la brutta giornata di Gans
- Milky
- 3 mag 2021
- Tempo di lettura: 32 min
Era una domenica mattina di primavera quando accadde quel fatto bizzarro, quel fatto orrendo, del tutto insensato. Si prospettava una di quelle prime belle giornate che sembrano portare a intervalli l’estate in anticipo tra gli acquazzoni e le nebbie e i pollini. Dall’azzurro diffuso con poche nuvole calava un tepore di raggi placidi, compatti come una sola lastra luminosa in cui s’assonnecchiavano anche le mosche in volo. Solo il venticello era fresco, piacevolmente, ma pigro e svogliato sollevava soltanto di rado le dita più sottili dei pioppi, come sbadigliasse. I maiali lasciati a scorrazzare liberamente in cerca di castagne si fermavano sotto le ombre dei pioppi attorno al campo prima di prendere la via per il bosco, si accasciavano nella polvere rotolandocisi per godere dei granelli di terra imbevuti di frescura sotto quello stagno dai mille occhielli più caldi, gli spazi di sole tra le foglie distanziate. Già si sentiva qualche insetto campestre risvegliato prima della propria stagione. Gans uscì di casa sentendosi allegro. Come gli sarebbe piaciuto starsene a riposare là sotto e fare come i maiali, pensava stravaccato al muretto che dava sul lato dell’ampia aratura dal bel marrone ordinato, eseguita con una precisione che restava ineguagliata per tutta quella campagna, migliore tra tutti i poderi, il lavoro di sole tre persone diverso da quello di tante famiglie più numerose. Non poteva fare come i maiali, perché c’era da lavorare ancora -non per tutto il giorno, era pur sempre domenica-, almeno la mattina irrobustire quella perfezione del campo, quell’onorevole lavoro dell’uomo. Aspettava il babbo con le maniche tirate su, godendosi la momentanea mollezza di muscoli, pregustandosene una più tarda, un riposo che amava ricevere e che era ricompensa di tante fatiche sotto il sole e la pioggia, che stavolta capitava proprio con questo tempo benedetto; e poi il totale sollazzo di una passeggiata, magari verso il paese, magari una stupida acchiapparella con le galline, follemente frastornata di starnazzi e risate e rimproveri lontani della mamma, “ormai sei grande per certe bambinate!”, oppure intraprendendo una progressione di bambinate finire con qualche scorribanda nei terreni degli altri, lui e quella combriccola d’altri diavoli a farsi sbraitare dietro dal vecchio Spalt così ossessionato dalle sue carrube. Scappavano verso il bosco dove i passeri diventavano ghiandaie, si nascondevano nelle caverne facendo finta che proprio non ci fosse altro da fare, finché uno non ne usciva fuori dichiarando di essere Dunker il brigante in persona, e poi un altro usciva da un’altra caverna dicendo di aver scoperto nascosta proprio là l’inestimabile refurtiva di quel famigerato criminale, quell’orco tremendo, che se aveva il coraggio la smettesse di pavoneggiarsi e andasse a riprendersela da vero uomo. E allora prendevano a inseguirsi e aggrapparsi ai rami bassi degli alberi, darsi lo slancio e saltare, e arrampicarsi, e d’un salto superare i torrenti, e agitare all’aria i bastoni ammutolendo il bosco con quel frullo legnoso così soddisfacente per le orecchie. Sì, ce n’erano di cose da fare. E finalmente starsene solo, sdraiato di fronte al cielo dal tardo pomeriggio fino a vederlo ricambiargli lo sguardo a forza di stelle e pianeti infiniti, sognare così sulle impressioni raccolte in giornata, conservate nel suo sangue caldo, pronto a crescere. Ma ecco, il babbo esce pronto sotto il cappello largo, gli attrezzi caricati tutti sulla stessa spalla, per pigrizia e maestria. Non serviva esser presenti per sapere che la mamma gli aveva detto la stessa cosa di sempre, “e hai due braccia no, porta una cosa con un braccio e un’altra con l’altro, che ti si rovina la schiena!”, e lui laconico, sempre così superiore a ogni capriccio d’ossa e muscolo, “mah, mi sono trovato così e così vado…”, o qualcosa del genere. A passi lenti ma incisivi sulle pietre dall’ingresso ai legni sghembi della recinzione, l’occhiava di profilo facendogli cenno silente di staccarsi dal muro e avvicinarsi, entrare con lui nel campo, che era il momento di cominciare. Gans gli accennò un sorriso e calandosi in testa il suo cappelletto, quel cappelletto che era per gioco, piccolo ma rispettabile coi suoi significati di speranza e futuro. Così approntato si avviò, quasi lasciando appiccicata alla parete l’ombra riposata, e lasciandosi dietro la scia ancora aleggiante degli aromi della colazione, quel familiare odore grasso del latte caldo da mungitura prima dell’alba, i fumi da forno del pane uscito a imburrarsi e inzuccherarsi. Una corsetta non così necessaria, ma rituale, “arrivo, arrivo…”
Fladenbrot era passato a salutarli, come sentiva fosse suo compito. Qualunque cosa facesse, sempre pensava di aiutare i padroni, se qualche aiuto poteva mai produrre lo starsene a gironzolargli intorno scodinzolando con foga inspiegabile mentre quelli levavano alti uno dopo l’altro gli attrezzi, alternati a rimandare i bagliori del sole con le teste ferrose in fondo ai robusti manici lignei (ottimi attrezzi, ben fatti e inscalfibili). Invece con un cenno della mano già rossa e sudata e un fischio seguito da sillabe seccate il babbo gli faceva capire -ma solo per il momento perché proprio non voleva metterselo in testa- che per quel lavoro non serviva che stesse là. Si infastidiva al pensiero delle zampe sulle semenze. Così Fladenbrot, obbediente, riattraversava il campo, rimanendo però a costeggiarne i margini come su una riva opposta d’un fiume, contento di guardarli con la lingua di fuori e la coda sempre impazzita. Il giorno dopo sarebbe comunque passato a salutarli nel campo, prima di essere mandato via -sì, io devo aiutare, pensava. Gans si levava solo per un po’ il cappello per passarsi l’avambraccio sulla fronte, credendo che così meglio si assaporasse il senso di quella fatica. E Flanderbot ogni tanto abbaiava, latrati che parevano baritonali starnutoni di un vecchio in poltrona, rivolto a nulla in particolare.
-mah, che avrà da abbaiarsi, così all’aria…
E a commenti del genere a ciò che c’era intorno si procedeva col lavoro. La mamma, che era più brava di ogni altra mamma nel lavoro nei campi, non usciva. La vedevano qualche volta affacciarsi all’uscio a mandar fuori la polvere a colpi di scopa. Poi si girava verso di loro e anche lei si passava l’avanbraccio sulla fronte impacchettata da una pezza bianca, ma solo per schermirsi dal sole. Comunque non riusciva a vedere altro che due ombre scure mosse caoticamente in mezzo a un boato di chiarore pungicante, e non potendo capire in quel momento se la stessero guardando e facendole qualche gesto scemo, sbuffati via dalle labbra due fili rossicci di capelli fuggevoli, si decideva a rientrare e continuare la pulizia. Nell’aria tiepida e pulita pareva di vedere il vapore fumare dall’acqua di pozzo stesa sulle tegole dentro, che si asciugavano di là dalla porta lasciata aperta in quella mattina soleggiata.
Gans però non è che fosse molto concentrato sul proprio lavoro. Erano movimenti della memoria, non della presenza del lavoratore, serio, ammestierato, come c’era da andare orgogliosi in famiglia per quei campi così belli e il pollaio così ben sistemato. Non era tanto per la domenica, per il meccanismo del riposo in attesa già innescato nella testa che quindi già non riusciva più a pensare ad altro. Da un po’ di tempo Gans pensava a tante cose, e gli piaceva farlo, gli piaceva l’immobilità, la gradualità con cui nel passare lento del tempo sentiva ficcarglisi le erbe e le spighe nella pelle delle gambe stese da tanto, le zampette di esserini che transitavano sul corpo fermo come un sasso , e il turbinio che si sentiva cicaleggiare dietro la fronte, mentre sopra quella testa pareva quasi di sentire il sole che slittava cambiando colore. I trilli degli insetti che si davano il cambio nel corso delle ore, il campo che era vivo e respirava.
-hei..
Il babbo, ricurvo e ora su, ora su e poi ricurvo, lateralmente col naso grosso e gobbuto gli indicava un punto non ben decifrabile nell’aria. Gans riportava gli occhi a quella generica direzione e dopo un po’ si accorgeva che i legacci attorno al ferro della sua piccola rudimentale zappa si stavano sfilacciando, e quella capoccia grigia si andava pian piano a svitare. Si fermò, si inginocchiò e mise mano a quel cordame. Il babbo non disse niente, la bocca invisibile sotto la linea dei baffi folti, continuava a zappare. Le mani operose che attorcigliavano e annodavano si scurivano d’ombre passanti, forse nuvole o corvi, chissà. Era come riallacciarsi gli scarponcini freddi di rugiada, pensava, quando stava chino allo stesso modo dopo una corsa nei prati verdi e immensi. Spesso in quei momenti guardandosi i piedi vi scopriva vicino un piccolo mondo di instancabili insetti, formiche in fila con bagagli di briciole di cereale tese sopra la testa, o in mucchi neri annuvolanti un bruco morto. Una volta ne osservò una che si trascinava dietro, perdendo la presa e fermandosi più volte, il cadavere molto più grande di una forbicina, uno di quegli insetti rossi e appuntiti. Stava ferma, non reagiva, come addormentata lasciava fare alla formica, che la portasse pure nel formicaio, nell’oscurità sotto la terra. Le punte uncinate sul didietro galleggiavano inerti, insignificantemente, e i fianchi urtavano i granelli del terreno a ogni inciampo della formica.
-sono tornati i maiali?-, urlava il babbo alla mamma laggiù.
-solo uno!-, urlava lei col braccio davanti alla faccia, guardando a caso perché non vedeva.
-fa rientrare l’altro!
-non posso!
-che?
-e non posso, sto vedendo le galline!
-ah. Brava!
Un latrato, un’altra tosse di Fladenbrot. Anche il chiasso più veloce rallentava negli ultimi momenti -ore, minuti?- prima del riposo. Si ricordava quante volte tutte uguali era successo quel fenomeno strano, quanto uggiosa era a ogni sera di fine settimana la sensazione che il giorno maggiormente dedicato al riposo si concludesse. E confrontava le cose che aveva fatto, e quelle che aveva sentito, le storie assurde che raccontavano o di cose successe al paese. Ma era il periodo in cui Gans molto spesso passava moltissimo tempo a rovistare tra i suoi pochi ricordi, fissandosi con la mente sui momenti più infimi. Bastava aver visto il sorriso di una ragazzetta, passata per caso sulla via dove già cominciavano a vedersi comignoli e campanili, o forse solo l’impressione di una specie di mezza smorfia là a un lato della sterrata, frettolosa nel gruppetto di amiche a passeggio, ed ecco che Gans passava ore intere a pensare a questa persona di cui in breve nemmeno riusciva più a ricordare la faccia, ma si diceva tra sé che non c’era niente di male a prendersi del tempo per costruirci delle storie. E questa ragazza immaginaria senza forma se la metteva accanto nelle sue attività sempre uguali, insieme andavano per i campi in un pomeriggio eterno e in quella fantasia ci si poteva liberamente scambiare all’infinito informazioni sceme come “mi piacciono tanto le libellule”, “quelle stelle secondo me formano una pecora”, “quella pianta mi sa che pizzica”, e non ci si stancava mai. Certo, erano sogni fatti da sdraiati o seduti sull’erba, e fare per davvero una cosa del genere sarebbe stato noioso, per non parlare dell’imbarazzo nel rivolgersi a una di quelle ragazze di paese, senza poi alcuna ragione valida. Ci doveva essere una ragione soltanto in quelle fantasie, nel perché andassero a prendere proprio una certa forma, ma quelle rimanevano ragioni private e chiunque provasse a tracciare un legame tra esse e un ipotetico effetto nella vita di tutti i giorni non si stava facendo gli affari suoi. Le giornate del resto dovevano rimanere quelle che erano, come era sempre stato e come sempre si insegnava fosse bene. Solo le stagioni cambiavano. E comunque era il periodo in cui tutto gli veniva spiegato nello stesso modo, “stai crescendo”, “il tuo corpo sta cambiando”, “eh, ormai non sei più un bambino…”, e quindi tutto questo ricordare e fantasticare doveva proprio essere un altro segno di questo corpo che cambia. La mamma diceva qualcosa a proposito degli spiritelli che tante favole avevano popolato, tanti prodigi raccontati da tutti gli abitanti della campagna.
-così come ci sono lo spiritello che protegge la casa, quello che protegge il bosco, quello che ti protegge quando percorri la strada dalla parrocchia a casa, perfino quello che protegge dai raffreddori, ce n’è anche uno che sta attento affinché il corpo cresca bene, forte, pieno di vitalità.
Ogni ragazzo ha il suo che lo segue senza farsi vedere, e fa le magie sulle parti del corpo che cambiano, diceva. A Gans venne da pensare a un sorriso di ragazza, questa volta di scherno, unito a risate dei pari, se gli sguardi fossero riusciti a entrare dove nessun altro mai entrava, la stanza dove era il suo sonno, così da vedere quei giocattoli di legno appesi, fluttuanti sopra il suo letto. Quando era piccolo glieli aveva intagliati il babbo dal corpo caduto del vecchio enorme platano che nei primi anni di Gans aveva abbracciato la casa con l’ombra del suo tronco, grigio e gentile, ora una monca piattaforma ingiallita. Ne era venuta fuori quella sagoma strana, erano i suoi giocattoli rudimentali che avevano qualcosa che assomigliava a un corpo, a una forma, pur non assomigliando, in fondo, a niente. Così decise che anche quelli erano angioletti, lari della casa usciti dalle storie e dalla mente. Con la testa sul cuscino guardava in alto e li vedeva calare su di lui in una spirale, a proteggerlo, perché stavano sempre là, con lui in quel determinato posto per la maggioranza degli anni della sua vita. Prima di addormentarsi la preghiera a Gesù, dopodiché, valicati i confini della coscienza per paesaggi strani di sogno, bagnati di luna bluastra, c’erano loro col compito di vegliare. Doveva disfarsene per colpa di un dileggio immaginario? Ma no, non c’è niente di vergognoso nell’affetto per quei giochi d’infanzia, che non erano giochi d’infanzia, erano guide, guide per la giornata come ce n’erano in tutta la casa, per la via -questa o quella svolta, quell’albero immobile sempre a quel punto, il ruscello laggiù- e ce n’erano per il cielo e per il tempo che passava. La casa era piena di cose appese. Attraversando la sua confortevole ombra, diversa da quella della paura che dimorava sotto gli oscuri intrichi del bosco di notte, con la punta delle dita Gans si divertiva a far oscillare le corde d’aglio e cipolle e salsicce pendenti dai soffitti, con l’aria chiusa che s’innaffiava di quella tempesta di odori speziati, l’inconfondibile fragranza di casa.
-non preoccuparti, è normale.
Anche questa, a pensarci, era una frase che ultimamente si sentiva dire spesso.
-l’importante e non rimanere appesi alle nuvole, a forza di starci con la testa!
Il babbo in questo modo lo perdonava degli sporadici, teneri errori che erano andati aumentando nelle fatiche, in tutti i movimenti del figlio un po’ stralunato. A un primo sguardo tutto si bloccava, e a Gans per pochi secondi saliva un vecchio terrore di strigliata, ultimamente soppressi da nuova indulgenza. E poi quei sorrisi: quasi di incomprensibile orgoglio, per quella sua energia che a tratti si acquietava e a tratti sembrava sul punto di strabordare, stilare scrosciante dai pori della sua carne fino a sommergere ogni cosa in un ribollente schiumoso bagno caldo, del calore che aveva nelle vene. Ma la pelle insieme al sebo sembrava mandar fuori anche ogni traccia di disciplina. “Puoi finire il lavoro un po’ prima, questa domenica” -simili cose leggeva Gans, senza poter nemmeno formularsi le esatte parole in testa, nel lampo di impressioni in un fuggevole sguardo del padre, questi enigmatici commenti bonari. C’era forse da aggiungere un altro pezzo, qualcosa come, “vai, perché quelle di questi giorni sono le domeniche che devi godere, quelle che dovrai ricordare per sempre riempiendoti il cuore, e il sangue anche quando starà per seccare tornerà per un piccolissimo splendido istante caldo come ce l’hai oggi.”- ecco che cosa diceva, pur tacendo, l’assurdo nuovo atteggiamento di quelli che lo conoscevano, nelle sue varie forme, nella mamma che certe volte quasi pareva mettersi a piangere senza motivo, nel padre, nel signor parroco con tutti i suoi “però…”, nei compari che all’improvviso si stufavano di fare Dunker il brigante o il drago del tesoro e quasi gli veniva la febbre da quanto di corsa volevano andare da quelle parti dove il ruscello si allargava, e nascondersi come merli nei cespugli sulla collina per sbirciare attraverso il verde scuro quelle che se ne stavano laggiù con le brocche a cogliere l’acqua e strofinare i panni. Anche lui, appresso, qualche volta a guardare, a riempirsi di strane sensazioni. In quei momenti, per qualche ragione, si sentiva osservato: rannicchiato a terra con le caviglie inconsapevolmente tremanti più di una lepre pronta a fuggire, spesso si girava frenetico, perlustrando tra sé il paesaggio circostante, mentre gli altri non muovevano il collo e lo sguardo paralizzati sulla scena dall’altra parte.
-è tutto molto strano.
-che?
Gans non credeva di aver borbottato ad alta voce.
-no, niente, dicevo…
-ah, capisco. Dai, puoi andare.
-cosa? Ma non è passata nemmeno un’ora!- Gans cominciava ad arrossire e sentiva più caldo. Un orgoglio mai esistito in lui si offendeva all’idea che ancora una volta il padre lo giustificasse, così da esplicitare ciò che voleva rimanesse custodito nei confini delle personali chiacchiere interrogative con se stesso, eccitanti e misteriose, quelle cose che portava dentro; percepiva la figura e l’odore di una melagrana spezzata con forza di mani nude, le due metà poi appoggiate sull’erba a lasciare che il sole imbrattasse i rosseggianti chicchi incastonati nelle conche succose.
-oggi va bene così.- il babbo gli batté con forza una mano sulla spalla e intanto pensava che doveva andare così solo per il primo periodo; dopodiché lo avrebbe messo sotto. Com’era stato per lui -ed era sacrosanto che il patimento si ripetesse-, quell’energia che sarebbe sbocciata doveva convogliarsi da qualche parte, altrimenti anche il remissivo e flemmatico Gans avrebbe cominciato a fuggirsene nel cuore della notte, impazzito come un lupo sceso in villaggio per la fame, a riinseguire quelle sue solite bambinate sempre più esageratamente a tutte le ore non più per conformismo ma per incontenibili ormoni. Eh, no, pensava il babbo, così sarebbe piaciuto a tutti, a poter fare gli animali quanto lo si voleva. Si sforzava di ignorare di sapere che in Gans tali impulsi non sarebbero stati forti come negli altri ragazzi.
-su.
-n..no, è che…- borbottava ridicolmente Gans alla seconda pacca ricevuta, -è… ecco! È una sciocchezza, volevo dire solo, l’hai visto quello? Non ci avevo fatto caso che c’era. Però, è morto subito…
Con la punta dello scarponcino solleticava una foglia floscia del fortuito germoglio solitario con lo stelo rovinante sulla striscia di terriccio marrone. Pareva di vedere il verde sbiadire di momento in momento, come sottoterra ci fossero sciami di fauci che se lo succhiavano dalle radici e sgusciavano via tra le altre ombre. Pur sapendo quanto poco credibile fosse quella scusa, così lenta a pronunciarsi, c’era quasi un dovere di dirla lo stesso, di non ammettere mai l’esistenza di quelle sue cose informi di corpo e anima, ad altri che al se stesso di quegli intimi momenti di sogno a lui cari.
-oh, certo. Va bene, va bene.
Una terza, insopportabile pacca, stavolta sulla schiena, quasi sul sedere. Mille urticanti formiche urticanti marciavano inesorabili nelle orecchie di Gans, umiliato a testa china e la fronte sudata, in piedi in mezzo al campo. Con intensità il ragazzo si concentrava su un punto indefinito del terreno, intensità nonostante la quale non avrebbe saputo descrivere nulla di ciò che vedeva. Pur non vedendo niente ed escludendo tutto, le cose che c’erano intorno bussavano per affermare di esistere. Una vanga, non vista ma mossa, evidentemente da un babbo ignorato ma operativo, aveva ripreso con i suoi ciclici suoni affricati che sbucciavano il pavimento del mondo. E Fladenbrot abbaiava, di nuovo a caso forse, abbaiava forte. Chissà la mamma… no, al diavolo anche lei!
Una folata appena carezzevole si avvicinò portando poco refrigerio all’ombra dei pioppi grati. Tra i fili d’erba schiacciati si era aperta una conca dove si era spaparanzato un maiale, ora lasciata vuota, mentre sopra ancora vorticava un mucchietto di polvere smossa. I lavoratori del campo non l’avevano visto tornare né andare per il bosco. Magari aveva amato la terra fresca a tal punto da immergercisi tutto. Lontanissimi colpi di altre vanghe, echeggiavano sorvolando i campi. Un gracchiare nei cieli. Che c’era da fare? Niente, andarsene. Levarsi il cappelletto ridicolo, cacciarselo in una tasca dei calzoni, ritirarsi su le maniche e andare. Basta lavoro per oggi, insomma. E Fladenbrot abbaiava, abbaiava sempre più come un pazzo. Ma nessuno se ne preoccupava, nessuno lo vedeva irrigidirsi e lanciare la gola aperta all’orizzonte spremendosi d’ogni energia, i fianchi e il ventre tremanti. “Zitto, e zitto”, e gridati lamenti senza forma che per secoli avevano taciuto e messo in fuga quadrupedi di varie specie.
-io allora vado, eh?- disse un po’ senza pensarci Gans. Fladenbrot mandò una tripletta di latrati, poi guaì, poi tacque.
-vai? Vedi se mamma ha finito.- da chino che era per l’ultimo giro di vanga, la lasciò lì confitta e fece per raddrizzarsi, passandosi il braccio in fronte.
-Però figliolo, lascia che ti dica una cosa…
Ci fu un tonfo. Il babbo si era fermato in una posizione strana, e strana era come pausa in mezzo al discorso. Ma Gans non aveva fatto in tempo a decifrare il tono, a chiedersi dove andasse a parare; scherzava? Una presa in giro che lui non poteva cogliere forse (ce n’erano tante), qualche significato in quello storcersi e di gomiti tesi e palpitare di collo irrigidito, quel volto sbalordito. E intanto in un soffio passarono anche quei rapidi pensieri di quel breve intervallo da quando le parole si erano pietrificate a quando il corpo del babbo era precipitato a terra, con un’accetta che gli spuntava dalla schiena. Gans, di nuovo, non capì. Però nel confusissimo viavai di impulsi e reazioni nella testa gli riuscì di riconoscere un pensiero immediato: chissà se era la stessa accetta con cui si decapitavano i polli sulla superficie gialla e nuda di quel rimasuglio di tronco del platano. Quando c’era da ammazzarli lui andava a farsi un giro, eco di pochi starnazzi e uno strano ineffabile silenzio, e quando tornava l’accetta abbandonata là, diagonale nell’aria -poteva toccare tanti tagli secanti i cerchi concentrici che erano stati gli anni dell’albero, e macchie di sangue subito sbiadito.
Quindi? Il babbo era morto? A un certo punto doveva pur accorgersene. Il sangue ancora non usciva dalla schiena. Alzò la testa; un fortissimo rimbombo sembrò sconquassare ogni cosa, un’onda d’impeto che pareva buttare giù la casa e il fienile, far scappare gli animali, sabotare l’aratura. Caricavano con passi pesanti di stivali come ferro di fortezza, pochi correvano su cavalli rubati senza sella. La polvere non smetteva di sollevarsi. Fladenbrot non c’era più sulla sponda opposta del campo; di là da un occhio di finestra aperta le note pareti di casa si popolavano d’ombre intruse che afferravano, rovinavano. Allarmi strozzati di donna, coccio infranto, corde strappate dal soffitto. Un ronzio, un tremito -forse immaginario- del terreno, le foglie del germoglio morto in fibrillo. E in un punto cieco alla sua sinistra, si avvicinavano gravemente i passi che erano più profondi nel frastuono, simili a rintocchi di roccia montana in una valle.
(“dicono che Dunker il brigante sia ancora vivo, o che sia il suo fantasma, e che ritorneranno i giorni in cui non si lasciano andare i bambini a giocare nel bosco!”
“dicono che Dunker il brigante abbia una barba aguzza e nera come gli occhi del diavolo, e quando è di cattivo umore con un solo sguardo può mandare fiammate dove vuole.”
“macché, è uno sputafuoco in realtà.”
“brandisce una spada ricurva e seghettata, che si dice pesi come un orso, ma lui la porta con un solo braccio.”
“giuro di aver visto che non ha due braccia come noi: ne ha tre paia.”
“e porta un mantello nero che di notte si mescola all’aria, perciò corre veloce come il vento sfuggendo alle guardie, superando tutti gli altri briganti!”
“sì, scappa nella foresta dove ha cento ripari sotto le radici e altri mille nelle caverne.”
“e possiede numerosi seguaci tra i briganti, tra i goblin e i lupi mannari, e gufi e vipere e scorpioni.”
“è alto tre metri, quando si avvicina la sua ombra ti ricopre e immobilizza a terra.”)
Era un uomo molto alto, di quasi due metri, dalle movenze che indicavano muscoli forti. Per un istinto autonomo del corpo, Gans con la mente annebbiata si ritirò come a sedersi. Dopo lo sgomento iniziale dell’imponenza riconosceva per prima cosa il lungo pastrano cinerino tutto attraversato da strappi che lo facevano sembrare maculato. Mani e piedi in guanti e stivali che si sarebbero dette fodere di una stessa pelle, di un marrone camaleontico e indefinibile. Si schiariva sulle punte delle dita come a disegnarvi le unghie coperte, in una maniera in qualche modo morbosa. Sotto un cappello nero con una piuma di corvo, che proiettandosi al suolo muniva l’ombra di un sinistro aculeo, laddove si aspettava di vedere una chioma lunga e incolta in cui tra i nodi si impigliavano foglie e pezzi di rami, c’era invece una pelle nuda e olivastra, appena ricoperta da una peluria sottilissima. La barba non era lunga e nera, né unta e frastagliata come l’avevano sempre fatta, ma rada e irregolare sugli zigomi secchi, grigiastra come il pastrano. Tra i peli si apriva in labbra quasi assenti un sorriso di denti rettangolari color panna straordinariamente lunghi -sembrava che per questo sorridere causasse ai muscoli facciali una fatica aggiuntiva. Gans ebbe la sensazione che là tra quegli spazi, nella bocca nera, fosse imprigionato il nucleo di quell’odore che aveva sentito, più penetrante dell’aglio tagliato, emanato un po’ da tutta la possente figura: un indescrivibile misto di arbusti da bacca, legno bruciato, liquore. Gans stordito di fronte a quell’apparizione di leggenda, dimentico del padre a terra con l’accetta da pollame nella schiena, del fracasso di cose disintegrate tutt’attorno, reiterava l’ipnosi negli occhi del brigante, quegli occhi chiari incantevoli.
-buongiorno!
Gans spalancava la bocca, congelato, come sentir parlare un animale. Quella voce fin troppo giovanile, quasi squillante, sarebbe potuta provenire indifferentemente dall’uomo a pochi passi da lui o dall’atmosfera , dal cielo e la terra in cui stava lui piccolo e rattrappito. Due nuvole vagabonde avevano intanto affievolito la luce e il tepore del sole.
-vabbè…-, sorrise Dunker il brigante non sentendo risposta al cortese saluto -comunque, con chi posso parlare? Chi è l’uomo di casa? Lui?
Prese a dare colpetti discreti con gli stivali unghiuti alla testa morta.
-sveglia sveglia! No? Pazienza. Dopo tutto non c’è tanto da stare a negoziare.
Si schiaffeggiò dal petto della polvere che non c’era. Uscendo fuori dalla casa due alti uomini portavano appeso con le braccia alle due paia di spalle un corpo sciupato, che sembrava grondare aria e seccarsi, mentre le punte delle dita di piedi arrendevoli solcavano la terra.
-già finito?! Che ragazzacci incontenibili. Possiamo terminare anche le negoziazioni con la donna di casa, mi pare. Si direbbe proprio una di quelle belle giornate in cui si terminano in fretta.
Con passi frettolosi i due uomini portarono la madre di Gans al muretto dove si era appoggiato dopo colazione. Una mano grossa come una testa premette quella di lei sulla parete mentre l’altro la teneva tirando il braccio. Schiacciata sul suo profilo aveva un occhio spento, risucchiato del colore, rivolto al campo del lavoro domenicale. E pur impossibilitata a schermirsi dalla luce come suo solito poté distinguere, in pochi momenti di sole coperto, tre figure. Una stramazzata, l’altra in piedi, scura e terribile, e Gans. E all’improvviso l’occhio si ingiallì, quasi spalancato fuori dal cranio.
Uno strattone respinse i due uomini molto più forti, facendoli cadere. Lei si voltò velocemente e in pochi passi cadde in ginocchio, come gravata dal cielo, le caviglie inutili. Ma dal fondo del ventre, e attraverso la bocca nel volto deformato sotto la pezza e i capelli disfatti, si squarciò un raggelante grido, un pianto di terrore.
Diceva: “scappa, Gans.”
Gans non scappò. Dunker a grandi passi, cozzanti ma calmi, l’aveva raggiunta, mentre i seguaci ancora faticavano a rialzarsi. L’arma di Dunker il brigante non era una spada ricurva e seghettata, ma una specie di coltello tozzo e nero senza manico. Stringendo quell’orrendo artiglio tra indice e medio di una mano chiusa a pugno incise una riga orizzontale sulla fronte della donna. Il sangue scese placido, velando il volto in lacrime uniformi. La mamma cadde faccia a terra.
Gans non scappava. Il grido aveva detto di fuggire quando il padre era già morto, quando la casa era distrutta, mai più la stessa, estinta la vita di prima. Ciononostante, fuggire. Salvarsi, lontano da lì, lasciandosi dietro numerose carcasse, a marcire e scomparire. Anche le altre case sarebbero morte allo stesso modo, nient’altro che cenere di villaggio e campagna, le stalle le vacche la parrocchia, le carrube del vecchio Spalt e il vecchio stesso, e i sorrisi di ragazza di finti amori o di reali scherni, i compagni, le libellule, tutta cenere o maceria. Ciononostante, fuggire, sopravvivere altrove.
Gans ancora non fuggiva. Il padre era morto, la madre era morta, ma non pensava a questo. Pensava: “scappa, Gans”, l’apocalittica raucedine con cui quella gola disperata aveva lanciato distruggendosi da sola le sue ultime energie. E si chiedeva: “perché?”
“Perché?”, si chiedevano i briganti. Parte del divertimento stava anche in quelli che provavano a fuggire, e invece questo non si muoveva. Era la prima volta per loro, così convinti della falsità d’ogni trauma e paralisi, convinti che ogni essere nato in quel mondo brutale di ladri e prede tenesse alla propria salvezza più che a qualsiasi altra cosa.
Gans non fuggiva. Da un po’, senza accorgersene, aveva preso a guardare il cielo, la testa adagiata sul collo reclino. Poteva guardare diretto il sole dietro le due nuvole. All’improvviso tutto diventò bianco, e sentì un piacevole calore soporifero diffondersi per tutto il corpo, si immerse in uno sconfinato latte appena munto.
…
A eccezione del singolo pendio di roccia argentea alla base del quale Gans stava appoggiato, per metà riparato da una piccola insenatura, non c’era traccia di colline o rilievi d’alcun genere. Soltanto gli alberi fitti e numerosissimi spuntavano verso il cielo ricoprendo l’area di un mare verde scuro d’aghi e ombre. Anche Gans, pur non avendo occhi d’uccello che perlustrassero dall’alto la conformazione del territorio, poteva percepire l’irrimediabile piattezza del terreno. Sbadigliò, e la bocca gli si riempì di un profumo resinoso. Si affacciò: era una bella giornata di sole e sulla radura cinta di conifere non passavano ombre, nemmeno una nuvola in cielo, mentre eco di gracchi rochi degli uccelli selvatici saltavano fuori dalle cime degli alberi sparpagliati su varie distanze. Non li si vedeva alzarsi in volo. Pareva tutto fermo a eccezione del rumore dell’acqua. Affacciato sul prato, stava sporto con una mano aggrappata a un lato della parete rugosa. Volgendosi a essa, esaminava questo singolo rilievo. Di molte gugliette ruvide di bianchi e grigi anziani, alcune che si ricoprivano di muschio nei pressi della base; pochi alberi dalle forti radici si aggrappavano ad alcune pietre nei punti più alti, nutrendosi di nulla o di linfa silicea, mentre sulla cima, a meno di dieci metri d’altezza ma irraggiungibile per la ripidità del granito, riprendeva uniforme il bosco di conifere tutte uguali. Il massiccio rilievo ostruiva la vista su quel lato destro in fondo alla radura, lasciando soltanto presumere che lassù il bosco proseguisse ancora un po’ prima di riabbassarsi e tornare alla piattezza. Da spazietti circolari tra alcune rocce alte scendevano rivoli d’acqua, che rimbalzando sulle guglie più basse come su gradini di una scala, formavano una specie di ruscelletto di cascatelle dal sereno scroscio, culminante in una bassa pozza d’acqua che si allargava a formare come un piccolo stagno privo di vegetazione su un fianco delle rocce, stretto e lungo verso il centro della radura. Sulla superficie dell’acqua cumulavano e sparivano banchi cotonosi di vapore. Il rumore era piacevole. Gans, con la strana sensazione che quel rumore entrasse nel petto e lo massaggiasse, uscì senza fretta dalla sua nicchia, sentendosi come se non portasse nel cuore molte cose di cui preoccuparsi -nemmeno la solita voglia di mettersi a ricordare le impressioni raccolte. Prima di staccarsene, come a studiare da dove fosse venuto protese una mano ad accarezzare le pareti interne dell’insenatura. Era fonda giusto per farci entrare il suo corpo in piedi, larga quattro se stessi, alta tre, non certo una caverna. Passeggiò alla sua sinistra.
Non conosceva quel posto, ma era familiare per la somiglianza a certi posti di giochi nel boschetto vicino casa. C’erano lì alberi diversi, con i rami contorti e nodosi invece di queste tende spioventi d’aghi, con le foglie piatte e non sottili; ma molte delle sue radure assomigliavano a questa, accoglievano ruscelletti, le orecchie solleticate dai guizzi e i richiami attutiti nel fitto circostante, l’atmosfera tranquilla. Non ricordava come fosse giunto fin quaggiù. Forse le sue gambe ce l’avevano portato, seguendo un percorso da esse deciso, sconosciuto al resto del corpo. Poteva riposarsi, stendersi sull’erba e guardare il cielo. Prima, però, avrebbe passeggiato ancora un po’. Le ombre magre, schiacciate tra le file di tronchi ammuragliati, facevano pensare che difficilmente un essere umano potesse attraversare quel bosco.
Poco discosta dal massiccio, verso un bordo del bosco, stava ferma a riposare un’enorme ghiandaia, grossa quanto un cavallo. Gans non aveva mai visto un uccello tanto grande. Si poggiava alle zampe dal colore metallico, piegate quasi rasoterra, il placido corpo dalle soffici piume rosee, gonfio al ritmo del respiro. Il tondo occhio bianconero su un lato della testa vedeva Gans avvicinarsi e lo seguiva, pareva, con un misto di curiosità e disponibilità, perennemente spalancato. Gans seppe all’istante che quella era una creatura mansueta. Per l’impulso di darsi una logica a quanto vedeva, pur senza alcuna fretta (capiva di essere totalmente solo e, per qualche motivo, sentiva che ciò si legava a una minore importanza del tempo), si disse che doveva essere arrivato in quella radura lontana stando a cavallo della ghiandaia. Non poteva esserne certo, ma era una pensiero piacevole. Immaginandosi seduto in mezzo alle ali sotto un cielo che cambiava colore, chiaro e bronzeo e stellato, provò la serenità di un bel sogno fatto a notte fonda. La ghiandaia illuminata dalla luna attraversava il blu scuro fino a giungere a una nuova mattina, a una radura, e lo posava a terra. No, non poteva esserne certo, ma come avrebbero mai potuto le sue gambe portarlo lì? Diede un buffetto alle piume del collo, al che la ghiandaia non diede particolari cenni di apprezzamento o fastidio.
Gans si accorse di altre creature presenti nella radura. Voltandosi verso l’altro lato, vide su una riva della pozza un gruppetto di figure mai viste, con gli esili corpi di varie altezze tutti avvolti in una specie di mantello, dai piedi come le molte tubulari pieghe di un lungo vestito fino alle teste a cappuccio. Sembrava che i cappucci non contenessero nulla. Sebbene fossero palesemente degli abiti, allo stesso tempo pareva anche che quella fosse la loro pelle. In alcuni momenti, per insignificanti cambiamenti della luce, nella parte inferiore del corpo si assottigliavano, diventando quasi trasparenti, toraci fluttuanti su miraggi. Ma quando erano apparsi questi esseri? Forse si erano radunati lì mentre Gans osservava la ghiandaia.
-è sveglio.
-bene. Così chiariremo questa faccenda una volta per tutte.
-parli come il brigante…
-infatti. Hai fretta di concluderla, per caso?
-che sciocchezze. Non si tratta di fretta. Solo che, mi sembra, a discuterne tra noi non si riescono a formulare ipotesi sensate.
Parlottavano animatamente tra di loro in voci di bisbiglio, fruscii di foglie, rivoli di vento dalle fessure nelle porte. Gans, incuriosito, si sedette sull’erba davanti alla ghiandaia e ascoltava. Anche questa pareva interessarsi alla cosa: rimanendo al suo posto, girò il collo in quella direzione. Gans sbirciandola di sbieco ne vide il volto beccuto così attento e fermo da credere che comprendesse il linguaggio umano -ovvero, lo stesso usato da quelle bizzarre creature, nonostante il fruscio di sottofondo come se parlassero due lingue contemporaneamente.
-io voglio dire una cosa: cerchiamo di non essere troppo inquisitivi. Sapete benissimo a chi mi riferisco. Oh sì, avete capito bene.
-andiamo, cerca di capire anche tu. È una questione di legge.
-oh, certamente, è una questione di legge. Solo che adesso abbassano la testa, fanno finta di niente, come in tante altre questioni, e dopo alzano la voce.
-come? Dici a me?
-ah, io non ho chiamato nessuno! A chi la propria coscienza avesse qualcosa da rimproverare, che se la veda da solo.
-ah, è così?
-ma insomma, fate silenzio. Siete ridicoli.-, disse, con chiara volontà d’ordine, una voce più profonda, in cui anche il fruscio aveva movimenti più gravi e lenti, resistenti.
-cerchiamo di tornare all’importanza della cosa. Si tratta di un fatto insolito anche tra i vari problemi di legge.
Gans notò in quel momento che attorno alle braccia portavano legate delle catenelle sottili, un cui lembo pendulo impercettibilmente oscillava lungo verso terra. Subito pensò agli incensieri della parrocchia, che alcuni dicevano gli oggetti più preziosi fuori dal paese. Il bagliore opaco era lo stesso di quel falso argento rovinato. I manti erano diversi: alcuni rossi, altri bruni simili a legno, e soltanto tre con un manto particolarissimo, un nero-bluastro in cui vorticavano a velocità diverse minuscoli puntini bianchi; questi pur avendo la stessa forma ammantata mostravano contorni meno definiti degli altri, più simili a gas che a pieghe cuoiose di un panneggio. Intanto, tutt’attorno, si andavano radunando ad ascoltarli -con l’aria però di non capirci granché- tanti piccoli nanetti nudi, con la pelle grigiastra e bitorzoluta, i volti fissati su espressioni un po’ deformi. Panciuti o scheletrici, lenti o svelti, uscivano dal bosco chi barcollando chi arrancando scimmiescamente in balzelli rapidi e rannicchiati, altri ancora si levavano dall’erba come sassi all’improvviso fuor di letargo. Pareva che quella discussione tra esseri incappucciati, o anche soltanto il suono della loro voce, fosse di grande interesse per molte creature diverse.
-come procediamo?
-mhh… si può provare quella che chiamerebbero un’interrogazione? O interrogatorio?
-è uguale. Creature predisposte alle domande.
-o a reprimerle.
-o a reprimere.
-già.
-eccolo là, che ci guarda.
Tutti gli incappucciati si erano voltati dalla sua parte, e lo guardavano. Sentirsi osservati da molti occhi inesistenti e da quelli di piccoli mostri grotteschi era un’esperienza alla quale Gans non sapeva bene come rapportarsi. Stranamente però non si sentiva particolarmente minacciato, e rimase com’era a guardarli, titubante nel puntarsi un dito come a dire, “chi, io?”, disponendo in un cerchio perplesso le labbra ancora troppo infantili.
-allora…-, cominciò una voce alla sua destra. Per la prima volta da quando era arrivato Gans sussultò per qualcosa di simile a uno spavento. All’improvviso uno di quelli, un rosso, gli era apparso affianco! Eppure non gli era parso di vederne qualcuno muoversi o dileguarsi. Era certamente presente nel gruppo, ma eccolo là.
-tu capirai, ovviamente, la nostra preoccupazione. Oh, no, non allarmarti! Forse non dovrei nemmeno dire preoccupazione, in effetti. Sappi che per voi è una parola più forte di quanto lo sia per noi.
Come sospingendolo dalla schiena lo conduceva verso il gruppo alla riva della pozza. Dietro di sé sentiva i passi ruvidi della ghiandaia che si era finalmente alzata e lo seguiva, cosa che era indeciso se leggere come una conferma della fedeltà nei suoi confronti, che istintivamente aveva percepito dall’animale, oppure qualcosa di bizzarro che stava accadendo, queste nuove attenzioni da tutti i presenti.
-ah, prego, mettiti come preferisci.-, sussurrò piano uno, con sibili da vecchietto. Gans sedette a gambe incrociate sull’erba e la ghiandaia poco dietro si posò esattamente come stava quando l’aveva trovata, soltanto ora spostata in un punto più avanti della scena piatta e verde.
-bene. Ciò che non riusciamo a capire è come mai tu non sia fuggito.
-sì, esatto. Ora, non fraintendere: non è certo la prima volta che accade una cosa del genere. Sai quante volte, il terrore, la confusione… certe creature si trasformano completamente in seguito ad alcuni eventi, tragedie direste, e possono addirittura perdere l’anima.
-ma qui è accaduto qualcosa di strano. Noi, spiriti di varie forme, certe cose siamo capaci di capirle.
-forse, e lasciatemi intervenire perché per la mia esperienza conosco bene i pargoli, dicevo forse hai bisogno che ti rassicuriamo su una certa cosa, e cioè che se hai forse pensato che non siamo altro che una massa di ficcanaso e che faremmo proprio bene a dare una spiegazione, sappi che non è così: noi ci occupiamo di numerose cose, di vedere come vanno in natura, e i nostri interventi sono indispensabili, anche quelli che facciamo proprio su di te, pensa. Quanto alle spiegazioni, ci curiamo solo di darcele e non di darne ad altri.
-mai date, e non c’è ragione perché dovremmo iniziare a darne proprio oggi.
Oggi. Che giorno era oggi? Parlavano uno dopo l’altro e Gans ancora non sapeva di cosa. In quel momento apparve ancora un’altra creatura. Questa era serpentiforme, lunga e bianca, dimorava nella pozza d’acqua fresca. Il testone oblungo dell’enorme anguilla albina emerse grondando rivoli fitti, mentre attraverso la superficie azzurrina e in parte trasparente si vedevano le spire immerse districarsi sul basso fondale per una lunghezza mai vista. La piega della mascella le conferiva un sorriso perenne, reso vispo dalle biglie argentee degli occhi. Con il vapore che aleggiava come fumo rasente la pelle umida, aveva un certo aspetto draconico.
(non sono fuggito, hanno detto?)
-stai tranquillo, non hai perso l’anima.-, disse uno, ammantandosi di una specie di tentativo di empatia, per aver confuso la perplessità di Gans con un timore -e proprio questo è strano.
-ricorderai bene cosa è successo, no?
Ricordare. Era una cosa in cui era bravo, ci era abituato: non credeva che qualcuno gli avrebbe chiesto di farlo. Soltanto in quel posto, fino a quel momento, non gli era venuto spontaneo. Ma ecco che, rovistando nella mente, si mostravano tante informazioni. Tra queste, anche la morte, l’apparizione di un brigante famoso di numerose leggende, che in realtà era diverso e per certi versi molto più spaventoso. Mentre ripercorreva molti eventi sparsi, vide baluginare gli occhi dell’anguilla e soltanto allora capì istintivamente e di fretta che si riferivano a quanto accaduto quella domenica mattina.
-sì.-, parlò Gans.
-questo è positivo: può anche succedere che simili cose si dimentichino. Dunque ricorderai anche che non sei fuggito.
-davvero?-, chiese Gans. Tutti gli incappucciati con fare concitato cercarono reciprocamente i propri volti senza espressioni, come fossero sbalorditi. Ai loro piedi i nanetti erano indifferenti a tutto, seguitavano ad ascoltare senza capire, senza che le boccacce dessero segni di cambiamento.
-dunque tu credevi di esser fuggito?
-non lo so. Come sono arrivato qui?
Ebbe l’impressione che le pieghe della pelle-mantello sulle loro spalle si afflosciassero, come per una delusione. Il tono dei sibili era tornato neutro.
-dunque è solo questo. Ma come potrebbero le tue gambe portarti qui, seguendo un percorso da esse deciso, sconosciuto al resto del corpo? Il tuo corpo qui non potrebbe giungere, se non fosse qualcos’altro a volerlo. Ma non sentirti prigioniero per questo, la questione verrà chiarita subito e poi non è che nelle tue condizioni avessi molto altro da fare.
-noi parlavamo di quello che è accaduto prima che comparissi in questo luogo. I tuoi genitori sono stati uccisi davanti ai tuoi occhi. Anche il cane è scomparso, la tua casa è stata depredata. Potevi fuggire, potevi tentare di farlo. Ma a fermarti non è stata una paralisi: tu eri in grado di pensare, di fare qualunque cosa avessi voluto. Probabilmente ti avrebbero comunque catturato per divertimento, o ucciso mentre fuggivi; ma non era nemmeno impossibile che riuscissi a seminarli e infilarti in percorsi dove quelli a cavallo non avrebbero potuto seguirti.
-è vero o no, che non lo hai fatto perché non volevi? Se te lo ricordi, vorremmo capire.
Gans stava pensando che, in effetti, quandanche fosse arrivato in quella radura a piedi, non avrebbe trovato un motivo sensato per farlo. È vero, assomigliava alle radure che frequentava con i compagni di giochi. E allora? Non avrebbe mica potuto vivere una vita solo di quello, e in attesa di cosa? Dovevano essere giochi da intervallarsi all’esistenza. In questa c’era un punto fermo, c’era una casa, che si trovava in una certa zona, circondata da certe campagne, non lontano da un certo paese. La mamma gli aveva detto di scappare, ma per dove? A fare veramente anche lui la vita di un brigante, di un girovago che è svelto di mani e di testa, diversamente da lui che da qualche tempo non capiva più nulla, aveva sbalzi di umore, era distratto, troppo debole o troppo energico… una vita senza fantasticherie, senza un letto a cui tornare per sognare sotto i lari. Cosa dire a questi esseri che lo interrogavano?
-non lo so.
-no, allora, ascolta… come si può fare? Oh, ecco, senti un po’: non hai pensato niente quando ti sei visto apparire di fronte Dunker il brigante, quel mostro uscito da una fiaba spaventosa?
-ho pensato che fosse molto brutto, eppure i suoi occhi erano bellissimi. Non l’avevo mai pensato di nessun uomo.
-bene. E invece, cosa hai pensato quando tua madre ti ha urlato: “scappa, Gans!”, in un ruggito disperato?
-ho pensato: “perché?”
Tutti in silenzio. Solo il rumore dell’acqua, rami lontani. Perfino i nanetti, che non si stavano mai fermi, di colpo si erano bloccati. Poi, delicatamente, ricominciarono i primi sussurri, le prime confabulazioni.
-potresti spiegarti meglio, Gans? Posso usare il tuo nome umano?
-non so, dovevo fuggire?
Di nuovo silenzio. Gans cominciava a sentirsi in ansia. Non credeva che lì gli sarebbe successo. Già prima si era preso uno spavento vedendosi comparire accanto quel rosso appartenente a una razza di incappucciati senza corpo che avevano parlato di legge.
-…mi metterete in punizione?-, chiese innocentemente.
Non risposero, ma chissà come, fu convinto che fosse semplicemente perché non avevano capito. Sembrava che la “legge”, per questi esseri, non fosse qualcosa da far rispettare, ma soltanto da comprendere. E poteva darsi che qualora non fossero riusciti a comprendere qualcosa, sarebbe crollato un qualche equilibrio. Chissà, magari erano tanto preoccupati proprio per un’evenienza del genere.
-il ragazzo non è sotto shock, ma è un enigma vivente.-, disse un marrone. -voi che suggerite?-, e si rivolse a quelli con il manto particolare, sempre in movimento. Quelli si guardarono e non dissero niente, facendo udire solo il loro peculiare fruscio. Sembrava polvere scrosciante in cui si mischiavano parole borbottate in un linguaggio senza senso, fatto per gioco. Si sarebbero detti più goffi degli altri, meno integrati.
-in questo caso, dobbiamo ricorrere ai suoi poteri.- i due più alti del gruppo dei rossi indicarono l’anguilla albina. Tutti si misero da parte, esortando i nanetti a levarsi dai piedi, e lasciarono sgombro quel lembo di riva. I due stettero come sentinelle ai suoi due estremi, mentre al centro dell’acqua l’anguilla si alzava, agitando la coda come a dire a Gans di avvicinarsi. Gans si voltò. La ghiandaia non faceva niente. Avanzò titubante e quando fu sotto all’anguilla inarcuata su di lui, ai lati i due rossi fecero penzolare le catene riflettenti la luce e spalancarono all’improvviso enormi ali chiare, come apparse dal nulla, laceranti il dorso. Le piume erano tutte sporche di una sorta di gelatina rossastra, come fossero sgusciate da un involucro carnoso. Cominciarono a recitare cantilene fruscianti a bassa voce. Doveva essere un rituale ben preciso. Uno gli disse, “guarda l’anguilla…”, prima di continuare.
L’anguilla, l’espressione sorniona, parve annuire a Gans, incoraggiandolo. Abbassò il muso verso la superficie dell’acqua che, in un movimento rapido eppure delicatissimo, sfiorò appena con un lembo trasparente della pinna anale, sulla punta della coda. All’interno degli svelti cerchi concentrici apparve un pallore traballante, dal quale si levò come vapore il busto incorporeo di sua madre. Il volto che aveva conosciuto, i seni nudi per metà scomparsi sott’acqua insieme al resto, era della stessa trasparenza della pelle di pesce, di un odore dimenticato. La luce si rifrangeva attraverso di lei e ne era del tutto indifferente. Non alzava il braccio per schermirsene. Lo guardava immobile, senza espressione nel volto, con occhi d’aria che non avevano necessità di sbattere palpebre. Gans cominciò a sentire un’insolita fretta di andarsene.
-figlio mio. Perché, nel momento peggiore della mia vita, quando con la forza più grande conosciuta alle creature viventi io ti ho chiesto di fuggire, tu non lo hai fatto?
(chiesto?)
Il timbro vocale più familiare, privato di qualsiasi modulazione d’umore o intenzione.
-perché non capivo perché. Dove potevo andare? Mica potevo starmene come qua, a sopravvivere senza dover far niente in una radura come quelle che mi piacciono tanto. Al riparo in una nicchia. Quindi, perché?
-perché se fossi fuggito non solo la mia vita avrebbe avuto un senso, ma anche la mia morte. E credimi, figlio, sperimentare come ultimissima cosa l’ineluttabile insensatezza della propria morte è stata la cosa più terrificante, la peggiore di tutte. Peggiore della violenza subita.
Dunque era così. Secondo quelle parole, un po’ complesse per una contadina e mai così sincere, non importava cosa avesse fatto una volta fuggito. Poteva anche provare e poi morire, un cadavere in mezzo ai rovi del bosco all’improvviso è così diverso da due cadaveri su un campo arato, vicino a una casa. Era fastidioso il tempo in cui sembrava che costringere i campi a tirar fuori piante da mangiare fosse la cosa più importante del mondo, ma questa cosa era scomparsa: scappare, fare un altro campo da qualche parte, lontanissimo da lì, da quella distruzione insensata? Era lui, era quella vitalità in cambiamento che tutti accoglievano sorridendo, a quel punto, la cosa più importante del mondo? Forse, come per tutto il resto, “era solo il suo corpo che cambiava”, ma insomma a causa di qualche ormone che gli era nato dentro Gans non poteva accettare né sopportare una cosa del genere. Conobbe una furia mai provata e si limitò ad arrossire, stringendo i pugni impotente all’ombra di un anguilla che spuntava da una pozza, in mezzo a incappucciati e mostriciattoli.
…
Avevano tutti continuato a discutere. Ora anche là sembrava che il tempo passasse, Gans non avrebbe saputo dire da quanto. Ma in cielo c’era qualche riflesso arancione, qualche striscia di nube scura, finalmente. Gans si era sdraiato sull’erba, davanti alla ghiandaia. Con un braccio teso la raggiungeva, accarezzandole ossessivamente le piume, con un sorriso ebete nel volto fisso sul cielo. Quella lo lasciava fare impassibile. E intanto la questione che doveva chiarirsi subito, a quanto pareva, era ancora animatamente dibattuta. Ma a lui che importava?
-e allora, lo si lascia andare così?
-perché, che vorresti fare?
-intervenire, fare in modo che…
-oh, per favore. Uno spirito uccello di bosco, lo spirito di un insulso ruscelletto estinto, guardiani che nemmeno riescono a capacitarsi di quello che succede. Che bella assemblea che è stata.
-oh, quanto vorrei avere i poteri di quelli che sapete voi…
-è proprio vero che l’invidia è la prima caratteristica della nostra sfera d’esistenza.
-vi prego, basta con simili scemenze. Non siamo riusciti a capire.
-e che c’è da capire ancora? Lo hai sentito, e ora guardalo.
-ma come, questo qua dovrà pur fare qualcosa! Sapete bene che questo non è posto in cui gli umani possano stare in eterno.
-e forse abbiamo incontrato un’eccezione.
-è impossibile…
-forse è semplicemente uno scemo. Ecco, prendiamo esempio dagli umani: quando un problema è veramente troppo complicato, diciamo che è scemo e archiviamo.
Gans toccava la ghiandaia e facendo scorrere dalle dita fino al cervello quella sensazione morbida ci si costruiva una bella immagine rilassante. Era lui che in sogno volava nel cielo notturno, sulle ali della ghiandaia, sotto la luna, sotto le stelle, e per sempre viaggiava così. Perfino quei tre spiriti dal corpo di stelle comparivano nel cielo, fluttuando e sparendo, vorticando. La luce era blu e bianca e nera, fresca d’acqua placida. Pensava un campo, il frutto della terra e del lavoro dell’uomo: via, sciò, staccava una penna dalla schiena e la gettava nel vuoto sotto di lui, niente più campo. Pensava a un uomo simile a un orco che scannava e distruggeva: un’altra penna, via anche lui, e via anche gli insetti che si scannano nell’erba. Il cielo che stava cambiando colore in quella radura: via, puoi cambiare colore a mio piacimento.
La calma della radura sotto la luna piena era assoluta. Forse gli spiriti erano tornati tutti invisibili. Nulla si muoveva sotto la membrana dell’acqua bassa, non c’erano protettori del praticello né guardiani dell’ordine. Gli uccelli diurni ormai tacevano, e Gans, il corpo sdraiato, agitava un braccio nel vuoto.
Comentários