava la maggior parte del tempo. Era però soltanto una sua preferenza, quel rinchiudersi a distanza dagli eventi, e non aveva mai usato prima d’allora una giustificazione del genere.
-ho capito, ho capito, ma.. allora sicura che non ci raggiungi nemmeno più tardi?
-sì, sì, è che… ho un brutto presentimento, ecco… e se poi sto male mentre siamo là… capisci.
Ululone non capiva, ma l’insistenza non era nel suo carattere. Rivolgeva un tono tollerante e privo di particolare inflessione, quasi rinunciatario, a quella finestra chiusa e parlante in cui vedeva specchiata la sua testa e il suo cappello, come se le pareti esterne della casa fossero né più né meno la persona che contenevano, e la finestra un indistinguibile sostituto del suo sguardo.
-ho capito, va bene. Possiamo almeno entrare a prendere certi tuoi fogli, che Coniglio non li ha portati?
-scusate, ma… preferirei che oggi proprio non mi vedeste.
I tre si guardarono quasi increduli. Coniglio sembrava deluso.
-nemmeno se sporgi un braccio e ce ne passi un..?
-scusate, ora voglio ritirarmi… mi sdraio sul letto in camera dei nonni. Devo andare. Scusate ancora.
Dopodiché non si udì più da quella finestra, per quanto chiamassero. Che strano, pensavano. E il silenzio che aveva seguito ogni sua parola pian piano si diradava, moltiplicandosi le cicale al suo interno come sciami di puntolini danzanti in un vortice di polvere.
-sarà andata a riposarsi. Niente da fare. Andiamo noi tre.
Si incamminarono verso i pascoli, per uscire dal paese.
-ma che aveva Gracula?
-eh, che aveva?
-mah, sapete, le ragazze, non so dove l’ho sentito, ma ci hanno di questi “presentimenti”.
Marciando senza parlare, sentivano i balzi vitali e ticchettanti delle cavallette, e tutto -rametti, spighe, sassolini del sentiero- prendeva vita, suggendo un fuoco incontenibile dal sole di quell’ora, in cui loro tre cercavano invece l’ombra degli alberi.
-anche tu forse, Lepre… quando crescerai, e sarai una ragazza, avrai tanti di questi presentimenti, come Gracula.
Coniglio e Lepre fecero ognuno una smorfia. Ululone li lasciava fare, credendo che giocassero con le loro facce quando facevano così, e lui non capiva cosa volessero esprimere. Era bello, però, credeva: giocare così, come facevano, anche semplicemente camminando in quel modo, senza fare baccano, tra le cose che non potevano vedere in città. Le cose vive continuavano a saltare e frinire tutt’attorno, smuovendo gli steli delle foreste ocra di spighe, mescolandosi al venticello. Ululone si chiedeva se potessero sopravvivere a lungo nel sole, tutte quelle cose, se non le attendesse una tortura bruciante e orribile. E pensava che, poiché era lui che doveva tenere d’occhio quei due, dovesse anche impedirgli di vedere i risultati di quella tortura che la natura di continuo sparpagliava, talvolta nascondendo, talvolta dimenticando di occultare. Ma cosa non voleva che vedessero? Forse che quei balzi vitali, quei canti estivi, erano solo un tentativo disperato delle creature di sfuggire alla canicola, a un eccesso di vita che conduce alla distruzione? In fondo quelle fiabe e quei disegni naturalistici degli animali, cui Coniglio e Lepre si dedicavano, simili a bambini speciali dotati di intelletto e poteri magici -quegli interessi da sognatori non erano che modalità escogitate per portarsi dei ricordi dalle colline alla città, per poter custodire un pezzo d’estate laggiù, in un mondo offuscato da elementi diversi dal sole e le nuvole e la notte. Nient’altro, dunque, che sofisticati giochi: come tali, non avevano spazio per il reale al loro interno.
Ululone, anche se non sarebbe stato capace di esprimerlo, pensava questo, senza riuscire ad articolare la paura inespressa, il distacco che sentiva nei confronti di essa e dentro il suo modo di ragionare. Vivendo pigro sull’amaca, solerte nelle stalle, aveva forse immerso la mente in un ininterrotto magma rovente dei pomeriggi intrecciati tra loro e prolungati a formare tutte le sue estati, senza mai oltrepassare i limiti del paese o della foresta intorno; e nelle zone d’ombra aveva visto fermentare un fango, come quell’intruglio melmoso di urina e argilla e pagliuzze che si formava nella stalla in cui si dovevano costringere le capre troppo selvatiche, il suolo in cui costantemente affondava gli stivali da lavoro, suolo smosso e rivoltolato in modo che ininterrottamente fosse smosso anche l’afrore di cui era intriso, sprigionato, salito verso il soffitto in soffocante cappa batterica. E il mondo si riduceva per lui a questa opposizione d’eccessi, che si doveva attraversare necessariamente con l’automatismo ottuso delle capre e degli asini, al confine con l’indifferenza. E come quelle bestie della fattoria, aveva appreso a muovere le orecchie per scacciare mosche immaginarie, aveva appreso i gesti dell’allontanamento, le cerimonie atte ad attraversare la giornata, gli atti comunicativi spogli di reale significato, compatti e senza nucleo come le setole e i peli seccati dal giorno.
-e allora che sperate di vedere oggi nella foresta?-, chiedeva ai suoi cuginetti acquisiti.
-io spero di vedere le mantidi, le libellule, e le erbe selvatiche.-, rispose Lepre, un mazzetto di pastelli stretto in pugno, i fogli piegati in una tasca.
-io spero di trovare quelle pietre antiche, di quel colore un po’ rossiccio, che si vedono qua e là.
-ah! E perché vuoi vedere le pietre?
-sono ruderi di una civiltà passata. Oggi non le posso disegnare…
Ululone annuì. L’ombra cominciò a sfiorarli sotto i primi alberi mentre attraversavano il sentiero ordinato ch’era l’appendice finale della stessa strada che passava per la piazza. In mezzo a tunnel di tronchi perfettamente ricurvi, evidente frutto di silvicoltura, giocavano ancora in un mondo che non era né foresta né paese, ma che era -almeno per Ululone- inequivocabilmente “casa”. Una casa grande, piena di cantine e sotterranei e altri posti da tenere con la porta chiusa a chiave.
-vorrà dire che solo per oggi terrai tutto bene a mente. E dimmi… non volevi vedere gli gnomi? Che c’entrano i ruderi?
-i ruderi e le pietre-, fece coniglio, fingendosi spazientito -sono segnali. Precedono gli gnomi, precedono il cervo sacro. Dove vedi le pietre un po’ rosa, accade qualcosa.
Ululone annuì di nuovo. Certe volte le cose che diceva Coniglio gli facevano venire i brividi. Lepre non commentava, austera quasi, immersa nell’anticipazione, di piccole creature che si aspettava di trovare, delle quali sapeva riprodurre con maniacalità da miniatura medievale i tratti più sfuggenti, sintetizzati in colpi veloci di matita, carboncino, pastello. Erano gemelli strani, come fossero figli di fauni o altri diavoli che argentei sfuggivano nell’atmosfera, indistinguibili dalle folate del vento silvano. Ma per quanto strani e lontani da tutto sembrassero, Ululone voleva loro bene, doveva volergliene, perché nessun altro, in quei momenti e quegli spazi in cui “voler bene” significava “non perdere di vista”, poteva riuscirci come lui. E li vedeva sempre mentre osservavano, annotavano, e s’immergevano in pause assorte dietro le quali fluttuavano pensieri illeggibili. Simili quasi a quei loro genitori che non uscivano dalla casa delle vacanze, imprigionati forse in una simile concentrazione, come stregoni ricurvi su una pozione in pentola.
Ma che andava pensando? Poteva lui, alto il doppio di loro, farsi mettere paura da poche parole, e arrivare a pensare cose così sospettose? Ululone non amava scoprirsi nervoso: questo avrebbe indisposto le capre, e reso più cedevoli le mani che gli servivano per ogni compito nella fattoria. Al diavolo i brividi causati da cervi sacri e altre storie di Coniglio. Vero era, però, che procedendo nell’ombra degli alberi e sentendo l’odore di muschio sovrastare poco a poco quello della paglia, fino a sommergerlo del tutto, il vento era cambiato. Soffiava dipanando tra i tronchi veli d’un’aria fresca insolita, incapace di dispensare un vero refrigerio che liberasse dall’oppressione dell’alta estate. Era anzi come se un vento nuovo, oppure sempre esistito nella rosa dei venti accanto agli altri, ma nascondendosi insieme con altri suoi simili elusivi dietro le nuvole e le chiome delle latifoglie, venisse allo scoperto, qualificandosi come il segreto vento freddo dell’estate calda, esistente all’interno del suo ordine torrido, non sottratto a quella legge: era soltanto la parte fredda di essa, una freschezza emissaria della calura (se mai una cosa del genere poteva esistere anche tra quegli spiriti di superstizione, di cui Ululone aveva sentito spesso parlare per bocca sdentata di certi paesani che adornavano le mensole agli ingressi delle loro case di innumerevoli madonne e bizzarri idoli fatti a mano, di rami o paglie intrecciate, di volti brutti o senza volto).
Sì, era cambiato il vento dentro il cerchio transitabile attraverso gli alberi, illuminato nel suo fondo da un bagliore accecante, quasi un tunnel culminante nel volto del sole. Ma attorno a loro, appena oltre le prime file laterali di alberi, ordinate, s’estendeva ampia attraverso entrambi i lati del crinale e a ricoprire l’intero colle in salita la foresta, fitta, priva di altri sentieri. Lì avevano spesso giocato, accontentandosi di stare ai margini, davanti agli ingressi sbarrati dalla vegetazione spinosa, senza scostare rovi e intrichi per farsi largo nel folto rinchiuso. Lì i bambini si limitavano a raccogliere gli esemplari di loro interesse -insetti, rocce, reperti, uova di ramarri e serpi-, e lì Ululone era sempre rimasto, torreggiante sulle loro figure chine, vigile nei pressi delle leggi dell’invalicabile. Ma non c’era forse qualcosa di diverso in quell’occasione, se era stato in grado di avvertire il sopraggiungere di quel vento nascosto, sempre presente eppure raro?
Ululone pensò che forse anche lui era, in qualche sua parte, un po’ “una femmina”, come Gracula, se stava avendo di questi “presentimenti”.
.
-cos’era quello?
-eh, cos’era?
Lepre aspettava, la bocca serrata in atteggiamento serioso prima di pronunciare un’ipotesi.
-topo selvatico.
-ah, già, un topo selvatico.
I bambini giocavano. Nei cespugli, nel sottobosco, perfino negli strettissimi spazi minacciati da spine di piante velenose, si muovevano tante creature velocissime a sparire. Lepre disegnava altrettanto velocemente, con gesto automatico. I fogli che aveva portato con sé cominciavano a macchiarsi di eleganti schizzi preparatori, chiaroscuri essenziali di poche linee, e linee più chiare, quasi di fumo, a far intravedere scheletri, anatomie, schemi. Coniglio, invece, si sporgeva su quei marciapiedi erbosi, senza addentrarsi nella vegetazione più fitta, sorvegliato. Ma Ululone nonostante la natura inconsueta del suo stato d’animo non aveva nessuna paura che scappassero o che la foresta attorno a loro cominciasse a muoversi, precipitandoli in un delirio, un sortilegio della mente. La ragione era nell’ombra, che in quel punto li sorvolava lieve, e nel sole, che dall’uscita in fondo al tunnel giungeva deciso, ma mitigato, privato della forza soverchiante che avrebbe spinto le cose viventi a saltare fino a prosciugare i muscoli, gemere, decomporsi. In pratica il calore non li affaticava, e la tenebra non era abbastanza fitta da far credere loro d’essersi persi al centro della foresta, senza possibilità di ritrovare una via di ritorno. In fondo alla calma di Ululone c’era questo allarme -solo in forma di remota possibilità già scongiurata in partenza, è chiaro-, perché ne aveva sentite di storie simili, sì, anche di queste. Bambini smarriti. Direzioni indicate da briciole, e altre, tracciate dagli intrichi impenetrabili, da tronchi caduti e tracce di zoccoli nel fango, che notoriamente nemmeno i cercatori di funghi prendevano. La foresta pullulava di ragioni: e la ragione è un tunnel che si biforca in numerosi altri tunnel, alcuni da evitare -questa l’idea di Ululone.
-e allora, Coniglio, perché ti sporgi così?
Coniglio scostò la grossa foglia di una pianta simile a un’ortica, indicando con la testa.
-questo.
Ululone vide una pietra dalle sfumature rosa. Sembrava collocata con qualche intenzionalità, messa lì precisamente, facendo pensare che stesse parallela a qualche riferimento ben definito, e che a poca distanza si sarebbero potute trovare tante altre pietre messe nello stesso modo, equidistanti.
-sono questi i ruderi che dicevi?
-ma non è abbastanza. C’è dell’altro, altri monumenti. Dove passano gnomi, fate. Divinità del bosco.
-eh, ti do una mano, provo a scostare quest..
-no, prova invece q… oh.
Ululone preoccupato cercò l’espressione di Coniglio, non sapendo nemmeno perché, non sapendo cosa avrebbe potuto fare dopo aver verificato. E come si aspettava, qualcosa di spiacevole accadeva nel volto del bambino, improvvisamente contratto in una smorfia ch’era l’opposto di tutte le altre, una smorfia di distensione, una specie di antismorfia -con un pallore che non sembrava appartenere davvero alla pigmentazione della pelle, Coniglio osservava la cosa che era comparsa alle radici della pianta dopo che Ululone aveva scostato la foglia che la copriva. Per brevi istanti, gli occhi di Coniglio s’erano ingranditi, e le pupille rimpicciolite. A Ululone parve d’udire un flebile stridio metallico provenire dalla piccola testa di lui.
Un piccolo scheletro ancora ricoperto qua e là di tessuti e pelame giaceva riverso, tendendo verso l’alto una cresta sporgente di costole spezzate. Grumi di colore nero-verdastro, simili a materiale di scarto o al rigurgito di un essere per metà vegetale e animale, tremolavano gelatinosi in quasi ogni interstizio visibile tra le ossa, e in parte della cavità oculare che riuscivano a intravedere. Mosche e vespe vi si gettavano disordinatamente e venivano fuori ronzando irritate dall’intrusione.
-quello, eh, non guardiamo. Fa male. Ci si prendono le malattie.-, fece Ululone già voltandosi, battendo contemporaneamente sulla spalla di Coniglio, che inesorabilmente registrava. Ma Ululone voleva trascinarlo nel suo movimento, voleva che si muovesse quando si muoveva lui, e insieme compissero gli stessi esatti gesti da quel momento in poi. Voltandosi, Ululone vide subito Lepre, tornata in mezzo al sentiero, dove stava china impugnando un ramo sottile, lungo e dritto.
-stanno anche qua.-, disse indicando qualcosa con il bastone, con l’atteggiamento di una maestra fiera di mostrare un diagramma traslato con precisione dalle sinapsi alla lavagna, o pronta a bacchettare. Al centro del sentiero, una fila di formiche trascinava qualcosa, un lembo smembrato verde smeraldo.
-lasciamo stare.-, fece frettolosamente Ululone, sentendosi sudare. -andiamo verso la radura, vi va?-, e strattonò ancora Coniglio, rimasto incantato, inerte. Passivamente si lasciava trascinare senza voltarsi, mantenendo lo sguardo dove si era incollato, come nella trappola vischiosa di una pianta carnivora.
-e andiamo, no? Ci saranno altri ruderi meglio di quelli.-, ripeté Ululone, facendosi per la prima volta insistente. Ma non sentite caldo?, avrebbe voluto aggiungere. All’improvviso Ululone sudava copiosamente senza riuscire a spiegarselo e senza poter staccare dalla natura circostante nessuna fogliolina medicamentosa capace di arrestare il processo, nessun cerotto al mondo che potesse ricacciare dentro i pori un’agitazione liquida, distillata nei recessi più profondi e inquieti di sé. La radura si estendeva laggiù -quella vastità abbacinante in fondo al sentiero-, e s’avvicinava, passo dopo passo, conferendo un nuovo ritmo d’attesa al trapestio giocoso dei loro sei piedi, passato tante volte per quelle parti. Ovviamente non c’è ragione di cercare rifugio dal caldo in un luogo privo di alberi, ma c’erano cose assai più irragionevoli -così aveva deciso Ululone- da quelle parti. L’unione di luce e penombra non era stata una buona via mediana: era stata ingannevole, non meno delle tenebre proibite. Ma il sollievo non lo raggiunse nemmeno quando, varcato un solo passo oltre la soglia di luce ch’era gradualmente andata aumentando, si ritrovò comunque inondato da un’inaspettata esplosione di giallore accecante, bruscamente diversa dai morbidi raggi inverditi che avevano accompagnato gli ultimi passi della loro avanzata sotto i rami. Fece scattare immediatamente il braccio a schermirgli la fronte. L’immensa radura d’erba alta ingiallita intensificava i riverberi del cielo soleggiato non meno di un campo coperto di neve.
Stettero i tre, mano nella mano, davanti alle spighe più alte, il nuovo cancello d’ingresso, smosso dalla loro presenza, dal venticello, dal convergere di minuti spostamenti d’aria provenienti da ogni cosa: cicale e altri grossi insetti canori, tonfi di rami caduti, voli inafferrabili di cose svelte, tronchi marci affioranti dal suolo in pose scriteriate, tutto ciò che nel prato s’infiltrava punteggiandolo similmente ai sassi neri che si scorgono sul fondale basso di uno stagno. Punti di riferimento nello spazio. E tutto ronzava. Si sarebbe estesa all’infinito, quella terra gialla e vibrante come un’Australia di savana secca e didgeridoo appena dietro casa, se non fosse stato per la foresta che sulla sponda opposta di quel cratere riprendeva il suo dominio, anzi infittendosi, e facendo crescere più imperiosi i suoi alberi, bastioni così alti anche nella grande distanza.
Lanciando lo sguardo laggiù, Ululone decise.
-attraversiamo tutta la radura questa volta, vi va? Ma non ci infiliamo là dentro. Guardiamo soltanto.
-sì, evviva!
-sì, che bello!
Ed era felice, Ululone, di prenderli per mano e tenerli stretti così, facendo quel che era suo compito, ricongiungendoli nella maniera in cui erano più facili da sorvegliare -come fratellini provenienti da un unico principio, forse parti separate di un essere duplice. Ma che importanza poteva avere? Non sarebbe stato Ululone a comprendere la natura ultima del fenomeno chiamato “gemelli”, almeno finché non avesse visto, direttamente coi suoi occhi chiari e creduloni da celta, una capra della stalla partorire un capretto a due teste, da venerare come un dio o come una semplice scoperta bizzarra all’interno di un giorno qualunque. Tutto ciò che importava era che in tre si facessero largo attraverso l’erba alta e il terreno gibboso, e che quei due dicessero frasi quasi identiche, senza separarsi, senza andarsene per sentieri strani in cerca delle loro fissazioni. E il mare d’erba gialla rispondeva morbido, frusciava lasciandoli passare verso il largo.
Nell’area centrale della radura, l’erba stranamente si abbassava di colpo. Ululone superò qualcosa che giaceva al livello del suolo, una forma scura e rinsecchita che non riusciva ad associare a niente. Tornò indietro per esaminarla, lasciandosi alle spalle i bambini che rimasero nel punto in cui erano arrivati a guardargli la schiena, stranamente fermi e obbedienti.
-ah.
Tassidermia. Un volatile ornamentale con le zampe incollate a un ramo fuoriuscente da un piedistallo giaceva a terra, abbandonato da chissà quale concatenazione di eventi grotteschi. Sembrava però che l’animale imbalsamato fosse stato recuperato da un incendio, annerito e prosciugato com’era, sottratto al fuoco appena un attimo prima d’incenerirsi. Ululone raccolse l’oggetto e si sentì misteriosamente invadere da una calma anomala. Non stava raccogliendo nulla di diverso da un oggetto quotidiano, una roba comune trovata nei pascoli di pecore e capre, o derelitta sul lastricato del paese, dove dormivano i gatti. Al tatto era ruvida e quasi rocciosa, ibrida di fossile e oggetto artificiale.
La fece cadere ai suoi piedi, non sapendo cosa farsene, ma in quel momento notò un foglio rovinato, e anch’esso d’aspetto in parte bruciato. Lo raccolse e lesse a fatica i caratteri corsivi frastagliati all’estremo, in un continuum zigzagante d’inchiostro instabile che rendeva difficile isolare le singole parti, riflettendo una concezione serpentiforme del linguaggio e del tempo.
“tu che trovi un uccello impagliato: cerchi i ruderi dal bell’aspetto rosato?”
Sembrava un indovinello. Scritto da mano non umana. Una zampa dalla forma inadatta a scrivere.
Ululone stette in piedi là, incerto, sbattendo le palpebre più velocemente del solito, e riparandosi ogni tanto dal sole con un avambraccio. Capì che doveva rassegnarsi. Che qualunque tranello stesse prendendo vita in quel posto, non poteva più essere rimandato indietro.
-Lepre, Coniglio. È meglio se torniamo indietro.-, disse senza vera speranza, senza crederci. Credeva ormai solo a una cosa: lui non era in grado di proteggerli.
-aspetta.
-sì, aspetta.
Udì le loro voci. Voltandosi, vide che non erano più ad aspettarlo, dritti e ammaestrati. Più a fondo nel campo, appena al limitare della foresta incombente, se ne stavano ai lati di qualcos’altro che giacendo a terra spianava l’erba circostante in un piccolo vortice. Alla sua destra e sinistra, speculari con le mani aperte incrociate al didietro e la schiena china quasi parallela al terreno -la posa di due polli che beccano il mangime-, fissavano l’oggetto, uno che poteva interessarli entrambi.
Ululone riconobbe un teschio di barbagianni nel cui candore galleggiava, come il riverbero d’un’ombra nascosta nel profondo della sua composizione, un uniforme alone rosato. Ciò ne faceva un rudere, un frammento della civiltà antica: certamente così doveva pensare Coniglio. La forma delle cavità oculari, solitamente larga e più ampia della misura degli occhi in qualsiasi teschio vertebrato, qui era invece identica sia per forma che per dimensioni alle gocce inclinate nel volto di un barbagianni in vita, e anzi, sembravano ancora piene della stessa sostanza nera e acquosa, capace di penetrare la notte. Ciò ne faceva una specie rara, il resto lasciato da una forma di vita: certamente così doveva pensare Lepre, che già voleva estrarre i suoi strumenti, e annotare, e disegnare. Ma un fruscio si levò dalla coltre d’alberi che avevano lasciato pochi minuti prima, e una replica del vento che lì si era manifestato fu sospinta fin lì, da un concertare di brezze tra i rami e battiti d’ali, fino ad avvolgerli tutti, e sparpagliarsi tutt’attorno tra gli steli del campo che all’istante stormì in un singolo coro sussurrante di spighe.
Sorvolando la curva della foresta attorno alla radura, un volatile, un barbagianni bianco, disegnò nel cielo un’ampia virgola discendente, producendo un rumore ventoso, così insolito per gli uccelli notturni e il loro silenzio. Già vedendogli il dorso, Ululone l’aveva riconosciuto diverso: laddove sarebbe dovuto esserci il calcare bruno-dorato che impolvera il lato posteriore di tutti quegli uccelli, c’era invece una fitta e minutissima maculatura, di quelle che si trovano su certi gusci d’uova selvatiche, che in certi punti dava l’illusione di compattarsi in un nero uniforme. E quando infine calò, posandosi sul teschio in mezzo a loro, da vicino si poté vedere che quelle macchie sembravano pori, canali per il passaggio dell’aria. L’uccello così respirava, e dava impercettibili scatti della testa: pareva guardarli a turno. Gli artigli saldi sulla testa spoglia di un suo simile, gonfiava il petto, con la stessa padronanza di un uccello terricolo abituato a quelle altezze. Senza aprire il becco, e mandando fuggevoli scintillii dagli occhi, che sembravano molto più vacui di quelli del teschio, fece echeggiare una strana carismatica voce, imponente e assieme melodiosa.
-buon pomeriggio. Io sono Morte.
I due gemelli e il loro guardiano non risposero, né fecero gesto alcuno, continuando a guardare con interesse il volatile.
-chi di voi cercava i ruderi, le pietre, quei begli oggetti patinati d’antico, e del color di tramonto?- chiese con una cadenza da formula recitata.
Coniglio si paralizzò sul posto. Si rivide proiettata dentro la testa l’immagine delle costole di un piccolo corpo in decomposizione sotto il fogliame urticante. Galleggiò ancora nelle sue pupille, difficile da dimenticare, resistente a ogni perdita di memoria. Doveva fare un passo in avanti, ma qualcosa d’ignoto gli entrava nelle ginocchia, un ghiaccio sconosciuto, solido e liquido e gassoso, e qualcos’altro che non apparteneva agli aggregati della materia studiati a scuola. Scuola? Non era il posto né il tempo di pensare alla scuola. Era il posto e il tempo di fare un passo, e così rispondere. Ma Coniglio non si muoveva. Né si muoveva Ululone, il più alto e forte tra tutti, che guardava, senza sapere cosa fare, e gradualmente arrivando anzi a credere di non dover far niente. Se non guardare.
La testa di Morte emise un suono sgradevole, un’inspirazione forzata.
-oh, lo sento. Sì, sento chi di voi è stato a desiderare.-, disse Morte senza attendere risposta, rispondendosi da solo. -sì, tu. Vieni avanti, piccolina. Tocca a te. Seguimi. Oh, e anche voi, se volete, mmh… assistere.
-aspetta!-, gridò all’improvviso Coniglio. Morte girò di trecentosessanta gradi il capo, rivolgendogli uno sguardo neutro e svuotato di qualsiasi interesse, ora che aveva tratto la sua conclusione. Come se, avendo scelto Lepre, Coniglio e Ululone non fossero mai esistiti, nemmeno nel momento in cui li aveva interrogati.
-come hai fatto a…?
-è facile.- disse Morte -ho fiutato nella tasca di lei i miei oggetti preferiti: carta, penna, matita, per scriverci su. E sono questi gli oggetti di chi cerca i ruderi, i monumenti lasciati da chi è stato qua molto, molto tempo prima di voi. I legittimi abitatori.
Coniglio cercò dentro sé una risposta, tentando di scacciare insopportabili nubi di dubbio e senso di colpa.
-ma.. no, non è vero! Ero io che cercavo quelle cose!-, esclamò Coniglio piagnucolando.
-sì. Vero.-, gli fece eco Lepre, che pure non mostrava cenni d’angoscia nel volto, e si voltava indietro verso i suoi precedenti accompagnatori con atteggiamento impaziente, quasi preferisse finirla al più presto con quell’interruzione per riprendere a seguire il volo del nuovo accompagnatore verso il buio della foresta più fitta, in cui nessuno s’era mai avventurato ancora. Aveva confermato le parole di suo fratello, senza che per questo sentisse un trasporto di qualche tipo: era solo che così stavano le cose, così come era per lei un fatto d’uguale pregnanza l’azione di procedere, l’esser stata scelta, che non ammetteva ritrattazioni. Né aveva perciò motivo di irritarsi con Coniglio per aver esitato nel dirsi responsabile.
-oh! Questo è molto interessante.-, disse Morte, con un lampo di sorpresa nel volto che per un istante gli ingrandì e arrotondò gli occhi. -e dimmi: cosa ci trovi di bello, in quei ruderi, in quelle pietre, in quei begli oggetti patinati di antico, e del color del tramonto? Puoi darmi fino a tre motivi.
Coniglio di nuovo si ritrovò sgomento, privo di risposta. Guardò sua sorella: era quella di sempre. Nei suoi occhi non leggeva niente: erano immobili. Biglie razionali. Lui si rifletteva al loro interno, un oggetto in piedi tra le altre forme del mondo. Altro non si riusciva a scorgere: non c’era, o si rendeva inconoscibile. Guardò Morte. Sembrava avere pazienza. Oppure era imprevedibile. Forse l’avrebbe attaccato, rialzandosi in volo con gli artigli sfoderati. Nessuna variazione negli occhi. Coniglio guardò allora Ululone, dietro di lui, a lungo. Ululone non diceva niente e non faceva niente, se non guardarlo di rimando. Era in effetti una sua espressione comune, quell’impassibilità che lo faceva assomigliare alle capre o all’asina che spesso lo accompagnavano nelle sue passeggiate tra i campi. Coniglio indugiava, quasi aspettandosi che gli facesse un cenno, che annuisse per esempio. Ululone non annuì.
Coniglio si fece coraggio e rivolse a Morte dei pensieri che aveva raccattato a casaccio dall’agitazione del momento, dovuta al timore che l’uccello lo aggredisse.
-…perché.. perché dove c’è una pietra di quel colore, dove la materia e l’elemento della terra accolgono entro i loro confini solidi e visibili il colore di ciò ch’è sfuggente, il chiarore istantaneo che precede lo sprofondo, allora ritornerà il cervo sacro, imponente tra i vivi e tra gli spettri, regale, con i suoi nuovi palchi, maturati nell’ombra, e in tutte le ombre del tempo; questa, mh, questa è una delle.. ragioni del perché… e poi, e poi, la seconda: perché un rudere antico, ch’era oro un tempo, e ch’era un tempo misura del giorno e della notte e delle danze degli astri, è in un passato più recente la tana d’uno gnomo, e nel presente è la tomba d’uno gnomo, e in queste necropoli, si possono osservare i superstiti, in lutto e in visita là dove riposa in pace ciò che si chiama “casa”, in tutti i boschi dove si respira il vento d’estate; e… e infine… e infine perché è qui che noi tutti dovremo ritornare, dove chiamano i due paralleli fiumi del sangue: quello dell’appartenenza, e quello della punizione…
Silenzio. Coniglio chiudeva un occhio, teneva aperto l’altro, sperando di salvare sua sorella, del tutto indifferente all’idea di venir salvata. Ululone pensò soltanto di non aver mai visto Coniglio così espressivo prima d’allora. E quindi? Era un’informazione del tutto inutile. Sicuramente più inutile di qualunque cosa stesse facendo lui. Sì, certo, era inutile starsene lì in piedi a guardare, senza dire niente né fare niente, eppure non c’erano cose più utili di quella a questo mondo, tanto era pieno di superfluo.
-mmmh.. interessante! Mooolto interessanti, queste risposte… sì. Lo riconosco, sei stato tu a cercare quelle cose.
Coniglio sorrise spontaneamente: Morte sembrava sincero. Si grattava le piume dell’ala con il becco a uncino.
-..ma la verità ormai non conta. Il modo in cui sono andate le cose impone che si proceda, senza tornare indietro.
Si alzò in volo e senza indugio Lepre gli tenne dietro, decisa nella sua marcia verso la foresta.
Coniglio, disperato, tormentato da sentimenti fastidiosi, crollò a terra, e gridò.
-tu… tu non sei così! Smettila di fingerti comprensivo! Tu… abbiamo sentito parlare di te, sai? Tu spargi pestilenze nel mondo, tu rivolti le cose che gli esseri serbano al loro interno, esponi le costole al sole, tu… tu stesso crei il sole, che uccide, e inghiottirà la terra, e… e la luna, che fa emergere i demoni e gli effluvi infetti dalle loro tane silvane e palustri! Deformi ogni cosa che c’è, chiamando il tuo lavoro “equilibrio naturale”, ma lo compi con gioia, gioia di devastare!
Il discorso di Coniglio fece arrestare di nuovo tutti. Perfino Ululone si meravigliò per un momento. E mentre il cielo imbruniva rapidamente, preda di un sortilegio, il silenzio ritornò, com’era stato qualche ora prima, presso la finestra di una casa rurale apparentemente disabitata in cui stava una ragazza timorosa di uscire, tormentata da ciclici presentimenti.
Una grottesca risata in crescendo interruppe il fruscio del vento estivo, carezzevole tra le spighe, in quell’ora di incantevoli ombre e bagliori. Nessun sorriso lacerava il volto di Morte, che rideva senza scopo né emozione, senz’altro mezzo che il suono, facendo spuntare qua e là nella risata gli stridori metallici di un normalissimo barbagianni.
-aahhh…! È una veduta interessante anch’essa, per quanto immatura… però, fammi capire: mi hai forse scambiato per “la morte”!? Uh uh uh, ti sbagli, ti sbagli… io non sono “la morte”! È… solo il mio nome. Capito?! Uh uh uh… io sono solo uno che si chiama così!
Solo un tizio che, assolutamente per caso, ha un nome del genere. Continuò a ridacchiare per un po’ davanti a Coniglio e Ululone smarriti tra incredulità e totale rinuncia, di nuovo poggiato a terra, su un teschio uguale a quello di prima. Forse era lo stesso, che magicamente si era spostato seguendolo per accogliere i piedi artigliati, o forse ce n’erano tanti uguali, sparsi per la radura, disseminando un percorso. Non aveva nessuna importanza in un modo o nell’altro.
-…però, una cosa te la concedo. Abbiamo qualcosa in comune: sia io che lei prendiamo tantissime forme diverse… conoscete il micelio? È qui sotto di noi, nei nostri boschi. È ovunque. Io sono solo una forma dell’ente chiamato “Morte”. Ora, se volete venire anche voi con noi, ne incontrerete un’altra. Allora? Possiamo andare? Senza altre sciocche, per quanto ammissibilmente simpatiche, interruzioni. Intesi?
Le ali spiegate di Morte, simili a un angelo stilizzato, sparirono presto tra i rami che già imprigionavano la notte ventura nei loro intrecci crepitanti. Sotto di lui, la nuca di Lepre fu presto assorbita dall’oscurità, avanzando a velocità costante. Coniglio e Ululone seguivano, muti, stufi di fare domande.
-ah, e poi!-, rimbombò dall’alto delle chiome la voce di Morte, apparentemente scomparso nell’aria, una volta che furono entrati nella foresta, come eco di qualcosa che non si può più vedere. -quest’altra forma di Morte attende di mostrarsi presso un monumento, il migliore che troverai in questa zona della foresta. Non sei curioso?
Allora gli occhi di Coniglio improvvisamente sfolgorarono, e accelerò il passo, raggiungendo quasi sua sorella. Più indietro, marciando nella zona della foresta in cui non era mai stato, indifferente alla vegetazione che gli lacerava gli stinchi, Ululone pensò: strani figli di puttana.
.
Quando Morte, il barbagianni bianco, ricomparve calando lentamente dalla volta di rami intrecciati a vertiginose altezze, nel cuore della foresta, i pochi spiragli di cielo lasciati visibili da insignificanti spazi nell’impero di corteccia e fogliame erano già sfumati in un violaceo incorporeo, come di sogno, un sogno che attende di ripetersi più intenso nella notte imminente. Gocce d’umidità imperlavano l’aria.
Quasi in estasi Coniglio accarezzava con una mano pallida l’altare, il cui color del tramonto disposto in gocce caotiche e sbiadite era già opacizzato dall’assenza di luce, dalla tinta uniforme del tutto, in quell’unione d’ora e luogo che pareva immersa sotto la superficie di un incanto lacustre estraneo al tempo normale. E lì stava posato Morte, dando le spalle a qualcosa -un’ombra rantolante, grossa e ricurva e in agitazione, a una dozzina di metri e in parte ostruita da vegetazione tentacolare, cresciuta selvaggiamente. Eppure da laggiù, da quell’oscurità di consistenza così diversa dal buio comune che avevano conosciuto, così aliena, emanava una sensazione familiare, di qualcosa che sia i bambini, sia il loro guardiano, avevano già visto da qualche parte: pareva di rivivere quell’impressione appena un po’ febbrile e visionaria di quando, camminando nei boschi, avevano talvolta creduto di scorgere nella distanza un masso o un vecchio ceppo annerito dal buio che piano piano si solleva e prende vita, per poi arrestarsi, e tornare a giacere immobile, assieme al bosco e alla quiete interi, coi loro rumori secchi improvvisi, i loro sporadici guizzi spettrali. Ed era una grossa massa del genere che si stagliava in quel modo, muovendosi da un letargo d’oggetto inanimato, per rivelare d’essere qualcos’altro.
-benvenuti. Sono Morte, il gufo.-, disse Morte, il barbagianni. Con movenze da piccione in bilico sui doccioni di una cattedrale, stava sull’altare, il più bello dei ruderi.
Ululone non rispose. Tenendosi distante, in corrispondenza del centro dell’altare, dove stava un volto di Uomo Verde scolpito in bassorilievo di pietra bianco-rosea, non rispose in nessun modo. Vedeva agli estremi dell’altare le schiene dei gemelli, bambini ormai incomprensibili che a quel saluto risposero con un leggero inchino. Motivazioni diverse. Comportamenti uguali. Ululone non aveva rinunciato a interrogarsi su cosa fossero, che animali fossero i gemelli? Erano in effetti tra i pochi dello zodiaco, delle stelle del cielo, a non avere un volto di bestia, un’animalità esplicita… no, no -si interruppe Ululone, disinteressato alla questione, a qualunque questione rimanesse superstite sulla terra. La terra che lui aveva conosciuto, monotona e pacificata in un falso equilibrio, l’aveva conosciuta tra le capre e le bestie da soma, e lì sarebbe ritornato, a ignorarla, a vivere.
-sono Morte, il gufo. Dietro di me… c’è Morte. Un altro me. O forse, un’altra cosa completamente. Ma pur sempre un’altra parte di ciò che io sono. Capite?
Annuirono di nuovo, nel cuore i cromlech, nel cuore i mammut lanosi: entrambi i cuori ricolmi di qualcosa che li allontanava da quel presente spaventoso -ricordi che dalla scuola e dai libri avevano portato con sé in collina e ricordi che dall’estate avrebbero portato con sé nella città- e al contempo li sospingeva all’interno di quell’oscurità circostante sempre più densa, rendendogliela tollerabile, desiderabile, popolandola di sogni che, si scopriva, avevano sempre avuto proprio in essa la loro dimora più autentica. E Morte il gufo parlava calmo, senza deformare l’aria o il paesaggio, non diverso dalla luce della luna piena che allaga i campi. Rispettoso, il volatile bianco, quasi fosforescente nella penombra, inseriva delle pause nella voce divenuta più placida. Lasciava che gli insetti notturni levassero i primi canti, l’inizio della loro giornata. E l’essere che sollevava la schiena gigante, dispiegando l’altezza del busto, rantolava, rantolava, sempre più forte, e lentamente scostava dal capo pelato e dal rostro le mucillagini piovute dalla coltre forestale, con un lungo, scimmiesco braccio ossuto.
-guardatelo. Sono bellissimo, vero?-, disse Morte il gufo, e sparì in volo. La sua voce si udiva ancora, rauca e inframmezzata dagli stridii da animale, forse perché s’era posato sopra le loro teste, tra i rami più alti, a scuotersi e far cadere le sue piume di tanto in tanto, nevicando ritualmente sulla scena.
Nuvole di insetti si sollevarono dagli spazi più angusti e impensabili e s’udì indistinto uno scalpitare di innumerevoli passetti tra le radici e le rocce muschiate. Il rantolio, strascicato e mantenuto a lungo su una singola nota grave e gorgogliante, non era mai stato udito nella foresta con un tale grado di intensità, da tempo immemore. Eppure, anche questo, aveva qualcosa di familiare. S’era annidato a lungo, in tutti i dettagli, nelle dissonanze all’interno d’ogni piccolo rumore e inquietudine che accompagna la mente quando tenebra e foresta diventano una cosa sola? O quando luce e calore uccidono e squartano? Forse no, forse, in fondo, era solo il ritorno intensificato d’un ricordo a lungo offuscato, il ricordo d’un tempo in cui, in quei boschi, ogni crepuscolo chiamava quel grido, e sempre al sole e alla luna, al loro incrociarsi d’un istante intermedio tra i mondi, s’accompagnava quel saluto straziato da gioia e livore.
Era bastato che l’enorme creatura arrancasse appena dalla posizione del suo letargico risveglio perché raggiungesse l’altare con gli arti anteriori confitti a terra, poggiando sulle nocche piegate, e perché grazie alla spinta di questi sollevasse fin lì, centrale rispetto ai punti in cui le mani affondavano nel terriccio, la testa lunga e tremante, così vicina da raddoppiare ora il rumore che nei suoi condotti rauchi e otturati veniva generato senza interruzione, senza prendere respiro. S’aprirono le palpebre degli occhi grandi, deviati verso i lati, si videro i bulbi offuscati da cataratte biancastre e vacue, come occhi ciechi da millenni. Qualcosa scintillava in fondo a quella membrana argentea e collosa: vedeva. Bambini, i primi celebranti devoti al suo altare dopo un lungo sonno, e con gioia li accoglieva, sì, era per loro quel rantolo, sì, era in loro omaggio che ora più forte lo faceva echeggiare, mentre lassù Morte alato volava in cerchi confusi, intonando cantilene, facendo calare a intervalli un breve lampo d’ali bianche.
Coniglio e Lepre, alla sinistra e alla destra dell’altare, non si muovevano. Per Ululone era impossibile indovinarne i volti. E nelle nuche, nei capelli scuri di lui, nei boccoli chiari di lei, non c’era niente -erano masse di pelo sterile, erano borre o resti d’animali che si ritrovano ai lati della strada maestra al mattino presto, come lasciti degli avvenimenti e violenze notturne, illuminati dai riflessi perlacei di infinite gocce di rugiada pronta a dissolversi al primo cedimento dell’umidità che ha preceduto l’alba.
Questo siete voi, bambini, pensò Ululone, guardandoli per l’ultima volta. Non abbassò lo sguardo verso le scarpe, le gambe scoperte, per potervi individuare la tremarella febbrile d’un terrore opposto al contegno della parte superiore del corpo, statuaria, che li avrebbe consegnati così alla sua memoria, in quei rari e fulminei momenti di resurrezione dall’oblio polveroso di tutti i suoi giorni a venire.
Le froge tubolari grufolavano in fondo al muso lungo di Morte, la bestia di terra, dando grugniti di gioia simili a starnuti o grida incontenibili. Senza mostrare la paura, i bambini restavano in attesa, in osservazione forse -Ululone non sapeva se incrociassero quel volto, o se guardassero dritto avanti nell’indefinita congerie del caos naturale in fondo alla foresta. Pazienza: che anche tremassero nelle gambe, e restassero immobili e rapiti nel busto, non era affar suo il tipo di centauro in cui si sarebbero trasformati alla fine di quello scherzo della natura o di chissà cosa. Vide Morte la bestia di terra sollevare dal suolo le braccia pezzate da setole e nudità grigiastre, nello stesso istante in cui sguainava una smorfia di denti scheggiati e colanti di bava, e appoggiare rapidamente le mani sulle teste capellute dei gemelli. Un altro rantolo. Ululone vide ciondolare in fondo alle dita lunghissime quattro unghie spesse come zoccoli, scure e sudicie di terra, incapaci di star ferme. Un lampo forse, fugace fulgore nella mano posata su Lepre, prescelta. Poi non vide altro: fece dietrofront e s’avviò da solo per la foresta, verso la radura che avevano percorso assieme, ricordando soltanto, di tanto in tanto in mezzo ad altri insignificanti pensieri, quell’immagine simmetrica, quel volto porcino fluttuante in corrispondenza dell’Uomo Verde scolpito sulla faccia dell’altare; equidistanti, a formare i vertici laterali di una sorta di romboide, le nuche dei bambini, sormontate dalle mani; braccia mostruose ricurve a cuneo: una strana bilancia quadricefala. Chissà cosa volevano fare, quei due, per starsene lì in quel modo. Forse non aveva mai davvero capito quei bambini? Poteva darsi che in fondo Ululone fosse un pessimo allevatore: non aveva saputo proteggerli dalla foresta, da ciò che nascondeva, e ancor prima, non era riuscito a comprendere i loro desideri. Come se non bastasse, per tutto quel tempo aveva lasciato le sue caprette laggiù, incustodite, senz’altra compagnia che la casa, vuota e silente.
Ripercorrendo i solchi di paglia schiacciata nella radura, Ululone si fermò: sollevò lo sguardo al cielo.
-oh! Le prime stelle!
E infatti nel cielo non ancora del tutto buio, immersi in un’incantevole matrice grigioblu, luccicavano timidamente i gruppetti dei primi bianchi asterischi che di certo avrebbero spolverato il velo di quella notte, facendo sì che anche il bestiame sentisse un rapimento incomprensibile nel cuore e sollevasse il muso prima di rientrare nella stalla. Raggi riflessi dalle immensità più lontane simili a lacrime o acquerugiola a riempire neri occhioni sferici.
…
Gracula preferiva non uscire di casa. Non che la storia ascoltata da ragazza avesse influenzato particolarmente questa sua preferenza. Inoltre Ululone l’aveva raccontata con affanno, avvicinandosi poco a poco a uno stato confusionario, e a un rimescolio degli eventi che oltrepassavano un certo punto -che forse nemmeno c’era stato. Certo, gli aveva voluto bene. Ma Gracula preferiva non uscire. Soprattutto in quei giorni, soprattutto da quando, poco prima di apprendere la notizia, s’era sentita la testa girare al centro del salotto in cui passeggiava, a volte nervosamente e gettando occhiate all’esterno. Preferiva così, la maggior parte delle volte, lasciando che il salotto contenesse tutto il tragitto tipico, dalla piazza ai pascoli: perciò non era stata al suo funerale.
-perdonami, Ululone.-, disse, come dovesse espellere un ultimo fiato opprimente dal petto, e abbandonare del tutto il travaglio della respirazione. Sprofondò nella sedia, senza forze, la penna posata sul manoscritto quasi svuotata d’inchiostro. Questo era da parte sua il funerale per lui, cerimonia voluta e affidata direttamente dalla sua bocca, all’indomani di quel giorno, quando lo trovò sudato, e al tatto così gelido per la rugiada notturna e per gli sconvolgimenti interni del suo corpo da farla retrocedere a un brevissimo urto casuale, come s’avesse sfiorato la pelle d’una creatura dormiente nelle acque in fondo a una grotta. Aveva visto lo sfinimento afferrarlo all’improvviso, facendole credere che, per chissà quale sua idea o dovere, l’avesse tenuto imbrigliato fino a quel momento, lontano in fondo alle membra. Era chiaro che non si fosse mosso da quella posizione per tutta la notte insonne, con la schiena accasciata a un palo della staccionata e lo sguardo vacuo rivolto al cielo al di sopra del campo, e che non gli era lontanamente venuto in mente di addormentarsi, anzi, probabilmente aveva dimenticato che esistesse qualcosa di simile al sonno per tutto quel tempo dilungato il cui flusso di pensieri sarebbe per sempre rimasto inconoscibile e disperso in ore di stelle di luce trascorsa senza rimedio.
Ma perché era “impazzito”?, s’era chiesta qualche volta. Lo incontrava, certo, girando per il paese -erano passati tanti anni, e anche lei, come lui in vita, non si spostava, sebbene le fosse capitato di allontanarsi qualche volta, per pochi giorni al massimo. Lui le sorrideva, ma era difficile dire se la riconoscesse. Sorrideva a tutti gli incontri casuali, sempre gli stessi, le stesse facce che avrebbero affollato la chiesa come a un grande evento per il trasporto della “salma del Matto”, sotto i rintocchi e i chiacchiericci smaniosi d’uscire per il corteo in strada a conclusione della funzione. Questo era diventato, Ululone, e nient’altro: tutto deciso sin da quando aveva raccontato a lei tutto quanto, o ciò che lui riteneva andasse custodito, da lei soltanto. Non erano forse da biasimare i genitori dei due gemelli: difficilmente si sarebbe potuto dire, anche a sentire il suo racconto, che non fosse lui il responsabile. I bambini avevano passato le prime ore della notte nella foresta, e quando la gente con le torce era corsa per il campo, Ululone non s’era fatto vedere; né diede spiegazioni quando, individuato là seduto sull’erba con la schiena al paletto, lo interrogarono, tutti quelli che riuscirono -membri della spedizione tornati dalla foresta a notte fonda, che cercavano di dare una mano con i bambini in stato catatonico, ritrovati per miracolo. Sordi e ciechi sembravano, non avevano risposto alle chiamate. Muto ed ebete era rimasto Ululone, aspettando di parlare soltanto al mattino, soltanto a Gracula. Di lei, il sole focoso dell’alba aveva arroventato un rossore di vergogna e pudico rimorso che le faceva credere di dover dare delle spiegazioni: era uscita di buon ora per scusarsi della sua assenza del giorno prima, del tutto ignara, per chissà quale miracoloso smarrimento in un sonno profondo, della commozione che c’era stata soltanto poche ore prima.
Solo per lei, e solo nel suo cassetto esistevano degli avvenimenti strani, forse privi di significato, forse nemmeno giustificavano ciò che era accaduto in seguito -gli effetti sulla psiche, la scomparsa definitiva di quella famiglia tra gli abitanti temporanei del paese, cosa che ancora faceva dire a qualcuno, fino alla fine dei giorni di Ululone e con più zelo tra i vari commenti che si sprecarono al funerale, ch’era sua la responsabilità di un rancore generale che i genitori dei gemelli avevano serbato al paese sin da quel fatto scandaloso, facendone un capro espiatorio; forse davvero era una storia sciocca e ignorante, degna di quel paese che a Gracula non piaceva, e ch’era stato la maggior parte del suo mondo. Ma era una storia che aveva chiesto d’essere raccontata, fosse anche senza motivo, e adesso giaceva là, nei caratteri smerlettati e contorti d’una scrittura braccata da una scadenza, o da un’incombenza inspiegabile, una specie di punizione. E Gracula conosceva le conseguenze -ugualmente prive di significato- anche di questo. E attendeva, sprofondata nella sedia, debole, sentendo di capire il corpo impotente di Ululone di quella mattina.
“Non li ho rivisti neanche allora”-, pensò casualmente Gracula, ricordando un suo breve soggiorno in città. Certo, le città sono grandi, molto più grandi di un paese. E una vita è molto più ampia di un’infanzia. Infanzia: popolata da incubi, superstizioni, strani momenti in cui il lampo di un’immagine e d’un intenso repentino sentimento sembrano marchiarsi con forza di fuoco magico nella mente e dietro le retine, una forza che non conosce eguali, così da rendere immortale e sempre presente quella fotografia nel retro d’ogni cognizione, coi suoi sussurri così costanti ma così sottili, fino a diventare abitudine, composizione stessa d’ogni percezione… anche un periodo così sparisce, quando si vivono tanti anni, uno dopo l’altro. In un posto tanto grande. Mentre in un posto tanto piccolo, è un po’ diverso, pensava Gracula. Anche quei giorni così lontani potevano sembrare più vicini -anzi, vicini di casa, pronti a bussare alla porta. Forse non erano pensieri casuali, quelli di Gracula: ancora cercava di prepararsi a quanto stava arrivando, ancora covava un’inutile speranza di ridurre la paura.
I colpi alla porta assomigliavano a quelli di rami secchi mossi da una bufera invernale. Un impatto netto e solido, seguito da graffi. Gracula lasciò che la paralisi la invadesse, soltanto per una manciata di secondi, soltanto per un futile prolungamento di una fittizia sensazione di riposo, che non aveva mai avuto, in un’esistenza di temperamento inquieto sepolto alla bell’e meglio sotto la vista di case e colline immutabili, di facce e parole cristallizzate e distanti. Inghiottì il fiatone, presto si alzò per andare ad aprire. Immaginando dall’altra parte dell’uscio mille dita d’una foresta morta, acuminate e avide, o altrettanti corvi d’ombra, in torme indistinguibili dal nero fumo che compone tutte le cose del paesaggio di una notte di luna nuova.
-lo so che cosa hai fatto.-, rantolò una voce polverosa quasi inudibile oltre la porta, sulla cui superficie le dita di Gracula seguivano senza scopo le venature familiari.
-lo so che lo sapete.-, rispose lei afferrando il pomello.
-sssento l’odore… buono.
Una folata s’abbatté improvvisamente sui cardini. Null’altro s’udiva, e le strade s’erano svuotate: c’erano solo Gracula, e la sua casa attaccata da soffi degni d’un lupo cattivo, e la sua mente e i venti che la invadevano, imperversando nell’ultimo rifugio ormai non più sicuro. Un vento né invernale né estivo, che prendeva vita in quel momento, e assieme si faceva riconoscere per esserci sempre stato, a soffiare dietro ogni sensazione segreta sussultata nel petto in certe passeggiate tra i boschi, tra le carneficine di luci e tenebre delle stagioni.
-venite a prendermi!-, gridò lei con le braccia aperte al visitatore.
-ti portiaaamo fuooorii..
E anche nell’accettazione, non riuscendo ad aver controllo sul suo costante indolenzimento dell’animo, di una qualche sua parte che sempre sfuggiva allo sguardo, rapita da infinite mani invidiava segretamente il destino di Ululone: lui, di quella cosa giunta a prenderla, aveva conosciuto soltanto la forma più naturale, quella che bussa alla porta di tutti.
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