i condannati
- Milky
- 7 nov 2021
- Tempo di lettura: 33 min
Ogni mattina, di riflesso, mi avvicino all’unica finestra e mi appoggio indolentemente al davanzale. Non si vede quasi niente, nell’immediato e senza un’ispezione dei dettagli, per via delle travi inchiodate molto fitte. Deve essere però che il corpo conserva una propria memoria collettiva, diversa da quella delle sue singole parti, per cui si reca da solo là, per una sorta di bisogno di nutrirsi di luce e aria esterna, o dell’idea di vivere nello stesso mondo dove ci sono anche queste insieme al buio e le ragnatele del proprio conforto. Si ricorda spazialmente che là c’era la cosa chiamata “finestra”. Comunque sia, per quanto tempo passi senza che la luce si sparpagli liberamente all’interno della baracca di legno, qualcosa si riesce ancora a vedere. In tutte le travi di questo mondo ci sono delle imperfezioni: una cosa che sapevo, e che dovetti mettere in conto, quando decisi di avere gli sbocchi con l’esterno sbarrati. Per cui non ci sarà mai una barricata completamente chiusa. Nelle curvature del legno, tra gli incastri delle singole tavole, si aprono dei fori, delle fessure longilinee, dei morsi di parassiti. Avvicinandocisi con l’occhio, si possono vedere alcune scene.
Da un po’ di giorni sento un calo di energie. Il nutrimento che posso trovare nella mia tana, equilibrato senza mai darmi particolari repulsioni o godimenti, comincia a infiacchirmi; mi corico su una paglia fredda, umidiccia, e allora per ripararmi mi getto addosso altra paglia, paglia su paglia, finché non mi sembra di aver molto caldo e mi si forma quello spiacevole alone attorno alle orecchie. Una seccatura. Mi chino sulla terra, bluastra come sacchi di granaglie in una cantina, prendo lo stecco e comincio a tracciare i miei segni consueti sul pavimento in terra battuta. Mi ci dedico, certo, li traccio molto attentamente. Li cancello quando non rispecchiano un mio ideale. Ma sento di non sapere più perché lo faccio, e perché in passato mi entusiasmasse tanto. Insomma, sono giorni di questo tipo.
Forse, sempre perché il corpo se ne ricorda, avverto il mese che diventa un altro mese. Si dovrebbe essere in novembre. I nomi dei mesi suonano per me come lontani ricordi, di un’era arcaica, quasi mitica. Mi tangono molto remotamente, dall’interno, un’eredità della storia. Ma ho un modo per riconoscerne l’arrivo. Sto alla finestra e mi “affaccio”: in una fessura a forma di sopracciglio vedo poca erba davanti alle case brune, vedo una solitaria quercia da sughero su di un rialzo appena alla fine della sterrata che attraversa il caseggiato. Di tanto in tanto mi piace osservare i batticoda che svolazzano e si mettono a saltare tra foglie cadute e certi sassetti che sembrano gemme o semi. Forse a volte si tratta d’uova di serpente. Uno storno prepotente cala tra gli altri uccelli e ne solleva una, e mi sembra che l’ingoi. Subito dopo spalanca il becco, la gola effervescente ai venti, gridando la propria vittoria sulle prede e sulle cose del mondo. Mi giunge sorda. Forse i suoni non passano attraverso i buchi, o forse, vivendo qui, il mio udito si è evoluto in un modo diverso da quello che permette di udire le voci delle creature viventi.
È novembre e spesso le poche frange di cielo che appaiono visibili di là dall’albero, sul bordo di leggera collina che si profila sempre pieno di spighe ed erba alta, sono cumuli nuvolosi e uniformi. Tra una nube e l’altra non si vede il confine, ma a fissarne il grigiore si ha l’impressione di intontirsi per il leggerissimo rimescersi ipnotico che non cessa mai. Sembra la superficie di uno stagno limaccioso che venga continuamente sollecitata dal movimento di qualche creatura che gioca sguazzando in un punto basso della riva. Se piove invece non me ne accorgo, a meno che non venga a battere forte sul legno, facendo un rumore che posso sentire. In quel caso mi piace ritornare in uno dei miei angoli, e immaginare il trascorrere degli aghi infinito dal cielo. Mentre il mondo là fuori si riempie d’acqua, e tutto viene sommerso, io vengo sommerso restando nella mia tana. Mi afferro le ginocchia, e attendo che anche l’ultima onda si richiuda sopra l’atmosfera, sigillando il cielo e la terra, dando l’abbraccio finale… la gigantesca bolla che ne risulta è figlia di uno scrosciare senza sosta. Pensare a quell’infinità, quella ghirlanda di acque che si allineano dall’alto per giungere al suolo, fino a diventare una retta senza i prima e i dopo, vedendo la nascita di esseri che muoiono senza aver mai sentito la pioggia cessare… forse è ciò che mi rilassa di più.
Mi accorgo già dalla consuetudinaria sbirciata del risveglio che non sarà una giornata di quel tipo. Ho modo di vedere un azzurro cielo del novembre là fuori, in cui forse tra gli uccelli e i passanti spunterà un qualche sintomo di questo mese, un sintomo di questa indolenza che mi coglie venendo a disturbare i miei placidi giorni di pace ed esilio. La volta è celestina ma un po’ fosca, come quando una forte calura o umidità riempiono un’atmosfera che altrimenti luccicherebbe serena attraverso le particelle dei suoi elementi, il tatto che imprime frescura agli stomi delle foglie e le pelli scoperte degli animali nudi -un senso questo che posso soltanto immaginare, e lo immagino come mi piace, avendo la libertà di manipolare in tutti i modi le impressioni le cui origini mi rimangono sempre lontane. Questo colore quasi marino, simile anche per la densità di trame che riempie le vere onde, si infila globulare, pieno della sua grattugia cosmica, anche di sotto alla curva dei rami lì di fronte alla mia distanza, lo spazio in mezzo all’albero e le punte dei fili d’erba dell’orizzonte ancor più lontano. Però c’è qualcosa di strano.
Ora, non so se si tratti propriamente di un sintomo del novembre. È però una cosa curiosa. Forse ho scordato alcune delle tradizioni degli abitanti, perciò mi stupisco di vedere una scena in realtà del tutto ordinaria. Sembra piuttosto interessante, a vederla da qua. Posso immaginarmi di cosa conversano i passanti che escono da qualche casa o si avviano continuando dalla sterrata e cosa chiedono al carpentiere, che spunta adesso, eccolo là, tra gli arbusti che cingono le pendici del piccolo rialzo. È sbucato nel verde, uscendo dalla loro ombra con la sua alta e ricurva, l’apparire felpato e sinistro di un lupo ai margini di un pascolo. Pian piano i raggi disciolti e amalgamati nel vento del mattino d’autunno mite, pionieri del sole invernale, sferzano come fugaci lame di gelo sul corpo un po’ deforme dell’uomo, disegnandone le fattezze attraverso lo spazio. Piccoli occhielli luminosi macchiano la forma strana della testa, rivelando che i contorni profilatisi quasi bestiali nel suo emergere non sono altro che la solita cuffietta di cuoio che porta sempre, legata alla collottola e discendente per parte del dorso come una criniera che unisca i capelli alla mantella. La massa tutta piena di pieghe marrone scuro riempie di bozzi e bolle d’aria la linea dalla cima della testa alle scapole, accrescendo l’impressione dell’inesorabile peggioramento della sua gobba. Quella specie di copricapo gli nasconde la fronte, fa sembrare che abbia una testolina ridicolmente corta. Ai due lati penzolano due lembi lunghi e sottili del cuoio, come in certi cappelli invernali.
È uno strano tipo, ma se ne sta sempre concentrato a fare il suo mestiere in un modo che parrebbe addirittura gioioso. In bottega o all’aperto, lo si vede sempre a maneggiare il legno, e anch’io lo vedo, certe volte, quando prende uno sgabello o una panca -un sottile tronco orizzontale infilato dentro due tozzi tronchi verticali- e si mette vicino all’ombra del sughero, a battere e modellare o anche accarezzare per ore certi ciocchi molto geometrici che si porta dietro, tirandoli fuori da un enorme sacco. Certe volte se li avvicina al mento, li annusa, e pare se li voglia mangiare. Non ne sono certo ma una volta credo di averlo visto che li mordeva. Sono certo invece di averlo visto altre volte che ci accostava l’orecchio, per poi sussurrare qualcosa. E una volta addirittura gli era sgorgata una singola lacrima, blu come un rivolo di sorgente, nell’accostare il viso a un bel cubo bianco con ancora qualche ciglio ricurvo di segatura sbucciata sugli spigoli. Sembrava vivere tutti gli aspetti dei pezzi che portava in quei sacchi.
Era stato lui ad aiutarmi anche con le mie travi. Suppongo che aiutasse anche altra gente, trattandosi di una zona dove tutte le case erano di legno. Per qualunque tipo di problema, doveva essere lui l’uomo a cui solitamente ci si rivolgeva, in particolare per quelle situazioni che richiedevano le mani e i grugniti di un esperto, il quale sempre grugniva con molta coscienza del fatto suo. Ora lo vedo grugnire in una maniera che non riesco a capire. È ancora un po’ in penombra, ma nemmeno colpito dai rari raggi il suo volto gommoso dà a vedere qualunque cosa che non sia un cigolare di tic compulsivi tra la guance e le labbra. Insomma non è chiaro il suo ruolo in questa strana faccenda, ma di sicuro esiste. Non so come abbia fatto a trasportarle, o fabbricarle senza farsi vedere, ma sta di fatto che tre bare sono allineate proprio davanti ai cespugli da cui è uscito. Come se fosse stato a lungo chiuso là dentro, tra le fronde anguste e all’ombra dei rovi, a lavorarle finché non le avesse reputate pronte, e a quel punto era uscito lui e aveva poi disposto le bare davanti a sé, proprio nello stesso tempo in cui erano “pronti” i corpi che presumibilmente dovevano accogliere. Un tipo che riusciva sempre a sorprendere.
La cosa che non capisco o che forse non riconosco è questa: tre corpi stanno impiccati a un ramo del sughero, stagliandosi scuri come anonime ombre sul prato e in quello spicchio vellutoso di cielo.
Non riesco a vederli bene. Sono come sagome riempite di nero opaco, le fronde spesse della quercia trasformano tutto ciò che accolgono nella loro ombra. A guardarla, si sente fresco, il venticello che la attraversa lieve anche nei giorni torridi. È un po’ soporifera.
Dormono tranquilli anche quei tre corpi. Mi viene da chiedermi una cosa sciocca, cioè se le corde di diversa lunghezza, più o meno vicine al ramo da cui scendono e che li tengono legati al collo, oscillino così flemmaticamente, come pendoli morenti, per il movimento che viene trasmesso loro dal peso, dal venticello, oppure dalla respirazione letargica e scandita che accompagna il riposo. So benissimo che ormai quei tre non respirano più, ma quell’atmosfera di sonno che li circonda fa proprio immaginare spontaneamente un ritmico gonfiarsi e sgonfiarsi dei toraci, volti dall’altra parte. Non distinguo dettagli di abiti o corporatura scoperta qua e là, ma capisco che mi rivolgono la schiena. Di tanto in tanto, l’oscillazione o il moto della terra, spostano un po’ un profilo da questa parte, ma è estremamente improbabile che ciò avvenga in sincrono a uno sporadico passaggio di luce solare, tale da rivelare fugacemente un baffo biondo, una lunga ciglia. Rimangono per me tre corpi d’ombre anonime, amalgamate a un’ombra più grande e immutabile, quella della quercia che ogni giorno se ne sta ferma là, lontana dritto avanti alla mia casa senza spostarsi d’un passo. Mi rendo conto che recandomi alla finestra mi aspetto anche di vedere quell’albero, come a controllare che tutto possa procedere regolarmente. Se un giorno mi affacciassi e non vedessi più la quercia, forse anche le mie abitudini cambierebbero. Ma lei è sempre là.
A ogni modo, per quanto mi sforzi non riesco a ricordare di aver visto negli anni passati, in questo stesso periodo o in simili periodi fiacchi, una scena di questo tipo. Allo stesso tempo mi resta appiccicato al corpo un presentimento assai familiare, in maniera inspiegabile. Mi ricorda una fiaba mai sentita ma di cui già conosca il finale. Nelle ultime istanze emerge un insegnamento morale, e un malfattore viene punito. Questo, che fosse un orco o un rapitore o una bestia selvatica parlante, ricorda un difetto esagerato, che potrebbe essere l’esito estremo del comportamento vizioso di chiunque. Di solito se si riconosce in sé quell’aspetto avviene un’identificazione accolta con un misto di timore e rifiuto, e ne segue un esame di coscienza. Ma in questo caso non capisco cosa voglia indurmi a pensare la vista di tre impiccati sconosciuti, sorvegliati dal carpentiere che ha fatto tre bare per loro, guardati con un misto di meraviglia, ammirazione o al contrario indifferenza da contadini e artigiani vari che cominciano a vedersi per via in piccoli gruppetti diretti qua e là. Sono stati puniti anche loro, esposti al ludibrio dello sciocco villaggio? Nessuno sembra particolarmente sorpreso, eppure si tratta di tre cadaveri toccati dall’aria che si respira, in un posto che da sempre ha nascosto i propri morti sotto la terra. Facendo questi pensieri, all’improvviso mi ricordo che esisteva anche il senso dell’olfatto, dimenticato da tanto. Riconosco solo gli odori a me più familiari (di polvere e umidità, pioggia sul legno esterno che si infittisce fin dentro alle pareti) e mi risulta più difficile che con gli altri sensi richiamare quelle altre impressioni che caratterizzavano un mondo ormai lontano. Non riesco allora a sentire che tipo di puzza marcia possano emanare gli impiccati, come si mescolino alla fragranza trascinata dal vento della vegetazione ancora rigogliosa all’intorno, al fumo dei comignoli autunnali. Forse non emettono proprio nessun odore. Non appaiono volti scandalizzati dal fetore o da ciò che si presenta.
Il carpentiere è tranquillo, ha svolto il suo lavoro e presto passerà al prossimo. Tutto ciò sembra appartenere a un tipo di avvenimento che, se non proprio ricorrente, quantomeno ci si aspettava che accadesse. Vedo due contadine avvicinarsi e indicare prima con il dito le bare, poi se stesse con il capo, poi di nuovo con il dito le corde, e muovere mutamente le labbra rivolte al carpentiere, mantenendosi a distanza forse per non sentire l’odore del suo dente deforme -questo io non posso saperlo- oppure semplicemente perché hanno ripugnanza della sua grossa figura, in qualche modo mostruosa. Il carpentiere non si offende per certe cose e risponde, spiega, tra smorfie ammantate dello stesso splendido silenzio che sempre si proietta fin nel mio mondo, incantandomi -c’è qualcosa di molto puro nel vedere le bocche muoversi senza emetter suono. A volte accenna brutti sorrisi, incredibilmente innocenti: ghigni infantili, ma di una prole cresciuta forse tra gli orchi di montagna. Dopodiché si gratta il didietro e poi, con le stesse unghie mordicchiate, anche il petto coperto da un pellicciotto unto che si direbbe di ratti marroni. Le signore fanno un rapido inchino e se ne vanno, contente di questa e di altre scene familiari che si susseguono lungo il loro cammino, forse dirette in paese. Sembrano andare tutti in paese. Non mi interessa però sapere se ci sia un legame tra questa tendenza e la presenza degli impiccati quaggiù al villaggio. Che anche in paese sia presente una tradizione per la quale, tanto per ipotizzare, oggi si appendono tanti malfattori alle balconate e le bandiere, non ha nulla a che fare con la scena che io vedo: in paese è il caos ordinato della comunità estesa, il luogo dove ogni festa risponde a un sentire nascosto nei meandri di un mondo collettivo, di emozioni inutilmente complicate dal numero, e assume un frastuono diverso degli eventi di qua. E ancor più diverso è il mio modo di viverli senza prendervi parte, da quando vivo in questo modo che pur mi concede uno spiraglio di vita distante, rielaborabile secondo intuizione nella mia mente. È da molto che non mi interesso tanto a lungo dei fatti su cui si affaccia la mia finestra. Si risveglia in me da un lungo una specie di curiosità lenta e goffa, ma enorme e ingombrante. La vedo destarsi e muoversi verso i suoi interessi dentro le mie pareti, quasi identiche alle pareti della casa, simile a un gigantesco grasso quadrupede scuro, che quasi riempie tutti gli angoli e a ogni svolta rischia di abbattere tutto con la lunga coda. Mi do dei colpetti per contenerla. Guardiamo, io e lei, che cosa succede, senza compiere movimenti troppo agitati, non necessari. Nonostante il presentimento piuttosto spiacevole, ma che trascina gli occhi, proveniente quasi in radiazioni dalla quercia, ricordiamo che siamo al sicuro, dove nulla, per ora, può entrare e commettere azioni dannose. Per ora. All’improvviso sento freddo e mi strofino sul collo uno stelo di paglia raccolto dal pavimento.
Passa un po’ di tempo in cui me ne sto là a sbadigliare, appisolarmi in piedi, ridestarmi sempre accostato al davanzale e dare un’altra occhiata per vedere se succede qualcosa di diverso. Deve essere quell’impressione ipnagogica che mi suscita la quercia. Perfino i batuffoli di polvere che vorticano dal soffitto, in lunghe colonne brillanti come nevischio per tutta l’ampia singola stanza del mio riparo, mi appaiono vacillanti, poco definite. Allora raccolgo con le mani alcune gocce d’acqua che si raggruppano in certe conchette del suolo, addensate nelle notti umide. Le faccio scendere lungo i polsi e le assaporo lentamente. Questo ha l’effetto di tenermi sveglio, se lo desidero. Rivolgo di nuovo lo sguardo alla stanza: distinguo meglio le cose adombrate e stantie. Provo con la finestra: la luce mi acceca ma mi posso riabituare, una volta acquisite le forme riconoscibili queste si assestano senza confondersi tra loro o perdere consistenza. Bene, la quercia è là. Ci sono le case vicino alla via, il prato sconfinato. Ora il carpentiere, per qualche motivo sempre vicino a quegli arbusti presso i quali non si era mai messo a lavorare prima d’oggi, ha tirato fuori la sua panca e si è seduto, a dar martellate a un nuovo blocco informe che spera di predisporre a esser modellato per ottenere chissà cosa. A terra c’è il suo sacco rigonfio di sempre. Le bare, piuttosto piccole a ben vedere, gli stanno ai piedi. Si potrebbe credere che servano per punire o spaventare dei monelli che si sono intrufolati a far scherzi nel campo di un fattore scorbutico.
Finalmente appare qualcuno che non sembra prendere quella situazione abbastanza raccapricciante come se fosse una normalissima tradizione o parte della giornata. Non mostra particolare indignazione ma la sua evidente curiosità se non altro indica che non dà per scontato che tutto ciò abbia una ragione. Stava camminando a un bordo della sterrata, quasi volesse allungare un braccio per toccare le pareti più vicine. Forse ci sarebbe anche riuscita, grossa com’era. Poi, seguendo la curva già con aria trepidante, avendo intravisto nella camminata il bell’albero e quella cosa strana che lo riguardava, era infine giunta laddove la terra polverosa si chiude in uno spiazzo rotondeggiante per lasciar posto all’erba, e l’innalzamento sale lieve fino a scoprire i primi pezzi di radice. La donna, molto alta, se ne sta così alla luce, senza salire dove comincia il cerchio d’ombra proiettato sotto l’albero. Il carpentiere, invece, è sempre seduto tra i cespugli, praticamente dalla parte opposta. Nonostante la distanza tra i due, nel cui centro riesce a stagliarsi interamente l’anziana e ben cresciuta quercia dello sfondo, riconosco l’altezza della donna. Se la si accostasse al carpentiere, ora chino, risulterebbe comunque piccola al confronto, ma questo è normale per tutti. Invece è probabilmente più alta di qualsiasi persona che viva qui. Ha i capelli disposti in ciocche lunghe e lisce, poste simmetricamente ai lati del volto cavallino. Sembrano rilucenti di un rosso scuro o violaceo, di vinaccia. Di un colore di poco più brillante è lo strano vestito che porta lungo dal collo ai piedi, ricamato di segni bianchi e sottili. Ora guarda il carpentiere: quello alza la testa e dà un cenno, un nuovo grugnito, poi torna a martellare. Passa una nuvola nel cielo, forse preludendo a un ritorno del tempo consueto di questi giorni. Mi sembra però di vedere che la donna sorrida, proprio guardando il carpentiere.
Per lei, che deve essere per la prima volta giunta da queste parti in visita o sulla via di un pellegrinaggio, la prima tra le sue genti, quel carpentiere non è certo una visione quotidiana come lo è per quelli che gli hanno sempre abitato vicino. Eppure, se per i suoi vicini è una figura comune, ma pur sempre da tenere distinta da sé, per lei questa differenza non portava connotazioni emarginanti, che vedessero in lui un qualche mostro di una filastrocca di bambini, uno spauracchio impersonato in un’acchiapparella: così lo guardava allo stesso modo con cui, quasi eccitata, chiedeva dell’albero, e come doveva aver chiesto delle architetture e delle agricolture ai vari contadini che di certo aveva incontrato, diretti al paese. Insomma osservava una curiosità locale, non diverso da una statua bizzarra, uno strano fantoccio spaventapasseri. Per il carpentiere invece ella era, forse, soltanto un’altra persona che faceva domande. Se quelle degli altri del villaggio erano più che altro domande di circostanza, riguardo cose che già sapevano, quella avrebbe fatto domande su qualcosa che non conosceva, e allora? Erano sempre domande a cui lui, che era là (e forse proprio per questo) avrebbe potuto rispondere, perché aveva fatto delle bare che ora appartenevano a quanto stava succedendo, e queste erano fatte di legno, e dovunque ci fosse del legno era sempre lui l’uomo a cui era più giusto domandare. Forse non si sapeva esprimere con parole molto graziose, ma accettava di fare questo sforzo in quelle poche occasioni di interazione che gli imponeva il suo stile di vita anzi fin troppo clemente, dunque avrebbe trovato ingiusto provare insofferenza. Dice il suo corpaccione: chiedi, signora, e io ascolto, signora, sto qua, le sue domande non mi impediscono di martellare questo ciocco amorfo, dargli un’identità che ancora nessuno conosce, ma che sarà evidente e inequivocabile non appena avrà acquisito una sua solidità sotto il sole. Proprio come tre bare dappertutto significano una sola cosa.
Si stanno dicendo qualcosa. Le bocche mute si agitano più a lungo che per i saluti della gente al mattino. Intanto i tre corpi penzolano, penzolano. A volte arrivano a colpirsi tra di loro, con le caviglie o le braccia distese lungo i fianchi. Sembrano abituarsi a vivere così. Come elementi dello sfondo di una giornata, che passerà, vedendoli prima o poi scomparire anche loro da quella collocazione, troverebbero ridicolo adesso pensare che un tempo anche quelle appendici carnose erano capaci di muoversi seguendo un impulso volontario, sollevarsi dalla loro naturale stasi che imponeva di dirigersi al suolo, non diversamente da delle assi lasciate a se stesse.
Di solito non succede, ma comincio, senza decidere niente, a inventarmi la conversazione tra la straniera e il carpentiere. A volte i ragionamenti si susseguono su un proprio filo parallelo al trascorrere del tempo, poi terminano in conclusioni che rivelano come mai si erano generati. Allo stesso modo questa è una conversazione in cui non mi metto a scegliere scientemente le parole da far dire a questo o a quello. Ciò che dicono appare semplicemente sovrapposto alle labbra vuote, che paiono fiammelle traballanti nella distanza. Si inscrive su quel vago agitarsi ed esce fuori da solo, come se fosse esattamente ciò che si stanno dicendo con la voce, esposto nella sua sostanza più profonda. Probabilmente le due conversazioni non corrispondono affatto tra di loro, ma io posso e devo interessarmi soltanto di una delle due e per me l’altra anzi non esiste, se non come pretesto sul quale si costruisce quella che invece sento. L’inudibile esiste solo affinché proietti dalle mie parti un’immagine sulla quale io poi possa costruire qualcosa. Incredibilmente, quando molto tempo fa venne ad aiutarmi il carpentiere per barricare la casa, ebbi la netta impressione che anche lui lo sapesse. Non era un ragionamento che riguardasse il legno, non in maniera diretta almeno, eppure, forse appunto per un legame indiretto che mi sfuggiva e che poteva esser noto solo a quelli della sua professione, in qualche modo era arrivato a comprendere la stessa verità. Così sapeva anche che aiutandomi a rinchiudermi là dentro, avrei rafforzato proprio quell’aspetto nella mia prossima esistenza. Mi chiedevo cosa provasse lui quando per interminabili giorni lavorava su uno stesso pezzo di tronco, arrivatogli dal bosco, che cresceva per dar forme non ancora nate. E cosa gli significassero le richieste dei tanti che venivano a commissionare costruzioni di questi o quegli oggetti, strumenti o mobilio che poi si separavano per sempre da lui, il loro uso una cosa che non aveva proprio nessun rapporto con il loro costruttore. Però le faceva perché erano questi i pretesti esistenti acciocché si facessero. Quello che lavora adesso, è un compito su commissione? Oppure, sfaccendato, prosegue a plasmare una sua personale visione, così da continuare ogni giorno a toccare il suo legno e sentirlo respirare? Dopo le martellate potrebbero venire dei baci, delle carezze. Osservo e mi chiedo se lui lavori pensando costantemente a tutto questo, anche mentre c’è una straniera che non l’ha mai visto e non sa quanto può esser strano nei suoi comportamenti.
La straniera è sorpresa, nell’indicare è diversa dalle contadinotte con i foulard, dai fattori con il volto e i pelacci di barba imbruttiti dai passati giorni di maltempo. È concitata, non posso vedere altro che questo. Scintillano i suoi occhi di un colore insolito, non saprei dire quale sia -è pur sempre un bel pezzo lontana, e per quanto notevole la sua stazza non è certo come un albero che anche distante si impone sempre su tutto il resto. Ora sembra riferirsi con entusiasmo alle bare: obbedisce a una regola implicita per la quale prima ancora di capire l’idea dietro una certa cosa, è necessario partire da certe cose concrete che le si presentano là davanti, per le quali sente il trasporto tipico di un turista. Il carpentiere se la ride soddisfatto nel constatare che anche per lei queste cose siano rappresentate proprio dalle bare, che si qualificano come gli oggetti migliori in assoluto. La straniera fa un gesto che sembra rappresentare un arco, dagli appesi fin dentro ai contenitori appositi, come se il loro eventuale ritrovarsi lì dentro fosse una conseguenza logica del loro essere, appunto, degli appesi. In effetti può sembrare logica, ma non lo è affatto. Non comprendo come mai questa donna non sia inorridita. È ancor più assurdo se penso che sono io il responsabile di quello che un mio senso diverso dall’udito sente uscire dalle bocche dei due personaggi, ma ormai questa cosa si sta formando in una maniera del tutto indipendente da me e devo accettare quello che sto ascoltando come una qualsiasi roba fuori dal mio controllo, capace di offendermi o peggio. Posso difendermi solo riflettendo, cercando di giustificare quello che mi giunge.
Mah, forse la domanda su cosa sia successo, sulla necessità di uno scempio così orribile, era già implicita in alcune domande che gli aveva fatto presentandosi. Salve, bella giornata vero, sgrunt dice lui, è così via. Le ha fatte lei, le bare? Sì, le ho fatte io, e le ha fatte per loro? Forse, e così via. Cominciano, e ormai ci sono dentro anch’io.
-e ne fa molte di questo tipo?
-beh, dipende dai periodi, signora.
-oh! Lei è un artigiano attento alle stagioni, quindi.
Il carpentiere, a questo punto, tace. Prova a sfoderare un sorriso dei suoi ma gli scompare subito. Non che sia offeso. La straniera con gli occhi a palla appallottola anche le labbra, compunta ma senza perdersi d’animo. Deve aver pensato che l’altro non ha capito la domanda, “magari da quelle parti non sono abituati a pensare in quel modo”, questo è il tipo di giustificazione che sprona qualcuno venuto da lontano a cambiare domanda. Intanto anch’io, che sono di queste parti, non avrei capito nulla di questa scena nemmeno nel tempo in cui non vivevo in un covo rinchiuso, ne sono certo. E la persona giunta da lontano non avrebbe dovuto frenare a tal punto il proprio orrore, solo per “cortesia” verso le usanze della gente locale. Oppure non c’era in lei nessuna avversione? Che anche nel luogo in cui era nata ci fossero simili cose, che potevano dunque aiutarla a capire?
-allora…-, si guarda intorno la straniera, senza scoraggiarsi -ecco, chi sono… chi erano questi tre?
-ah! Eccoli qua: uno, due e tre.-, si limita a dire il carpentiere. La straniera ride. I tre corpi oscillano, uno piccolo, uno di statura media, uno un po’ più grande. Il carpentiere ride in risposta. Perché diavolo stanno ridendo? C’è un brivido di freddo, un maledetto spiffero in questa casa. Smetto di ascoltare per un momento e comincio a strofinarmi un’altra manciata di paglia sulla pelle. Torno al buco tra le assi.
-dunque lei sapeva che sarebbe andata così?
-e certo, signora, va sempre così. Con tipi del genere non c’è mai da sbagliarsi.
-aaah, capisco. E, mi perdoni, quando dice “tipi del genere”, intende che rappresentano proprio dei poco di buono, o…
-mah, dei poco di buono, noi qua non diciamo queste cose. Rappresentano gente come ce n’è qua, credo. Però non ci si può sbagliare nel senso che prima o poi qualcuno comincia a diventare un po’ matto. Succede sempre, quando c’è un periodo così, lo sa… oggi lei ha beccato la giornata più buona.
-oh! Sì, ne ho sentito parlare. Allora è proprio vero! È molto interessante.
Il carpentiere annuisce con la faccia che gli riusciva più cordiale, e senza aggiungere altro torna alle sue martellate, da proseguirsi con diligenza indipendentemente dalla loro inefficacia (il pezzo che maneggia è dall’inizio che rimane sempre uguale a se stesso; quelle martellate saranno soltanto un altro dei modi che usa per comunicare con le sue opere). Cos’è che ha detto, “quando c’è un periodo così…”? Allora non mi sbagliavo.
-e sono proprio, insomma…- la straniera fa un’imitazione stravagante. Il carpentiere capisce prima di me che vuole rappresentare il comportamento di un individuo astratto che ha ceduto del tutto a una qualche forma di follia non meglio specificata. Deve essere un’abile imitatrice allora, penso io, se in un singolo gesto riesce a racchiudere la marea multiforme e cangiante delle molte azioni che vengono giudicate fuori dalla norma nei villaggi e nei paesi. Rido con me stesso per quello che ho pensato. Le pareti rimbombano, è la prima vera voce che odo da chissà quanto. La curiosità ride soffiando nel suo modo da rettile dentro di me. Il silenzio torna a riempirmi, pure lui abbastanza soddisfatto. La polvere scende un po’ più seccata di prima, irretita dall’anomalo spostamento d’aria.
-si dice che non sono proprio ammattiti davvero, però ci stavano diventando. Quando dico che non ci si sbaglia, è perché ce n’è sempre qualcuno, che, come si dice… ci rimane peggio, per questa cosa del tempo. Noi siamo gente di campagna: ci mettiamo paura del cielo che cambia.
-hahaha! Ma lei no, lei è un artigiano, e poi è così grosso e forte!
-eh, eh sì, è vero, hahaha… e infatti a me non me ne importa niente. Però vivo qua pure io, son tradizioni…
-oh, certo! È molto interessante.
Mi irrito. Non riesco però a provare antipatia per la turista. C’è qualcosa di rassicurante nel suo candore. Mi chiedo dove sia diretta, se si incontrerà in una locanda con altri suoi compari vestiti allo stesso modo. Forse sale sulle montagne, portandosi dietro il ricordo di questo posto piccolo e stupido, ma con un bell’albero e tre morti.
-e allora quando a novembre c’è questo tempo- riprende il carpentiere -, buio anche di giorno… ora lei non vede, non capisce.
-oh, no, capisco anch’io, è una settimana che mi trovo da queste parti. Un tempo terribile davvero.
-no, non terribile, perché non piove quando è così…
-non piove, non piove, certo, ma è cupo, ti mette una certa tristezza…
-ecco, brava, così. Allora noi sappiamo che c’è qualcuno che, se non si fa qualcosa…
-capisco, certo, è naturale.
Naturale? Tutto ciò è assurdo, l’ho già pensato prima e posso esserne convinto. Ma da quand’è che si fa questa cosa?? E anche ammesso che la facessero, forse usavano altri modi. Non certo lasciando i corpi impiccati là, dove passano tanto gli uccelli quanto gli umani… ma poi, come si può pensare di risolvere la cosa in questo modo? D’accordo, posso ammettere che questo effetto che si produce semplicemente perché siamo in novembre, è una cosa abbastanza strana e sinistra. In questi casi si può reagire in maniera drastica, da queste parti si è soliti fare così, lo so bene, e lo sanno tutti che i migliori esorcisti vivono in campagna. Ma allora non sarebbe meglio officiare una qualche guarigione al cielo? Non si tratta che di un aspetto un po’ più estremo dell’autunno, una stagione così piacevole. Io non la vivo, la guardo soltanto, e non posso conoscerne le difficoltà per chi sgobba nei campi, ma perfino qua dentro sono suscettibile a quando una certa sua atmosfera si fa troppo forte e sembra senza rimedio (sebbene non fossi proprio sicuro della causa). Non mi sembra che l’entità del problema giustifichi un bel niente.
Certo, dice una voce, tu non partecipi ai problemi e alle loro soluzioni.
Non so cosa e dove abbia parlato e forse sto impazzendo, dunque per non rabbrividire dal terrore e farmi salire un’influenza delirante, decido deliberatamente di ignorare quanto è appena successo. Do un pugno alle travi e con le nocche ostruisco per un po’ anche quello spiraglio da cui guardavo fuori: devo concentrarmi un attimo. Quella scarsissima luce che passava da lì, in una singola flebile colonnina che pur doveva raggiungere la parete opposta, ora non c’è più ed è incredibile quanto sembri che nella stanza sia calata all’improvviso in una grande tenebra, nonostante la differenza minima. Bene, questo crea un ambiente adatto e spero che nulla si intrometta nel discorso.
Allora, tanto per cominciare, quei tre poveretti. Chi sono? Sono dei morti, ecco cosa sono, e non capisco che crimine si temeva che potessero commettere. Uno alto: stava alla mia sinistra, diciamo, quindi alla destra di quello in mezzo. Il corpo di statura media era alla destra, e in mezzo quello più piccolo. Anche così avevano un’aria di complicità. Forse avevano tentato tutti e tre insieme una stessa malefatta, oppure, “si credeva che fossero sul punto di tentarla”, come è più corretto formulare basandosi su quello che ha detto il carpentiere. Ma che significa? Non ho mai sentito di impiccagioni nemmeno per i crimini più efferati. Forse perché non ci sono stati crimini efferati… d’accordo, allora in passato, di certo eventi violenti o disdicevoli sarebbero stati tramandati in forma di storie o scandali dapprima taciuti, poi sfoggiati -so osservare bene questo tipo di convenzioni altalenanti, ripugnanti. Ma non ricordo come venivano puniti i malvagi in quelle storie che avevano avuto origine da questa vita di tutti i giorni al vecchio villaggio. Nelle fiabe ancor più antiche della sua fondazione, note ovunque, si squarciavano pance, si legavano massi al piede del reo prima di gettarlo in un lago, alcuni piombavano persino nel fuoco. E se uno avesse provato, per esempio, a rapire una bimbetta sperduta, gli avrebbero fatto le stesse cose? E chissà per quali altre azioni meno gravi di quella si sarebbero offesi al punto da ricorrere allo sterminio. Nel fulmineo avvicendarsi di queste ipotesi morbose, sono finito mezzo rannicchiato al suolo, col braccio ancora al di sopra di me rimasto a tener coperto quel buco. Con l’altro braccio mi cingo le ginocchia, e vorrei averne un terzo per potermi mordere le unghie.
È la prima volta che sento intruso questo mio spazio. Ovviamente, non vedo niente, e non per il buio della stanza. Io non sono un animale notturno ma vivendo qui ho imparato a conoscere almeno la mia oscurità. Qui non c’è nessuno a parte me. Per la prima volta sento anche qua dentro la necessità di nascondermi e difendermi, non so davvero cosa stia succedendo.
Ho vissuto tanto a lungo accanto a dei mostri? Devo sapere che genere di mostri sono. Posso impegnarmi, nella mia tana, sia che rimanga sicura sia che vada in rovina, posso sforzarmi di essere un mostro diverso da loro. Devo vedere come si comportano.
-e perché proprio questi tre in particolare?
-eh, qualcuno c’è sempre, lo sa… uno lo vede.
Uno lo vede. Ma esattamente con che occhi vedevano, questi qua? Erano stati i miei vicini di casa, nati nel mio stesso posto. Avevamo appreso tutti le stesse cose crescendo. La stessa morale. Me ne ero separato a un certo punto, ma forse queste cose vivevano in parte dentro di me, inevitabilmente. Insomma, “lo si vedeva”. Ma dannazione, si è già consumata anche questa manciata di paglia? Ho freddo, maledizione. È la prima giornata serena, di tregua, ma si gela.
-lo si vede, allora.
-certo.- il carpentiere si alza. Indica i corpi, questa volta. Non sono di legno come le bare ma ne sa parlare, forse perché il suo ruolo gli impone di conoscere questa situazione, tradizione, qualunque cosa sia.
-li vede: sono come la talpa per l’orto, la volpe per il pollaio, la serpe per il giardino. Uno, due e tre.
-ah, c’è un carattere malsano, allora.
Il carpentiere la ignora. Lei intanto si è avvicinata. Nello spazio tra i due rientrano appena i tre impiccati al ramo. Fanno una cornice, è quasi una bella immagine. Lui si gratta la nuca, poi con le mani scende ai lembi della cuffia di cuoio e li stiracchia, come se fosse nervoso. Lei crede di leggervi che non ha capito.
-si insidiano!
-insidiano! Sì, insidiano.- ripete il carpentiere, trovando una parola che gli piace. -non c’è da fidarsi.
A questo punto penso che la straniera dovrebbe indignarsi. Ma come?? Quei tre sono stati uccisi, e nessuno ha detto niente. Se ne sono andati al paese, magari a vedere altra gente finita a quel modo orribile.
Ovviamente, forse non stanno dicendo niente di tutto questo. E anche se fosse, non è nemmeno detto che quei tre non abbiano davvero commesso un’azione imperdonabile, che nemmeno potrei immaginare. E che tutti quelli che eventualmente vengono uccisi ed esposti al pubblico dei festanti nei vari paesi di questo reame sono criminali a cui si addice, secondo le leggi e la morale di qua, un simile destino. Ma non sono per niente convinto. Ho all’improvviso l’idea che quando ho deciso di rintanarmi qui, insieme a tutte le ragioni di cui ero profondamente cosciente, ci dovesse essere nascosta, quasi invisibile, la paura per questi istinti feroci dei miei compaesani. Doveva essermi passata attraverso la pelle in qualche modo. E da questa derivava forse una paura nei confronti di me stesso, che se fossi rimasto a passeggiare per le vie, recarmi a mangiare alle locande, guadagnarmi la vita col duro lavoro, sarei diventato una bestia uguale. Ma no, non poteva essere! Io non fuggivo, io compivo una scelta profondamente meditata, diversamente da coloro che semplicemente proseguono con la propria fatica o al contrario il proprio divertimento senza mai interrogarli. Io non ho fatica e non ho divertimento, tutto qui è in equilibrio! In un passato meno folle di questo presente, in cui si creano corde per impiccare, strumenti di morte, nessuno avrebbe potuto dirmi, nemmeno la mia coscienza, che anche in questo mio giusto atteggiamento si nascondesse una perversione complice della tortura e dell’assassinio. E invece adesso, nutrendomi di terra e riscaldandomi con la paglia, mi basta affacciarmi per un solo attimo, cedere soltanto un po’ alla curiosità, per vedere che là fuori ci manca poco che vengono a colpire le pareti della mia casa, per stanarmi, espormi al sole, farmi qualcosa.
Perché, la tua coscienza forse dubita della propria rettitudine?
Zitto. Chi è? A parlare non è la mia coscienza, non è lei che parla di se stessa, è una voce diversa. Chi è entrato? Sarà solo la febbre. Mi sento osservato nella mia camera. No, non è vero. Fuori, devo guardare là sotto la quercia, accertarmi che tutto proceda come al solito e quindi anch’io, senza cambiamenti nella mia dimora.
Il carpentiere sta tornando a sedersi. Si china, la sua figura rannicchiata fa spuntare la gobba al di sopra della testa. L’ombra si disegna sopra di lui, ci sembra nato dentro. Uscito dagli arbusti portando le bare, nato con tutto il copricapo e gli abiti nella foschia che si infiltra nel mondo vegetale. Dannazione, non riesco a odiare nemmeno lui. Non ha ancora appoggiato le natiche all’asse che la straniera, rimasta là in piedi di modo che la vedo come se fosse vicina al corpo alto, gli sta già facendo un’altra domanda.
-ma chi è stato a farlo? Forse lei…?-, dice indicando avanti a sé. Se non fossi certo che la straniera si riferisce proprio all’atto di impiccare tre esseri umani, si potrebbe anche credere che stia puntando all’orizzonte di quella terra a lei sconosciuta, che si staglia lontano sempre in quella direzione, impassibile e profondo come un mare. Ma lungo il profilo degli steli d’erba alta che fanno bordo al cielo, non si vede niente di morto, brutalmente ucciso, che richieda spiegazioni. Solo il vento forte sferza già laggiù, prima che venga qua, e si leverà di nuovo, nei nostri giorni, passata la tregua.
Brava, straniera! Questa sì che è una domanda giusta da fare. Non voglio credere che sia stato lui. Infatti assume all’improvviso un’espressione corrucciata, la si vede da sotto la penombra, per aggrottamento di tempie e sopracciglia inesistenti, striminzirsi degli occhi già minuscoli. L’ombra, adeguandosi alla superficie di appoggio, si aggrotta con lui. Non so se è seccato ma è la prima reazione di questo tipo a una domanda che gli pongono, anche tra quelle che gli erano state fatte che non riguardavano il legno, verso le quali era stato paziente.
-e che importanza ha? Qualcuno l’ha fatto, e sta bene così.
-oh!
La straniera annuisce. Tutto qua?
-ne costruirà altre?-, gli chiede di nuovo delle bare. I pezzi di artigianato locale tornano a interessare la turista, la pellegrina.
-quante ce n’è bisogno.
-anche quello che sta facendo adesso?
-chissà.-, ghigna il carpentiere, tutto contento. Davvero finisce qui?
-oh, lei è misterioso.
-no, signora, sono solo un po’ strano.
-ma no, non dica così… altrimenti, se la sentono, finisce come questi spaventapasseri!
Spaventapasseri? Ecco, adesso riesco a provare antipatia per la signora. Delle vite, per quanto deplorevoli, ridotte a cose ridicole. Quante cose raccapriccianti ascolto, in una giornata iniziata in maniera normale, accostandomi alla finestra come al solito!
-no, non lo faranno. Mi sono già toccate altre cose.
E questo che vorrebbe dire? Che ci hanno già provato con lui ma è scampato allo sterminio? Il carpentiere è un tipo con l’aspetto a metà tra uomo e mostro, ed è lecito chiedersi perché non venga ostracizzato, o al limite incatenato per un esorcismo. Solo perché fa le sedie per tutti? Mi rendo conto che non è andata così. Non è scappato da niente, nessuno, per quanto la cosa sia contraddittoria, ci ha mai nemmeno provato a eliminarlo, quel bestione obbediente. Lui comunque contribuiva, senza chiedere niente, come per tutti gli altri lavori commissionati. In certi periodi e situazioni si metteva a fare le bare. Ci capisco sempre meno, e dire che ho cominciato inventandomi tutto, prima che un altro mondo prendesse vita propria da questa mia malaugurata fantasia.
-le vende?
-se ne rimangono di vuote. Può tornare più tardi, dopo le piogge, perché torneranno. È fortunata, giornate come questa ne capitano una, due. Poi torna la pioggia, e loro stanno appesi anche per scacciarla. Come dicevo, la paura del tempo. Tutto quanto può far male ai campi.
-oh, lei dice che sono fortunata, però se ne sta a lavorare nell’ombra, non viene a godere del sole.
-hahaha. Io sì, preferisco far così. Ma lo dicevo per lei, che è fortunata.- ghigna stavolta mostrando gli altri suoi numerosissimi denti, alcuni dritti in file più ordinate che nelle più profumate dentature di città, poi interrotti da denti solitari straordinariamente storti e fradici.
-anche da noi, per tener via le piogge in arrivo, si appendono tante cose.
-tante anche da noi. Ci sono altri alberi, mica solo questo. Questo però è il più antico, e il più bello, che trova in fondo alla via.
Altri alberi? Ho una fulminea visione. E con questa l’impressione che non è vero niente di ciò che ho pensato prima, riguardo all’anomalia dell’evento, al non capire come mai vi trovassi qualcosa di familiare. Come lampi mi visitano sagome d’alberi, i rami invasi di figure varie, che mi guardano velocemente e poi si nascondono, lasciandomi l’apprensione di essere ancora osservato da ciò che sfugge… c’erano sempre stati, li avevo già visti, forse, gli alberi del villaggio, di quando ero solito passeggiarvi anch’io. Il sudore mi si sta gelando addosso, non ho mai sentito tanto freddo in questa casa.
-dopo questo, mi metto al lavoro su degli sgabelli.- si alza, torna dov’era prima. Indica là sotto, vicino ai piedi, malinconicamente uniti, dei corpi appesi. Come a dire che lì verranno messi gli sgabelli di cui parla.
-di quercia come questa, di larice, platano. Siccome sono il più alto, di solito sono io a toglierli, così posso essere io stesso a servirmi dei miei lavori. I miei figlioletti. Sempre se torna dopo, posso farle vedere gli altri che tirerò giù. E gli sgabelli, se vuole.
-oh, e sono di tanti tipi? Per esempio?
-sicuro, tanti tipi. Esempio…
-ma sì, ci saranno altre cose che… “insidiano”, no?
È tutta contenta, pare aver fatto amicizia con lo sconosciuto del villaggio che ha avuto la pazienza di stare a sentire le sue interminabili curiosità. Avrà anche cominciato a fare domande un po’ più giuste, ma io ho perso per lei ogni simpatia, e al posto di quel gigante del carpentiere, avrei usato tutta la mia stazza per ergermi, fino a rinchiuderla nella mia ombra, così da zittirla.
-oh, sì. Mica solo quegli animali pestiferi, ci stanno… per esempio…
Si volta. Dalla mia parte. Mi volto anch’io, scioccamente, come a credere che cercasse qualcosa dietro di me. Ma non vedo che la parete nera e umida.
Sta guardando me. Con quegli occhi puntiformi, riesce a infilarsi nel puntolino delle travi? Non posso crederci. Lui mi ha aiutato a metterle, non sorprende che conosca tutti i loro segreti. Ma lei? Lo segue, mi sta guardando insieme a lui. Non so se mi veda. Ma sto continuando a sudare. Si voltano subito, a parlare tra di loro. Me lo sono immaginato, forse. Soltanto un’impressione, non è che guardassero qua. Deve essere stato un rumore, udibile per loro di là fuori, che li ha distratti un istante.
-ci sono animali come i ricci, per esempio. Infestano gli orti anche loro. Parenti alle talpe.
-ma i ricci si appallottolano…
-oh, sembrano fifoni, ma non c’è da fidarsi. Uno li guarda, e finché li guarda se ne stanno anche mesi chiusi così. Non si capisce se sono sassi o animali. E appena ci si volta, escono fuori: sono creature notturne. Scavano per mangiarsi gli insetti, e intanto rivoltano tutta la terra coltivata dalla fatica degli uomini.
-ma pensa…
-già. Infide creature, quelle che fanno così. Anche, ha presente, quegli insetti a forma di palla. O le vipere nelle spirali, basta alzare una roccia e subito saltano per mordere.
A questo punto non so nemmeno più cosa inventarmi per non farmi girare la testa. Sono stanco e non ho nemmeno voglia di tentare. Mi sembra di nuovo che prima di sedersi il gigante guardi me e io sono stufo di guardare fuori. Per me possono anche passare le ore seguenti a parlare del tempo che ha fatto ieri e di quello che farà domani, del pellegrinaggio e delle cretinate della festa in paese e di quanto legno gli passa tra le mani a quello, non ascolterò nessun’altra chiacchiera. Mi lascio cadere, sotto la finestra, e stravacco le braccia ai miei lati, senza più compiere alcuno sforzo. La colonnina di luce passa dal buco e sopra la mia testa si lancia attraverso la stanza, per scontrarsi infine con la parete. Davanti a me, la vedo macchiarsi d’un singolo flebilissimo tondino biancastro, cerchio quasi perfetto.
…
Non so quanto tempo sia passato. Ho deciso, un’altra scelta profondamente meditata, che le cose non possono continuare così. Forse si è trattato di un sogno, ma se mi affaccio alla finestra e vedo nel buco, anche adesso, con il cielo che già comincia a ritornare grigio, i tre corpi sono rimasti là appesi. Le bare sono impilate l’una sull’altra vicino a una radice nodosa. Era tutto vero. Non c’è segno del carpentiere o di altri passanti, la turista è scomparsa, se n’è tornata nel suo mondo o in cerca di un altro. Forse tutti sono al paese. Io ho riempito le mie tasche di paglia, il mio bagaglio. Sono deciso a partire.
Era vero, forse soltanto le parole erano false. Ma se mi sono giunte a quel modo, deve esserci un motivo. Qualunque cosa sia successa, è perché dovevo essere avvisato del pericolo incombente. Qualcosa viene a prendermi, a battere sulle pareti. Per non parlare di quelle voci assurde, quel morbo della febbre che deve essermi entrato nel respiro, pronto a ipnotizzarmi con le sue illusioni, al solo scopo di alzarmi la temperatura interna e spaventarmi, succhiandomi lo spirito. Significa che la casa è un luogo contaminato dalle forze esterne, ormai. Devo andarmene senza dubbio.
Scavare mi riesce sorprendentemente facile. Trovo le mie mani cambiate, adatte a questo lavoro. Riesco a passare da sotto l’uscio di quella che era un tempo la porta, ora un unico blocco sprangato. Mi preparo, chiudo gli occhi con tutta la forza che mi riesce di raccogliere, e mi metto un braccio in faccia, pronto ad accogliere la luce. Appena fuori dalla buca, già ustionato dall’aria del giorno, scatto, corro per quanto mi riesce con l’andatura caracollante di chi ha dimenticato certe forme di deambulazione poco striscianti.
Sono sulla sterrata. La polvere si solleva attorno a me, mi accecherebbe. Per fortuna questo tempo diminuisce la forza dei raggi, e attraverso le mie protezioni, che dischiudo appena all’occorrenza così da mostrarmi dove vado, riesco a sopportare la luminosità e il vento. Trilli acuti mi stordiscono, e credo siano i batticoda o gli storni. I miei piedi vedono o sentono cose strane, rotonde, e una fragranza d’erba… no, non posso, devo dimenticare il mio naso abituato ad altro. Potrei svenire, se registrassi anche i nuovi odori. Ma ecco, riesco a distinguere l’ombra della quercia. I tre sono appesi nella quiete del villaggio rimasto deserto. È il momento propizio della mia partenza.
Davanti a me, il campo oltre la quercia. Prenderò la strada non segnata. Barcollerò tra le erbe alte, forse uscendo solo la notte, nei primi tempi. Ci sarà pure, da qualche parte, un dirupo dove uno come me riuscirà a costruirsi un riparo decente, senza l’aiuto di nessun carpentiere. Devo solo avere la resistenza per cercarlo, e sento di averla se penso all’alternativa, a cosa avrebbero potuto farmi. Ma prima, vorrei salutare i tre sfortunati.
Mi giro un’ultima volta. Cerco di sopportare la luce per intero, così da guardarli e dar loro il rispetto che gli è mancato, assassini o mostri che fossero. Mi riaccosto al cerchio dell’ombra per poterli vedere.
Hanno un aspetto molto strano. Sembrerebbero una donna, un uomo e un bambino. Capelli e baffi con la consistenza di torbe e paglia sfilacciate, abiti simili a fibre di grosse piantagioni a foglia molto larga. Sembrano proprio dei pupazzi, coperti da baccelli di ortaggi enormi. Ma le pelli sono inequivocabilmente quelle di cose che un tempo erano vive. Lisce e untuose come peperoni, bitorzolute come zucche. Distinguo la fibra color terriccio dell’abito di uno, quella di un altro con un rosso e bianco da brughiera autunnale, e un’altra è smeraldina a scaglie. Riacquisisco i colori, e allora risalgo fino ai volti. Scintillano gli occhi e ho una palpitazione inconsulta, un conato.
Non li posso guardare dritti, non con i miei che si sono ingrigiti nel buio, dietro coltri su coltri di ciglia intrecciate. Mi paiono gemme sanguigne, a forma di seme, come incastonate a forza dentro due tagli fatti sulla carne. In fondo, come remote ombre di cui percepisco i contorni fibrillanti, di follia spettrale, le pupille nere e particellari galleggiano nitide nelle sclere dal colore dei chicchi di melograno. Mi prende un colpo e scappo più veloce, deciso per l’orizzonte che è la mia meta indefinita. Mi era parso di vedere nelle tre teste di diverse dimensioni uno sguardo molto simile a quello del carpentiere, o alle immagini che mi avevano lampeggiato davanti alla testa in un precedente delirio. Erano gli occhi che continuavano a osservarmi da dentro gli alberi del villaggio, quando credevo di essere più al sicuro.
Dopo un po’ mi riabituo a un rumore. È costante, scandito, scorre assieme a un tempo definibile a causa dell’esistenza, sopra di me, del cielo. La volta annuvolata guarda le praterie, che di rimando guardano in su, assorbono la luce e l’acqua. Il rantolo che sento, simile a un grugnito, è il mio respiro affannato. Tocco quasi la terra con il muso, che sento sporcarsi, umido, si imbratta per sempre la mia bocca di una barba fangosa. Avanzo scalpitando con gli arti lanciati a caso, tutti e quattro, quel che basta per darsi strattoni e sobbalzi che possano spostarmi da un punto all’altro, sempre così attraverso la distesa erbosa. Comincio a sentire presenze di gente. Anche queste non sono che ombre negli angoli remoti degli occhi semichiusi, sono un misto atrofizzato di sensi riesumati da troppo poco. Affiorano solo soffi di vite incomprensibili, troppo lontane da me. Villici che emergono con zappe dai campi, pastori a riposo sulle rocce. Inorridiscono, lasciano gli attrezzi, sentendo fendere le spighe da una corsa forsennata, selvaggia. Forse c’è una bestia che si aggira da queste parti e assalta il bestiame. Devo scappare più veloce, devo sperare che niente mi insegua. Comincio a temere che non smetterò mai, allora già mi preparo ad accettare di arrancare per sempre in questo modo, attraverso l’infinità della pianura.
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