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il tesoro del fuochista

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 4 dic 2021
  • Tempo di lettura: 17 min

C’era una grande laguna, vasta e lunga molti chilometri, verde e celeste e bruna. Verde delle numerose alghe e muschi che prosperavano nel terreno acquoso, celeste dell’acqua limpida che rifletteva i giorni. Al tramonto assumeva tinte d’intensa oscurità, rimescentesi l’una con l’altra sotto la bassa superficie simili a misture di colore amalgamate dal volere di un pittore anonimo. Infine diventavano un nero profondo, e in quelle pozzanghere sembrava di poter precipitare all’infinito ancor più che nel cosmo lì riflesso.


Nella laguna c’erano alti pali telegrafici, collegati l’un l’altro dai fili che, incurvati, ospitavano ogni mattino numerose specie di uccelli in riposo. Nessuno sapeva se trasportassero ancora elettricità, né dove andassero eventualmente a portarla: era una laguna lunghissima ed era assurdo pensare che qualcuno, un tempo, si fosse messo a costruire simili strutture al suo interno, per poter trasmettere impulsi attraverso una distanza così impervia e isolata dal mondo civile. Pertanto quei pali assomigliavano quasi ad antichi monoliti, monumenti di ignota origine che se ne stavano, imponenti in un silenzio solenne, ma in qualche modo anche sornione e famigliare, a sorvegliare il paesaggio, o forse a fargli compagnia. Tutt’intorno, si vedevano lontane colline; ma prima di raggiungere le loro pendici, il suolo fradicio era omogeneo e piatto, come uno specchio.


E c’era uno di quegli uomini airone che se ne gironzolano spesso, non ancora riuscendo a decidersi se sono dei migratori o degli stanziali, che spesso si vedono percorre lunghi giri, in volo o a piedi sulle loro lunghe gambette, con un atteggiamento rilassato. Quell’uomo airone pensava che fosse una laguna come tante altre, e in effetti, anche superata quella particolare area, il paesaggio continuava a ripetere alcuni suoi aspetti ancora per molti tratti, continuava insomma a mantenersi simile finché non raggiungeva i confini di un altro paesaggio limitrofo, o di una qualche costruzione molto grossa (c’è da precisare che comunque anche quest’ultime erano tutte assai lontane dai pali del telegrafo, di cui nessuno sapeva dire quale fosse l’ultimo che concludeva la fila). Eppure, l’uomo airone si sbagliava: quella era una laguna particolarissima, delimitata precisamente proprio da quel cerchio di lontane colline. Era infatti una laguna magica in cui i viaggiatori come lui (tutti certamente provvisti di una sacca o un gozzo in cui poter stipare piccoli oggetti, ghiaia, pesci, e qualsiasi cosa potesse occorrere per passare il tempo in certi momenti strani) potevano ritrovarsi a trasportare, sottoforma di cianfrusaglie, molte cose che pensavano di aver dimenticato da un lontano passato. Si diceva perfino che un uomo pellicano, un giorno, intento a grattarsi una ferita al petto bianco, aveva fatto cadere per sbaglio un malloppo di alghe che conservava in gola, ma lì avvinghiato tra gli intrichi umidicci era spuntato un fossile. Proprio un fossile, con la forma dettagliata dello scheletro di un pesce proprio come se fosse stampata sulla superficie del sasso. Beh, era solo un esempio tra tanti. E anche quell’uomo airone, in quel certo giorno, aveva cominciato a sentirsi appesantito da cose che non ricordava di aver portato. Nessuno sapeva spiegare l’origine di un simile fenomeno, e tutti erano -“francamente”, si dicevano-, poco interessati a indagare oltre. Per la maggior parte, questi viaggiatori, divagatori esperti del mondo, assumevano all’improvviso uno strano contegno disagioso quando si ritrovavano a passare per quella laguna e capitava di maneggiare degli oggetti che un tempo avevano conosciuto. Non che fossero particolarmente infastiditi, e anzi, in genere, che si trattasse di gente cicogna o gente svasso, quasi nessuno mancava mai di fare un’espressione o un richiamo di meraviglia non appena vedeva apparire un ciottolo perduto in una costa da lungo tempo trascurata, una stecca luccicante del nido natale, una scorza molle d’uovo di testuggine, e così via. Presto però, ad alcuni si intiepidiva il volto per reazione di sentimenti contrastanti, e in seguito a quell’iniziale meraviglia preferivano non indugiare troppo sulla questione. Così proseguivano facendo finta che quelle erano semplicemente delle robe messe insieme a tutte le altre, a portata di mano e d’ala nel sacco. Tanto non era che facessero tanto rumore e un peso così insopportabile; tra l’altro, alla fine di quella laguna, pareva che sparissero e basta. Nessuno aveva mai provato, uscito dal cerchio delle colline che la racchiudevano fino al mare, a fare un passo indietro, e verificare se le cianfrusaglie appena scomparse sbucassero fuori di nuovo, ma si dava per scontato che fosse così. Bastava mantenersi fuori da quella laguna, che qualcuno, chissà per quale assurda ragione, in un tempo lontano aveva deciso di imporre quel particolare sortilegio a tutto l’ecosistema.


Quell’uomo airone si divertiva a incurvare sempre nello stesso modo con l’ala destra quando cominciava l’atterraggio. Ovviamente, anche in quel caso eseguì la stessa manovra con la massima precisione. Soddisfatto, aveva cominciato a camminare. Straordinariamente alto per un uomo airone, procedeva a passi larghi e puntuti con quegli stecchi rigidi che aveva per gambe, e le lunghe piume della veste ballonzolavano a ogni impatto sciaguattante con il limo del fondo, o con il tappeto compatto della verdeggiante mucillagine d’acqua. Inforcò gli occhiali tondi e neri nel viso scapigliato e senza mai inclinarlo di lato, lo protendeva ritmicamente per le spinte ricevute dal lungo collo nel movimento. In questo modo avanzò di molti passi per quel paesaggio sconfinato e pacifico. Sarebbe stato un vero paradiso per uno come lui, peccato per quella connotazione misteriosa che uno non sapeva mai come prendere.


A un certo punto, con la lungimiranza del suo sguardo senza palpebra ben elevato sopra la pianura d’acqua salmastra, vide sollevarsi inconfondibile in una spiaggia d’orizzonte un fluviale pennacchio di fumo nero. Saliva in tratti sinuosi, discontinui e tra loro scambievoli come le frange trasparenti e fresche d’una corrente. Già dalla distanza se ne vedeva al dettaglio, come in macchie puntiformi d’un dipinto, l’ibridazione di colori scuri, dai blu più nerastri ai verdi di foreste ammantate nella notte, ma soprattutto il grigio scuro e carbonifero, che inequivocabilmente confermava la presenza di un fuoco acceso. Chissà chi era riuscito ad accendere un fuoco in un posto così povero di legna. Quanto ai legnetti mezzi marcescenti sballottati di tanto in tanto dai flutti normalmente quasi immobili, sarebbe stato impossibile cavare una sola scintilla dalle loro cortecce scivolose e nere, tantomeno spezzandoli e sfregando la polpa interna ormai indistinguibile da un truciolato zuppo di pioggia. Insomma, l’uomo airone pensò che chiunque fosse, doveva trattarsi d’un vero maestro. Magari un uomo fenicottero capace di produrre una strana sostanza combustibile nel becco salato, immagazzinando e fermentando linfa collosa dai krill che ingurgitavano per attizzare i propri rossori… l’uomo airone non poté reprimere un brivido, dal momento che aveva molti pregiudizi nei confronti della gente fenicottero con quegli sguardi bronzei sempre fissi sotto il sole delle lagune, e quell’odore pungente di saliera e pesce putrido che sempre impregnava i corpi pur non mangiando mai pesce. Al tempo stesso sapeva che, se si fosse trattato di un uomo fenicottero, se ne sarebbe già accorto con la sua vista infallibile che riusciva persino a incantarsi delle trame corpuscolari nel fumo danzante: quelli più bassi della gente fenicottero erano più o meno della sua stessa altezza, e un simile spilungone, anche da accovacciato, l’avrebbe presto distinto vicino al punto da cui si levava la pira.


Doveva di certo passare molto tempo prima che l’uomo airone raggruppasse altri elementi per comporsi l’immagine, sempre più incuriosente, di questo maestro del falò. La gente airone non è provvista di un olfatto sviluppato e avrebbe potuto avvertire nel naso il passaggio dell’aria arroventata e della cenere vorticante nelle ondate di calore soltanto quando fosse stato molto vicino. Invece, a dieci chilometri sentiva con le orecchie, minuscole ma attente dietro le ciocche lunghe e disordinate sotto il largo cappello, il crepitare allegro del focherello. A cinque chilometri, il cerchio di increspature in cui s’immergevano i suoi piedi veniva travolto da una lieve vibrazione calda, come se i ciocchi o qualunque cosa alimentava il fuoco si trovassero in contatto diretto con l’acqua e in questa disciogliessero parte della stessa energia, propagata nelle onde, nel terreno sottostante. Da quello stesso punto era ormai visibile anche la cresta tozza del piccolo falò, gialla e vispa pur nei suoi timidi movimenti. Di là dalle fiamme, una scura montagnetta rannicchiata.


Sarebbe superfluo anche per l’uomo airone mettersi a ricordare ogni metro calcato nella marcia restante, che lo separava dal posto in cui avrebbe fatto una pausa e ascoltato strane cose. È chiaro che un tipo di passeggiata del genere, con le caviglie nella guazza e il cielo sereno che discende pieno di luce su un orizzonte dominato da pozze, dove solo si odono sporadici gorgoglii e squilli di taccole sui fili telegrafici, è il massimo per qualsiasi uomo airone. Sono esperienze che si imprimono passando attraverso la pelle delle gambe imperlate di gocce, si traducono dentro un organo-bussola nascosto da qualche parte nel ventre in nient’altro che un impulso ad amare di nuovo le lagune, gli acquitrini, le foci: senza mai stancarsi, la gente uccello acquatico avrebbe per sempre cercato quelle esperienze che nemmeno era necessario ricordare, fin quando un istinto intrinseco fosse rimasto ben fermo a informarli dell’unico fatto necessario, e cioè la necessità di trovarsi in quei luoghi. Per il resto, pochi ricordi affollavano la mente dell’uomo airone. Si ricordava per esempio di una volta in cui, in una specie di ristorante-baita di bassa montagna dove si faceva pesca sportiva, si era azzuffato con un ceffo arrogante che assomigliava a una lince. Non che fosse una brutta storia, ma inspiegabilmente l’uomo airone ancora avvertiva una sorta di fastidio, simile a un tepore o un prurito salito da dentro un arto al torace, quando ripensava al colpo che in quell’occasione ricevette all’occhio (la cicatrice non si vedeva quasi più, e ormai era sempre nascosta dalle lenti scure immancabili nelle giornate soleggiate). Ma perché diavolo andare a ricordarsi di una cosa così? Intorno non c’erano altro che incantevoli polle limpide, e l’aria salmastra macchiettava i vimini del cappello con quelle fragranti muffe che ogni volta sperava di collezionare spostandosi di zona umida in zona umida; insomma, non poteva aver pretese particolari se non quella di trascorrere là molte ore o settimane, in attesa di capire (senza riuscire) se fosse migratore o no, finché non gli fosse venuta voglia di spostarsi. Roba da gente airone. Ma no, ci si doveva mettere in mezzo quell’aria strana, nascosta dentro quella umida e piacevole, che apparteneva naturalmente a quell’area. Si sarebbe potuta invece chiamare naturale l’atmosfera più recondita, ma indubbiamente influente? Forse era stato qualcosa nella naturalità del paesaggio ad attirare la diffusione al suo interno di un “qualcosa che non va”, oppure questo aspetto era stato imposto in maniera del tutto arbitraria? L’uomo airone lanciò stupidamente uno sguardo di rimprovero alle colline lontane: che c’è, siete voi che infondete questi sortilegi, di cui si vocifera tanto, nella laguna? O è proprio con il suolo intorno a me che me la devo prendere, è lui a serbare inganni? Così pensava, ma come è ovvio, un uomo airone non poteva davvero riuscire ad accusare un terreno acquitrinoso. Così non poteva far altro che continuare. Solo che ogni tanto vedeva perfino un albero nella distanza, forse un salice o una mangrovia, e allora ripensava a una volta in cui aveva riposato a lungo sui rami di un certo albero in mezzo a una campagna per poi scoprire al risveglio che aveva perso gli occhiali che aveva avuto prima degli attuali. Un’esperienza odiosa. Tutto ciò gli procurava un gran fastidio, ma almeno riusciva a ignorare un ticchettio insistente che da un po’ sentiva nella sua tasca. Come ci fosse incastrata una biglia, strascicata in traiettorie ripetute identiche per l’azione della gravità e della deambulazione, avanti e indietro, avanti e indietro… prima non c’era, ne era sicuro, ma non aveva nessuna intenzione di crucciarsene.


Strani oggetti erano sparpagliati vicino a un falò. Questo era molto vicino a un palo, era stato acceso nella naturale pendenza che si formava alle loro basi, discendendo dai rilievi da cui si ergevano. Diversamente dalla sensazione sentita in precedenza dall’uomo airone, non ardeva sulla superficie dell’acqua. Il terreno simile a torba era pieno di steli intrecciati, pagliuzze e vegetazione idrofila. Era su questa massa soffice che dei grumi neri si consumavano nel cuore delle fiamme, e il peso di varie cianfrusaglie si imprimeva lasciando quasi delle orme incancellabili nella malleabilità tendente a sprofondare sotto il livello dell’acqua. Ma questa non si riversava nell’abbassamento, andando a riempire la conca, perché confinava con quello spiazzo erboso a una certa distanza. Un bastone di legno pieno di scaglie, inconfondibilmente il relitto di un palo spezzato, rimediato chissà dove, stava infilato diagonalmente in un monticciolo di terriccio, e così piegato proiettava una piccola ombra sovrapposta in parte al fuoco. Alla base di quel palo si sedette, con grande sforzo per piegare le gambe, l’uomo airone, che così si poneva quasi a guardare in faccia la creatura seduta poco più avanti. Rannicchiata dentro una coperta azzurrina, teneva gli occhi fissi al falò. Aveva la forma di una vecchietta rimpicciolita dagli anni. Dall’involucro che si era formata spuntavano solo parte delle braccia olivastre e pelose, tese ad afferrare e tirare i lembi del tessuto per tenerli avvolti attorno al corpo, e il volto scuro in gran parte annuvolato da uno sciame di irsutissimi capelli e peli di barba. La luce sfregava riflessi metallici, dello stesso colore principale del fumo, lungo quei fili fitti e sottili, e all’uomo airone venne in mente l’immagine di un riccio. Davvero era stato quel tipo ad accendere il fuoco? Vide sotto l’orlo della coperta un roteare ritmico e ossessivo di rotonde dita di piedi, irradianti, come sbocchi dal centro di quell’individuo, un misto di inquietudine e incrollabile volontà di calmarsi prima o poi.


L’uomo airone passò a esaminare alcune di quelle cianfrusaglie. Pezzi di legno, d’aspetto lacerante, formavano in certi punti una sorta di copertura sulla quale stavano poggiate altre cose; si sarebbero detti altrettanti resti del palo distrutto, e così sparpagliati in striscioline sottili, zuppi e impossibili da ricomporre, facevano pensare alle rovine di una piccola imbarcazione precipitata contro uno scoglio. Chi era stato vittima del metaforico naufragio non poteva far altro che riscaldarsi, e attendere immobile fino all’apparizione miracolosa di un’altra soluzione -forse, non essendo un uomo uccello acquatico, era incapace di camminare nella laguna? Per il momento pochi tra quei legni spezzati, asciugati chissà come, riuscivano ad alimentare il fuoco, insieme ad altre cose indistinguibili. Sopra alcuni legni appiattiti al suolo pesavano poi, sparsi senza criterio, pezzi metallici, vetro verdastro come di finestre rovinate di un’altra epoca, peluche con gli occhi vitrei e la lanugine bianchiccia invasa da grumi di polvere appiccicosa ormai non più staccabili; poi, con lo stesso sguardo di pupille nere in biglia bianca, un cavalluccio a dondolo, accasciato su un fianco; portamatite rigurgitanti lapis consunti e pastelli scoloriti, giornaletti, cataloghi, un monopattino, un cumulo di gusci di noce… era incredibile la quantità e varietà di oggetti, come nel pavimento del nido di una gazza. E al tempo stesso riuscivano a raggrupparsi senza ingombrare o trasmettere un senso d’eccesso. Tutto riusciva a raccogliersi nel limitato spazio di quella misera radura stopposa senza renderla soffocante, e la strana creatura incantata dal fuoco riusciva a starsene comoda senza sforzo per infilarsi tra un copertone da jeep e una cassetta piena di bucce di mandarino. Quegli oggetti sembravano quasi non avere per lei una consistenza materiale.


Come spesso accade, un uomo airone in sosta, che per giunta si è sforzato di sedersi soltanto per poter meglio osservare una creatura di diversa altezza, finisce che interpella, domanda, commenta. Come setacciasse il fango con un lungo becco.


-buongiorno. Mattina fresca.- per la sua gente voleva dire che era una buona mattina.


La creatura-vecchietta lì di fronte tacque, la bocca invisibile in quel mucchio di barba. Con un buffo sfoggio di insicurezza aveva compiuto un solo movimento quasi impercettibile, ma abbastanza per mostrare di aver sentito e capito benissimo. Nel giro di pochissimi istanti doveva aver valutato più volte se rispondere o fare cenno alcuno, infine concludendo di lasciar stare ormai troppo tardi per non tradire il fin troppo complicato processo valutativo che aveva condotto a quella scelta. Sembrò che ci fossero stati prima un fulmineo guizzo d’occhi prontamente riabbassati, e poi un leggero ondeggiamento ritmico propagato per tutta la coperta, e in qualche modo questo poteva esser inteso come un annuire.


-non sai camminare nella laguna, vero?


L’uomo airone si chiedeva cosa ci facesse un essere tanto estraneo ai luoghi umidi, sbucato in quel punto circondato ovunque d’acqua bassa molto salata. Di nuovo quello aveva taciuto e ondeggiato millimetricamente sul posto, lo sguardo fisso sul fiamme. Si riflettevano nelle pupille dilatate color castagna, e a guardarle, il naso debole dell’uomo airone, forse coi ricettori interni alle narici stimolati dalle braci pungenti, colse una fragranza insolitamente forte come di bosco, di tappeto di foglie marroni e terriccio. L’uomo airone, non abituato a simili impressioni, cominciò ad avvertire un certo spaesamento. Ma se si guardava intorno, vedeva che il paesaggio circostante era ancora una laguna. Solo quella, sotto lo sguardo d’un palo telegrafico già mezzo storto nel suo monticciolo e forse prossimo a finire come il compagno spezzato, era una nicchia strana… però, voltandosi con aria nervosa, riusciva al contrario a domare il nervosismo. Come un uccello in sosta, volgeva in alternanza gli occhi tra ciò che aveva negli immediati paraggi e nella distanza, che si manteneva sempre uguale, l’habitat accogliente. Tentando di reputare secondarie certe suggestioni, ritornò sugli elementi di curiosità. Forse una creatura del genere, proprio per quell’aura che si portava dietro, riusciva ad accendere un piccolo fuoco ovunque si trovasse? Il naso, discendente in linea dritta e diagonale a forma di declivio, protendeva dagli occhi castani fin sopra la barba dando l’impressione che il volto non fosse del tutto inesistente.


-come hai fatto ad accendere il fuoco? Sembrano insufficienti, quei legnetti.- gli chiese. E la creatura per la prima volta rispose.


-facile. Qua ci si ritrova ingombrati di tante cose.


-allora è vero… è questa laguna: è magica, uno si ritrova delle cose che non si era portato. Giusto?


-esatto. Ma non è che siano proprio delle “cose”…- l’essere, sempre rivolto al fuoco, accennò con una mano alle cianfrusaglie sparpagliate intorno. L’uomo airone per un istante quasi trasalì, come indignato dal fatto che una sola creatura avesse tirato fuori dal proprio sacco tutta quella roba, senza nessuna esitazione dal toccarla e addirittura posandola tutt’intorno. Doveva essere un’esistenza strana la sua, un’esistenza che taceva spesso, ignorante dei vocalizzi lanciati dagli uccelli nell’aria intorno, e che pure continuava a spiegare:


-sono piuttosto delle forme per come uno se le ricorda, o vuole ricordare, che la consistenza vera e propria… per quanto mi riguarda, non hanno senso concetti come “valore” e “prezioso” riferito alle cose. Lo hanno per i concetti che uno ci attacca per disposizione propria.


-ma non hai nessun timore di questi oggetti?- interruppe in qualche modo allarmato l’uomo airone -Ho sentito da non pochi viaggiatori esperti passati per di qua che la sensazione di venirne addirittura sommersi, in certi casi, è fin troppo sinistra. C’è qualcosa di strano che avviene qui. Altrimenti sarebbe una bellissima laguna.


-sì. Bellissima laguna.


Annuì e basta. L’uomo airone, interdetto, dovette tuttavia riconoscere che una simile comunanza d’opinioni su qualcosa di tanto incontrovertibile provava come non fosse proprio un matto a scaldarsi lì davanti a lui. Forse per questo, nonostante crescesse la diffidenza per il modo in cui quello si rapportava alle cianfrusaglie inspiegabilmente apparse nel bagaglio, ancora non gli riusciva di terminare la sua sosta e, similmente ai lunghi indugi di tanti volatili, insisteva ancora con nonchalance a becchettare, ruotare il collo, esaminare.


-certo non nego che alcuni si siano detti lieti di aver rivisto certe cose. Ma finisce là. Quando uno è un migratore… no, anzi, di questo io stesso non sono certo. Diciamo, se uno vola e cammina tanto, pur facendo tante pause, non può fondarle su certe cose. Deve andare avanti, osservare solo il paesaggio, il mondo circostante. Vedere tanti ambienti piacevoli finché campa.


-ma uno con le cianfrusaglie che si ritrova, per l’incanto della laguna, può fare tante cose. Mica solo temerle. Mica solo ammaliarsene. Puoi anche sbarazzartene.- aveva spiegato, in un monotono quasi soave, ma come rivolta a se stessa, la creatura sempre rannicchiata. Nella tasca dell’uomo airone, intento a spostare le gambe in altro modo per non farle intorpidire, si rivoltolò l’oggetto piccolo che aveva tentato di infastidirgli la marcia. Allora chiese con più fretta:


-come, allora le bruci?


-brucio certi miei vecchi scritti. Su altri fogli ci sono delle vecchie conversazioni. Con altre però, chissà perché, conservo un attaccamento morboso, e le porto sempre con me senza mai bruciarle.


Era certo un discorso senza senso.


-ci sono tanti scritti, racconti illeggibili, che avevo dimenticato d’aver scritto. Per fortuna qua riaffiora tutto. E brucia bene.


-ah, sei uno scrittore?


La creatura, invece di rispondere, fissò il fuoco a lungo. Cioè l’unica cosa che faceva quando non rispondeva. L’uomo airone in parte era seccato e in parte stava all’erta. Non si poteva escludere che anche in luoghi come le lagune potessero dimorare folletti e altri spiritelli, solitamente avvezzi alle ombre di fitti canneti, foreste, caverne di montagna. Lui, non essendo un uccello notturno, non aveva mai avuto modo di vederne in luoghi aperti, ma a pensarci, doveva essere proprio così. E forse non era così assurdo pensare che la presenza altrimenti inspiegabile di un essere di quel tipo, fosse dovuta a una parentela con quella stirpe ignota. Risvegliato in un momento sbagliato della giornata, si era ritrovato a dover essere immobile. Occorreva cautela.


Dopo un po’ la creatura, senza nessuna sollecitazione, venne fuori con un discorso incomprensibile.


-per chi intende produrre dell’arte, l’idea di bruciarla, consumarla nelle fiamme, rappresenta un segreto piacere, un atto d’autolesionismo narcisista e masturbatorio di sublime bellezza. Supera in termini di godimento estetico l’arte stessa ed è sogno di chiunque abbia scritto una sola riga quello di vederla incenerirsi, diventare calore.


-ah…- annuì a disagio l’uomo airone.


-per un sogno del genere, sarei perfino disposto a creare una laguna intera, sconfinata e solitaria, dove potermi rifugiare e accendere questo fuoco, tra le stoppe. Cancellare per sempre, sotto il solo sguardo del cielo immenso, tutto ciò di quanto ho fatto che mi procura vergogna, e al tempo stesso piacere…


Creare una laguna? Rifugiarsi? L’uomo airone rabbrividì, ripensando agli spiritelli. Poi più risoluto osservò: non vedeva altro che un eremita su un cumulo di robaccia, forse avente un qualche valore sentimentale… come si poteva capire se fosse il caso di migrare o di starsene stanziali, ostacolati da riflessioni e pesi di quel tipo? “Passi pure la nostra comune passione per le lagune”, decise tra sé, “non è il caso di indugiare oltre”. Presto sarebbe ripartito, lasciandosi alle spalle il pennacchio di fumo, di certo non incontrandone nessun altro per tutto il vasto orizzonte che si estendeva fino alle ultime colline, e poi lasciava spazio a un altro territorio, con delle regole normali…


-bisogna raccogliere… la laguna ha nelle sue profondità un movimento ondulatorio… sin dalla spiaggia, dalla foce che l’ha creata. Se di tanto in tanto affiorano in superficie certe masse galleggianti, rametti o alghe che siano, è perché tutto riaffiora. E bisogna raccoglierle. Gronderanno rumorosamente, in rivoli scroscianti che sembrano non esaurirsi mai, tanta è l’acqua incorporata. Odorose di melma e salinità. E queste cose affiorate le puoi mantenere oppure sbarazzartene. Bruciarle, gettarle, portarle sempre dietro. Ecco il significato della ricomparsa delle cose in questo luogo.


Deciso ad andarsene, l’uomo airone si alzò. C’era ancora una lunga marcia da intraprendere.

Si stiracchiò, mosse il collo scattoso un’ultima volta, tra i paraggi e la distanza. Le colline guardavano mute sullo sfondo. L’acqua era il solito specchio inamovibile, poche increspature. Senza vento, doveva davvero trattarsi di un eco del moto del mare, trasmesso fin lì. In attesa di sgranchirsi del tutto, l’uomo airone gironzolò lì intorno, sentendosi affondare nel suolo stopposo. Intralciava qualche cianfrusaglia, la scalciava via. Si rivolse alla creatura rinchiusa nella sua coperta e per tenersi occupato si massaggiava senza accorgersene un occhio, infilando un dito sotto la lente nera.


-arrivederci, allora. Buona fortuna.


La creatura ondeggiò. Poi, quando l’uomo airone già si era avviato, quasi superandola, aggiunse qualcosa, frettolosamente.


-mi ha fatto molto piacere incontrarti. Un tempo, da un finestrino del treno, osservavo gli aironi sollevarsi in volo dai campi. La scena si ripeteva identica ogni mattina e sempre mi commuoveva.


Per la prima volta l’essere, rivolto verso l’alto come in supplica o preghiera al cielo, aveva guardato in faccia l’uomo airone. Fu questo invece a distogliere lo sguardo. Si rese conto che, per quanto si fosse irritato nella conversazione con un interlocutore che guardava solo il fuoco, avrebbe trovato altrettanto spiacevole sentirsi fissi addosso quegli occhi troppo notturni, estranianti nel giorno sereno. Cercando di avvicinarglisi, riempiendosi acquosi d’una specie di nostalgia del tutto inopportuna, facevano addirittura paura.


-arrivederci!-, ripeté ostentatamente. Partì alla volta delle colline più lontane.


Eppure, dopo un po’ nemmeno l’uomo airone riuscì a resistere. Continuavano a venirgli in mente scene del tutto separate dal presente. Da tempo aveva lasciato davanti al fuoco la creatura solitaria, e forse andavano esaurendosi i chilometri della laguna immensa. Perfino nuvole cariche di pioggia avevano cambiato colore al cielo, anticipando il tardo pomeriggio e la sera. Presto sarebbe stato fuori da quelle seccature. Ma compulsivamente rovistò nella tasca. Raccolse l’oggettino che rotolava, rotolava… lo tenne tra i polpastrelli, sollevato alla luce: un dente. Un moto di calore fluido in più zone del corpo, nostalgia, rincrescimento, imbarazzo. Era stato suo?


Pensò agli uccelli che quello là aveva detto di aver visto dal treno. Forse anche loro, separandosi da forme precedenti e fossilizzate, avevano perso tutti i denti del becco. Ebbe visioni -lui che guardava solo l’orizzonte!- d’un tempo conflittuale, d’ossa scalfite e sedimentate sotto strati di terreno fangoso, il terreno che aveva sempre considerato buono, intenzionato a calpestarne quanti più possibili. In quel passato nascevano scontri, cicatrici sugli occhi, e andavano perse, confondendosi tra loro, molte cose senza forma. Non possedendo tra le cose riaffiorate del materiale combustibile, come potevano essere dei fogli scritti, decise di lanciare il dente: compiuta una lunga parabola, schioccò acutamente come un chicco di grandine sparendo nell’acqua, una sola goccia sollevata nel punto d’immersione. Nella melma là sotto sarebbe affondato per non risalire mai più, insieme ad altre cose simili, chissà. Fatto questo, l’uomo airone non esitò ad alzarsi in volo, piegando verso sinistra. Volando, avrebbe percorso più velocemente la distanza rimanente per raggiungere il confine, e guardando le cose dall’alto si sarebbe inoltrato in un nuovo territorio. Scorrevano veloci sotto di lui, distanti tra loro in fila, tanti pali telegrafici trasportanti messaggi morti diretti al nulla, e solo ogni tanto si vedeva un albero. I fili si piegavano sotto il peso degli uccelli, flettendosi quando questi se ne andavano.


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