Jazz di nuvola/colline
- Milky
- 28 mag 2022
- Tempo di lettura: 13 min
Sto pensando ai cammelli quand’ecco che giunge una musica inaspettata. Cammelli apparsi nella mente senza preavviso, e senza preavviso irrompe una musica. I rami che mi sfiorano ripetutamente la testa vibrano, le note entrano in quel verde che esce fuori dalle foglie e riverbera mescolato ai residui del sole sopravvissuti alla coltre d’ombra.
Questa musica è una giustapposizione che avrei considerato errata. Quegli errori che la vita, l’esperienza reale commettono costantemente, perpetrando i principi violenti del caso. Giustapposizioni che non si confanno al gusto mio o di qualche altro immusonito cammelliere. Ecco che le giustapposizioni diventano triplicemente sbagliate: questo viale con questa particolare luce a questa particolare ora, il Jazz che con questo insieme di cose non c’entra niente, e i cammelli che c’entrano meno che niente.
La brezza riesce sempre a passare in qualche modo, spedita quando sfrega le superfici microscopiche e introvabili dei capelli, e i bordi delle guance e delle persone. La brezza trova modi per filtrare nel viale alberato che va a Piazzale Aldo Moro, o se ne va da Piazzale Aldo Moro e non torna mai più -bisognerebbe chiederglielo, e verificare le disposizioni in tal senso della doppia fiumana che l’attraversa, gente che “va e viene”, vento che sa volare in entrambe le direzioni. Chiedere alla cornacchia sulla recinzione della caserma o ai gatti che pasteggiano con le gentili offerte di benefattori invisibili. Che ne pensano? Se ne vanno o tornano?
(nota mentale: corvidi e felini, ottimi conversatori, ma non porre loro questa domanda del cazzo. Si verificherebbe un tilt, un’esplicitazione dell’interferenza, e allora l’innaturalità della giustapposizione non solo verrebbe rimarcata, ma assumerebbe anche tinte volgari d’ostentazione. La ragione per non chiedere è: Roma, impero colonizzante. Questo è un boschetto con annesso santuarietto, manifestato dall’ombra e la sua frescura: custodisce divinità corvide e divinità felino. Boschetto teutonico ed egizio, traslato sul suolo capitolino, produce pini e platani e incontri di spiriti pagani. Non vogliono certamente che questo diventi un posto di cammelli berberi! Che poi sarebbero dromedari. Con in groppa spiriti desertici. Maledetti i miei pensieri. Condotti sull’andatura affranta d’un animale appesantito. Camminiamo sul viale, nella sua ombra sacra ai popoli ubriachi del passato, con il collo reclino, punteggiato da dolori nuovi ogni secondo, da colpi percossi dal caldo che cresce. Ondeggiamo come bestiame da sabbia. Questo posto non fa pensare per niente alla sabbia. Pertanto via i pensieri di sabbia. Via le interferenze.)
Si passeggia allo stesso modo. Di ritorno. Viale per/da Piazzale Aldo Moro va a Termini e sale sul treno e a un certo punto scende, facendo un gran baccano in qualche stazione tumoralmente infilata in mezzo a un polmone verde d’agro romano o pontino o costiero. Poi scendono in masse boccheggianti tutti gli altri, le creature denominate “studenti”, che hanno le teste pieni di cammelli e giraffe e altri estraniamenti. Creature ungulate di cui qualcuno raccoglierà il teschio per officiare un rituale, creare un significato laddove manca. Non noi, noi siamo nati nel silenzio dei rituali, e mi sa pure dei significati.
Studenti accaldati, passo lento strascicato sotto l’ombra verde -è un verde non metaforico, non un verde inventato per aggiungere colori dove non ci sono nel mondo d’asfalto (se tali colori fossero del tutto assenti non ci sarebbe nemmeno un nume tutelare del ritorno in tutta l’area metropolitana). No, non è per aggiungere colore: quest’ombra ha dei palchi che si diramano in corrispondenza dei rami di vero legno, sospesi sopra i passanti, e le punte di questi palchi d’ombra diventano dei tondi verdi e incorporei. Rifrazioni, arcobaleni monocromatici. Il verde ci entra nelle narici. Forse lì dentro simboleggia l’ossigeno ed è per questo che riusciamo a respirare. Mentre sudiamo e tutto il resto. E all’improvviso arriva il Jazz.
Dalle caserme, da qualche finestra vicina, ma non troppo. Distanziata per mezzo delle cose che s’interpongono, ombra densa e inverdita, respiro arboreo, tranci di caldo esorbitanti come se davvero squarciati da un ventre esagerato di pesce, insiste nel farsi sentire. Tutte queste cose formano pareti. Anche per il suono. Più le pareti di cemento e altro. Ma dove staranno suonando questi qua? Ma lo sanno o no che vengono sentiti anche quaggiù, in un posto che non è molto Jazz? Almeno non a quest’ora, con questa luce.
Ma lo sanno che c’è gente stanca che non può sopportare altri errori? Ma non lo sanno che siamo già stanchi come se non bastasse tutto questo? Mi trovo al viale dell’università, ovvero ci manca poco che tiro fuori delle cartacce -che mi porto sempre dietro in quanto “studente”- e sotto l’ombra, così come mi trovo, comincio a scribacchiare e scarabocchiare i miei pensieri e sentimenti feriti che diventano cinismo. Ma questi suonano il Jazz.
Una bella scala che chiamo cromatica. Non so. Una piccola fitta che sovviene ogni volta che ricordo la mia imprecisione e incompetenza in tutte quelle cose nelle quali sarei potuto essere preciso e competente, se solo avessi mantenuto passione e convinzione e voglia d’esser vivo un certo giorno nel futuro. Pazienza: i cammelli qua non ci possono stare. È fuoriposto la loro dedizione d’attraversare per intero il loro viale per/da Piazzale Aldo Moro, è fuoriposto la loro resistenza leggendaria. Forse solo la sagoma, resa inconsistente pensiero passeggero di studente che sarà passeggero d’un treno e che connota in forma di ritorno mezza giornata e mezza vita. Transitorietà di posti e momenti e pensieri. Di cammelli solo le sagome, in particolare la gobba. Pensieri e fisico si reciprocano e allora restringo ancor più le spalle verso il mio interno, piego il torace in maniera concava e tengo i gomiti all’infuori nella mia posizione ingobbita e rannicchiata, così dovrei star ben protetto. Perché c’è qualcuno.
Ci sono sagome accanto a me, è vero. Una delle cause del plurale usato in precedenza (insieme a un intento di collettività, il “noi” che ritorna o che se ne va sul viale verde sotto gli sguardi controllori di felini e corvidi guardiani). Queste sagome sono di persone che potrebbero processarmi, ferirmi. Alla fine del viale: salire sul treno, recarsi in una stazione desolata, un nonluogo dell’agro adibito a tribunale dell’inconscio, e lì venir condannati su ciascun difetto del proprio modo di pensare e di comportarsi, ovvero quello rimasto immutato fino a quel preciso istante. Mantengo la mia posizione: sono una fortezza, una muraglia. Rigido come il proposito che porto, corrispondenza di pensiero idealistico e messa in atto, rigido come il rispetto che provo per gli intenti anti-promiscuità di questi guardiani del boschetto -ovvero, niente Jazz e cammelli prima delle 18 e prima che la sabbia non abbia sradicato ogni albero e cancellato tutti i tondi verdi sulle punte dei palchi dell’ombra. Mantengo la mia posizione, e le spalle si irrigidiscono come la silhouette di gobba riflessa nella mia mente, solo superficialmente, ungulato senza contenuto. Le spalle scricchiolano. Ma la scala che chiamo cromatica, serpeggiandomi attorno con fluidità d’inchiostro e a cavallo d’invisibili vagoni d’aria, mi rilassa la postura, ammorbidisce scapole, soffia un sangue fresco dentro le vene.
Il Jazz improvviso mi ha massaggiato le spalle.
La mia postura si fa meno rigida.
Qualcuno sta suonando un assolo lento e piacevole, spoglio della frenesia che come morbi e droghe contagia i solisti. Bollenti e instabili nel sole di Roma, nei pressi dello stesso viale, li si vedeva anni fa, immagino immediatamente, li vedo, li sento. Anni di piombo e d’altri materiali, anni di pioggia sporca, anni di noia, ce ne sono di molti tipi, e i solisti eccoli là con i capelli lunghi malcurati e con le code di cavallo calanti mentre si muovono cauti in cerca di qualcosa. La muscolatura paranoide, guardare destra e sinistra in attesa di nemici, guardarsi dentro in cerca di motivi di vanteria per sopravvivere in quest’ecosistema che percepiscono farsi sempre più d’immagine e poco altro, e sopravvivere in un pentagramma che attende il loro arrivo a notte fonda e desidera la follia di scale veloci e variazioni miscredenti. Ha fame di consumarle e rigurgitarle e dimenticarle subito dopo, sostituirle con un’altra serata. Ma prima d’allora, prima del loro ruolo, i solisti sono inquieti. Si disilludono riguardo la politica, non si disilludono riguardo alcol e caffeina e un intero pantheon di sostanze, temporeggiano lontano da un monolocale sporco, credono che nulla al mondo sia superiore ai Napoli Centrale, hanno fame. Sono in cerca di qualcosa. Chissà se l’hanno trovato.
So che i solisti che sento adesso -momento presente, momento verde, che all’improvviso si fa sentire proprio da me assomigliando a un saluto di qualcuno da un’esistenza passata-, i solisti del presente hanno trovato una specie di qualcosa, o forse non hanno avuto bisogno di cercar nulla sin dal principio. Il loro è un Jazz che si suona così: dal nulla, per profondersi sinuoso nella brezza verde e massaggiare spalle di passaggio, serpeggiando dentro il viale a un’ora di luce troppo intensa per qualsiasi tipo di Jazz, tranne poche eccezioni. Ma non suonano In A Silent Way e non suonano Alice Coltrane. È un Jazz originale che non conosce imitazioni, odia le citazioni. E produce cosiddetti assoli lenti e calmi, su un ritmo calmo. Cimbali e soffi sul rame, ritmica indefinita. Ma non caotica.
(Dove cazzo suonano dei musicisti del genere? Mi bucano irresistibilmente gli occhi le immagini della stanzetta, affacciata sul viale o comunque da queste parti, brutti edifici di brutti colori, stanze scavate a forza, dalla resistenza, per conquistarsi una pace all’interno di tutto questo, all’interno di case che ho chiamato “brutte” -non tanto le case, l’idea di viverci. Questo Jazz è rivoluzione. Tanto più perché m’ha massaggiato le spalle, e fino a farmi credere che non è così inappropriato al contesto come credevo. O me l’ha fatto dimenticare. Questi fanno le prove in una stanza che diventa meno brutta.)
Dita invisibili sui tasti del piano, sui pistoni della tromba, lascia polvere d’oro falso sui polpastrelli; dita invisibili sulle multiple personalità della batteria più accarezzata che suonata, sulle corde del contrabbasso nel cui acciaio s’attorcigliano demoni addormentati, da pacificare con l’ipnosi ritmica del walkin’ bass sempre più lento ma che non spira mai. E su un clarinetto, quasi indistinguibile dalla brezza. A un certo punto s’agita qualcosa, e poi sono io che mi agito. Ma ho dentro le spalle una nuova sostanza e l’agitazione sorvola, come una nuvola, il mio paesaggio interno. Sorvola. Passa e va altrove. Mi ha però destato e giro il collo, azione spropositata avente tra le sue conseguenze quella che mi guardo intorno: ci sono le foglie che pendono e mi toccano la testa, ci sono i davanzali di cemento da cui sguscia e s’innalza minacciosa la recinzione acuminata, ci sono quelli che camminano accanto a me, per/da. C’è un gatto di quelli seduto su un davanzale di quelli: è molto colpito dal tipo di musica che si è cominciata a sentire nel boschetto del suo santuario, e sembra gradire l’offerta.
(come una nuvola passeggera. Tutte le cose che ho provato in una giornata. Ero depresso prima di venire qui? Lo sono ancora dopo. Probabilmente. Vedo già la stazione, e alla stazione vedrò già la casa, bella ma anche brutta perché sarà primo pomeriggio e sarà l’ora peggiore, per il Jazz e per tutto quanto. Vedo sempre già quello che è dopo, invece il presente e i tondi verdi e freschi dei rami se ne vanno a fare in culo per me -e dire che non è che ci li ho mandati esplicitamente. Prendono il treno a Termini, pure loro vedono già la stazione scavata in un nonluogo provinciale. Che hanno sentito oggi? Tutti sentiamo, tutti siamo il “noi” di quelli che vanno sotto il viale alberato, e sulle nostre cartacce annotiamo le seguenti emozioni: paura del vuoto, dentro e fuori; sporcizia dentro che è meglio buttare fuori, sporcizia fuori tipo cicche e foglie morte di marciapiede che t’entra dentro e ti fa marcire dentro le cose che non butterai fuori; paura del vuoto e allora quando il mondo è come non deve essere va finire che nelle increspature della sua incongruenza si rispecchia un “se stesso” incongruente, che assomiglia al mondo brutto più di quanto “se stesso” desidera per “sentirsi bene”, e divellere l’anima a forza di scavarla per cercare un’identità che consiste proprio in non essere come il mondo; paura in generale, pure dei fruscii e in fondo pure dei gatti amici e delle lupe che allattano e del boschetto tranquillo che forse smette pure lui d’esser tranquillo; desiderio di vedere profilarsi all’orizzonte, in viaggio appositamente per “noi”, delle pillole antidepressive specificamente designate, a forma di cammello; desiderio di non aver desideri, desiderio di far schifo e scriverlo sulle cartacce; desiderio che il pomeriggio finisca perché non permette di dare glamour allo stato d’animo incupito e accaldato, e nella stanza dentro la casa dentro il primo pomeriggio in cui non si sente nessuna musica balsamica penetrano solo fracassi di clacson, ingranaggi pomeridiani, sferragliare, luce sporca che fa più rumore dei rumori stessi, libri che in tutto il lavorio là fuori di copisterie e macchinari vengono stampati e conoscenza che non entrerà mai tutta in un cervello, non ci starà mai per più di tre secondi tre anni. Insomma sulle cartacce s’annota l’emozione chiamata fa tutto schifo, in un modo o nell’altro. Ma è passeggero, passeggero. Tipo “noi”, che siamo passeggeri. Questo è sia brutto che bello, a seconda delle circostanze. Annotare autoconsapevolezza che mette a disagio, anche per esempio sul fatto d’aver annotato molte volte le parole brutto e bello, che non vanno bene)
Finisce quasi il viale alberato. Ultimi passi nell’ombra, prima del semaforo torrido. Il suo alieno barrito intermittente ingiunge di attraversare frettolosamente la strada, così che s’arroventino le suole, si squagli un sentore di gomma impercettibilmente bruciata racchiuso in particelle sotto i nostri piedi a contatto con la decorticata fornace dell’asfalto. Ma prima, prima che l’ombra che delimita il boschetto sacro ai numi finisca, si fanno in tempo a interrompere ancora un po’ le dita predatrici del vuoto, del primo pomeriggio imminente personificato da quell’ossessivo semidio del sole-asfalto (un figlio non promiscuo, anzi fin troppo coerente con la vita, scrivo sulle cartacce). Interruzione del vuoto che spaventa e arroventa: si prolunga ancora per un po’ la sensazione di quel Jazz calmo equoreo, molti major seven messi al posto giusto senza stucchevolezza, qualche sesta, accordi di cui non so il nome, che chiamerò refrigeranti. Ecco, così si prolunga ancora un po’.
E in più si gettano parole a ostruire il vuoto. Persone che mi stanno accanto, colleghi d’università o forse viaggiatori con aria da mentore, mi dicono alcune cose. Sposo e sposa simbolici, fecero un patto per parlare o tacere uno alla volta, distribuiscono tra loro i messaggi in cui mettono quello che le loro due teste/gobbe in segreta sincronia vedono, e così vivono. Io sono lì, sono inopportuno, sono intruso: sorridono discretamente sotto i riflessi verdi, come a invitare, non esiliare. Mi girano alcuni di questi loro messaggi: aria magnanima da mentori, fanno dei commenti, fanno conversazione. Parlando e gesticolando, mentre siamo tutti e tre ancora all’ombra, testimoniano sotto il giorno e sotto il boschetto una cosa inaspettata, una cosa per me non brutta: anche loro hanno udito quel Jazz in un modo simile al mio, anche loro dicono d’averne goduto, sentito amplificata la frescura temporanea dell’ombra. Massaggiati forse da qualche altra parte, certo, a qualcosa che non è le spalle. L’improvvisazione monotona e incantevole del clarinetto ci assicura che ognuno è massaggiato in un posto diverso. Tempo fa questo mi avrebbe reso vulnerabile, avrebbe richiuso in un movimento di difesa automatica le spalle rilassate, per farmi entrare nel guscio (così forzuto da respingere tutti gli attacchi del tipo, “hey, quello là è un pervertito che preferisce i massaggi alle spalle invece che alle braccia!”, e cose del genere). Adesso invece li ascolto, i loro messaggi, atti comunicativi, commenti casuali. Mentre il Jazz diventa rarefatto, rimanendo dentro una qualche nuvola che, più lenta, indugia ancora in un certo punto a metà del viale, un punto che abbiamo già superato perché stiamo andandocene per/da qualche parte.
Dicono che è bellissimo Jazz, e allora chiedo che scale sono. Chiedo conoscenza: uno dei due è un musicista, è uno che il Jazz lo conosce, conoscerà il Jazz di tutta Roma, ed è un viaggiatore mentore persona di mondo che non odia il mondo -non usa parole come bello/brutto. Un tipo del genere che forse si fa massaggiare dal Jazz apparso casualmente a sconvolgere il boschetto perché è altrettanto perso e sconvolto quanto me. Perché similmente pensava a qualcosa che è il suo analogo dei cammelli, perché similmente ha paura dell’ultimo giorno d’università e davanti a sé vede un posto di che assomiglia a un certo abisso che conosco. Ma questo in parte lo dimentico e continuo a vedere un mentore, una voce che scende dall’alto, da un punto in cui non si ha paura e si può solo guidare, conoscere. Il mentore spiega: questo qua è un sottogenere che si chiama Jazz Delle Colline.
Ah, dico, interessato. All’incirca l’unico mio atto comunicativo in tutto il nostro tragitto. Mi auguro non abbiano sentito tensione per questo.
(annoterò sulle mie cartacce il dubbio: forse sono uno stronzo e la cosa non si giustifica con incomunicabilità generale e cazzi vari, forse s’aspettavano che anch’io producessi messaggi. Anche se non ne avevo. Prendersi il rischio d’essere inopportuni e dire inutilità, rischio d’assomigliare al mondo brutto che fa rumore e raramente fa musica, ma tanto ci assomiglio un po’, già di mio, no? Stabilito in precedenza, spiacersi perché si è come il mondo. Tutto troppo complicato. Questi detti e nondetti sono più complessi del Jazz, che invece nel boschetto è diventato la teofania e la cosa più semplice mai esistita. Fortuna che siamo gente del viale universitario, e nello zaino che ci appesantisce la gobba abbiamo sempre le cartacce in cui, in quanto “studenti”, scriviamo appunti, emozioni contorte da ripassare prima dell’esame. Per i solisti gli esami erano assoli. Per i nuovi solisti, massaggi da dare al viale, al verde, invisibilmente. Dov’è che stavano nascosti? Nelle colline, forse. E allora serro le palpebre e respiro a fondo, conto i batuffoli verdi che mi rotolano dentro le narici con movimento di corrente ascensionale, salgono nel buio, vengono sbalzati per finire in una scena che mi si spalanca in testa, di colline in file orizzontali stampate sul fondo del cielo, seni rotondi ricoperti da spighe lunghe agitate da un vento nonviolento costante, spighe che non lasciano spazio al suolo, soffiano e basta. Colline striate.)
Jazz Delle Colline?
Non capisco, e smetto di voler capire: è l’ultimo passo prima della fine dell’ombra. Mi/ci attende un mondo che è molto più spietato, attende un mondo che anche nella sua forma migliore è peggio della peggiore incongruenza che si possa verificare qua dentro, nel boschetto. Cornacchie e gatti lo sapevano: per questo ascoltavano comunque ammirati quella brezza di Jazz estemporaneo, estraneo ai loro simboli. Stiamo per uscire dall’ombra e allora smetto di chiedermi in maniera critica se il boschetto e il Jazz e i cammelli e la loro unione possano rispecchiare un mio ideale interiore troppo intransigente. Voglio solo fare un ultimo passo che galleggi nel verde.
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Usciamo dal viale e saliamo ognuno sul proprio treno, scriviamo sulle cartacce che abbiamo tanta tanta paura di cosa succederà quando tra tre giorni o tre anni l’università sarà finita e non sapremo che cazzo fare. Di cosa andare in cerca con la muscolatura tesa per le strade di questa metropoli collinare e di boschetti sacri e di asfalto assassino. In quale santuario recarsi e quale animale pregare e con quali offerte compiacerlo. Croccantini sparpagliati che diventano presto spazzatura oppure musiche nerobianche. “Miles Evans e Bill Davis”.
Jazz Delle Colline, l’ha chiamato il mio collega esperto. Rispetto la sua conoscenza.
Io però dico che è stato come una nuvola. Sedili blu, posto in fondo al vagone, oblò sul lato destro. Dal finestrino, cerco le nuvole fluttuanti sulla campagna dell’agro, anzi degli agri confinanti tra loro. Si mescolano promiscuamente il pontino e il romano, mescolano le loro essenze opposte di palude quasi estinta e di selva secca disboscata -in nessuna delle due starebbe bene un cammello. Stanno bene le ombre delle nuvole che le ricoprono, che passano sopra. Tutto questo passa ed è sia brutto che bello.
Dal finestrino, attraverso la mia invadente faccia riflessa, le nuvole m’entrano in testa e diventano nostalgia. Di stati tutti passeggeri, in giornate uguali consumate da andate e ritorni. Il sole, ammansito, si frange sulla pelle posteriore del sedile davanti al mio, che comincia a puzzare di gomma, in strisce parallele che fanno pensare stia già tramontando attraverso gli occhielli di una serranda. Metto la mano su una delle strisce, tra tepore e penombra, e per un po’ rimango a fissare il vuoto su un punto che forse se lo vedessi corrisponderebbe più o meno al laccetto per capelli che tengo a mo’ di bracciale al polso, per metà in ombra nei pressi della tendina messa nella solita posizione a palpebra semichiusa, al mio solito posto sul treno.

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