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l'uccisione commissionata al samurai

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 28 apr 2022
  • Tempo di lettura: 12 min

C’è un inserviente anziano che corre in corridoio e, tutto sommato, non dovrebbe proprio farlo. Le caviglie sono malconce, se si fa male cadendo rischia di sentire ancora più male quando muore, e tempo addietro si era detto che si sarebbe impegnato per morire in maniera così indolore da non accorgersene quasi. Sentendo soltanto alcune aree circoscritte del corpo e molti gruppi di nervi spegnersi, per un risucchio d’energie di causa ignota. Probabilmente non si era accorto di avere lui stesso molti dubbi riguardo a questo desiderio, mentre lo desiderava.


In ogni caso continua a correre, ha un’urgenza. Non inciampa, se la morte decidesse a momenti di aprirgli davanti un tunnel di tenebra ed esortarlo a sparirci dentro, lui lo attraverserebbe senza fratture alle ossa. Proprio niente male.


Arriva alla finestrella che dà sulla piazza, e afferma, quasi gridando: “io, nel tempo concessomi, vorrei soltanto cercare di essere il più logico possibile”. Dice questo e si accascia al davanzale, si prepara a parlare. Accasciarsi diventa un gesto da oratore, il fiato necessario ad articolare i pensieri in forma rumorosa è una delle varie cose di cui le membra si sgonfiano nel sospiro. È stanco e sembrerebbe in grado di piangere lacrime di mercurio da ogni cellula, da ogni ruga, ogni imperfezione della pelle. Prima d’aprir bocca fa senza accorgersene una smorfia che somiglia a un sorriso sofferente.


Allora, io in questa piazza ci ho visto un samurai, comincia. Ora, i passanti possono anche indignarsi, crocifiggere la contraddizione appena scaturita dal corpo fatiscente di un inserviente anziano, che forse è in fin di vita, o che semplicemente non ha molto tempo per esporre la sua tesi alla finestrella che dà sulla piazza. Quelli pensano ai fatti propri, passano per i portici, con ombrelli e borse e le loro ombre dietro che li imitano. Si sentono dire che un samurai che vagabonda nella piazza della loro città normalissima fa parte della logica, e questo li sconvolge -almeno potrebbe farlo teoricamente se decidessero di curarsi oltre una certa misura di questa affermazione, l’affermazione di chi è probabilmente un pazzo. Non lo fanno, non ascoltano. E non è pazzo, è molto logico: il vecchio sa, avendo vissuto in quella città per molti giorni e conoscendone i portici quasi come i corridoi dei suoi doloranti orifizi, che la logica dentro il cervello della città prende proprio la forma di tutti questi cittadini. Dei cittadini e delle cose che essi racchiudono nei confini della propria sagoma indaffarata, consumata, abituata. Il loro affrettarsi immerso nei fatti propri, per recarsi nei luoghi dei fatti degli altri. I loro volti che scompaiono, rarefatti sempre più e imparentati, nell’inafferrabilità di forma e colore, alla nebbia che in certe mattinate fosche sale a profusione dai navigli e dal fiume, che sta in periferia, lontano là fuori a proteggere la città come un nume benevolo imbevuto di storia. Queste sono alcune delle cose che compongono i cittadini, anche quelli che non si sentono tali, e tutti i passanti, e tutti quelli che si ritrovano inglobati nei confini un tempo definiti dal suono della campana. Affacciato a una finestra, qualcuno li osserva: ha lavorato come inserviente negli uffici del centro, pulendo la sporcizia dei corridoi, soppesando sui polpastrelli la consistenza delle numerose specie di polvere e sapendole degne di esistere tanto quanto è degna d’esistere la loro eliminazione. C’è un vecchio del genere che ha vissuto a lungo dentro i confini, ha potuto studiarne la grammatica. Nella mano in decadenza, tra spasmi e rifluire di innumerevoli grinze simili ad aghi di pioggia che nascono e scompaiono, stringe un foglietto che ha certamente i bordi strappati, ma la frase che c’è scritta dentro è precisa -qualsiasi cosa scritta è precisa, passibile di analisi grammaticale, questo vorrebbe dire l’inserviente. E dicendolo le sue narici, forse per suggestione, si riempiono di un aroma come di pergamena, e del suo colore paglierino. Una sfumatura che, dando rifugio agli inchiostri depositati a tracciare alfabeti, li rende quasi prodigiosi, crede. Crede anche di assomigliare quasi a un maestro, si rivolge ai suoi alunni.


Ha studiato questa logica, e sa che anche ogni obiezione o contraddizione che costoro, i blocchi singoli, portano dentro, ne fa parte. C’è un discorso che la città sta facendo. Quelli che stanno dentro di lei, fanno dei discorsi a loro volta, che si mescolano a tutto un meccanismo grande e difficile da vedere. Si dovrebbe possedere il volo degli storni impazziti in questi giorni, e veder dall’alto la topografia urbana che dentro l’occhio viene rimesciuta dall’incessante vorticare per l’aria. Si trasmette ai microscopici ricettori del visibile, lo trasforma in un intrico di linee confuse, testimoniante il movimento, eppure capace di mantenere in sé una perfetta parvenza di funzionalità. Questi scarabocchi di viuzze e canali ritracciati di continuo sono vene di un marchingegno che vive, che non ha fallacie. Considerato che queste sono le premesse del pensiero del vecchio, la sua dichiarazione d’intenti sembra promettere una concretizzazione ineccepibile, elegante, come i cappotti che molti dei passanti indossano. Sì, anche quello che indossate fa parte del nostro tutto!, esclama dentro sé ricordandosene all’improvviso. Gli abiti e le scarpe cigolanti subito spariscono dalla memoria, diventano anonimi pezzi di stoffa e di cuoio. Alla stessa maniera dei vecchi, è un proliferare di grinze, pieghe e usure, a dar loro un’anima. Poi spariscono. Esclama dentro sé che queste robe aderenti alla pelle sono preposizioni, congiunzioni -l’esatta classificazione è meno importante del fatto che siano classificate. E ai vestiti che compaiono e vengono acquistati e ricoprono i corpi precede, protetto da muraglie di fronti più solide dei mattoni medievali della zona detta “città vecchia”, un intento, quello che decide che sono necessari. Il sistema interno funziona alla perfezione, nutrendo quello esterno. I nostri avi benedicano tutti voi -questo è un messaggio nascosto nelle parole di chi afferma di voler rendere omaggio agli altri, desiderosi di coerenza e sicurezza, con un’offerta di quella stessa logica.


Comunque, c’è da precisare che nessuno dei passanti si è fermato ad ascoltare. Vanno tutti avanti, qualche orecchio raggiunto da qualche rantolo che potrebbe rimanere incastrato nei pensieri e tornare a disturbare in un altro momento. Ma molti discorsi che interessano al vecchio per la loro coerenza interna sono caratterizzati dal fatto di attribuire eguale importanza all’ipotetico -tra cui una fantasia di venir ascoltato- e al modo in cui effettivamente i cittadini/blocchi decidono di dar forma concreta agli impulsi che provengono loro dall’interno, e da un interno collettivo.


Un cervello sepolto da miglia di molti gelidi e oscuri strati sottostanti marciapiedi e fognature ridacchia soddisfatto quando sente su di sé, al livello degli strati superficiali della pavimentazione, il vecchio che scalpita e col tono bavoso si dice pronto a “dichiarare”, lì al davanzale. Dove fa fuoriuscire da un buco direttamente collegato al buio dentro al proprio corpo un “intento”. Cervelli del genere amano l’entropia causata delle opinioni che inquinano l’aria. Ne traggono un godimento ancor maggiore, quasi volgare, quando hanno una lunga stagionatura. Perché si è vecchi, e perché la propria opinione la si è taciuta a lungo.


Dice, l’inserviente anziano, che una mattina si è svegliato presto, nell’aria c’era qualcosa che non era la nebbia, tanto conosciuta, presente nelle leggende fondative. La nebbia urbana: potrebbe sembrare inconsistente, una tristezza biancastra che si leva senza preavviso e confonde ogni forma con la sua carne di spettro. Ma è importante: si potrebbe prendere un qualsiasi stendardo rappresentativo della città e ridisegnarlo per farne un’effige nebbiosa. Un grifone di nebbia che stringe nella mano una triforcuta foglia di menta spargente nubi ghiacciate dalle punte a ricciolo. Una madonna di nebbia sulla cima della chiesa, gli arti adagiati ai fianchi con poca apertura alare per dare un mezzo abbraccio stanco ai tanti fedeli di nebbia che la pensano, la attaccano ai frigoriferi. Un cristo lacustre che emerge dai flutti durante la sua passeggiata galleggiante e la fa coincidere alla sua futura apparizione ai discepoli, spettrale. Molte cose sono scolpite e disegnate nel centro storico, e le si potrebbe rifare da capo adoperando una sostanza che esiste nell’aria, e non si estrae dagli strati della roccia. Ideale per comporre ciò che ha nella mente il proprio habitat originario.


Ma il punto è -il vecchio ci tiene ai suoi punti- che quella mattina non c’era stata alcuna nebbia: era una cosa simile nel suo effetto, ma l’aria era limpida. Grigiastra, la notte era scomparsa ma i bagliori dell’alba non erano ancora giunti a riempire i corridoi del vento, rimasti vuoti. C’erano il buio e la luce, il loro meticciarsi obnubilante e ipnotico simile a un fenomeno luminoso o emotivo (emotivo??) visto una volta in un sogno, e un’altra in un incubo. Erano quegli istanti al confine del mattino, apparentemente incolori, coi colori che invece si moltiplicano e all’istante si nascondono, similmente al rinchiudersi di tanti timidi boccioli quando passano l’osservatore e il freddo. C’era silenzio, c’era qualcosa di granuloso e impalpabile nell’aria che pure appariva vitrea. L’anziano inserviente aveva concluso in quel momento che doveva esistere un tipo di nebbia completamente trasparente, manifestata proprio a lui, che si era svegliato presto. Seppe che questo è l’effetto che la freschezza può avere sulla mente riposata, seppe che ogni cosa che si vede non è altro che un messaggio interiore e un riflesso di ciò che accade all’organo scaltro custodito nello scrigno del cranio. Ricordò che in una lontana infanzia aveva sognato se stesso stringere la mano agli antichi patriarchi della città, che signorilmente sollevavano i piatti delle offerte sacrificali e intessevano sugli arazzi le sagome dei simboli della casata. Gente che attribuiva grossa importanza al cervello, e il vecchio -allora bimbo- fantasticava che da questi illustri fosse riconosciuta la sua perfetta appartenenza, in tal senso, ai veri discendenti di un vero spirito che aveva continuato a dimorare nell’architettura di quel luogo ben preciso sorto sulla terra. Anche raccontando, il vecchio china il capo con ossequio e umiltà, vinto interiormente dall’intensità delle emozioni che quel sogno gli aveva procurato un tempo. Un vero abitante, commosso e orgoglioso e prossimo a morire, e a discendere verso un nulla dove, per quanto si sa, non esiste chiarezza, solo regole stabilite da un buio sconosciuto con un linguaggio sibilante. Quando avrebbe ascoltato quelle nuove regole? Ci si sarebbe adattato con la stessa convinzione che sfoggiava in ossequio alle regole della città, della vita? Commosso orgoglioso e terrorizzato, raccontava e forse qualcuno per pochi momenti (e per sbaglio) ascoltava, poi se ne andava, a commuoversi e disperarsi altrove.


Insomma, nella nebbia invisibile e inesistente, era apparso un samurai. Rinchiuso a ostrica nel kimono grigio-bluastro, girava sotto le stesse bocche di portici che come tanti occhi avevano continuato per tanti giorni a fissare coloro che si svegliavano davanti alla piazza, per farsi poi attraversare dagli incessanti movimenti quotidiani delle folle, dei lavorii, del trambusto. Non c’era nessuno, nemmeno gli uccelli, solo un samurai. Si vedeva la capigliatura lunga, tenuta legata in un tumore sfilacciato dietro la nuca, e le braccia raggomitolate all’interno delle folte maniche. Una singola spada pendeva dalla cintola e strascicava a volte con la punta sui sampietrini sporgenti, sui lastroni e sugli scalini della fontanella, dove era salutata dalle bocche guizzanti di mostruose statue ittiche destinate a sputare per l’eternità flutti cristallini tintinnanti di gocce. A volte saliva un fracasso, di spada e dei geta che seccamente cozzavano con la solenne durezza marmorea del suolo metropolitano, civile, denso di storia e prepotenza nobiliare (così ripugnante, ma irrinunciabile anche per coloro che vorrebbero invertire il flusso della storia e sabotarla. Così almeno pensò l’inserviente alla finestra che da solo in tutto il mondo conosciuto guardava il guerriero ignaro). Certo, il samurai non aveva indugiato troppo vicino alla fontanella, al monumento a forma d’obelisco, alle statue dei prodi all’angolo tra i portici e il corso. Aveva da fare, da cercare, cercava un padrone che gli affidasse un’uccisione volta a ristabilire un ordine catastroficamente perduto -si intuiva benissimo da pettinatura e portamento che era un rōnin e vagava chissà da quanto, giungendo infine in quell’importante città. C’erano nei suoi indumenti la pioggia e il vento, c’erano la lunghezza del viaggio, gli ululati uditi per via, la pazienza di ore silenti. Bene.


Ma ciò che aveva colpito il vecchio, e che gli poteva permettere di rinvigorire la sua visione del mondo, anche alla sua tarda età prossima a estinguersi insieme a tutte le teorie che aveva partorito e amorevolmente nutrito, era il fatto che mentre questo esoscheletro fatto di kimono e spada e geta e capelli era solido e certamente tangibile, stava in faccia al samurai un volto opacizzato. Una macchia color pelle, o nero, o grigio: cangiava pur rimanendo immobile, e trasmetteva la sensazione della testa ovoidale e priva di scanalature di un manichino ligneo, di quelli usati dai disegnatori. In sostanza, si trattava di un volto identico a quello di tutti i passanti e cittadini, i blocchi del mondo conosciuto.


Il vecchio volle affermare, continuando la sua storia e descrivendo con precisione i movimenti da vecchio felino flemmatico che il samurai aveva fatto da quel momento in poi, che ciò che nella città si manifestava per il volere del cervello della città, ne era indiscutibilmente parte. E doveva certo recare una traccia sempre riconducente a un fatalismo geografico, vergato come ferita da arma bianca fin nel profondo, in un posto oscuro e destinato a far funzionare il destino. Qualcuno dei passanti senza volto, forse, avrebbe riso senza bocca, a pensare c’erano ancora simili vecchi convinti di certe cose, incuranti di apparire così incredibilmente ingenui.


(Nella mente ipnotizzata da se stessa una statua prendeva vita, si alzava dai leoni e i draghi gotici rannicchiati a proteggere le colonne. Con un balzo agile e più veloce del vento il samurai sfoderava la spada, e dal torace di candido marmo d’un altro individuo si sprigionava uno zampillo rosso quasi nero, e il sangue macchiava con ticchettio di pioggia gli spettatori. O meglio li marchiava. Scendeva nelle vesti e nella pelle, si mescolava al sangue custodito diventandone parte. Il bagliore della katana sfoderata era ciò che erano venuti ad ammirare, più splendido del sole, capace di uccidere solo venendo visto. C’erano, nell’antichità venerata, miti ispiratori di continenti e mondi interi in cui era stato narrato di mostri capaci di fare proprio quella cosa.)


Pare che il samurai, dopo aver gironzolato un po’ per la piazza, avesse cominciato ad allontanarsi, senza alcuna fretta, mantenendo un ritmo quasi costante nell’andatura lenta e in qualche modo claudicante. Un’aura rilassata lo circondava. Eppure portava una spada, e un volto illeggibile, e una capacità di fendere e ferire che era intrinseca in tutti questi aspetti, come riverberi di fredda luce incastonati nel corpo e l’anima trasparenti di un antico ghiacciaio. Il freddo, il freddo anche si era depositato negli indumenti del rōnin che aveva attraversato la vasta pianura per giungere alla città che di lei faceva il simbolo, l’incarnazione. E che all’interno dei suoi confini faceva comparire altri e nuovi e personali simboli, funzionanti dentro le mura. Il vecchio inserviente non sapeva se anche quelli fossero a loro volta simboli appartenenti comunque alla pianura, che si suddivideva in più discorsi diversi ognuno consistente come mondo a sé stante. Oasi sul lungofiume, pioppeto, cava, frazione con una stazione più piccola, aeroporto distaccato, città grande. Quanto a lui, non conosceva che quest’ultima. Come fosse un filosofo alla piazza -di quelli delle letture giovanili degli illustri signori del passato che in sogno lo avevano accolto- declamava, ma lo faceva a una finestrella di un ufficio, un’ex-bottega, affacciato come tante altre piccole e ombrose stanze alla piazza che cominciava a riempirsi di movimenti. Tutti così futili e incomprensibili, ma no, doveva per forza esserci una logica, perfetta come quella di un discorso noetico: era costituita dall’assenza dei volti, dall’anonimato e dall’effimero che scorrevano in tutte le cose che scorrevano, rinnovate come l’acqua polverosa e marroncina dei navigli, e quella limpida dalle bocche dei pesci della fontana.


Il vecchio che conosceva solo la città -e del cui spirito era un grande emissario!-, se n’era stato a osservare il samurai, diretto ai portici, sparito dietro un angolo per andarsene al corso. Avrebbe trovato un daimyō locale disposto a dargli ospitalità, e ad ascoltare la storia di come il suo precedente signore era stato eliminato da corrotti complottanti sfuggiti alle indagini dei funzionari dello shōgun? In città c’era poi, senza dubbio, qualcuno senzavolto desideroso di vedere un altro senzavolto di propria conoscenza col torace spaccato in due da una ferita d’arma bianca, stillante sangue e linfa densi come latte di cocco. Questo il samurai l’avrebbe potuto far accadere in cambio del denaro locale, anche se non sapeva leggerlo. Era così che funzionavano le cose in città. E il samurai c’era dentro, ne era ingoiato. Aveva deciso di andarci a spasso dentro. La mattina era giunta, i bagliori si aggiungevano a quello strano fenomeno meteorologico che aveva preceduto l’alba. Anche questo sparì, non lasciando alcuna traccia, più sfuggente della nebbia più autentica di quelle parti. Solo il vecchio se lo ricordava ma ancora non conosceva la grammatica per spiegarlo, e forse non aveva più tempo per apprenderla. Le cose cominciavano a riversarsi nel luogo rimasto abbandonato dal samurai, si udivano tonfi, echi di schiamazzi, lavori e braccia in movimento. Ombre d’uccelli sorvolavano fischiando le protuberanze rocciose dei monumenti, statue sulla fontana, patrimoni storico-artistici. Mostri in movimento si preparavano a sferragliare, e orchestre di rumore a suonare. I primi passi attraversavano la piazza per arrivare da tanti “punti a” a tanti “punti b”.


Il vecchio racconta e nella stessa posizione di quando guardava il samurai, con il mento appoggiato alle braccia incrociate sul davanzale, vede passare davanti alle sue pupille offuscate gli abiti, le sagome umane, che hanno qualcosa di così disumano. Concluso il racconto, con un bel punto alla fine, si addormenta in questa posizione. Il sole comincia a splendere più forte di prima sulle architetture e un chiacchiericcio stordente sembra gonfiarsi inosservatamente da ogni direzione, da ogni buco e cavità, persino quelle del proprio torace o delle fogne che indisturbate aprono portali oscuri sotto ogni marciapiede.


Tutto ciò sottoforma di scura nebbiolina penetra all’interno del pensiero del vecchio e ne culla i contorni, ricordandogli serenamente il ritmo di certe canzoni dialettali dall’andamento quasi militaresco ascoltate tanto tempo fa. Allora sentiva che erano capaci di tonificargli i muscoli, dare armatura e scudo e stendardo ai turbamenti dello spirito. Nelle narici viene un odore di paglia e legna, accatastate nel casale dove echeggiavano le voci ubriache, poi accatastate nella memoria e qui arricchite di nuovi profumi. E a un certo punto il vecchio che porta tutto questo in sé non vede e non sente più niente.

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