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La Confessione

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 31 dic 2021
  • Tempo di lettura: 17 min

Aggiornamento: 25 gen 2022

La vecchiaia l’aveva privata del sonno e trascorreva la maggior parte delle ore del buio rinchiusa in un buio secondario, diverso da quello che riempiva le stanze e i corridoi passeggiati per far trascorrere il tempo. Le sembrava di essere avvolta da una fitta coltre, e capiva al suo interno di non soffrire il prolungamento della coscienza. Due ore di sonno le erano sufficienti, in quel buio suo era come se dormisse. Quando strisce di luce finalmente filtravano frazionate dai pannelli di carta alla finestra e i buchi della serranda, le riceveva quasi energicamente, in un automatismo del corpo assetato nel quale si riversavano le ultime forze.


Quella notte, però, riuscì a sognare intensamente. Sentì quelle sue due ore tutte occupate da scene intense e straordinarie, lontane. Tendeva una mano, che vedeva davanti a sé, trasmutata, o forse per la prima volta la vedeva con gli occhi degli eredi, di quelli che le stavano attorno: l’avrebbe potuta definire tozza e grassoccia, ma al tempo stesso magra all’inverosimile, e non conosceva la parola “ossimoro”. Le parole di una lingua schietta come spine di cardi selvatici e un odore fumoso di campagne di janare erano tutto ciò con cui fronteggiava l’oscurità, le uniche risorse da imbracciare nell’ignoto che il sogno le poneva davanti. Ma ciò che vide, e che pensò di vedere per l’interezza delle due ore di sonno, spossandola, e che invece era l’ultimo gemito dell’immagine mentale negli ultimi secondi precedenti il risveglio, tutte quelle visioni non facevano tutte paura. La mano, tozza e grassoccia e magrissima, roteava le dita rese viola dal sangue affaticato e dalla fede d’oro stretta alla base dell’anulare. Le immagini fuggivano, ed ecco, se n’erano andate. “Ci sia la luce”, ricordava questo e altre frasi più antiche di lei, quando spalancava gli occhi minuti, si alzava, faceva la prima passeggiata del mattino. Si toccò i fianchi e le braccia, si batté per scostare una materia sconosciuta: le era rimasta vischiosamente attaccata da uno dei sogni che aveva attraversato, il più strano di tutti. Ebbe un prurito dietro le orecchie e sul mento, ma non si grattò perché non era solita farlo.


Passetti letargici, una fatica inenarrabile per ciascuno. Forse perché ogni mattonella della casa era un riecheggiare di voci, di presenze, di forme passate. I quadri della figlia, lei non era più come quando li aveva dipinti. Fotografia incorniciata con dentro un figlio mutato di aspetto, quando viene in visita potrebbe vederlo posto accanto alla foto e non riuscirebbe a dire una differenza, può farlo solo quando non c’è, quando cammina in casa o per le scale. E deve passeggiare, deve muoversi all’interno della casa trascinando il carrello, per non scomparire del tutto nella stasi, per ricordare giorni in cui le cose si spostavano. Eppure, non era per quello stesso spostamento che erano avvenuti quei fenomeni? Trasformazioni troppo dolorose, sparizioni. Era veramente stando fermi in poltrona o sul letto che si scompariva? Il medico aveva detto così, di camminare altrimenti il dolore alla schiena e le gambe sarebbe peggiorato. Ma tutti quanti gli altri, erano scomparsi vivendo. All’ingresso, si fermò davanti al cappello appeso, alla foto di lui, al calendario con le fiamme gialle, a un dolore alla base del ventre che l’aveva accompagnata un giorno lontano entrando per quella stessa porta, ricordandosi all’improvviso di un lutto. Anche allora aveva allungato un braccio al mobile di legno, l’ultima cosa rimasta a sorreggerla in tutto il mondo che incomprensibile continuava a girare su se stesso, e mentre sentiva il vorticare inarrestabile del pavimento, di tutte le cose che sembravano far perno su di lei e sul suo dolore, era sola, fuori dal campo visivo di tutti, dalle orecchie che avrebbero potuto udire il suo ansimare più affranto che mai. Ora, ansima in quello stesso modo anche soltanto per camminare con più fretta del solito, uno sforzo fisico che avrebbe compiuto con facilità appena dieci, vent’anni prima, una nullità. Ma non c’è da temere che si ripeta lo stesso dolore a ogni rantolo: dietro gli occhi neri, che hanno dormito e hanno visto sogni e miracoli, le cose cominciano a eguagliarsi, tutta la vita è una stessa esperienza, tutti i lutti e le sparizioni sono ammassati in un punto. Ha forma di pupilla ed è nero, incastonato tra cataratte, lacrimevole ma fermo.


Dove sei, dove sei? E come stai? Dice piano piano, come fischiando a un uccellino in gabbia, ma nulla risponde. C’era un altro sogno bellissimo che aveva fatto, tanto tempo fa. L’aveva visto con delle “donnine”, così le aveva chiamate. Ma io non ero arrabbiata con lui, così aveva detto. Era in divisa, aveva il cappello. Gli chiese, perché non una chiamata in tutti questi anni? Non si può, non si può, non è permesso, aveva risposto lui, e il tono ironico e allegro gli si incupì come sempre aveva fatto in vita quando parlava dei gradi militari, delle obbedienze, di ciò che era concesso, delle armi, di ciò che portando la divisa aveva visto, di quegli anni folli che volevano dimenticare sigillandoli in un silenzio dietro le spalle, che insidioso filtrava dalle loro ombre e penetrava nelle linee tra i pavimenti e i muri, forse fin nelle orecchie e i ricettori di figli e nipoti ignari ma percettivi. Ricordò quella voce cambiata, che conteneva tutto questo. E ricordando quel sogno bello in cui le era apparso come era sempre stato, allegro e cupo e allegro ancora, nel petto le pulsarono luci arancioni e gialle. Erano residui del sogno appena fatto, o soltanto una piccola parte di questo. Rispondevano a determinati ricordi. Sentì l’odore di una colomba ed ecco che la sua sagoma apparve ad ali aperte, squarciata nel lampo di luce. Un tempio inondato dal giorno sui campi del sud, un granturco di gambi dritti e infiniti come un mare sul lato dell’edificio sacro, e le campane rintoccano senza sosta sotto il sole della domenica, il caldo secco della sua memoria. Sta continuando a camminare e le riappaiono le cose. La sua anima, tutto ciò che era, si era plasmata in luoghi lontani e dalle sagome che proiettavano in lei s’era erette le pareti della coscienza, da cui non era mai uscita. In ogni campana udita dal centro, sopra il vento di quella città in cui viveva sola, c’era la stessa melodia di quella chiesa impregnata di sole: “dolce sentire, come nel mio cuore..”, e poi non ricordava, mescolava altre canzoni. Le canticchiava sempre con una vocina acuta, si cullava così.


Le vene le facevano male premendo da dentro, districandosi come ragnatele. Uno spirito freddo era venuto ad abitarle e vi faceva tana, le usava per catturare le prede. Brulicava lungo quei fili spargendosi di volta in volta per tutto il corpo. Forse non era un ragno, no. Ricordava un demonio dell’infanzia, calava come un’ombra di liquami neri dalla crepa nel soffitto, in corrispondenza soltanto del suo letto. Vieni a prendere me?, chiedeva allora, e si chiedeva se il peccato fosse in lei, e pregava perché era tutto ciò che aveva la forza di fare, e perché le avevano insegnato che nulla era peggio di custodire in sé il peccato. Pregava in una lingua rozza come le spine dei cardi selvatici. Come aveva fatto una volta, una notte di natale, guardando dritto il buio dentro la crepa. Aveva assorbito in brodo le radici della loro crescita nella terra, i fili fibrosi nei legamenti della gallina decrepita, le uova, nuova generazione, frammentate nel composto che mangiavano tutti alle feste, pulsava in lei l’essenza della sua terra stessa e delle parole che la abitavano, che recitavano senza sosta i salmi, sotto il sole del lavoro agreste o nelle dimore ariose e scure dopo il crepuscolo. Aveva detto al demonio di venire, di mostrarsi, perché lei ormai pregava, e giurava che l’avrebbe fatto fino alla fine, per estinguere la sua comparsa, per estinguere infine dopo molti giorni di vita e di morte quel singolo giorno d’infanzia in cui per la prima volta aveva temuto che apparisse, e si era sentita sporca e aveva afferrato con forza la biancheria del letto, e aveva guardato dentro di sé per scovare il bene in un brodo scuro di dubbi e si era sentita sfiorata da squame raggelanti, come era stata Eva nel giardino. Avrebbe cancellato il momento, così da non aver mai peccato. Il suo era un demonio come un brutto scorpione, un pipistrello, una forma tenagliata che minacciava di cadere dall’alto, sulla sua testa rivolta al soffitto. Credeva fosse il peccato e invece era finalmente entrato nella rete delle sue vene, non per una colpa commessa ma per il tempo, nient’altro che il tempo. Lei non rifletteva sui cieli e le loro leggi nell’alto, non poneva domande a chi aveva tutte le risposte, pregava e basta. Ma si chiedeva: possibile che il peccato sia solo questo? Non poter fuggire da questa progressione delle cose, che vuole da qualche parte un decadimento per poter sussistere. Io decado, mi disintegro, perdo i pezzi, e il demone si infiltra dentro di me, sento freddo nelle vene e la schiena mi rabbrividisce senza sosta. Ho condannato io tutta l’umanità a esser cacciata dal giardino con la mia imperfezione? Dicono che io sparga i sensi di colpa negli altri, ma non sono forse io a recare con me la colpa più grande? E poi pensava, ancora, voglio incontrare lui, con la sua imperfezione diversa dalla mia, il suo peccato d’uomo e non di donna, e voglio che mi porti là dove era con quelle donnine, dove si è messo la divisa brillante che aveva quando dopo tanto tempo l’ho rivisto uguale a come lo vedevo. Se lo incontrassi, non mi importerebbe più di ciò che manca in me, e il sole coi suoi fertili raggi estinguerebbe il demone che mi abita, che faceva morire le cose nel mio seno e vi iniettava un veleno di paura.


Scoccò l’orologio a pendolo, cantava una canzone malinconica che le calmava il cuore, per questo gli aveva messo un nome affettuoso. Sta buono, sta buono, gli diceva. Risposero echi di canarini scomparsi da vari balconi. Tutti loro avevano avuto i nomi antichi e lontani a meridione -potevano essere cugini suoi, con quei nomi che gli aveva messo. Chissà dov’erano andati. Entrò nella sala infuocata dall’alba, rilucente nel pavimento marmoreo, carezzevole sulle lunghe foglie della pianta in vaso. Nel sogno si era aperta una luce vulcanica, un tuono di bagliori arancioni da cui la colomba era nata. Volò nel cielo e scomparve, le sembrò, tra angeli, esseri lunghi di sola tunica simili a campane cilindriche con due ali di gallo, due occhi vuoti fluttuanti dove sarebbe stata una testa. E non avevano forse dei capelli fluenti? Erano fuochi che soffiavano impetuosi lungo il dorso, seguendone il volo mentre si alzavano in quella luce accecante per poi penetrarla e passare di là dal cielo, dov’era un mare nero di stelle e pianeti. Le sembrò di sentire un’ultima volta un odore di paglia bruciata. I capelli degli angeli erano il nome di una minestrina di pasta che per anni aveva preparato perché riscaldasse il sangue dei nipoti, ma erano anche un rogo inestinguibile che fluttuava alto oltre il cielo consumandosi in una fragranza uguale ai falò di campagna, alle canzoni e i battiti di mani del raccolto. Le notti pullulanti di grilli e lucciole, i vestiti bianchi di lei e delle sorelle che imperlavano diafani le distese di paglia bluscura, le risate e l’avvampare improvviso: tra il frinire antico di insetti campestri e i lontani ululati di foreste discendenti sul Volturno, nel mondo pagano un fumo gonfio di linfe disegnava il volto di Cristo. In quel rogo avevano una volta gettato libri che credevano maledetti. Non sarebbero più tornati, non erano che cenere, ma lei, immobile nei valori assorbiti, cresciuta fianco a fianco con paure irrinunciabili, non si era mai rammaricata di quella perdita. A differenza di tutte le altre perdite. Vivendo a lungo erano molte le cose scomparse, bestie e gente, cose e case.


Nel sogno era stata una strana creatura, simile a un vegetale, non aveva mai visto né provato niente del genere. Si ergeva al centro di una dimora principesca. Era casa sua? Sono strani i sogni, possono modificare completamente i luoghi, eppure mettendoci piede, indossando una forma diversa dalla propria e forse già disciolta in un momento del tempo non ancora avvenuto, si avverte che quella è proprio la casa in cui si è cresciuti, o una chiesa, un fienile. Sì, era la casa collinare, la più grande e ricca di tutto il paese e i poderi circostanti. Si era trasformata in una reggia, tornava a vedere la casa con un paio di occhi che non esistevano da un po’, occhi di un’infanzia meravigliata, felice, quando loro avevano tutto. O erano gli occhi di chi non l’aveva mai vista, sentendone solo i racconti, e lei era penetrata volando sulla colomba nel sogno di un altro. Vedeva se stessa ergersi al centro della magione e riceveva la visita di animali e creature, titubanti e piccole sull’ingresso. Lei respirava, era una cosa viva. Ricoperta da una materia fremente di cellule verdi, vischiose. Di nuovo, fuori dal sogno e dalla sua rievocazione, sentì la sensazione appiccicosa sul suo corpo, e si scostò dal torace e le spalle un’incorporea bava, come se fosse stata appena ingoiata e rigettata da un albero. Ricordava di essere stata in quel luogo strano ma familiare quasi una pianta, un tronco o un gambo palpitante d’energia verde. Possedeva fronde e tra queste, mescolate nelle orecchie, si incastravano piume di uccelli, sparse dai loro nidi dal venticello dalla finestra. Le piume frusciando si ammassavano sul mento, formandole una barba. Il canto degli uccelli la rallegrava, le calmava il cuore. “Andrea” il pendolo suonò di nuovo. Quanto era stata nella sala a camminare in tondo senza rendersene conto? Un quarto d’ora, un’ora? Due ore come il tempo dei suoi sonni?


Nel sogno. Lei si schiuse dal legno e dalle fibre che erano la sua carne, la sua prigionia. Spiegò ali brune e bianche, macchiate come l’erba d’autunno. Si sollevò e migrò, il vento che sferzava la sostanza collosa sulle piume e le rughe. Le rughe! Erano ritornate, era di nuovo un po’ più come era in quei giorni. Vide la sua mano tozza e grassoccia e magra tendersi a se stessa in volo, si vedeva da fuori. In quel modo avrebbe potuto condurre se stessa dovunque avesse voluto, decidendo la storia. Sentì il demone “marranghino” pungere con le chele di scorpione, felice dell’arroganza che all’improvviso veniva a possederla. Le diceva: non sei un essere del cielo, non scrivi il tuo destino, cosa credi di poter fare? Non sai che questo egoismo ti è proibito? Ma nulla poteva fermare la mano che governava, e sotto la fede d’oro e le dita di vene intirizzite, obbedendo a lei si spostava la terra sorvolata, mostrava nuovi paesaggi. Ma se poteva andare dove voleva, perché stava tornando nello stesso posto dove aveva avuto paura, perché era all’ingresso della casa attuale? Proprio lì, tra il comodino con il telefono e il mobile su cui si era accasciata, vicino alla foto di lui, vicino alle innumerevoli assenze, gli infiniti ingressi in casa che aveva fatto giorno dopo giorno, e recando ogni giorno un nuovo affanno, e recando a ogni mattonella un impercettibile quantitativo di lentezza in più nel cammino.


All’improvviso apparve, in piedi sulla soglia del corridoio. La divisa era grigia, e così era la pelle, e così era il pomeriggio quando la sua luce, proveniente dalla cucina in fondo, si intrappolava nella penombra che riempiva il corridoio. Era giovane, non era un ragazzo, sembrava di tornare a tanti anni fa. Quando numerose volte lei aveva avuto il ventre dilaniato, attraversato dalla morte. Anni prima che quella stessa casa esistesse. Non c’era un calendario, ma di certo il sogno mescolava le date. Stavolta non vedeva se stessa. Poteva solo sporgere la mano in avanti, uguale a prima, ma incapace di governare l’altro, le sue parole.


Sotto i baffi serrava le labbra marziali, un silenzio militare. Lei gli chiedeva perché. E la voce che le usciva non era che un vago riverbero d’acque. Un flutto dal quale si sporse da ragazza per rinfrescare una caviglia, rivide il lupo che le ringhiò dall’altra parte della riva quando, scambiandolo per il cane di un fattore, gli aveva tirato un sasso. Nelle zanne bianche la minaccia, il futuro. E l’acqua continuava a gorgogliare: questa era la sua voce. E la voce di lui invece era grigia, come grigi erano lui e il suo contegno, come appannati dentro una fotografia cosparsa di polvere calante microscopica attraverso i giorni. Gli chiese perché, e glielo chiese perché credeva di doverlo vedere ridente, perché non c’erano un generale, o un tricolore, o una croce da obbedire in quella casa, con lei. Sii spensierato con me, gli diceva, che io ho tanto dolore, alle gambe, alla schiena, alla pancia...


Le rispose: ho una confessione. E lei -quella del mondo fuori dalla rievocazione delle due ore della notte- camminando ora alla fine del corridoio, giunta in cucina, pronta a sedersi di nuovo sulla poltrona, scostando una lacrima spinta fuori dai condotti per lo sforzo pensò che in quel momento avrebbe dovuto ricordare quell’altro sogno, quello bello in cui lui era lucente. Se solo me ne fossi ricordata quando era con me, tutto grigio!, pensò. E gli avrebbe detto, non sono un problema, quelle donnine che ti porti appresso dal luogo in cui ora stai, perché lì sai cosa si può e cosa non si può, e ti raggiungerò e staremo nel sole, come una colomba alta nel cielo. Ma lui rifiutò, scosse la testa: non era questa la confessione. Allora capì. Le avrebbe parlato di quella volta, una cosa che sapevano lei e pochi altri in cielo e in terra. Perché in quel momento, nella stanza d’ingresso, c’erano più dolori. Non solo quello di lei. Si incrociavano, si plasmavano insieme, e dalle loro tracce indelebili di cui i muri e la penombra della casa si impregnavano, si generava una famiglia, nascevano, per la prima volta non morendo nel ventre, gli eredi di quel dolore. Nel sogno erano uguali l’istante del suo mancamento all’ingresso, quello in cui in un ascensore aveva creduto di sprofondare nello stesso oblio del suo figlio non nato, e quello in cui aveva udito una confessione dalle labbra che baciava su un campo d’infanzia, sul fieno della giovinezza, sul frastuono della guerra trascorsa. Le labbra da cui non avrebbe mai creduto di udire il dolore. E che invece un giorno dissero: “tu dici che non devo obbedire a una croce, in questa casa, nessun’altra croce che quella di Nostro Signore? Ma quella stessa croce mi voltò le spalle allora, si rifiutò dal cielo di guardare me sul suolo della città eterna, quando davanti alle cave e le catacombe ubbidii alla croce uncinata, indossata al braccio, portata come anatema inciso sulla carne. Caino vagò per il deserto, la mia anima per i campi selvaggi sopra il Volturno, per sentirne la voce fresca, per vederne i pesci nell’acqua trasparente dei ricordi e placarmi, per credere di poter ritornare in quel periodo ignaro di tutto il male che sarebbe avvenuto. Per fuggire.”


Dentro il sogno, o forse ricordandolo adesso sulla poltrona, guardò il cassetto del mobile, dove era stata tenuta, silenziosa e nascosta nell’ombra, la svastica dei giorni dimenticati. Suo figlio se l’era portata via, trasportata insieme agli altri cimeli. Ricordare, ricordare… che ne sanno tutti gli altri di ricordare?, pensò lei. Che ne sanno tutti gli altri, che camminano sopra dieci mattonelle senza impiegarci un istante, senza rischiare di precipitare a terra a ogni passo vacillante su ciascuna di queste, trascinati dal peso di ciò che si è costretti a ricordare senza scelta? Come lui, in quei momenti, lei non sentiva di aver avuto la pazienza di Giobbe, ma la meschinità di Caino nel non sopportare e scappare, come lui, in quei momenti avrebbe voluto fuggire raminga per il deserto o per i campi del Volturno, al solo scopo di poter raggiungere un tempo che attendeva senza peccato in un momento precedente. Lì non era stato compiuto il male, lì erano solo risate e canzoni sui campi, falò e raccolti, lucciole, numerosi fratelli e sorelle…


No, non ci sono donnine, le avrebbe risposto in questo modo se lei avesse detto in sogno quello che rimpiangeva di aver taciuto: lo sapeva perché ricordava, ancora sentiva il pianto nella sua voce di uomo che non piangeva.


-A., sei forse il papa? Perché solo al papa ho raccontato, solo a lui abbiamo potuto confessare io e gli altri. Ho bisogno che tu sia il papa, adesso per me, per poter ascoltare.


Tese la mano, tozza, piena di vene, invecchiata. Una mano bianca. Rifulgeva, dall’oro nella fede a un candore che sembrava serbare dentro la sua carne, abbagliante come un sole con la forma di uccelli in volo. Un prurito sulla pelle da piume incastrate tra i pori, dove aveva avuto le fronde. Il suo petto tremò.


Nella confessione di lui, nessuna donnina: di donna ce n’era stata una sola. Incinta: alle fosse ardeatine, non aveva fatto in tempo a vederne lo sguardo. Non avrebbe mai saputo se lo perdonasse, se capisse la paura dei fucili tedeschi che sfioravano la schiena, il braccio fasciato. E come non avrebbe potuto, proprio lei che contro il seno aveva puntati i fucili tedeschi, anzi no, il fucile suo? L’uomo grigio, giunto da una foto o da un posto lontano, chiese in lacrime al papa se non fosse meglio far rivivere quella donna. Non aveva senso chiederlo adesso, certo, altrimenti sarebbe morto là, si sarebbe opposto all’ordine di far fuoco sulla folla. Almeno far rivivere il pargolo dal grembo! No, tu hai scelto di vivere, perché gli uomini hanno paura di morire e non esistono gli eroi in divisa dell’infanzia. Ti avrebbero ucciso comunque, quella donna lo sapeva. Sei sopravvissuto. Chi proviene da te deve sapere questo. Sapere che non si sfugge a una tale certezza, una donna e un feto in cambio di un uomo, della storia che da lui è scaturita. Ciascuno dovrà incontrare quella donna in un sogno, chiederle perdono. Ti odiò quando i proiettili le trafissero il ventre, e sentì la pelle e la gonna sporcate da un sangue nero e denso che sgorgando dai fori quasi fischiava. Lei, ascoltando la confessione, si toccò il ventre dove ebbe una fitta inimmaginabile. Invece la donna uccisa dalla guerra e dal suo uomo, in un’ultima coscienza di effimera nebbia, forse pregò rivolta a delle ferite fischianti di fluidi corporei che abbandonavano un corpo crocifisso, oppure ricordò un ramoscello ancora verdeggiante che cigola su un fuoco, nella campagna dove si incontravano, in quel tempo, i ricordi di tutti, paese di contadini e di poveri andati in guerra con le zappe. Di caini vaganti per la landa, cercando clemenza nel gorgogliare dell’acqua.


Disse lei che non era il papa, lo disse ancora con quella voce equorea attutita, distante da se stessa. Scorreva lontana, una corrente gettata da sé, già più lontana delle acque pulite del fiume che non sarebbe mai più tornato quello di allora. Dicevano che adesso fosse una discarica. Lei non lo vedeva, non lo sentiva, non lo sapeva, ma sapeva che quella voce, a chiunque appartenesse, non era santa, e non era santa lei che ancora gli parlava in sogno. Lo abbracciò e gli chiese di abbracciarla, solo così estinguendo il demone o la vecchiaia che si annidavano nelle gambe, già cedevoli, già piegate sul pavimento come avevano fatto in quel momento. Ma solo il mobile dell’ingresso l’aveva sorretta quella volta. L’uomo grigio si chinò, e lei si aggrappò al braccio dove era stata la fascia del marchio del peccato, dove erano i muscoli e le vene che avevano tenuto l’arma da fuoco. Pianse sulla sua giacca, sull’odore che non lasciava mai le narici durante le passeggiate nelle stesse stanze, ogni giorno, tra la voce del pendolo e la polvere che scendeva, sullo zerbino, sull’attaccapanni, sulla divisa appesa.


Fu sorretta e per questo era stato un bel sogno, non un incubo. E poi, ricordare quei momenti, sebbene non fossero mai stati uniti in un unico pianto come in quel caso strano, non era più terribile, non poteva più metterle paura. Perché tutto era lei, era l’insieme dei suoi passi. Tic, tac, il pendolo Andrea. Era lei, quando in un incredibile istante scomparivano le fitte, ed era lei quando tutto il resto del tempo l’interno della sua carne sembrava martellare, congelare, rattrappire. E poi, già non ricordava più. Mescolava quelle parti del sogno ad altre cose, versi delle stesse canzoni di ogni giorno, pensieri che aveva avuto in quella casa, dimora della sua solitudine più lunga, la superstite più longeva tra i periodi della sua vita.


Seduta sulla poltrona, nella cucina illuminata dal mattino, sentiva i rondoni stridenti e le voci della scuola media. Il cielo era certamente azzurro e privo di nuvole. Pensava di aver fatto un bel sogno -anche se non bello come quell’altro. Il momento in cui si era accasciata, ed era stata distante da se stessa e dall’uomo grigio, schermito da una polvere intangibile, non era che un momento come tanti. Ma la colpiva quella patina vischiosa che l’aveva ricoperta, quell’immagine strana che per poco le aveva riportato un odore estinto, la casa vecchia nel terreno scomparso, una notte dove le janare ridevano e rubavano la cavalla, mettendo paura a tutte le sorelle e i fratelli, ma era una paura bellissima e irripetibile. Non aveva più paura del “marranghino” dentro di lei. La colpiva quella luce, arancione e gialla, dove vivevano le colombe e gli angeli lunghi con i capelli di falò, occhi cavi di maschere. Se ne salivano in cielo, l’avevano accolta per primi all’inizio del sogno. Ed erano ricomparsi alla fine, quando di nuovo, abbracciata a un’ombra che aveva rubato all’uomo grigio rimasto sulla soglia del corridoio, aveva preso il volo e veniva trascinata su. Sopra la stratosfera: luogo che non conosceva, non c’era parola che lo spiegasse nel dialetto suo, ma era lontano dal cielo e ancor più dalla terra. E sopra uno strato d’aria trasparente, rimesciuto di tinte di tramonto e nero stellato, scorreva un fiume d’energia. Ci volava sopra e affianco a lei erano strane forme alate.


Trasse il rosario da una custodia che teneva stretta nel palmo, fino a renderla bollente. Cominciò a cantilenare un chicco dopo l’altro, decisa a continuare fino a quando il fiato fosse stato in grado di generarsi nei suoi polmoni, passare dalle labbra scomparse. Da qualche parte dentro di sé, in una zona introvabile della coscienza, fissava ancora una crepa nera, che come in un soffitto s’apriva in una rosea parete di carne e faceva uscire braccia nere. Con uno sguardo ardente lei le ricacciava là dentro.


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