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ho paura del fuoco

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 6 nov 2021
  • Tempo di lettura: 9 min

Raccolgo un po’ di quel mare che mi insegue. Insegue le scie che lascio a terra. Si è formato uno strascico incurvato e tristo come la figura ingobbita, anch’essa che mi trascino, nella deambulazione indolente attraverso i giorni di viaggio. La schiuma si riversa nei solchi, li riempie sfrigolando per far affiorare nella superficie bolle soffianti. Il sale friziona le acque, rendendole taglienti, trasmettendomi una sensazione calda con il sibilo prodotto a contatto con l’aria.


Allora mi volto, mi chino, faccio una conca di palmi per una manciata di quel composto originario del mondo, caldo come un brodo tra la sabbia e la sua originaria massa. Silenziose, le profondità impassibili rimangono ammassate le une sulle altre, costituendo l’insieme di oceani, mari, golfi, di questo schermo d’enorme occhio blu che continua a fissarmi. Sembra un genitore che tenga d’occhio un potenziale predatore o rapitore del figlio smarrito. Ma è freddamente indifferente e non leva cavalloni capaci di distruggere per sempre le coste, nel vedermi raccogliere quel suo rivolo distaccato, che era andato seguendomi come un segugio.


Proseguo, risalgo il pendio battuto dalla brezza e gli stridii dei gabbiani. Il vento è forte questa sera. Il vento, l’acqua, e presto si aggiungerà dell’altro. Sono tutti rafforzati, oggi. L’acqua raccolta non si è dissipata. Non mi segue più, ma continuo a portarmela, in un’altra forma. Ha superato la prima fase del suo addomesticamento, in cui ammaestrata, ma ancora tremula di sporadici istinti selvaggi, mi seguiva spontanea, come cercandomi per dirmi o darmi qualcosa, e allo stesso tempo ricevendo da me qualcosa in cambio che non posso proprio immaginare. Ora è una borsa di mare che mi porto nell’abitacolo in cima al promontorio come se niente fosse.


Entro, mi lavo, con altra acqua che non è quella. Acqua riscaldata: nelle pareti del bagno, un mondo diverso da quello di tutte le altre pareti dell’edificio, banchi di vapore rotolano e si crogiolano bianchi e sonnecchiosi, sembrano pigre foche sfaccendate su una spiaggia. Li attraverso, prolungo l’ebbrezza del contatto con i pori della pelle, che ne chiedono ancora, e che continuerebbero a chiederne, se non sapessero che in un modo o nell’altro quel contatto debba prima o poi concludersi. Sapendolo non riescono a concepire l’entità del proprio stesso desiderio, che diviene stupido e inattuabile. A malincuore interrompo presto, come a ogni bagno, il godimento di pochi attimi. Torno alle altre stanze, dove spira il venticello attraverso i cardini divorati dal tempo, attraverso le fessure del legno. Dove ci sono buio e un odiato freddo, dove i vapori e le acque del bagno non sono che un’effimera fantasia del passato.


Chino nella stanza. Scrivania. Fuori vento e gabbiani stridenti, l’unica specie di uccello notturno e diurno da queste parti. E il vento, qualunque sia il suo nome, è l’unica specie di contenuto dell’atmosfera. La pioggia non conta, qua sembra salire direttamente dal mare, come se sudasse. Ci fu una grandinata una volta soltanto. Il legno del soffitto gridava per il dolore, poi si addormentava. Nel sonno dimenticava di esser stato scalfito e le sbucciature inferte dai chicchi, ocra nella consistenza bruna, diventavano soltanto alcune tra le tante striature che il legno continuava ad accogliere, rendendole parte di sé, dei suoi anni.


In ogni caso sono qui e mi affretto. Forse non c’è ragione di affrettarsi sulla carta -i precedenti inquilini di questo abitacolo avevano appreso dei rudimenti per conservarla con questo livello di umidità e salsedine nell’aria. Ma il problema non è questo, sebbene non è neanche vero che ci sia un vero e proprio “problema” così esplicito. Piuttosto è un timore che mi porto dentro e che non è legato precisamente a qualcosa in particolare, un timore di cui potrei esplorare le possibili cause in miei ragionamenti ed esperimenti di coscienza del tutto personali. Al momento propendo per il timore di questo fuoco.


Sì, perché lo odio, questo fuoco. È per questo che in principio ho avuto quell’istinto, così inspiegabile, insolito per me, di voltarmi sul mare che mi inseguiva, mescolandosi alla mia ombra. Raccoglierlo, portarmelo dietro, rubarlo. Ecco cos’è la mia borsa di mare: un salvataggio, spero, per quando tutto comincerà a bruciare. A nulla servirà il vento, non farà altro che innalzare le fiamme, infondere in esse la forza del suo freddo che reagirà al caldo creando un tripudio sibilante d’opposti, in fumate incessanti verso le altitudini del cielo, spesse di fuliggine e sbuffi draconici da ogni cresta di fuoco. A nulla servirà l’umidità intrisa nell’aria, a nulla la sete perenne che i canneti, tra le ultime dune della spiaggia e la macchia, spargono affannati all’aria e le sabbie che vorticano, o che semplicemente li fa morire. I gabbiani? Non verranno certo in aiuto. Anzi, periranno, le loro penne si arrostiranno, precipitandoli. O saranno inghiottiti senza sentir nulla in una singola inesorabile fiammata. Vedrò le forme annerite cadere da una finestra, mentre all’interno starò cercando di trarre in salvo gli appunti su cui tanto mi ero affrettato. Gli unici cenni della mia esistenza quaggiù, l’unica cosa che possa provare non ad altri, ma a me stesso, che questi giorni siano esistiti.


Perché temo il fuoco? Le candele sono sotto il mio controllo. Dovrebbero essere come i vapori del bagno, come l’acqua in bottiglia, come l’acqua della mia borsa di mare che ironicamente esiste solo per estinguerlo, insomma queste fiammelle sulla cima delle candele dovrebbero essere un elemento di cui ho un controllo. Un elemento che sta qui per aiutarmi, un alleato: sono grato alla loro luce, fioca e calduccia ma sempre malaticcia, che per infinite sere mi ha permesso di scrivere nella mia stanza buia e stantia, al tempo stesso immalinconendomi con la loro vicenda d’infinita tristezza, il vacillare scostante tra i capricci del vento che penetra oltre le pareti. Ebbi anche l’impressione che vacillassero, talvolta, anche in totale assenza di movimento d’aria, come se il semplice esistere costituisse per loro un motivo di dolore. In questo potevo, schermendomi con un po’ di autoironia, rispecchiarmi, rivedere me stesso nel riflesso gassoso del loro nucleo, traballare come una forma evocata da giochi di luce. Ma a questo si limitava la familiarità con il loro elemento.


Non sarebbero nemmeno state le candele a tradirmi. Non una ventata che le rovesciasse sulla pergamena imbrattata in quel momento. Si potrebbe facilmente immaginare allora una striscia virescente che innalza le creste semoventi, lungo disegni imprevedibili, attraverso i paragrafi e fendendo il tavolo, il pavimento, tutti i legni che esistono. Si potrebbe immaginare il mio volto barbuto e scavato che fluttua, finalmente visibile, colto da terrore e istinto alla fuga, mutato in un grido di ratto che brami di abbandonare per sempre la morte della tana, la rovina della casa o della nave nei cui cunicoli ebbe riposo e lurido nutrimento.

Non è questo il fuoco. Il problema è che, in questo mio isolamento, lontano da tutto, in una terra che nemmeno ricordo, in questa parentesi di sogno o di vita dove il vento spira e il fragore delle onde sommerge la costa, in realtà non sono solo. Dovunque decida di spostare questo alloggio, questo mio compito che mi sono scelto -di riempire le pergamene-, ci sarà sempre qualcun altro a occupare le camere scavate in questa specie di dimora, di guardiani o nonsoché. Mah, staremo qui a guardare le navi che passano, le variazioni delle onde o delle maree, e se si è proprio fortunati un dorso grigio di balena all’orizzonte o un’eclissi bicolore sopra lo stesso.


Ci sono altri, di là. Ne sento i rumori, mi tappo le orecchie. Ne sento un digrignare assordante all’altezza del petto, minutissime e intricatissime contrazioni che continuano ad aumentare, ogni cosa che fanno, per quanto resa a me invisibile dal volontario esilio tra le pareti, che non è abbastanza. Mi raggiungono. La natura del fuoco riposa in loro, nei cuori. Non so se pensino ciò che penso io, guardando le candele quando viene la sera e ciascuno di noi è a curarsi delle proprie pergamene e paragrafi, o ciò che a queste equivale e che sempre necessita di quest’alleanza per poter vincere il buio che penetra fischiando in tutte le cose della costa. Si infila anche dentro le tane, di canneti o d’assi di legno consunte dall’acqua e il sale. Non so se gli altri abitanti dell’edificio, come me, pensino di rispecchiarsi nella vicenda drammatica delle fiammelle. Ma sento che si rispecchiano in altri aspetti del fuoco e che denigrano il mio negare questi aspetti. Probabilmente mi appartengono, indipendentemente da ciò che scelgo. Ma il fatto stesso che siano infastiditi dall’ipotesi che io li metta in discussione, prova quanto sia giusto che io tema il loro fuoco. Ho timore di quel presentimento che me li rappresenta del carattere e la corporatura odorosa del tipo di marinaio che denigra il marinaio disperato per aver ucciso un uccello marino, un presagio buono nella tempesta che doveva essere lasciato in vita, la guida bianca che porta fuori dall’uragano. Il primo marinaio si irrita, e prende a spiegare al collega quante volte, nella lunga ed estenuante esperienza, gente più anziana e capace sia stata costretta perfino a cibarsi della carne indigesta di gabbiani e procellarie. Tutti costoro non si lamentarono del dolore, tantomeno della “colpa”, che appartiene a chi è debole, a chi non accetta come le cose vanno nel mondo. ho scritto questo timore sulla pergamena, vedendomelo davanti in colonne d’inchiostro. È un esempio molto specifico di ciò che immagino essere le altre persone: mi stanno vicino, possono entrare attraverso un corridoio buio -o illuminato da altri fuochi, ora calmi oppure insidiosi- e stare accanto a me nella mia stanza, le loro spalle a poca distanza dalle mie. Mi scende agitazione lungo la schiena, è la tensione di trovarsi in presenza di chi ha piena padronanza del proprio corpo, del proprio odore, della massa che occupa uno spazio che nulla mai potrà restituire. Lo sanno e ne sono contenti: qualsiasi rumore o specie di odore emettano, qualsiasi peso infliggano sul pavimento e le sedie, sapranno sempre giustificarsi. Ameranno ciascuna delle cose sgradevoli della fisicità perché in questa è rappresentato il loro esistere. Mi battono il pugno sul grugno, nel peggiore dei casi, oppure la manata sulla spalla, per convogliare in altro modo quella voglia di percuotermi. Evito gli occhi: c’è penombra, ci ammanta sorvolando la curvatura arancione dell’alone delle candele, si riannuvola intorno a ogni cosa, e per questo posso in qualche modo schermirmi: ma se alzassi la testa, senza tenerla bassa verso le ombre sotto di me o nelle mie mani, vedrei luccicare i due occhi anche al buio. Scintillano, l’acqua che li forma reagisce al calore insito nella luce, e la pupilla accoglie questi insiemi di opposti. Come in tutte le cose vive, si riempiono di contrasti, che come scie di schiuma serpeggiano, cominciano a spiraleggiare verso il fondale nero… credo di temere l’anima che nascondono laggiù.


Non credo però che saranno loro ad appiccare l’incendio, volontariamente. È il fatto che esistano ad appiccarlo? Sono venuto qui per rispondere a questa domanda, che non è altro che una distrazione? Avrei dovuto comprendere il mare, essendone guardiano. Ma ci sono altri guardiani e questi hanno spaventato la mia quiete. Gli stormi nel cielo mostrano la forza del numero, dei richiami che si lanciano l’un l’altro per superare le avversità. Ma se sapessero che in ciascuno degli altri c’è la capacità di attrarre la distruzione delle fiamme, continuerebbero in quel modo, vedendo nella compagnia solo l’aiuto che possono trarne, oppure preferirebbero partire solitari, allontanandosi dalla formazione a freccia tra le nuvole?

Non voglio avvicinarmi. Non posso introdurmi nelle stanze degli altri, e versare l’acqua che ho raccolto… mi assalterebbero, con le parole più che con la vera violenza, prima ancora che io possa fare qualcosa. decido di non avvicinarmi. Di non sentire, scrivo parole che non provengono dall’ascolto di quelle pronunciate, ma solo da una cavità del mio petto. Di non vedere: chiudo gli occhi. Sembra di scendere negli abissi. Al ritmo dei respiri, che mi si fanno più intensi nella cecità, si dipanano ondine d’acqua in trasmissione dal fondale alla superficie. Placidamente, con echi come di grotta. Affiora una sagoma scura là sotto, un grosso pesce predatore che fa sporgere la pinna; poi una macchia formata da infiniti pesci piccoli, un solo cervello; poi un enorme e mansueto mostro marino, con lo sfiatatoio che sporge all’aria fresca e scura. Questo è il mare che voglio. Mi illudo che quando non c’erano navi, non si temeva alcun fuoco, e che questi abitanti primigeni non si odiassero quando si uccidevano tra di loro, ciascuno invogliato a sopravvivere per un principio automatico. Era un principio molto più integro e sano, senza fiamme nascoste nel suo nucleo, pronte a sibilare fuori.


.

Il mare a volte mi guarda dalla finestra, mostrando il suo occhio placido, equanime, di rette parallele tagliate d’azzurro. Il mare che a volte si mostra calmo, mentre nelle sue acque sepolte tra gli strati al di sotto della superficie imperversano vortici e correnti.


La situazione del fuoco sembra stabile. Nella casa, direbbero i passanti di là dalle dune e la macchia frinente di cicale e afrori, gli uomini hanno domato il fuoco e il vento, li adoperano per render l’acqua potabile e balneabile. Purificatrice in abluzioni. Il fuoco li aiuta nella notte, li rassicura contro la tenebra e l’inverno. È placido, ha una superficie regolare, segno che questo sia smussato e obbediente.


Più proseguo con l’inchiostro sulle mie mani e con le pieghe in ossa e muscoli della mia schiena, più fortemente sento che quel fuoco non se ne sta affatto buono. Grida per sprigionarsi. Non so che fare. Ho paura che sia proprio vero così come sento, e intanto che scrivo cerco di ipnotizzarmi con il grattare della penna sul foglio, cerco nello strappo ritmico un mantra che mi salvi; ma per quanto voglia dirmi che mi sbaglio, che c’è questa possibilità, continuo a temerlo. Ho paura che sia proprio vero e che un giorno esca fuori, si levi in creste dalle forme di bestie, dalle forme di fauci rapide. Lingue, intrise di veleni, alle quali il mio linguaggio e il mio veleno d’inchiostro non sapranno rispondere. Se dovesse succedere, davvero, non saprei come fare.


Intanto ho raccolto dell’acqua, ho una sacca di mare.


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