Il re che scende sul lago
- Milky
- 25 feb 2021
- Tempo di lettura: 30 min
Si racconta che i re di quel paese celebrassero le vittorie, le grandi imprese, gli eventi lieti, con un festoso e variopinto corteo di imbarcazioni sul lago, cariche di musici o di semplici sudditi, di dame e arcieri e soldati decorati a colori di splendidi uccelli e metalli preziosi; al centro la barca del re, salutante in piedi, dignitoso con al fianco la regina e i principi e le principesse e poche guardie e consiglieri fidati.
Quella volta il re andò da solo in barca sul lago. Non si sa se anche presso il popolo fosse nota la sua decisione: forse era un segreto, forse non avrebbero capito questo così insolito inadempimento a una tradizione di gioia e orgoglio, o forse, zitti zitti, lo sapevano tutti perché la cosa era stata comunicata, ma erano stati bravissimi a far sì che sembrasse una cosa segretissima. E infatti sembrava che il paese non esistesse, quella mattina in cui Re Ho partì. Tutti dentro le case, tutto un silenzio irreale che addensava l’aria fresca e i primi caduchi banchi di nebbia sulle acque e i canneti. L’incanto sarebbe precipitato se anche uno in tutto il paese avesse accennato alla cosa, o anche solo iniziato a pensarci. Quel giorno, insomma, che lo sapessero o no, stavano tutti in casa, senza fiatare, e il re andava sulla canoa nel primissimo corteo solitario che si fosse mai visto nel mondo.
Re Ho da solo aveva affrontato tutte le tribolazioni che proliferarono come teste di un’idra alla porta del suo regno, da solo andava a commemorarle, a sigillarle tra i capitoli precedenti nel libro della storia dei re.
-sono stanco, e il dovere che ho fatto non merita celebrazione da parte degli altri che ogni giorno senza lodi sentono di svolgere un proprio compito. Da solo volterò pagina.
Così aveva detto alla regina. Ma ella era di comprensione profonda negli occhi a virgola, che tagliavano perfino la notte, nelle mani esperte che sapevano tessere, comunicare, accudire e ammonire, infondere salute nelle piante dei giardini, rifiutare, svolgere cerimonia; e la regina indovinava, unica tra tutti gli uomini e le donne, l’animo del re o la sua ombra, poiché questo era sigillato in una segreta profonda del cuore che mai del tutto rilassava agli altri le proprie catene. C’era nelle parole del re l’assenza di un’intenzione che pure gli aggravava la voce, abbassava lo sguardo verso gli angoli.
-vai a finire l’opera, non è così?
Non aveva risposto, ma non era capace di concepire le alternative, altri esiti. E la regina non era capace -come non poteva esserlo alcuno- di smuovere un’immobilità assoluta.
-stai attento-, gli disse, e basta. Re Ho andò da solo sul lago perché aveva giudicato non più rimandabile il compimento di un’ultima presa, L’Ultima. Senza, nulla di ciò che aveva fatto avrebbe avuto senso. Andava oltre il centro del lago, oltre le nebbie perenni e i flutti strani, in quella zona dove le rive erano lontane e vaghe come i contorni violacei delle montagne al di là dell’orizzonte. Lì c’era, secondo la leggenda, il Grande Serpente D’Acqua che dal più lontano dei secoli del più antico dei re aveva infestato Lago Reale. Lo avrebbe affrontato e posto fine a quel male nascosto e ineguagliabile, che nemmeno i più grandi campioni del coraggio resi immortali dai canti epici avevano considerato di combattere, talmente esso era temuto nei sogni reconditi delle creature viventi come una forza della natura e del cosmo e del tempo. Sarebbe stato come affrontare il fulmine, la calamità, la pioggia, la fine del giorno. Ma Re Ho non aveva coraggio, aveva solo dovere. E il dovere gli veniva da dentro, lo comandava palesandosi in ombre fugaci ma intensissime negli anfratti del suo animo cupo e privato. Gli aveva detto di andare a cercare il Serpente.
Da solo? Non è proprio esatto. Dovunque andasse il re sempre lo seguiva Siki, il suo leale compagno. Dire che andasse “da solo” era soltanto un vezzo della lingua, perché da sempre si ritiene che un re che va nella vita non accompagnato dal suo popolo è un re della solitudine in cuore al mondo -o anche che non è veramente. Oppure ancora qualcuno incapace di capire alcuni importanti aspetti nella vita d’un individuo reputerebbe “solitario” un uomo che proceda senza altri uomini, ma con la compagnia di un cane o un destriero, di un furbo gatto o di un falco cacciatore. Ma Siki era compagno d’un legame speciale, incomunicabili agli altri. Perfino l’occhio della regina, posandosi su Re Ho e quel suo strano animale, scorgeva una distesa immensa di significati perennemente avvolti da un mistero, un manto impenetrabile di neve, così rara in quel paese. Ma sapeva che sotto al biancore pungente non covavano segreti grami: saperli sempre insieme la rassicurava, non poteva essere altrimenti. Per forza andava sul lago con lui, come era sempre stato. E lei non sarebbe stata una regina gelosa d’una bestia particolare. Il dovere del re era del re solo e, per un caso, quello era un re che sempre si faceva seguire da un’ombra pelosa, agile e grossa. Così quella mattina vide salpare e allontanarsi la barca che trascinava ai fianchi in spirali sciabordanti la familiare acqua liquorosa del lago, e insieme la presero un’inquietudine d’un destino che non poteva contrastare e la serenità, colma di placida rassegnazione, nel fatto che questo destino andava comunque a compiersi nel modo migliore possibile. Qualunque fosse il suo esito.
La superficie era liscissima come uno specchio d’un vetro perfetto nella sua sottigliezza, eppure prossimo a farsi molle, a frangersi ballonzolante per accogliere il movimento delle cose vive, e subito dopo arrestarsi silenzioso e profondo. Sembrava riflettere solo le immediate vicinanze della lunga canoa quasi vuota, i suoi bordi e le sagome, fratturate sull’acqua, degli occupanti; tutto intorno un’indefinita massa come biancastra -o grigia- anzi, il meglio sarebbe dire che non aveva colore, non aveva dettagli, non aveva nervature o accidente alcuno finché qualcosa non la attraversava. Lago Reale, si diceva, differentemente da altri specchi d’acqua del cielo non assorbe solo l’immagine, ma anche il carattere. E così placido ma fermo, razionale ma minacciante di potersi scomporre, si tuffava in lago quel cielo d’un mattino presto, nel momento in cui in una giornata normale, eccetto qualche richiamo di ghiandaie o d’una civetta tardiva, si sarebbe udito in paese solo qualche clangore di mestieri molto mattinieri, e lontano dal paese solo qualche tamburellare in fila di gocce di rugiada dai rami. O chissà, il suono di corni e di latrati di segugi lasciati liberi come in certe mattine simili e adatte alla caccia, in cui folti gruppi si allontanavano per la boscaglia spargendo tali rumori e consuetudini tra corridoi di legno e foglie, ficcandosi in ombre e rispuntando in radure. Nulla di tutto questo, le guardie e i cortigiani non c’erano, dimenticati, blindati in qualche stanza del castello. Le rive, sempre più lontane man mano che la canoa fendeva lungo la linea dal molo al nucleo, non si adornavano di corse e balzi di cervi o uomini che fossero, il verde puntuto dei pini già sfumava. Un gracchio qua e là, ma troppo lontano, l’orecchio del re poteva anche ingannarsi. Stava rinunciando ai rumori familiari delle rive, della terra calpestabile. Bussavano sul legno i passi degli stivali, quelli felpati di Siki lo sfrusciavano appena nei suoi anguillari scatti. Il re tornava a poppa per sporgersi ancora, un’ultima volta (e per forza conveniva che fosse l’ultima: doveva starsene saldo in piedi e deciso, un re, senza tentazione di cominciare a fare avanti e indietro sulla barca), a rivolgersi al castello che s’allontanava, la penisola della riva est sulla quale da tempo immemore s’era stabilita la stirpe che aveva guidato tutto il popolo. Non più si distinguevano le teste irsute dei più alti cipressi, svettanti a tenda dietro la muraglia dei giardini, già erano addentro al nuvoloso brusio disomogeneo della lontananza stalle e cortili; ma ancora ammiccavano sotto guglie e archi, a puntellare la foschia, sparute finestrelle, nicchie così insignificanti nella distanza. Anche laggiù, lo sapeva, nessuno era affacciato ai davanzali quel giorno. Nulla sporgeva sul lago e sul mondo eccetto se stesso, la barca e la bestia che erano come sue parti del corpo, gemelli siamesi, lembi d’anima. Se qualcuno era a salutarlo dietro la scorza cilindrica delle torri, allora stava distante dalla finestra, ancora accoccolato nel calore di fiaccole sui corridoi e rossi tappeti se ne stava a vedere rimpicciolirsi un apostrofo sulla totalità dell’acqua, un girino nell’immenso. Tra banchi trasparenti di nebbia si reggevano le gambe del re trattenendo i tremori del primo gelo di giornata, con fragore ventoso cadeva il mantello dietro alla schiena che con nerbo a lungo appreso lo indirizzava alla dimora di sempre. Siki non stava fermo, perlustrava e odorava sul legno, ma senza fracasso. Re Ho in commiato all’est (e a tutto quanto) pronunciò parole sottili pensando alla Regina Ikye, ora che era certo che nemmeno il più indagatore degli uditi di lei sarebbe riuscito a coglierle. Volarono come condensa nell’aria madida, poca saliva subito evaporò ingrossando la schiera di gocce varie nell’umidità mattutina. Poi il re si voltò, ripercorse il legno, e si rimise a prua, una gamba avanti con ginocchio a picco nella posa degli esploratori romantici, e lo sguardo granitico che aveva missione di non vacillare mai davanti all’ovest lontano, ma sempre più vicino -l’unica cosa che doveva vedere, l’unica cosa rimasta al mondo. Forse era vero che senza un popolo un re aveva poche cose al mondo. Ma almeno ogni tanto un balzo di Siki, per leggiadro e arioso che fosse, riatterrava con un leggero cigolio di giunture di legno, appena piegate sotto il suo peso.
Quello di Siki non era un atteggiamento insolito. Altre volte si era visto che protendeva il collo lanoso e folto oltre i confini di un territorio demarcato dai suoi sensi profondi, e lungo esso si spostava senza sforzo imitando le nuvole adagiate al vento; pareva danzasse simile a un fantasma del campo di battaglia, inquieto nei movimenti ma baldo nell’animo, mentre il re passava in deambulata monolitica tra i soldati pronti a un assalto, a una prova di coraggio. Guardavano Re Ho, in mezzo a loro come compagno -una torre che cammina- e cominciava a dissiparsi un certo inspiegabile fluido che era apparso a ribollire nel petto frenesie di vario genere, al pensiero di spada e carica, di separazione, odore di sangue, uccelli di becchi aguzzi su corpi; Re Ho guardava Siki e ricordava, e si rinfrancava sapendo di fare affidamento sulla sua vigilanza. Anche un re, nascostamente, aveva bisogno di scacciare fluidi invasivi dal petto, forse i più rapidi e più densi di tutti.
Siki era stato “la sua prima notevole impresa”, quella che subito fece capire che Ho fosse uno di quei re, come ne sono nati a volte all’interno di quella stirpe, dotati di un potere raro e celeste. Ancora al tempo in cui Re Ho era “Principe Ho”, Regina Ikye “Principessa Ikye”, il loro destino insieme già scritto nel tempo, e la loro ignoranza del significato del fatto -di tutti i fatti dell’amore e del corpo- robusta come un dogma. Non una mattina, ma un tardo pomeriggio di caccia, all’ora di fagiani e pernici, in un convivio campestre tra le due famiglie nobili che tra strascichi e paraventi si umettavano appena dei morenti raggi arancioni, un cielo che cantava un periodo ancora di pace e sollazzo. Il principe e la principessa passeggiavano tra gli arbusti, pieni di contegno conversavano ponendosi l’un l’altro domande senza risposta sotto il gorgoglio di ruscelli nascosti dalla macchia, avanti e indietro tra essa e la roccia bianca dei cancelli di una residenza baronale, là in mezzo alla radura. Soli loro due, lontani dall’appostamento di baldacchini e cavalcature di famiglie e guerrieri, suscitavano ricordi di storie identiche, sospiri analoghi alle canzoni d’amore dei libri di poeti. In un fitto adiacente alle mura esterne della residenza si guardavano vociando sommessamente, curandosi solo dell’ombra fresca e non di quei nobili adulti che sorridevano di loro con fare di saperla lunga. Meno di dieci anni, lei già li sapeva veder tutti, li vedeva uguali a tutti gli atteggiamenti di quelli della loro età, che forse avrebbe avuto anche lei e tutti i successori sotto il cielo; lui sapeva già accettare questa e tutte le altre realtà, già scavava dentro di sé una nicchia in cui ficcare tutte le cose, perché ancora non era re ma credeva che volesse dire proprio questo. E in quel fitto, fuggito dal trambusto di lance e frecce, la paura di un cinghiale imbizzarrito distrusse ogni immobilità d’erbe e rilassati sentimenti. Nel gruppo lontano subito si rizzarono, qualcuno pose le mani all’arma, ma era troppa la distanza e troppa le velocità della carica che stava preparandosi davanti ai giovani promessi, a pochi tratti dalle ombre scure del bosco in cui si generavano gli esseri di zanne e unghie. Comparve nel principe, uguale a ciò che di quel principe ancora il re cresciuto si porta dietro, quell’iniziale, fulmineo stupore che ne stravolge il volto a ogni manifestazione irruenta del mondo, quel senso di meraviglia o paura o chissà cosa che è nel carattere del re un barlume fanciullesco. E subitissimo, tanto che solo i più svelti notano in realtà questo suo primo stato, si sostituisce la risolutezza, cancella ogni tumulto e il corpo del re si fa straordinariamente teso d’una tensione priva di timore che assomiglia a una guerra che ha in petto la pace. Siki era uno di quei guardiani di pietra, un po’ cane un po’ leone, dormiva un sonno di granito su una colonna là tra le fronde e i cancelli. Il principe con uno scatto si volse a esso, e con un gesto di mano lo svegliò. La creatura ridestata si tuffò in una folata verso il cinghiale in carica, gli si parò davanti, lo respinse con un rombo di gola che era latrato, ruggito, tonfo di cose di montagna. E lo stupore passò a tutti i presenti, e la serenità calò su di loro come quella di un principe che aveva compiuto un’opera, cui già andava a dare i nomi “dovere” e “volontà”, e quella di una bestia che apriva gli occhi e i muscoli a un incantesimo. Il giubilo che ne seguì si svolse come un drappo al vento a coprire strane sfumature dell’accaduto, i comportamenti che il principe da solo si insegnava nascosero ancora di più le misteriose tinte di un animo che a volte lanciavano inavvertiti luccichii all’esterno. E tutto ciò che il principe o la gioia non furono in grado di nascondere, il silenzio della principessa lo lessero: quell’istante nel panico, quell’impulso morale che per primo mosse la mano e in essa infuse un incanto strano. Principe Ho sapeva mutare la pietra in vita e la vita in pietra. E lesse un’amicizia, lunga nel lungo futuro, tra un umano e una bestia che erano una sola cosa a due teste e due corpi, situazione sulla quale lei non aveva potere. Ikye si addormentò quella notte pensando a quell’uomo a cui un giorno sarebbe stata legata, in una fantasticheria che su questo cuciva un futuro per sempre avvolto nel mistero. Tra reti di sospiri soffiavano in cuore e nella testa attrazione e dubbio; sognò il lago, più austero d’un gigantesco padre, e una grande mano rapace, o il lago che tendeva questa mano… pianse nel centro della notte, come molte altre volte faceva e avrebbe fatto si accasciò ai prismatici contorni di fredda pietra dell’alta vetrata nella sua stanza, guardando verso l’angolo opposto lassù la luna piena che lì andava a incastonarsi in quell’ora cupa. Era il suo ricordo di solitudine e nostalgia di infanzia, di adolescenza e giovinezza, quelle sue belle notti private che nessuno fuor della luna sapeva.
La luna a quell’ora era ancora visibile, appena un velo di cheratina cosmica sul cielo spento e bagnaticcio. Ma il re non stava a cercarla con la testa all’insù, ormai guardava solo l’ovest, l’ovest di nebbia. Aveva mai pianto, Re Ho? Non con le lacrime. Ma non perché la reputasse una cosa indecorosa, indegna d’un uomo o della sua posizione: forse, non aveva mai incontrato in veglia un fenomeno che avesse il potere di fare acqua di quel pianto che in certe occasioni gli baluginava dentro. Certo, il re aveva visto molte persone andarsene per sempre, molte cose per sempre scomparse. Nemmeno nella più maestosa delle sue imprese sarebbe mai riuscito ad andare a recuperarle, per quanto fortemente potesse bramare il ritorno, la fine eterna delle separazioni, per quanto potesse far scendere su di sé il potere delle stelle: questa era la verità che, in fondo, si innucleava davvero in tutte le leggende e i racconti, sulla quale tutti i monaci e precettori e sapienti avevano sempre concordato. Miti insegnavano di illustri fallimenti di un tempo remoto, di punizioni, del grande rimpianto ch’era un singhiozzo del mondo. E come esso i singhiozzi del re erano in silenzio, erano passeggiate che aveva fatto soltanto con Siki per campi sperduti, per sentieri lontani dalla dimora, rivangando tra spighe e brine rurali le smunte proiezioni di giovani soldati che aveva udito ridere in un accampamento prima d’un assalto iroso, e di destrieri fidati o puledri mai nati, andati via con la madre; e vecchi diradatisi nel fruscio del tempo, e malati di crisi pestilenti, e un vecchio re e una vecchia regina rinchiusi nella terra sotto un santuarietto, e roba marcita o incenerita senza più forma, e foreste appassite e mura in briciole… ricordava tutto. Perché anche nella memoria doveva essere abile un re. Ma la memoria non era mai riuscita a farsi acqua.
Ci fu un momento, forse anche solo un istante, in cui Re Ho chiese a se stesso se questa non fosse una sorta di mancanza, un’altra cosa che quel suo orologio etico interiore gli avrebbe suggerito di compiere. Ma ormai stava per esaurire tutto il suo tempo, il tempo che per un certo numero di anni aveva preso il suo nome e oltre quel punto -proprio come lui non poteva- nessuno sarebbe potuto avventurarsi a recuperarlo. Forse allora, come si sentenziava spesso nel parlare quotidiano, “era destino” che proprio sull’acqua scivolasse lento quel suo importante viaggio.
(lo avevano lasciato morire? Sapevano, lasciando andare il re sul lago, che a loro da quella sua scelta sarebbe rimasto un unico ineluttabile e lancinante significato? Lo sapevano, e non lo sapevano. Sapere e non sapere allo stesso tempo: almeno in quel paese -chissà com’è invece nel resto del mondo-, questo era il significato della “rassegnazione”. Ne serviva molta, a chi coi suoi stemmi e insegne, cerimonie e corone, parole inaccessibili ad altri, rappresentava le idee di tutta una massa di anime, solidificava in castelli e cronache uno “spirito” che là s’era insediato, tra foreste e fiumi, bevuto e mangiato da tempo immemore dalla gente delle prime capanne, dei villaggi, dei paesi, entrato in circolo dai ghiacciai d’alta montagna fino al mare…)
Le canoe che scendevano sul lago, a festeggiare o per un’ultima traversata, quand’era il re a montarle non necessitavano di remi. La propulsione era una gravità inspiegabile, pareva che il contatto con gli stivali dei sovrani sbloccasse in esse una nuova coscienza, una folle impressione sensoriale come se il lago si trovasse in realtà su una lieve discesa, e perciò cominciassero a precipitare adagio. Si diceva che fosse una volontà inarrivabile a muoverle, ma nessuno sapeva. In quei giorni di festa, per farle tornare indietro ci volevano i muscoli di uomini della scorta, non esisteva alcun nobile intento di ritornare che potesse sospingere un’oblunga scodella di teak lungo gli squarci da poco lasciati e subito rimarginati sull’acqua chiara. Un magnetismo dal palazzo d’oriente al lago su cui svettava, su una penisola d’orgoglio. Fino a quel giorno però nessuno si era ancora dedicato a quel magnetismo, che del resto era una cosa implicita, le parole umane non l’avevano mai nominato. Forse per questo l’incedere della barca conservava in sé un ritmo unico, tale da scrosciare un dialogo udibile solo a orecchie d’acqua. Si dicevano cose, la barca e il lago, che uno non avrebbe creduto possibili, impossibile una tale intesa tra enormità in cui palpita uno spirito arcano del paesaggio e un piccolo oggetto, ingegno di creatura mortale. Una preghiera riuscita. Nulla poteva scuoterla. Nemmeno il passaggio inaspettato di un grande cigno bianco, tutto cerimonioso crogiolandosi di grazia. Anche Re Ho lo vide, essendo passato non molto più in là (“Ah!”, aveva pensato lì per lì), il suo candore pareva essersi addensato dalla nube di vapore da cui era uscito d’un tratto, ma senza bruschezza, senza l’ardore fin troppo vitalistico degli esseri di terra. E così se n’era andato, diretto per chissà quali suoi interessi, diversi da ciò che attendeva al centro di Lago Reale. Parve ricordare al re che, in verità, sebbene fosse quella una mattinata straordinariamente silenziosa, non poteva esserci al mondo un posto di totale silenzio; e se c’era, doveva trovarsi laddove c’erano tutte le cose irrecuperabili, lo stesso posto proibito in ogni coscienza esistente. Risuonarono in un ritardo della memoria uno a uno i tonfi secchi che si erano susseguiti, sciaguattare rude ed eco d’onde concentriche, chissà se pesci o rametti o quale altro tipico incanto lacustre; cose che erano giunte ai sensi senza lasciarvi impressione, come normale scansione di vita. Solo a intermittenza, dunque, quella quiete irreale. La barca fece su e giù, quando con poca più forza del solito Siki si era sporto con le zampone sul bordo a seguire l’allontanamento del cigno. Qualsiasi movimento d’uccelli, d’aria d’acqua o di terra, lo affascinava, forse un ricordo di quando la sua esistenza era pietra e non vedeva, e solo gli uccelli pennellavano la campagna. Il cigno in pochi minuti era scomparso, l’aria era densa in ogni direzione, indipendentemente dai banchi di nebbia che pure erano sempre più frequenti. Le rive, dimenticate, l’atmosfera la stessa della partenza, ma più intensa come nel climax di un sogno. Il vento non c’era, ma pareva che a Siki, quando stava così attento su qualcosa che scompariva all’orizzonte, una qualche sorta di soffio sempre sollevasse la criniera rossa dal dorso e dalle zampe, mostrando meglio il pelo corto azzurrino sotto questi nuvoloni purpurei, sparpagliando i peli spessi anche dal volto che così meglio protendeva gli occhi gialli, sempre così arcigni per sopracciglia ondulate. Chissà perché, anche a quegli occhi parve familiare la gran quantità d’acqua calma, quel colore vacuo e indefinito, salmastro e di presagi.
In mattine come quelle sembrava di sentire odore di braci lontane. Frammista ai respiri d’erba umida e sentori d’acqua dolce, l’aria ferma sopra i campi sterposi si impregnava di quell’inspiegabile vaghezza di fumo. Ancora si sentiva remotamente pure in un punto molto lontano dalla terraferma. Il re l’ebbe sempre notato, interrogandosi se non fosse l’eco di fuochi accesi tutti diversi, feste e riti antichi, battaglie, pire funerarie. Il loro poteva essere un paese del fuoco e dell’acqua.
Un paese a limite tra continenti, un crocevia di turbini. Si scontravano l’immobilità di tradizioni perenni e i nervosi cambiamenti sempre a vorticare su zone di confine. Era nato patriarca di questa terra, senza spiegazione, sapeva che ciò significava essere un corpo alternativo di quella stessa terra. Suo ricettacolo, corsi d’acqua per vene e fertile argilla per pelle. Sentiva in un gesto di mano, quella mano che poteva svegliare la pietra, la responsabilità del crollo d’una montagna. Mani quasi stanche, addirittura: era stato un regno lungo e denso di eventi degni della cronaca del più abile scriba, vincitore di affezionata e imperitura memoria; ma non potevano arrestarsi, appartenendo proprio a Re Ho. Si preparavano ancora, adagiate ai fianchi.
Giovanissimo erede, aveva pacificato i contadini in lotta tra loro per il recupero delle risorse, sciupate dai geloni di un precedente regno. Riforme agrarie, le idee dei più illuminati messe a consiglio, raccolti tutti i migliori pensatori e messi lì a corte in un circolo di menti che non si era mai visto. Due grandi ponti sul fiume, ricostruito quello vecchio e cadente che aveva costretto tanti viaggiatori a impervie vie selvatiche; tra questi pini e mangrovie e palme, sedati i selvaggi del più nero cuore di foresta montana, risparmiati con misericordia esemplare quelli disposti a gettare archi e fionde; reintegrati tra la gente, messi a lavoro d’ingegno manuale e fisico. La lunga, estenuante e infine vittoriosa campagna militare contro un regno vicino, che periodicamente tormentava e cedeva, si calmava e arrabbiava; solo una visione di speranza, una convinta fiducia in un tempo che sarebbe giunto, la sopportazione impassibile poterono dare una gloriosa conclusione a quella storia. Gli anni di commemorazione, le festività nazionali per tutti i caduti e le loro famiglie, i nuovi santuari per accoglierne anime e ossa e ceneri. E anni dopo la malattia, la sporcizia proveniente dal nord, anni in cui non si poté nulla, se non sopportare di nuovo, e ancora, e più forte, solo con la determinazione e le fondamenta già solide. Superata anche quella tremenda moria che deturpava i corpi e inquinava le anime. La ricostruzione, le cure; l’anno in cui, per la prima volta dopo secoli, tornava ad appollaiarsi sul trespolo sacro nel recinto della pagoda la fenice dal becco corto, emblema di re antichi e santi: scendeva a omaggiare Re Ho, che tese le mani al piumaggio solare. Arancio brillante, subito la fenice ricordò al re uno di quei pollastri dalle penne metalliche, dal pigmento di fuoco, primi in orgoglio nell’aia o ruspanti arditi di boscaglia. Ma ella era più grande d’una gru e più forte di un’aquila, si diceva che avesse portato il primo re in groppa sopra i cieli. Furono inebriati i contemporanei nel vederla vicina proprio al loro re, che stava vivendo in quel secolo. Si celebrò al lungo quel lietissimo presagio, ci si commosse alla piuma che la fenice diede in dono a Re Ho, da portare al collo, così da illuminarne il governo coi suoi riflessi. La fortuna che ne venne, alle spedizioni che comandò per le lontane miniere d’argento, che diedero nuova gloria ai cercatori, cantati come eroi, e tante ricchezze a tutto il popolo. E gli anni di prosperità, e nuove battaglie vinte e ribellioni di confine sedate, e la definitiva sconfitta dei giganti, per sempre sigillati in sonno di pietra dietro alti e robusti monoliti incrociati nelle bocche di tre grandi tombe nella terra: sono le colline che ancora oggi per questo hanno il nome “tumuli dei giganti”, sì, fu proprio per le gesta di Re Ho che presero questo nome. E di altre mille imprese ancora si è scritto e cantato più volte. Di altre non si è cantato, cose private dietro mura belle ma impenetrabili più delle prigioni, le questioni della Prima Famiglia del Regno. I servi che vedevano il re uscire cupo da certe stanze, quasi addirittura nervoso, la regina che guardandolo sparire come rattrappito nel suo guscio di mantello rimaneva alla soglia, strozzava di impotenza in gola prima di mandare un qualche ordine perentorio di faccende -dissimulare sapendo di farlo e perciò farlo ancor più forte per non dar tempo di formarsi alla timidezza di desistere; le voci che s’erano mezzo udite e scambiate di continuo, di un principino che era forse malato, forse non camminava o era svitato o non aveva voglia di regnare, dottori o forse altro tipo di luminari che entravano e uscivano di nascosto, portati da carri coperti, circondati da manipoli di fanti… passavano anni e ancora nulla trapelava, il re era un buon separatore come i migliori re; e a ogni suo compito si faceva più grosso e più piccolo al tempo stesso, più glorioso e più segretamente stanco.
E nemmeno si tramanda quanto tutto fosse difficilissimo, quasi impossibile. Tanto difficile che nei santuari degli antenati, certe statue decrepite di nobili antichi quasi dimenticati sospirarono dallo stupore, spaventando qua e là un povero vecchio che pregava in solitudine o fomentando leggende locali di strani echi stregati nelle notti insidiose quando la luna e la nebbia si coalizzano. Gli antenati da tempo defunti vedevano, si diceva, sapevano i sentimenti e gli affanni privati d’ogni più piccolo seme come se fosse naturale percezione. E sembrava loro di rivivere in Re Ho, vivo su questa terra, situazioni che avevano conosciuto, e allo stesso tempo di sperimentare per mezzo della sua singolarità una, come chiamarla, un’angoscia indescrivibile, mai sentita. Forse questo era semplicemente ciò che sperimentavano con ogni re che veniva, dimenticandolo e reimparandolo a ripetizione -dopotutto nemmeno gli indovini sempre in ascolto degli antenati possono immaginare cosa provino. O forse era proprio un’esistenza diversa, quella di quel re con la piuma al collo e il cane leonino alle calcagna. Gli esseri senzienti trascorrevano i giorni staccando uno alla volta flaccidi pezzi di se stessi, ricomponendosi con altre parti, un po’ somiglianti ma sempre diverse; ce n’erano alcuni che sembrava recidessero di più, che si sfregiassero con maggiore brutalità, costringendo le vicinanze a un più innegabile e destabilizzante odore di sangue scoperto, un color ruggine invasivo perché troppo vero e pulsante. E alcuni di questi sapevano soffocare il lamento di dolore, non perché fosse giusto o naturale, ma perché per qualche motivo in tutto questo processo qualcuno si faceva da sé principi e comportamenti imprevedibili.
Si infittiva la nebbia, infittiva, infittiva, pareva quasi irritata. E, cosa assurda, anche la barchetta sembrava accelerare, il battito cardiaco pompare a ritmo fin troppo insolito. Da quando s’era varcata una certa linea invisibile nell’acqua del lago, ormai non esisteva più nient’altro che l’esaurirsi di quel tempo, di quella scena tanto attesa. Attesa da chi? Non erano solo i sogni del re, o almeno era questo che il re sentiva: al suo sogno comparava un altro ineffabile ed eterno, che inevitabilmente ci sarebbe stato. E stava per essere con lui. Nei momenti passati in cui già con la mente si proiettava a quel presente che andava spedito su una cima spigolosa di canoa, l’immaginazione del re si infebbrava fervida, riempendosi di lampi grandiosi di piccola apocalisse, col rimbombo tonante d’un salmo. Pensava per scene che raccontavano d’esser già state viste, prendendo forza proprio per questo. Era dunque in ansia il re? No, assurdo: era la stessa solitaria eccitazione uguale a un urlo nelle viscere di una valle, quella che nessuno mai aveva visto, quella che anche per la regina, la più saggia tra gli umani nel tempo, altro non era che un sospetto lancinante, affilato quanto più intuiva la magnitudine di ciò che non poteva vedere e che dalla sua profondissima fossa arrivava perfino a scuotere appena percettibilmente la crosta più esterna di quell’uomo obnubilato di enigmi. Eccolo, eccolo il delirio! Se l’avesse visto in quel momento, le sarebbe parso un bambino che non era mai stato. Lei da tempo si era allontanata dalla finestra, tornando alle cose del regno e della famiglia. Lui era in un mondo privo del concetto di ritorno, un mondo contraddittorio i cui invalicabili confini erano di elementi fluidi, acqua e vapore e leggenda.
Ed ecco anche Siki sbuffare boati per le quattro direzioni, piccoli rimbombi persi in cerca di pareti che non ci sono, inghiottiti da foschia d’un orizzonte nullo. E la barca procede rapida, più spesso cigola il legno, più concitata sembra farsi l’aria come riempendosi di rumori, molti dei quali forse nemmeno esistono. Le orecchie sognano in quel cerchio di nebbia, oltre la barriera lontana nel cuore del lago: se si attraversa con coraggio quel punto e si prosegue veloci, inevitabilmente compaiono tamburi, come alla più sanguinosa guerra, tremano pelli invisibili, pulsa ogni cellula di corpo e atmosfera fintanto che non ci si arrende. Fermarsi? E in un posto del genere, nell’avventura mai intrapresa da alcuno? È uguale a morire. E il re non potrebbe fermarsi neanche se lo volesse, non prima di essere fermato da una certa cosa in un certo punto, e là nemmeno potrà esser stasi: ci saranno colpi e difesa, movimenti di muscolo consumato d’esperienza, scalfito di segni di lancia ancora visibili, ci sarà Siki che destando un parossismo d’istinto battagliero aumenterà frequenza e ampiezza di balzi, in quel momento più onda che cane, più dragone magico che leone. Ci sarà la spada, forse, o forse lo scudo o il colpo di mano distributore d’incanti, cui potrà rispondere un fiato di fuoco da fauci fetide, o un respiro di veleno, o danza fulminea di spire vorticanti in eterno…
Ed ecco il re che sogna se stesso sulle carte antiche, le mappe tracciate da quelle menti infatuate di vita e morte, temerarie pioniere del dubbio che tentavano di dare una forma ai fervidi contenuti in agguato di là dai confini del mistero. Disegni di vortici turbolenti lungo una linea ipotetica, prima d’essi sulla superficie cristallina le barche e le rive e i pescatori e le cose della gente, e gli uccelli d’acqua e i pesci normali; dopo, i caratteri portatori d’una pronuncia remota, oggi quasi irriconoscibili, echeggiano note formule di divieto attorniate da fulmini di tempesta e membra mostruose a tratti uscenti da acque inscurite, e più a fondo una bestia mai vista dotata di fascino e minaccia oltre ogni limite da una fantasia ibridante che prende a prestito da creature lontane: rettili di ferocia e freddezza di sangue e pupilla, di forma serpentina, pesci di scaglie e bluastro e denti afferranti, branchie come tagli sempre aperti su una gola pulsante di brama di lotta. Tali erano le figure che comparivano sulle rappresentazioni del lago, le carte che ne descrivevano i capricci dei flutti, gli atlanti, i miti illustrati nelle scene in cui il lago aveva fatto da sfondo a finzioni immortali. Era entrato, Re Ho e il suo Siki avevano valicato quel mondo che mai era appartenuto a uomo alcuno o animale di terra, in un’acquosa tela della mente si paravano in inchiostri l’arancio e il rosso delle sue vesti su una singola coraggiosa canoa davanti a un altro re, quello del mondo sommerso e delle creature ributtanti. E in poche pennellate scure gli occhietti minuscoli, da uomo, e i peli aguzzi del pizzetto che in certe punte già incanutiva, la chioma bruna ricadente sotto la corona d’argento e smeraldi. Come una macchia, Siki celestino quasi bianco e di fuoco con rosse criniere, fluttuava come un’ombra e un protettore. Che sogno era mai?
Re Ho aveva le allucinazioni. Sperduto tra le nebbie inesplorate cominciava a vedere scene di vanità e poesia sublime. Era tutto opera di quel posto, maledetto o divino che fosse? Sotto l’acqua esistevano gli inferi, sotto la carne un loro specchio. Re Ho non se ne accorgeva -non sentiva più se stesso-, ma i respiri a bocca mezza aperta gli erano diventati ruggiti, rauchi da sotto la gabbia toracica: “haarr, haarr!!”, facevano, e Siki, che così bene conosceva il suo padre e fratello -che era lui, suo distaccamento, era il proprio aver preso vita- non sembrava trovarlo strano, non si allarmava, non rizzava le orecchie cadenti. Soprattutto esse udivano un ronzio costante, recondito ma sempre più vicino; simile a quello, stizzito, che con ricettori sopraffini ogni volta avvertivano prima che la terra stesse per squarciarsi, prima che i vulcani capricciosi tossissero le loro sdegnose incandescenze, prima che tempeste e cavalloni si riversassero a devastare spiagge o i fiumi a macerare risaie.
(avvicinati. Sento il tuo odore, a questo reagisco chimicamente. Mi esalto, mi inebrio, è un richiamo fatto della mia sostanza che risuona a se stessa. Magnetismo, ti porta da me.)
I poemi giungevano alle ultime stanze, gli eroi d’inchiostro scomparivano assieme a pagine o tratti di rotolo, le vibrazioni sonore di nenie di monaci innalzantesi verso il sole come fumo d’incenso si affievolivano fino all’inudibilità degli esseri. Re Ho era arrivato, privo d’orientamento nel cuore di nebbia che cancellava spazio e tempo: era forse il centro di Lago Reale, il centro geometrico, o qualcosa di molto vicino; l’unica indicazione spaziale che lì contasse era il modo in cui si manifestava quel fenomeno, bloccando la barca, vale a dire che “quella” (quella scena, quella creatura, quella zona da essa occupata…) fosse una destinazione. Potente in se stessa, più forte del prima e di un dopo che non poteva esserci -non era per via acquatica che si poteva approdare a occidente.
Ci fu una prima onda che sballottò la barca, sollevandone il muso, imprimendole un saltino che schiaffeggiò l’acqua: da un punto a circa cinque lunghezze d’uomo cominciava un bollore, una massa scura si spandeva visibilmente da sotto la superficie. Onde concentriche si moltiplicavano sempre più frenetiche e fittamente, decelerando progressivamente la barca che parve arrestarsi giunta vicinissima a quel punto, ormai tutta addentro quella massa scura; a vederla dall’alto, la barca era inscritta, inglobata in un cerchio minaccioso, campione d’insidia sotto il pelo dell’acqua. E in questo punto, un buco: come ci fosse qualcuno a soffiarci sopra, l’acqua si aprì crepitando, mentre tutto intorno affioravano in gorgoglii torme di bolle irose. Siki si era fermato e piegava le zampe, pronto a uno scatto a molla e a un morso a una gola ipotetica.
Re Ho chiuse gli occhi: c’era arrivato, era di fronte alla creatura acquattata sotto il paesaggio di storie millenarie, il timore acquatico così introiettato da non esser nemmeno protagonista di discorsi e favole. Parte stessa della pelle di un popolo, sotto la quale lui, il re, era andato a scavare. Vedeva nero di palpebre e intanto percepiva l’aumentare dei soffi sommersi, la lenta salita all’esterno alla quale infine avrebbe dovuto aprire la vista.
Aprì gli occhi (un lampo, un lampo nero, in un). La cosa stava cominciando a uscire, si mostrava nuda (un lampo nero in un tardo pomeriggio d’estate. Due o tre odori, l’odore di), quella nuda pelle raccapricciante che non apparteneva ad altri esseri (odore di vegetazione rurale, quello stesso mezzo affumicato, la caccia d’un tempo, e l’odore di quel lampo di pelo nero, pungente di muschio e fango, e l’odore di lei, delle sue mani, delle sue parole, che). Non pareva un serpente, un drago, un grosso pesce che s’abbatte sulle navi (l’odore di lei che non deve, non è corretto che si trovi in questo momento qui con questo altro odore selvatico e queste zanne bianche in lampo nero, non con me qui, è sbagliato. Cos’è questa creatura?). Il corpo lungo, che si piegava in un giunture, s’apriva in una testa come la corolla d’un fiore. Non un paio di occhi, eppure un’inspiegabile convinzione d’esser guardato da mille piccolissimi occhietti, sparsi su tutto il corpo e non sulla testa strana. Partiva allargandosi dal “collo”, prendeva forma quadrata e poi si restringeva in corna o petali, uno, due, tre, quattro, cinque… un palmo e delle dita. Dal cuore di nebbia del lago era spuntata fuori una mano, ricoperta di una pellastra argentata e celeste come manto scaglioso d’un pesce, rattrappita di rughe e cicatrici e cirripedi e palpitante d’acqua che grondava dai pori. Puzzava di acqua stagnante, di reperti portati a galla ricoperti d’alghe di fondale. Le dita, lentamente, si muovevano ad alternanza come orride antenne che cercassero di abituarsi al nuovo ambiente. Svegliandosi, diventavano più veloci, la “mano” si faceva svelta e imprevedibile. Il suo ergersi, il suo movimento, la sua apparizione… non erano meno armoniose -di quell’armonia perfetta di paura natura e bellezza- di quella racchiusa nella continuità raggelante di un sibilo di rettile. Re Ho non conosceva quella forma, non l’aveva presentita da leggende e nemmeno nei suoi sogni; eppure era la stessa che incontrava là, e intimamente in un subbuglio spaesato di viscere la viveva molto più forte, molto più dolorosa. Troppo di più: là dove vapori spettrali chiudevano fuori il tempo, lo stupore del re ebbe durata che non ebbe mai sulla terraferma, accanto agli uomini che nemmeno vedevano i suoi scomponimenti. Sopportava, sapeva reagire alle cose che si mostravano diverse da come le prevedeva. Mai una tale forma sfuggiva però al controllo delle dritte leggi della sua mente, mai era così sgradevole. Infine si calmò, come sempre. Con la meraviglia si dileguò in una fossa anche l’abbaglio d’un ricordo vecchio, la regina e un cinghiale fuorilegge, un primo timore. Siki rimase in guardia, non avventandosi sulla cosa che poteva aggredire.
-e che? Saresti tu, il Grande Serpente D’Acqua di Lago Reale?
La voce del re, sempre bassa e un po’ nasale, pareva come raffreddata per piccoli sussulti. Esitava, non riusciva a imporsi. C’erano stati re che avevano comandato anche con la forza della voce; lui era di quelli che preferivano la gravità di certi silenzi densi di cose complicate, diversi dai silenzi indaffarati della gente.
La mano parlava.
-tu ci conosci.
Parlava come in un coro. Le voci giungevano da dentro e fuori. Evaporavano dalla pelle sgusciata dall’acqua, turbinavano insieme a formicolii del sangue che facevano male alle vene, pareva una malattia.
-tu conosci il Serpente.
Voci disperate e voci come pugni, voci che fanno paura e voci che hanno paura.
Re Ho, sentendo parole mitologiche, raccoglie solennità di tono. Minimamente rivive il momento nel modo che aveva bramato.
-conosco il Serpente, perché sono dei Siénm, la stirpe immortale su Lago Reale; e io sono i pensieri della gente del regno, le sue aspirazioni, la sua speranza; e non si può essere tali cose senza conoscere la brulicante realtà dell’oscurità dei cuori, le passioni nere, il conflitto, il dubbio, il gelo di una cosa vecchia come il mondo che porta la morte. Io sono il re, e sono infine giunto qui, per affermare di conoscere il Serpente fin nel profondo attraverso la sua morte, la mia morte.
La creatura reclina il collo-polso, le dita afferrano a ripetizione l’aria, ricordando un bestione che muove le mandibole, o magari sbuffa. Si incurva, è un grosso artiglio che pende sopra la piccola figura del re, che di rimando guarda in alto. Siki, mantenendo la sua postura, in verità comincia a indietreggiare un po’.
-così il re pretende di decidere anche come si muore. Un re suicida.
-ti sbagli, creatura, demone. Un re, nella sostanza, non fa altro che svolgere un compito, il primo, il più importante. Se non mi muovo io, non si muovono le altre cose. Se riposassi io, null’altro conoscerebbe il riposo.
-e allora la morte è per te solo un altro dovere.
-è una conseguenza del dovere.
-allora la morte per te è solo un altro dovere: la tua, la mia: quella degli altri.
-un re deve essere pronto a dover fare di tutto per il suo regno!
-e allora sii pronto a riconoscerci, umano vivo! Sii pronto a comprendere cosa significa: “tu conosci il serpente”.
Erano un coro di voci. Un coro… Re Ho sentì abbassarsi la temperatura, affievolirsi la luce, ora bluastra, come filtrata su un fondale, come il lago fosse sul fondo di un altro lago. Un’altra allucinazione?
“ho difeso il mio onore!” “ho fatto tutto ciò che aveva senso fare!” “ho paura…” “voglio tornare…” “non doveva andare così” “è stato il modo migliore” “è così che deve essere per un guerriero!” “ho freddo, sono vuoto”
Siki ululò spaventato, sbavava. Re Ho, smunto col sangue ghiacciato, capì consumando le sue ultime abusatissime capacità di grave accettazione. Accolse le voci una a una. Senza sfoderare la spada, senza muoversi, mandava colpi, combatteva, rispondeva a morsi e attacchi.
“Perché ci hai mandati a morire?”
“Perché non ci hai protetto in battaglia?”
“Perché hai affondato la lama nel mio ventre, sconosciuto, mai visto?”
“Perché hai dichiarato battaglia a me, perché la mia testa è in mano a un tuo campione, perché gliela fai esporre in cima a un palo elevato sul campo?”
“Perché non curi le nostre ore finali? Non è la pietà filiale uno dei doveri del sovrano, non tanto urgente quanto ciò a cui accorri, verso cui fuggi?”
“Perché per noi non hai trovato la cura? Perché hai dovuto attendere, studiare, prima di guarire il popolo?”
“Perché non ti metti infine in viaggio per quel posto dove sono tutte le cose scomparse?”
“Perché hai in odio tuo figlio?”
..
“Perché non sai risolvere la morte?”
…
Il re sembrava rimpicciolito. Sul muso della barchetta, tranquilla tranquilla in una neonata quiete, stava mezzo accasciato, né sereno né amareggiato. Solo piccolo, fragile, privo di furori. Un po’ piegato e tutto zuppo, un fiore sotto pioggia fredda, e gocce filamentose gli colavano in testa dalle lunghe dita alte su di lui a chiuderlo in un magro abbraccio d’ombra. Siki, là dietro, era disteso su un fianco sanguinante, con le criniere flosce appesantite d’acqua, lo accecavano, gli inchiodavano le zampe. Dopo molte esitazioni, indegne di lui, era infine balzato, da troppa distanza lasciata da un irrevocabile terrore dell’istinto impazzito; mal calibrata, scatto debole, l’attacco più inefficace -l’unico- che avesse mai fatto: era bastata una manata, sciò come a una mosca, per sbalzarlo indietro, arrestarlo. Aveva resistito un tempo alle percosse dei giganti, più forti delle montagne, ma non poté reggere un braccio così debole, morto, in cui scorrevano soffi d’una magia senza antidoto. Steso là, con gli occhi coperti e la lingua di fuori, sembrava proprio un vecchio cagnone affannato, che in un giardino sul retro di una fattoria cerchi di recuperare energie in esaurimento, guardando la sera tranquilla di campagna.
La mano afferrò Re Ho, lo sollevò dalla barca. Lentissimamente, il braccio discendeva, retrocedeva, per far ritorno al profondo dov’era l’orrenda inaccessibile tana, dov’erano solo ossa e buio.
-continuerò?- il re chiedeva conferma.
-continuerai.
Un patto che combattendo si erano fatti implicitamente, capito senza siglarlo. Doveva continuare ad affrontare quelle ombre, che aveva disseminato camminando sulla terra sotto il sole e la luna, con la regina e con i nemici, facendo il bene e facendo il male. Era un dialogo di cui non si poteva prevedere la fine con certezza -non con la sua intelligenza, non con l’acume della regina, non interrogando gli antenati.
-va bene. Se è questo che devo fare. Posso sorridere, allora.
Ma non sorrideva. Il volto di Re Ho era solo rattrappito. Non esprimeva niente.
Finché non sentì una cosa strana.
Calando, letargico e inesorabile, scorgeva rintocchi rifulgenti di scaglie della parte del braccio sommersa, rimasta scura e deformata sott’acqua. Le voci là sotto andavano in bolle, scrosciavano.
Re Ho riconobbe quella lingua estinta. Era meno che un bambino, era una miniatura già vestita di mantella e spadino, e quello alto era suo padre, immenso, bellissimo. Era lui che aveva annientato quei barbari del paese più lontano di tutti. In quel tempo erano solo ombre, da estinguersi per mano della luce. Ma negli anni il corpo si ingrandiva, la voce si modificava e tutto si complicava, anche la tenebra. Così ciascuna di quelle ombre, che parlavano un linguaggio sconosciuto gutturale e aspro, possedeva un nome. Ora tornavano, insieme agli altri morti, a rivendicare lasciti e ferite.
-aspetta…aspetta!!-, comandava terrorizzato e furioso per la prima volta -perché anche loro? Perché io devo? È stato mio padre!
La mano non rispondeva, continuava a scendere. Re Ho spalancava gli occhi che non vedevano più, non capivano più, stravolgevano il viso. E invano strattonava, voleva liberarsi, e poi cosa? Non pensava, non certo pianificava di liberarsi per poi fuggire a nuoto, non ragionava a tal punto. Ma il corpo, agendo senza consultarsi con anima e mente, voleva staccarsi da quella cosa.
-io non dovrei! Io non dovrei! Questa cosa non devo farla!
Sotto le voci straniere nuotavano le urla di corpi carbonizzati vivi, le torture inflitte agli eretici di una setta violenta da quel famigerato gran ministro che ci fu sotto il regno del nonno (li aveva visti entrambi, solo l’uno accanto all’altro in contenitori di legno e pietra bianca in una catacomba tappezzata di murali). E cozzava ancora nel lago, piena di vendetta, la spada di diamante spezzata di quel vecchio zio, quel fratellastro del padre che lo affrontò in duello mortale. I barriti degli elefanti posseduti dai demoni, distrutti con quella foresta, una storia che già nessuno più in tutto il paese poteva dire di aver veduto. E altre rivalità, intrighi, tradimenti. E il primo attacco degli avi dei giganti ora rinchiusi. E l’assassinio del primo fratello. E altre cose che ancora dovevano avvenire, che nel fondale più nascosto già nuotavano preparandosi a nascere. Stermini e carestie, fiumi che diventano neri, fischi di fuoco mai sentiti, armi capaci di un frastuono più grande di qualsiasi catastrofe della natura.
Re Ho si dimenava il petto tra pollice e indice, agitava le gambe sotto medio e anulare, pendeva inerte lo stivale sul mignolo. La mano intanto si abbassava, si abbassava, scompariva. L’ultima punta della corona d’argento e smeraldi si immerse sparpagliando laconici cerchi in superficie. L’acqua si era richiusa sopra la testa del re. Sigillato dall’unica mano che ne avesse il potere il cancello del lago, una singola lacrima di lunghe miglia. Affiorò una collana con una piuma arancione, direttrice di imprese scomparse. Galleggiava, becchettata qua e là da un pesce curioso, si sarebbe mescolata al limo di una spiaggia nascosta da canne.
Il lago era tranquillo. Una mattina di nebbia dall’odore affumicato, adatta alla caccia. Vicino alle rive le folaghe si nascondevano in mezzo ai giunchi, un uccello più grosso faceva un richiamo a tromba come se nulla fosse. Più lontano, quasi al centro, galleggiava sull’acqua piattissima una canoa solitaria. Su questa sembrava dormire un animale strano, un po’ cane un po’ leone. Aveva il pelo azzurrino e le criniere rosse, eppure sembrava fatto di pietra, immobile più di una statua. Né vivo né morto, riposava così.
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