Hiroo
- Milky
- 10 set 2021
- Tempo di lettura: 40 min
(Occhi? Sognava occhi alti, occhi di raggi, occhi luce, occhi in più paia. Paia di globuli di carne strana diversa dall’altra. Carni vive, uova, girini d’acquetta albina. Occhi di figure in piedi, occhi alti, rilucenti nel buio. Corse, passi lontani, come tamburi nelle orecchie, o voce d’acque. Voci e fretta fruscianti come vento nel mondo stretto, rimbombo, e lo guardavano, lo sentivano, lo circondavano, lo vedevano. Ombre tubulari a raggio come dita d’una mano enorme aperta gli ostruirono la vista, ombra di un’aquila calata dall’alto, palmo in faccia, carezza schiaffo mosca cieca. Tatto nero, mutismo. Eco strane, tutto attutito. Si sveglia.)
Il risveglio lo stordì con una sensazione di caldo in eccesso. Un cerchio torpido gli indugiava a cinta intorno alla fronte, fin dietro la nuca. D’istinto, piegò il braccio, sporse la mano a tastarsi: nessun segno, pelle liscia non scavata da niente. Strano. Non capendo niente, attese che cessasse. Era caldo anche nell’aria umida, passava dalla finestra chiusa. Il sole scintillava forte attraverso il vetro. Era caldo tra le gambe e il sedere, dove era rimasto appoggiato ai quadricipiti di Haruko che leggeva seduta. Caldo sudaticcio dal braccio in giù fino alla mano dove lei lo aveva accarezzato mentre dormiva, con precisione ciclica. Sete, bava densa e insopportabile in gola, si disse, provò a dirsi, afferrando a tentoni parole mischiate da un frullato nella testa, provò a dirsi ancora una volta che doveva levarsi quell’abitudine di addormentarsi nel pomeriggio. Riuscì a dirselo con l’aiuto del corpo. E la lingua? Un po’ italiano, un po’ giapponese. Spiacevole miscuglio. Però non aveva dolore in nessuna parte del corpo. Attese.
Hiroo non ricordava bene il sogno che aveva fatto. Era rimasto con uno strano presentimento, come di essere osservato -non da Haruko lì sopra di lui, forse non si era ancora accorta che aveva gli occhi aperti. Però non era come dopo un incubo, oppresso al torace e con i brividi dietro le orecchie. Ricordava però che alla fine del sogno credeva di perdere dal corpo qualcosa di simile a squame, o una pelle vecchia, o dei denti forse? Grumi di pelliccia staccata, sanguinolenti a un estremo, disseminati lungo un sentiero… si stancava presto della confusione nella testa, rinunciò a guardare bene che cosa fossero quegli oggetti che gli si erano staccati dal corpo. La mente di quel momento poteva solo capire come muoversi, percezione di un animaletto ossessionato per la tana. In uno strattone si voltò e con le braccia al sedile si tenne fermo al di sopra del bracciolo dove aveva poggiato la testa, fissandolo da vicino: nessuna squama, nemmeno una ciglia. Una conca umida e lunga lasciata dalla guancia.
-sveglio?
Voce buona, di Haruko, sempre così con lui. La faccia e il tono invece cambiavano se rivolta ad altri, sorrisi diversi.
-nechatta…-, fece Hiroo con uno sbadiglio.
-wakatta ne.
Che stanchezza, pensò.
(forse provo a dirlo, come fanno quelli: che stanchezza! Aaaah, che stanchezza! Tiro le braccia dietro, petto avanti. Ridono sempre quando dico cose così. Allora non ci provo, meglio, itte wa dame, non dico niente, e se sbaglio parola? Che male la testa.)
Il cerchio intorno alla fronte svaniva e veniva dimenticato. Hiroo seduto sul divano guardava intorno, tutte le cose, una per una, svolgendo un compito con attenzione. Non con attenzione beveva un succo ace Yoga che si era ritrovato in mano e a risucchiare rumorosamente dalla cannuccia ciancicata sulla punta dal nervosismo, doveva averlo preso senza pensarci da Haruko che forse gliel’aveva passato in un momento di nebbia, quando si era messo con la schiena dritta. Beh, adesso lo beveva, avendolo cominciato senza pensarci. Forse glielo aveva preso dalla tasca davanti dello zaino, un bel problema in tal caso, perché sarebbe rimasto senza lì al doposcuola. Solo la crostatina all’albicocca tutta sbriciolata nella plastica trasparente. Niente per cui rincantucciarsi in un angolo a temporeggiare, mentre anche gli altri tiravano fuori dagli zaini multicolori di Tartarughe Ninja e Seven pacchetti rilucenti, stagnole rumorose. Era forse l’unico momento in cui Hiroo, nel suo star in disparte, si sentiva comunque simile a loro.
-come va il nostro studioso?
Era Satō-san che sparecchiava il tavolo della cucina da tutte le cianfrusaglie, le penne rosse, i raccoglitori di consistenza dura bussati dalle nocche indaffarate.
-l’ho lasciato riposare, -sorrise Haruko, -era troppo stanco.
-ah! Sciagurata! Poi la madre se la prende con me!
-beh, ma sono stata io…-, provò il tono pacificatore di Haruko a massaggiare la tensione che sempre sprizzava da Satō-san, donna nanesca presa da costanti tremiti come un cane di piccola taglia. Hiroo, risucchiando sonoramente dalla cannuccia, la guardava con occhioni ricurvi, seguiva il movimento sparpagliato senza sosta nel semicerchio della cucina priva di porta, e gli sembrava di vedere alcune ciocche della frangia farsi bianche e sfibrate mentre venivano sbatacchiate avanti e indietro dall’incessante raggrinzirsi della fronte.
-Hiroo! No!!-, gridacchiò.
-il succo, Hiroo… il rumore…-, gli suggerì Haruko.
-quando torna la mamma?-, mormorò Hiroo. Del tutto sveglio adesso, eppure qualcosa di sbadiglievole s’annuvolava ancora, indefinibilmente, nel suo respiro. E la voce soave e grattata veniva fuori simile ai soffi tentativi nel flauto dolce sempre uguali alle lezioni di musica, quelle note lunghe e definite ma troppo flebili, diafani getti a un panorama di orecchie voltate senza ritegno dai propri banchi. Chissà se anche a Machida suonavano in classe, Tadashi e Saki e Fuyumi e gli altri. E se le sue note, in groppa ai venti sopra l’oceano e le montagne, passando per le finestre aperte potessero arrivare anche alle loro di orecchie, che si apprestavano a suonare, o ad aprire Jump per la pausa, o si riposavano dalla pulizia mentre i pavimenti asciugavano e la capoclasse li rimproverava. Hiroo dimenticava sempre che da quando stava in quel posto l’orologio sopra la lavagna nella scuola di Machida segnava un’ora diversa da quella in cui lui viveva, luce diversa in cui era immerso.
-come sarebbe “quando torna”? Quando finisce!
-e quando finisce?
Le ditate color segale sulla pelle facciale di Satō-san traballarono da sotto gli occhiali al mento mentre le si contorceva un’espressione tra lo stupore e il fastidio, a quel bambino che non aveva mai fatto tante domande e quasi mai parlato in sua presenza.
-su, Hiroo, adesso raccogli il libro.-, lo sospinse con una pacca Haruko. La mamma stava fino a sera all’Istituto di Cultura e pareva che tutti quanti temessero come un rischio certo che in quel tempo, ogni giorno, lui si dimenticasse tutto il Katakana in pochi minuti. Bastava smettere un giorno di leggere i libri portati dal Giappone e sarebbe scomparso tutto. Perché era già pesante dover fare due volte i compiti, una volta sui libri che aveva imparato a leggere a casa, e l’altra volta al doposcuola, dove c’erano i bambini italiani, che leggevano altri libri.
Fino a quel momento era stato sorvegliato in modo indulgente, e come pensieri indecisi, con una certa affabilità trasandata giacevano un po’ sul pavimento un po’ in bilico sul tavolinetto di vetro le pile di libri colorati. E le matite, piccole, colorate, come un manto di foglie su terra forestosa, e i disegni mezzi stracciati. Aveva disegnato la casa dei nonni con i boschi attorno, e un uomo alto che di sicuro lavorava in una compagnia, con gli occhiali e i capelli che aveva calcato nerissimi, e la camicia bianca e i pantaloni neri, la valigia, che forse era così per creare un papà come quello di Fuyumi e gli altri. E ancora aveva disegnato le bici e le figure di macchine che si vedevano su Jump, perfino i disegni dei molti libri che aveva, lui che combatteva Yamata No Orochi. Hiroo raccolse il libro delle favole e miti illustrati, non senza uno sguardo scettico di Satō-san. Hiroo non sapeva bene chi fosse quella donna, solo che la mamma aveva incontrato lei e Haruko all’Istituto e adesso la aiutavano. Ma per quanto poco la conoscesse, si preoccupava di rendicontare alla mamma il progredire dei suoi esercizi, come da lei richiesto, con uno zelo che a Hiroo pareva eccessivo e inspiegabile. Haruko era buona, e aveva la pelle morbida quando come in quel pomeriggio gli capitava di appisolarsi appoggiato alle sue gambe o braccia, col fremito della ciocca bruna intrecciata lateralmente a solleticargli le narici, era buona e non gli diceva mai che non poteva ancora una volta ricominciare da quel libro che ormai conosceva a memoria e che assomigliava più a un divertimento che a un esercizio.
-allora, Hiroo, ricordi chi incontra Momotarō?-, gli chiedeva.
-basta con Momotarō!-, s’impicciava Satō-san dal corridoio dove risistemava i raccoglitori negli scaffali. La mamma li guardava a pranzo e fuggiva lasciandoli sul tavolo, ma c’erano due paia di mani a toccare le cose che lasciava dietro, le sue aiutanti.
-bene, allora, lasciamo stare Momotarō… Ah, ecco! ricordi i nomi del papà e la mamma di quei tre kami fratelli?
E Hiroo ripeteva, e nella mente percorreva con dita letargiche e pensose gli scatti e le curve delle molte sillabe, accarezzandole, come qualcosa di prezioso che doveva portar con sé, mettere in tasca perché erano amuleti e lo proteggevano. Non sapeva da cosa, ma doveva proteggersi. Era lontano dalla scuola di Machida e il pendio delle biciclette. Dove aveva visto Tadashi rimuovere le rotelle e salire spedito, sotto il sole arancione del pomeriggio e la coltre di cicale orchestranti sempre lo stesso monotono gravido di caluggine, odoroso di pagliuzze ai lati dell’asfalto. E l’avevano ammirato sognando anche loro quel coraggio, ma lui non avrebbe rimosso le rotelle su quella strada, e nemmeno quelle adiacenti, fissando in terra per vincere la paura la vernice che componeva il segno ancora troppo difficile, troppe linee per lui a quel tempo, tomare, e le striature fitte d’ombre di fili elettrici sempre annuvolati sopra quelle strade bordate di giardini. Era lontano da quelle cose e nelle strade italiane non gli era successo niente, ma se fosse successo? Hiroo voleva essere coraggioso, e smettere di sentirsi prudere le orecchie bollenti a ogni occasione in classe con le facce che ridevano in un modo incomprensibile, senza capire cosa fosse divertente. Ecco perché sarebbe andato da solo in quel posto che aveva visto. Come faceva lo stesso giorno, nel pomeriggio di un anno prima: in giro, sempre, tra i campi, a sentir le rane e catturare le cavallette. lì invece non si girava per strada e stavano sempre tutti a chiedersi dove fosse, cosa facesse, se avesse fatto i compiti e fino a che punto e se gli piaceva quel cibo che c’era, se gli aveva fatto male allo stomaco. Solo in quel momento, quando tutti camminavano in fila, avrebbe potuto. E si sarebbe distaccato, Hiroo lo aveva escogitato da solo. E si dispiaceva guardando Haruko, quella ragazza morbida e tiepida, che sorrideva sempre con tutti i denti quadrati e gli occhi stretti, che prima di sorridere tirava sempre un gran respiro che le gonfiava il petto e a Hiroo veniva voglia di buttarcisi di nuovo per sentire quanto più morbido era diventato; ma dopo quel respiro che la faceva sembrare stanca, le riuscivano così bene quei sorrisi che spargeva dappertutto, che erano come dei regali, e Hiroo pensava che allora era lei a volerli donare e non c’era da dispiacersi se la cosa a quanto pare le riusciva faticosa. Gli dispiaceva, perché andava da solo al di là di quei campi e lei non lo sapeva. E la mamma non lo sapeva, e Satō-san non lo sapeva. Un po’ gli dispiaceva anche per lei, che aiutava sempre tutti a mettere a posto le cose e non smetteva mai di parlare con tono deciso dei problemi di tutti. E voleva sentirlo parlare italiano il più possibile, sforzarsi, e poi di nuovo leggere giapponese; poi aiutava la mamma, doveva volerle bene o le piaceva aiutare. E forse non avrebbe rivisto più nessuna di loro, ma doveva farlo. Doveva andare laggiù, in quel posto bello che aveva visto. Lo attirava come una mano, la mano verde d’un albero che ondeggiasse tra quei mucchi fruscianti di fronde ombrose, agitata per chiamarlo a sé, nel folto, Hiroo vieni, Hiroo vieni. E avrebbe visto o sentito le ranocchie dei boschetti italiani, e avrebbe misurato da lì dentro coi passi la distanza dal boschetto di Machida, lui come Momotarō che incontrava gli animali e arrivava all’isola lontana, chissà se anche qua c’erano storie di eroi antichi che incontravano le creature. Lo Honshū era un’isola: ma poteva arrivarci a piedi, se ci si impegnava sul serio, come si impegnava a parlare e leggere e fare tutto tutti i giorni? Così pensava, e salutava, senza dire niente, il faccione di Haruko chino rivolto a lui poggiato alle ginocchia piegate, mentre leggeva le frasi, rispondeva alle domande. E vedeva che la testa si circondava di rossori, onde tra i capelli chiari, il sole che le avvolgeva le spalle irradiandosi dal finestrone nella parete con tante braccia tubolari, incandescenti, l’autunno dal cielo e dal giardino là fuori. Dove avrebbe anche lui pedalato la bicicletta senza rotelle, e detto, “Tadashi, ci riesco!”, e invece solo Haruko lo vedeva e batteva le mani nel sogno d’ottobre. No, fuori era dove sarebbe solo scappato, scappato e basta, e scoperto i misteri che lo chiamavano dentro al bosco.
…
Hiroo agitò la mano all’aria, l’aria sopra al banco quasi verdognola per l’aura sparsa come detergente dalla moltitudine di banchi verniciati. Credeva così di lenirsi un dolore che gli veniva a un nervetto alla base del pollice quando troppo a lungo eseguiva compiti manuali ripetitivi. Capitava spesso nelle lezioni di autunno, lo aveva già capito, ma era appena l’inizio del suo passaggio per la scuola italiana e molte cose già gli sembrava d’averle dentro da molto. Forse, quando era più piccolo, dopo addormentato era il papà, chissà che forma aveva, a soffiargli le cose nell’orecchio, e lui si svegliava sapendole senza saperlo: sui libri in katakana e hiragana non c’era niente di tutto questo. Ma con l’abitudine velata di noia e cecità di chi vede spesso una certa scena si voltava, posate le forbici, verso il compagno alla fila di banchi più vicina che applicava una quantità di Pritt eccessiva sia al retro della scheda, sbucciata dei contorni, sia alla pagina del quaderno sulla quale si apprestava a incollarla. Stava tutto chino, il compagno corpulento, la testa tutta capelluta un cespuglio nero di concentrazione e dedizioni impensabili in quella faccia un po’ tonta con la lingua sporta alla punta del naso. Diavolo, ci si metteva tutto in quell’operazione di incollare le schede. Forse ispirato da quel prematuro stacanovismo, o forse pressato da una strana impalpabile voce che si aspettava spuntasse a imporre di impegnarsi in qualcosa (ganbare!!), Hiroo riprese le forbici e ritagliava, ritagliava, prima dritto la cornice bianca della scheda, attento a non mutilare i perimetri delle tabelle d’inchiostro nero, poi frastagliato quando sbagliava, poi facendo slittare la forbice in avanti -un trucco da molti mostrato con orgoglio e soddisfazione. Sulle dita aveva un residuo di gialle striature da ape rimaste unte a contatto con la pelle, lasciate dal manico di plastica delle forbici arrotondate simile a polline rovinato. S’asciugò sui lembi del grembiule. Poi nervosamente si guardò intorno, ricordando che alcuni movimenti o gesti spontanei avevano attirato domande strane altre volte, e anche domande che, non avrebbe saputo dire perché, lo facevano come arrabbiare o quasi prender voglia di andare a piangere di nascosto, spesso domande sulla Cina. Nessuno aveva visto, sembrava. Nemmeno la maestra, quella con una specie di risatina nervosa come avesse paura di lui o forse di fargli del male, come maneggiasse un animaletto d’ossatura delicata, che gli diceva, “ma no, Irò, che cosa fai”, e lo guardava così fisso quando poi si metteva a scandirgli in faccia le parole d’una qualche indicazione, nascondendo in fondo alla pupilla chiara una sopita scintilla di esagerata cautela. “Irò”, lo chiamava, anzi, a volte gli sembrava d’aver sentito “Irù” -ci volle parecchio tempo perché capisse che non si riferivano a un qualche compagno di classe. Beh, questo “Irò”, si diceva in quei momenti, l’italiano non lo parla tanto, ma può capirlo. E per forza, se doveva essere successo che un’ombra d’un papà invisibile gli diceva le frasi dentro le orecchie nel sonno, perché a volte sognava la sua voce, e doveva averla sentita da qualche parte. E anche l’aula, l’odore di tempera, come frequentasse le elementari da venti anni, dieci in Giappone e dieci in Italia, conosceva tutto bene, visto in sogno o in un po’ di settimane molto intense.
C’erano, nella classe seconda D della scuola elementare di periferia, quelli come il compagno del gruppetto vicino, con un’attenzione maniacale alla gestualità apparentemente insensata, e c’erano quelli che avevano attaccato le schede storte, e la maestra aveva detto di attaccarle meglio, e loro le avevano staccate e reincollate in maniera identica a prima e la maestra senza nemmeno guardare aveva detto “ora sì”, e questi studenti avendo finito chiacchieravano ad alta voce tra di loro e pareva non smettessero mai di ridere. Capelli di tutti i colori si striavano dei raggi d’ottobrata tiepida, rimandavano riflessi che parevano come un alone attorno ai loro corpi blu e bianchi, bianchi e rosa, e Hiroo quasi si voleva schermire gli occhi pensando che erano come i cerchi brillantinati d’oro su quelle figurine che avevano appeso alla parete (perché, nella ripetitività di quei gesti e il suo doloretto al pollice, in quella classe pareva che si ritagliassero e incollassero tante cose, attaccate ai quaderni o sul muro). Intorno alla lavagna e alle finestre rimbalzava la luce, sulla carta del Lazio, le lettere dell’alfabeto, a per acqua c per cielo, le uova di Pasqua e sui disegni mal ritagliati e di colore a tempera sparso vigorosamente dentro le figure, quasi rimanevano calde per la frizione della foga sregolata dai pastelli stretti nel pugno. Gli angioletti nelle tuniche sbiadite avevano bocche triangolari e pelle fucsia, e tutti guardavano avanti, vicini tenendosi le mani, con la robaccia dorata tutt’intorno alla testa che pareva rimescersi nelle sue mille particelle sporche come un canale di scolo radiante di rifiuti vitrei al sole. Erano i lavoretti a mano, le cose che si facevano nella classe, erano i bambini stessi, li facevano per i loro matsuri e rimanevano immobili a veder le ore trascorrere nell’aula, tra ventate improvvise del mattino, zaffate d’alcol etilico sui pavimenti, serrande abbassate. Sguardi confusi di bambini un po’ più lenti degli altri a capire le cose.
...
Il doposcuola scintillava di rimando a chi lo lasciava dietro, a nascondersi nel tramonto, le proprie pareti bianche ritte sotto le fronde. Era un bell’edificio sormontato da vegetazione discendente dal pendio che concedeva a questo di accasciare le sue fondamenta e parete sul retro, dando a tutta l’area sin dal primo passo oltre il cancello della recinzione una sensazione appartata e protetta. Già quello ricordava l’entrare in un bosco. S’era abituato a guardarlo da lontano mentre veniva, c’erano pini marittimi, platani e gelsi tutti ammassati a sopracciglia arcuata sul tetto che così veniva ricoperto da ombra verdescura e un incessante ciarlare di uccelli, mentre tutt’intorno s’arrampicavano arbusti cresciuti a dismisura, folta peluria nasale di giganti dormienti nella terra romana. Passava sotto il cancello fino all’uscio e in continuità con la campagna, viva nel mezzo del territorio cittadino, il sentiero di terra battuta color tuorlo. Camminavano in file scoordinate con gli zaini sulle spalle, paralleli alle formiche coi loro carichi, diretti al parcheggio dislocato dalla struttura in una piazzola dove erano attesi.
Hiroo aveva segnato sul diario le fermate, scrivendole in katakana per come le aveva intese dal cartello, quando lo scuolabus apriva una porticina per farli salire e s’accodava agli altri coi numeri luminosi davanti. Molte volte aveva guardato, attento, perché aveva bisogno di tempo per capire, ma nessuno sapeva che voleva fare e non potevano rimproverarlo: ora sapeva come arrivarci. Studiato i cespugli, quelli sotto le finestre basse del doposcuola: da buttarci lo zaino, passando qua prima di andare. Anche questo lo aveva annotato. La punta acuminata del diario gli si conficcava in una costola da dentro la tela dello zaino e camminava da solo guardando lontano, aguzzando gli occhi, cercando d’immaginarsi uccello rapace- eccolo, il bosco laggiù, in quel punto la recinzione s’incurvava, schiacciata da un peso invisibile, facile da scavalcare. Procedeva come tutti per qualcuno che lo aspettava, non sapeva chi questa volta, e camminando su quel sentiero gli pareva di udire il rumore del fiume. Non sapeva in che parte di Roma fosse -ammesso che quella campagna fosse Roma- ma sapeva che c’era e, vedendo rigogliose frasche chiaroscurare ogni cosa nei paraggi e all’orizzonte disegnato di contorni di case, lampioni e camion, sentiva in sé come un tremito febbrile, che non avrebbe mai saputo spiegare in nessuna lingua. Era il fiato di una misteriosa vicinanza a quel suono scrosciante, spirito fresco di eterno e placido fragore che fantasticava a serpeggiarsi in cerchio a tutta la città fondata sui colli, in un occhio di campagne e boschi, tutto toccando e racchiudendo con la custodita saggezza liquida. Hiroo tutto questo non lo avrebbe mai detto a nessuno e perciò lo sentiva ancora più forte, e per un momento gli sembrò di poter esplodere di energia. E tutto gli rimbombava questo potere, fluido e luminoso: c’erano voci, molte voci diafane come spettri di grilli e kodama, nascoste sotto il rumore dei passi e i discorsi e le risate, c’erano la luce arrossata e c’era acqua lontana. Hiroo serrava le labbra e per pochi secondi camminando chiudeva gli occhi, in religioso ascolto. Le guance gli si arrotondavano. Come piene di saggezze per anni rinchiuse dietro i denti di un monaco muto. Salutava da lontano la sagoma: chi era? Haruko, o Satō-san, o forse…? Hiroo, che con gli occhi acuti aveva visto il bosco e capito la sua entrata, non riusciva da quella distanza a distinguere quella figura, nell’aria densa e tiepida. Una pioggia di raggi precipitava proprio in quel momento, tagliando obliquamente tutto ciò che era avanti, vibrando l’aria di rifrazioni serotine e risate che salivano, salivano, unendosi all’atmosfera che collegava tutti i posti che s’addormentavano e le macchine che tornavano. Strani incanti poi gli avevano popolato la testa, e qui saltavano e festeggiavano, lo incitavano, come il braccio del bosco, “Hiroo, tu puoi andare, tu puoi entrare!”, e capendo che a causa di tali immagini gli si appannava la vista delle cose vicine, Hiroo si chiese se per caso non fosse stato stregato da una volpe, furbo demone di campagna romana.
Quando vedeva le gambe non vedeva la parte superiore del corpo. Quando poi questa appariva vagamente, la luce inondava accecante una linea dal gomito all’orecchio, o cancellava il torace, mai mostrando la figura intera in piedi sulla ghiaia, tra ombre altissime di adulti in coppie. E se provava a ricomporre i vari pezzi che aveva visto, ciascuno in momenti diversi, all’improvviso una nebbia sopraggiungeva a ricoprirgli la forma che si sforzava di immaginare e riconoscere. Hiroo si convinse che alcune cose non poteva vederle da lontano, in certe ore del giorno. Ma così come velocemente era calata, la luce s’assottigliava, spariva una particella dopo l’altra in uno schermo violaceo che cominciava ad aleggiare rinfrescando il cielo e il sentore dei prati irrigati, le ombre delle cornacchie, i fanali di una macchina che usciva dal parcheggio. Allora riconobbe la figura. Lui camminava, ostinandosi nel mutismo religioso, e senza accorgersene aggrottò un po’ il musone da bimbo caparbio. Si sentiva più stanco di prima, passata la forte impressione di energia che gli era sbocciata dentro senza pretesto, solo attendendo di nascere proprio in lui. Ormai il parcheggio era vicino e a testa bassa ci entrava, ed erano lontani il bosco dove voleva entrare, e il doposcuola, dove lasciava le cose ripetute anche quel giorno (non ho capito, non ho, wakannai yo!), e gli lasciava un leggero mal di testa di cui si rendeva conto solo in quel momento. Saliva in macchina, e sentiva chiudersi sportelli, in fila. Non potevano accompagnarli quando c’era il rientro, perciò alla fine salivano alla fermata **, però potevano venire a prenderli, questo li accomunava tutti. Lui sperava che non per questo avessero tutti sentito l’impulso di andare laggiù dove voleva andare, fuggendo di nascosto un giorno di scuola. Altrimenti li avrebbe trovati tutti là, e sarebbero stati un branco di bambini del bosco. Il braccio si agitava: no, voleva solo lui. Tanto a scuola non si parcheggiava. Bisognava camminare, sempre. Non come a Machida, che era in cima a un pendio, sempre salito al mattino, ma basta pensare a Machida, che da lì non devo scappare, si disse Hiroo, ricordando il piano di aspettare, camminare piano, nascondersi in una fila di studenti per far credere di essere al sicuro, poi, appena via le macchine, se qualcuno lo vede allontanarsi verso una panchina, e fingere di levarsi un sasso dalla scarpa, e poi correre alla fermata. Hiroo si batté in titubante complicità con se stesso là dove c’era il diario che custodiva le fermate, meno convinto rispetto a pochi istanti prima. Sul sedile si stiracchiò, cercando di guardare dal vetro avanti la sagoma ormai già scura, contornata di tinte d’un blu fantastico, del bosco abbracciante i contorni della strada, inseguita nell’orizzonte piatto della campagna sconfinata dove spariva il sentiero. Cercava il braccio, per vedere se cambiava colore quando si avvicinava la sera, il braccio del bosco coi cigolii del legno e le nervature fitte da vecchio, per vedere se ancora lo chiamava, e se riusciva a risollevarlo, a dargli l’energia di prima, a farlo tornare a casa senza sconforto per la sua idea. E per cercare di vederlo con occhi d’aquilotto, non riuscì a capire se avesse proprio sentito bene, quando al battito brusco dello sportello chiuso s’era mescolata una voce, da un finestrino e una retromarcia vicina, che aveva detto:
ciao Irò!
“Irò” non sapeva che pensare.
…
E le maestre? Loro avrebbero detto che non era venuto a scuola quel giorno. Quel pensiero veniva a sorprenderlo sotto il cielo d’azzurro sgargiante e l’aria pulita, quando ormai già stendendo un braccio a un lato o l’altro della sterrata toccava con la punta delle dita le facce barbute di alcune balle di fieno. Ma doveva smetterla. Basta ricordare certe cose, in certi momenti. Tanto le maestre nel bosco non c’erano, perché era una storia tutta sua quella, e quindi, come tutti gli altri che lì non potevano esserci, non potevano nemmeno capire, e quindi forse non li avrebbe più visti, perché lui tornava attraverso il bosco a Machida, oppure andava chissà dove, non lo sapeva nemmeno ma quanto si fomentava! Il petto di Hiroo fibrillava di presentimenti incontenibili, salivano a sciami fin su alla testa rasata che camminando sbalzava in qua e là, contento, e raccoglieva una spiga e l’agitava, e stendeva le braccia per camminare a piedi allineati su una linea immaginata per una prova d’equilibrio, e scalciava una zolla, e non si stava fermo. I presentimenti gli dicevano cose che gli pareva di non poter ancora capire, perché erano parole complicate d’una lingua dei boschi che ancora non conosceva bene ,simile al fiume, ma allo stesso tempo sentiva che quello che volevano dire gli entrava da solo nel cuore e lo spingeva così a muoversi, ad andare, e si sentiva bene. Quindi basta ricordare cose che non c’entrano niente, nemmeno quelle persone giganti sull’autobus, quei cappotti lunghissimi e gli sguardi all’ingiù, quel naso che aveva starnutito “mah!”, e tossito dentro un orecchio vicino che questi cinesi i figli glieli potrebbero pure rapire, e certo sono tanti, se uno gli sparisce basta che ne tirano fuori un altro. Queste erano persone che nel bosco proprio non potevano entrarci.
Cantava un gallo, facendo molte pause, e un cuculo forse. C’erano molti uccelli a Roma. Alcuni uccelli della sera, li aveva visti, facevano una nuvola, un cervello, che si trasformava, e rifluiva inebriandosi della forza del cielo. Sopra l’istituto, sopra l’enorme scalinata e i giardini sopraelevati, su tutti i tram e le macchine e la palla di fuoco rosa. Mentre parlavano in giapponese le persone alte vicino a lui, iniziative, corsi di lingua. Ma non bisognava pensare all’Istituto, un posto dove la sua lingua risuonava o con un rimbombo strano e spaesante, o ripetuta dentro un’aula come avevano fatto a lui più piccolo, ma a gente grande, grandissima.
Rispondeva ai canti dell’aria, facendo rumore perché era vivo in quella bellissima mattina, e andava a vivere nel bosco, e poi forse andava ancora da un’altra parte, magari a incontrare Tadashi… gli avrebbe fatto vedere come pedalava, dopo aver attraversato il bosco romano non avrebbe avuto paura di niente e sarebbe stato capace di far tutto e Fuyumi che disegnava bene si sarebbe ispirata a lui per la sua storia da pubblicare su Jump o Sunday. La terra si sgranocchiava sotto le dentature delle suole, e poi le batteva su pietre sporadiche lungo il percorso per soddisfarsi di quel bussare duro simile ai geta sulla stradina della gelataia, dove avevano corso stringendo bastoncini scintillanti all’ultimo Tanabata. Girandosi già non vedeva più la collinetta del doposcuola, coperta da pini e pioppi adiacenti la via. Intanto comparivano piccole, sparute case che crescevano nell’erba, coi pollai argentei messi a orecchie sui lati. C’erano forse cani? Hiroo a questo non aveva pensato ed ebbe un po’ paura, smise di far rumore passando davanti alle casette. Cercava di camminare come un fantasma, sperando che gli scomparissero i passi. Capiva non essere abbastanza per qualunque cosa potesse spuntare e fermarlo, perché c’era da aspettarselo. Cane o umano, doveva esserci una forza d’ostacolo a ciò che desiderava, pronta a riportarlo a scuola o a casa. Era stato anche incauto, non avendo considerato che erano giorni di un abbaiare incessante, e quando il primo giorno, con l’emicrania e le orecchie tappate, i caseggiati sabbiosi di Termini ancora si susseguivano confusi e ipnotizzanti negli occhi pur avendo lasciato la stazione, udiva molti cani da tutti i vicinati, gli angoli dei cantieri, i parchi. E aveva pensato in quei momenti che fosse una città di cani, quasi più degli uccelli. Ora temeva che la campagna non fosse al sicuro. Gli aveva aperto una via che lo conduceva all’ombra degli alberi, dove avrebbe incontrato (di nuovo, sentiva) gli spiriti che gli appartenevano, ma adesso lo tradiva, sicuramente, la campagna estranea e ingannevole. Hiroo era sempre più ansioso. Esaminava le righe tra mucchi di spighe, macchie lontane di roccia bianca o temuta sagoma pelosa. E nel bosco i lupi? No, ricordava, si erano estinti nel periodo Meiji, anche se la mamma lupo aveva allattato il re della città, come gli avevano raccontato- quello era il mito di qua. Aveva allattato e poi si era estinta e scomparsa non s’era vista più. C’era solo sui banchi, facevano a gara a disegnarli i bambini italiani, un’aquila contro una lupa per conquistare una città di uccelli e cani. Ma qui niente regina aquila e niente mamma lupo, nessun tipo di mamma. Ma rimanevano molti altri problemi.
Doveva tornare indietro? Nulla spuntava tra le erbe. Il silenzio si riempiva di presagi non proprio catastrofici, ma solo sconfortanti, e questo, per Hiroo, era anche peggio. In un tramestio attutito come di voci e sbuffi lontani, lenti ad arrivare volando sui campi in nuvole invisibili, potevano esserci i richiami dei suoi ostacoli. Per un impulso di rifiuto ruppe la precisione della sua tecnica ninja e si gettò capofitto in una corsa rettilinea sulla sterrata, alzando sabbioni, sperando d’impressionare. Calma alternata a furia, un equilibrio che avrebbe sorpreso i nemici. Ormai era gettato: poche centinaia di metri, la recinzione l’avrebbe scavalcata saltando. Senza voltarsi, senza dare ascolto alla paura. Poteva riuscirci? Poteva correre, levare le rotelle, scappare di casa, dire che voleva tornare a..?
-addò corri?!?
Hiroo si sentì sparire il cuore in petto e la testa riempirsi di bolle d’aria per un mancamento di un millesimo di secondo. Ricomparve il cuore e batteva tamburi impazziti, taiko in una gola di montagna. Cessarono subito anche quelli. Hiroo aveva rialzato la testa dai piedi frenati forzosamente, struscianti calore sulla sabbia divelta nell’arresto brusco. L’ombra del vecchio gli ricoprì lo sguardo tenuto fermo e cauto, ostruendogli i particolari del volto e la corporatura. Accalorato si teneva un avambraccio sulla fronte inondata di luce e con l’altro lato si stravaccava su un bastone conficcato verticale in terra, con una bottiglia di plastica capovolta attorno alla punta. E in poche parole vibrava la sua anima a ondate, come avesse invece parlato per ore svelandosi tutto, un tono che era come cordiale, indipendente, infinitamente sereno.
-do’ vai?
Hiroo guardava, non rispondeva, stanco nel torace. Il vecchio vide che era un volto dal temperamento placido, gli occhi incurvati curiosi. Se non rispondeva doveva avere le sue diavolo di buone ragioni.
-sei uno di quelli eh. Vi vedo ogni tanto. Bello oggi eh.
Si era scostato dal legno. Hiroo vedeva le rughe dritte e parallele sulla pelle rosa scuro, la barba candida a ciocche disordinate. Il vecchio guardava per aria, poi guardava lui, poi in un campo lontano, e il cielo come vi leggesse l’ora. Ma dal movimento inquisitivo del collo non traspariva nessun nervosismo, tranquillo com’era nel riempirsi la vista della scena campestre. Solo il sudore colava ovunque, perseguitandolo simile a mosche su una vacca.
-senti un po’, entra dentro va’. Te faccio beve na cosa bona. Capisci italiano?
Hiroo, senza capire perché, e irritandosi perché non capiva, e subito lasciando perdere l’irritazione, annuì. A una o a entrambe le domande. Così seguì la strana figura del vecchio lungo un viale d’erba, sassi e quelli che parevano attrezzi e scatole alla rinfusa, verso una casetta circondata di viticci, con sguardo di saracinesche malridotte e smangiucchiate. Fissava senza battere le palpebre le striature di luce solare che circolavano evanescenti sulla schiena arcuata dentro un gilè smanicato di lana color vinaccia, inscurito dal sudore.
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Aveva un buon sapore. Si portava il bicchiere alto e sottile alle labbra stringendolo con entrambe le mani, la mistura colava dall’occhio vitreo del fondo prendendosi tempo denso e scrosciante di risucchio.
-bono eh?
Hiroo annuì di nuovo.
-bono sì. Roba dell’orto mio. Mandarini, carote, du’ gocce de limone. Fa bene alla vista. A quest’ora me lo bevo sempre.
Da uno spiraglio d’una finestra, la serranda rotta tenuta su da una scatola di scarpe messa sul davanzale, luccicavano file verdi di piante d’aspetto fresco e vecchie intelaiature metalliche staccate, vibranti ai lamenti dei polli. Galline erano altresì ritratte in vari punti che poteva vedere attorno al lungo tavolo in quella specie di cucina soffusa di luce mezza addormentata. Soprammobili a gallina, una formina di plastica con i ganci per le presine. Disegni d’uova insieme alle pagnotte e le spighe sulla tovaglia appiccicosa.
-te stai alle case laggiù ve?
Hiroo inghiottì, il sentore di carota che gli grattava la gola, e un istinto gli suggerì di mentire. Annuì.
-e allora ce lo so che non te posso di’ niente. Tanto ce annate comunque vicino ar bosco, che dei cinghiali nun ve frega niente. Vai a giocà coll’altri?
Mentì ancora. Sembravano annullarsi gli ostacoli. A meno che…
-i cani girano, se so’ allontanati.
Così il vecchio gli aveva risposto. Spuntò sul volto tondo di Hiroo un sorriso di spontanea riconoscenza per quel vecchio che sembrava parlare un po’ a se stesso, un po’ al bambino, un po’ alle piastrelle della parete ocra sopra i fornelli cui si rivolgeva il suo ceruleo sguardo indefinito, appoggiato con una guancia su un pugno. Hiroo, senza pensarci, fece una domanda, e il vecchio non trasalì in alcun modo, indifferente all’aspetto e i pensieri di chiunque nel mondo parlasse o facesse rumore, anche se era lui. Chiedeva chi facesse la guardia ai polli se i cani erano in giro.
-e’ galline? Pure quelle stanno in giro.
E non aveva paura che scappassero?
-e sapessi quante se ne so già ite. Du’ tre polli prima o poi scappano via. Però è pure pe questo che fanno le ova.
Hiroo si sentì molto colpito dall’aria di sincero rammarico sparsa dalle parole del vecchio, come avesse per unico rimpianto quelle galline scomparse, e gli occhi gli si facevano via via scuri e acquosi stando vicino a quel personaggio che gli era apparso quasi magico sbucando dalla campagna romana. D’altra parte però, perché lasciar girare i polli, se poi dispiace tanto che spariscano? Solo perché fanno le uova? Era un vecchio strano, sicuro.
-a lasciarli liberi così crescono bene e pure le ova escono mejo. Se ripassi quando è più freddo te faccio provà lo zabaione.
Batuffoli di polvere calavano pigri davanti agli occhi neri di Hiroo e quelli celesti del vecchio. Diversamente da altri occhi celesti non mettevano soggezione. Erano un cobalto velato come un cielo d’autunno che ancora non si era visto in quell’ottobre caldo, e sembravano trapassare oltre i granelli e i muri e le cose fuori, capendole senza sforzo ma senza inorgoglirsi di tale forza penetrante, anzi subito passando ad altri pensieri, indolentemente.
-occhio quando passi la rete.
Hiroo sussultò impercettibilmente nella gola, come sentendo che quegli occhi gli avessero letto il pensiero, tutto il piano della sua giornata e pure le cose che avrebbe fatto.
-è vecchio quel bosco sa? Ce sta pure ‘na storia antica. Te lo conosci Omero sì?
Hiroo annuì per non sembrare stupido.
-bravo. Legge storie vecchie è la mejo cosa dopo lavorà la terra, e dopo lo zabaione. Però ‘sta storia nun l’hanno scritta. Se racconta qua, da ‘ste parti, che Ulisse co du’ tre marinai suoi ha camminato dal Circeo fino a qua e s’è infilato proprio dentro a ‘sto bosco. Ha incontrato i centauri che je hanno detto come tornà, ma Ulisse er viaggio suo ancora nun lo doveva finì.
Hiroo ascoltava. Era strano che il vecchio gli raccontasse quella storia. Ma aveva voglia di andare nel bosco. Senza dirsi niente col vecchio, dopo che ebbero osservato altra polvere, si alzò e quello lo accompagnò fuori.
Hiroo era tornato sulla stradina, e da lì, con la sua espressione seria, guardò in faccia il vecchio di nuovo appoggiato al bastone interrato.
-ciao.-, disse, e scappò via riprendendo la stessa caparbia corsa di prima, senza voltarsi.
-statte attento. Ripassa pe lo zabaione.
Forse Hiroo non poteva sentirlo. Fendeva il vento leggero, che si rivelava solo nella corsa, ibrido con fiati ancora caldi, e gli si avvicinavano le cose vive di linfa sui bordi della strada, gli sembrava che ogni specie d’arbusti e cespugli nascesse proprio là, forte d’un segreto rigoglio nella terra, e vorticasse nel paesaggio sconquassato dal movimento frenetico. La recinzione si innalzava dal verde smosso. Sgusciando da rovi spogli rasenti il terreno, dita distese da cespuglietti nerastri, le maglie romboidali della rete puntavano dritte il cielo. Hiroo rallentando tendeva il palmo aperto e le strusciava coi polpastrelli, carezzava il fil di ferro lungo i sinuosi attorcigliamenti. La sequenza ipnotica dei fori si interrompeva laddove a ricoprire la rete appariva all’improvviso un cartello rettangolare. Sulla plastica imitante il colore della faccia monca d’un ceppo era ritratta la silhouette di un cinghiale, centrale tra le quattro sporche viti agli angoli. C’era scritto: PERICOLO.
Poteva trattarsi di un altro ostacolo. Anche il vecchio aveva accennato al problema. Però gli istinti di Hiroo, che lo dovevano guidare in tutta la sua impresa, non gli mandavano allarmi. Erano stati molto più intensi quando aveva pensato ai cani. Ormai era nel territorio del bosco, in pochi passi oltre l’avvallamento della rete avrebbe varcato il primo bordo d’ombra e ne avrebbe fatto parte. Con tutte le cose che c’erano nel bosco, pericolose. Hiroo si ricordò dei cartelli simili che aveva visto una volta, anni prima. I nonni e tutti quei vecchi sull’autobus con il forte accento del Kansai e la passione per le gite. Quel giorno di vacanza l’avevano portato sul Monte Kōya e ricordava di aver visto la tomba di Oda Nobunaga. Oltre al cartello con disegnati i cinghiali. Non si doveva portare cibo per non attirarli con l’odore, e nel bosco romano, che aveva chiamato Hiroo, lui di certo non portava il cibo, non avrebbe commesso errori grossolani come quello, lui che vi entrava e si trasformava. Per un’inezia della mente ricordò anche di una specie di alterco, di appena poche settimane prima, in cui c’entravano il nome di un tizio barbuto che non conosceva e quello di Nobunaga, lui non conoscendo il primo veniva deriso da tutti che non conoscevano Nobunaga, e solo gli occhi di Hiroo si spalancavano e diventavano tutti bianchi per la sorpresa, e se n’era tornato a casa in preda a un’irritazione che percepiva fortemente irrisolvibile, così non gli rimaneva che perdere l’appetito e respingere ogni voglia di riferire l’episodio, spiegare perché l’avesse fatto sentire a quel modo. Erano sciocchi pensieri e Hiroo doveva scacciarli via. Superato il cartello era giunto proprio dove aveva guardato nell’aria limpida d’un pomeriggio, cercando cose lontane dalla fila che lo sospingeva assimilandolo a quell’unica corrente diretta al parcheggio. Un movimento che gli pareva irreale. E irreale poteva sembrare, ma non era che un inganno, la vicinanza di quel punto particolare della rete schiacciata, che sembrava appartenere soltanto alla distanza, a ciò che avrebbe fatto o potuto fare, a un suo piano costruito da solo. Ed eccolo invece nel presente, ed ecco un prato in leggera salita che conduceva a un’alcova scavata tra alti tronchi, comunicante tra il bosco e il mondo. Senza movimento s’alzò per pochi secondi un vento e volò una foglia rossa, dovevano esserci anche alberi non sempreverdi. Rispose, dal fondo della gola del bosco, un rantolo profondo e burrascoso, che aveva qualcosa di solenne come l’antichità muta delle cortecce. Bene: sollevò il piede, pronto a schiacciare sulla conchetta del filo più esterno della rete, tutto pieno d’ammaccature. Col ginocchio in su e mezzo per aria, mezzo dall’altra parte, si voltò nervoso per l’ultima volta. Nessuno sembrava osservare, udire, odorare, ostacolare la sua traversata. A un centinaio di metri giù per il sentiero, erto con le misere finestre rivolte al bosco, un gruppo di caseggiati desolati, con le pareti mezze cadenti, dormiva in silenzio. Sembrava che nulla si muovesse al suo interno e forse nemmeno dentro era animato da presenze vive, così sembrava. C’erano fuori soltanto un rivolo d’acqua sporca alla radice di certi sgabuzzini, una carriola con dentro uno pneumatico, spazzatura sparpagliata. Doveva essersi svegliato, il villaggetto, l’ultima volta nella notte, quando qualcosa con forma d’ombre aveva rovesciato i cassonetti e frugato. Ma sembrava in quel momento che solo alcuni fantasmi abitassero quel luogo, sotto l’atmosfera d’irreale dialogo tra il silenzio e i fruscii. Si svegliava solo un altro luogo, che era opposto alla strada i campi e le case, che era un confine ombroso sulle loro vite.
(Mormorava. Mormorii arborei, voce del fiume, sorgente. Sorgente del sogno. Occhi di raggi, occhi di luce, occhi in più paia, che aveva sognato, e il sogno del fiume che gli parlava, diversi ma uguali, sprigionavano da questo. Così gli diceva un istinto nel ventre e chiedeva al corpo già avviato di non fermarsi, di immergersi meglio ancora nella frescura dell’ombra, andare a fondo, nella sorgente di tutto.)
..
Piume rovinate erano sparpagliate da una leggerissima brezza radente il terreno. Si infilavano tra gli steli fitti intrecciati a formare uno strato superficiale sul terreno, un blocco compatto di trame sulla pavimentazione del bosco. Per l’assenza di piogge in quell’autunno il micelio sbocciava solo microscopici funghi invisibili, spargenti tra felci e dossi di radici spore solo lievemente odorose d’attesa, pazienza ineguagliata. Si alternavano luce ombra caldo e pioggia, e le cose del bosco aspettavano. Si alternavano alberi e radure, prati circolari tra le ombre, vegetazione e pietre.
Molto oltre i primi alberi, maestosi portali in piedi, c’era il cuore del bosco. Molto oltre i nascondigli dove il sole penetrava non solo dagli spazi dall’alto, ma anche dalla linea luminosa fuori dai tronchi più esterni, e circondava tutto. Voltandosi ora, la linea lontana degli alberi già superati era scura e irriconoscibile. Il cuore pulsava, mormorava, e così orientava le cose che ci passavano, senza sentieri o indicazioni. Forse qualcuno si perdeva in quel bosco, ma almeno proseguendo dritti si sarebbe sempre arrivati a un’altra parte della periferia romana, dove era cresciuto selvaggio questo labirinto forse indifferente alla metropoli, le cui pietre sepolte sfiorava con le radici nel sottosuolo, e che vedeva pararsi lontana a imitarlo con foreste di palazzi e strade sull’orizzonte. O forse antico compagno della città. Non poteva essere più che un boschetto, eppure, entrandoci appariva più grande. Uscire da un’altra parte di Roma? Hiroo, che si era avventurato, non desiderava questo.
Il bosco pur senza sentiero appariva incredibilmente spazioso. I tronchi piuttosto distanti s’aprivano in cima in enormi chiome che tingevano il terreno di traballanti mosaici, dove nell’ombra ammiccavano occhielli fosforescenti sull’erba. E ai confini delle ombre, calando come cilindrici raggi di riflettori, s’imprimevano cerchi luminosi dove la luce stessa pareva assopirsi; e pareva di vederla che sbadigliava, guardando l’aria sopra le circonferenze, in cui scorreva l’impressione fumosa d’uno sciabordio corpuscolare come il riflesso di corrente fluviale sul ventre di una barca ormeggiata. Molti occhi erano aperti in tal modo per terra. Hiroo camminava, respirava, cercava. Gli sembrava d’essere in un sogno, dove il rigoglio buio e brillante fendeva attraverso le ciglia come al risveglio. Ma dall’altra parte non appariva a travolgerlo un lampo bianco e violento, anzi sembrava che oltre le ciglia, passate le palpebre, l’effetto s’affievolisse, e pur custodendo la stessa calda energia procedesse ad accarezzare l’occhio. Così che vedesse nel sonno.
Calpestava molti rametti, Hiroo. Le orecchie acute degli abitanti sapevano che era lì, ma il bosco non l’aveva rigettato fuori dai suoi confini, perché lo aveva invitato. Doveva aver visto bene, Hiroo, avendo sforzato così tanto la vista e riconosciuto il richiamo. E doveva dimostrare al bosco che anche il bosco aveva visto bene, scegliendolo. Ma non sapeva come. Prendeva un’asticella flessuosa, un vecchio dito caduto, e lo agitava qua e là, e basta.
In certe zone gli alberi sembravano equidistanti e ciò dava l’impressione che fossero posizionati quasi in file o in un reticolato preciso, sebbene indecifrabile. Alcuni alberi un po’ più grandi apparivano così come il centro di un riquadro. Superata un’enorme e singola canfora dall’aspetto millenario e la sua ombra ineguagliata tra tutte, s’apriva un nuovo diagramma d’alberi al cui centro c’era questa volta un grosso macigno. Le facce bianche e lisce spiovevano nette, oblique o scattanti a terra, da sotto una cima muschiata e seguivano la robusta conformazione adeguandosi a tutte le protuberanze del nucleo roccioso. Uno spigolo si protendeva a sinistra, gettandosi fuori dalla linea del muschio superiore, mentre alle radici scheggiate riposavano mucchietti di sassi ovali. Ce n’erano molti altri in tutta quell’area, e raggiungevano una certa densità intorno al masso loro capo, alcuni per metà bagnati dalle pozzanghere di luce tipiche di quel bosco. I due alberi laterali più vicini avevano rami lunghi e scheletrici che protendevano le ricche fronde come a compiere uno sforzo muscolare, senza mai fallire, così immobili attraverso i secoli per il dovere di preservare l’equilibrio costante di chiaro e scuro. Tra le mani legnose distese quasi a toccarsi passava una singola cascata di luce dorata che pioveva dritta sulla punta del grosso masso, baciandolo dal cielo, e simile ad acqua sulle rocce pareva rivolare in magri affluenti sugli altri sassi intorno, come gocciante. Hiroo ebbe la sensazione di esser già stato proprio in quel posto. Pensò allora di trovarsi in un percorso giusto, lo avrebbe portato dove voleva, quel volere solo intuito, voce acquatica e selvatica. Osservò a lungo, e vide innumerevoli volte i fremiti delle tinte cangianti nella luce che in impercettibile sussurro ravvivavano il bosco come la superficie di un placido specchio d’acqua. Notò anche mimetizzate tra le felci quelle piume sfibrate che si trovavano incastrate nelle pagliuzze in certi mucchi della zona percorsa -bianche o giallastre, come abbandonate, pensò a quel vecchio strano che lasciava girare i suoi polli, e se li immaginò a giocare su quell’altare della natura spiccando piccoli voletti da un sasso all’altro. Poi sparivano, sacrificati, e lasciavano le piume. Hiroo guardava e immaginava e parallelo alle gambe ancora oscillava, rivolto a terra, il rametto che aveva agitato.
Rispose un rumore, uno dei fruscii ininterrotti di sotto agli arbusti e nei nascondigli, incessanti intorno al percorso attraverso il bosco. Un fruscio molto vicino: saltò fuori un coniglio selvatico da un gruppo di bassi arbusti dalle foglie acuminate, proprio di fronte a un cerchio di sassi esterno al macigno. Sullo sfondo della superficie eburnea scintillava il pelo metallico, chiazzato rossiccio dal collo alla pancia. L’animale s’immobilizzava senza fermare il movimento frenetico del muso. Hiroo vedeva gli occhi sferici quasi sgusciare allarmati e capiva che sarebbe stato difficile avvicinarsi a vederlo meglio. Fissandolo si accasciò a terra lentamente, e così rannicchiato avanzava passi malfermi, a ogni tremore rischiando di mettere in fuga il coniglio con le orecchie dritte pronte a captare le vibrazioni dell’aria. Ma Hiroo suo malgrado sbatté le palpebre, per un solo istante. Riaperte, non vedeva più il coniglio, e nelle orecchie irrompeva un ritmo di foglie scosse, una linea balzante in fuga tra gli sterpi. Hiroo guardò dove i gambi ondeggiavano, cercando il solco tracciato dalla corsa, seguendolo oltre, ma il coniglio era già scomparso, tuffato nelle ombre di cespugli in un ritmo di fruscii morenti nella distanza.
Quando ritornò con lo sguardo al macigno erano apparse tre alte figure umane.
Hiroo sussultò e i rimbombi nel petto continuarono a lungo quasi a spaccarglielo. Stavano in piedi con la schiena vicina al masso ora cinto da una shimenawa, e guardavano Hiroo con occhi inaccessibili. Nei loro volti non comparivano emozioni note, dentro quelle pupille potevano distillarsi in lacrime inamovibili un’freddo rigore oppure una curiosità penetrante. Forse apparivano inavvicinabili, ma non sembravano ostili. Dopo un tempo indefinito finalmente si mosse uno di loro, più centrale, con pochi frettolosi passi e cambiando completamente sguardo, fiammeggiante di giallo rivolto alla terra, in perlustrazione. Alla sua destra si scostò con passi eleganti e formali un altro che aveva la schiena dritta e il portamento delicato d’un principe pallido. Tenendosi un lembo della tunica con pollice e indice, poteva sembrare che si inchinasse, invece con l’altra mano esplorava il suolo, raccoglieva una manciata di piume ed erbe ed esaminava. Portandosele al volto pareva leggerle. Guardò alla sua sinistra la terza, rimasta immobile dove era apparsa, che subito abbassò il viso. Si voltò al raggio di luce sul masso, che a Hiroo parve vibrare come fosse un ponte che ancora traballava per il passaggio di qualcosa.
Hiroo li osservava in preda a una vertigine quasi folle, piena di incontenibile incanto. Il ramoscello gli era caduto di mano, senza accorgersene dalla sua posizione rannicchiata si era seduto a gambe distese e palmi a terra, e così stava, un labbro calante e le orecchie spalancate, vasi in cui farsi versare qualcosa.
-me sa che è sbagliato.
-no. Le tracce non mentono.
-le tracce! Che ne sai te di tracce, nel cielo e al buio?
-e allora controlla.
-stateve zitti. Non riesco a sentire.- interruppe la donna con voce di chi digrignerebbe il volto, ma che non si spinge a tanta volgarità. Sembrava molto concentrata, quasi cercando di assorbire un’essenza impalpabile da quanto la circondava. Quello con gli occhi cangianti e malfermi in risposta mandò dai denti scoperti un rutto simile a un tuono e rise.
-è delicata la principessa. Famo piano che se no se ne torna nella grotta. Capito regazzì?
Hiroo fu molto sorpreso da molte cose. Aveva guardato lui, interpellato direttamente; si era aspettato che le tre divinità parlassero giapponese, eppure gli sembrava di sentire, in quella parlata simile a un brusio indistinto da cui saltassero come salmoni accenni di parole, le inflessioni e gli accenti di quel vecchio che aveva incontrato; e riusciva a capire tutto.
-è stato lui a chiamare.- disse solenne la dea, appena roteando il volto disturbante e perfetto, e con quella sua voce roca poteva donare la vita o distruggerla senza pietà.
-e bravo. E mo?- sputò a terra il fratello rude. Un rivolo di bava gli si fermò in una ciocca della barbetta a chiazze, e si asciugò con l’avambraccio muscoloso folto di peli. Piuttosto tozzo, dava però un’impressione di notevole tenacia, mentre i lunghi e fiammeggianti capelli mossi, perfino dritti in creste da qualche parte intorno alle tempie, lo dotavano di un’ombra fluente che lo seguiva addolcendone le maniere, smussando la ruvidità della veste marroncina con i lembi tirati su e trasandatamente tenuti da qualche bracciale ramato. E ancora insistevano abbarbicandosi quasi vivi alle maniche e fino ai sandali i capelli rosso sangue dalla superficie unta, percorsa indifferentemente dalle lacrime, dalla pioggia e dal tempo. Simili alle cicatrici sul petto mezzo scoperto, alle scheggiature sullo spadino di giada appeso nella cintola.
-lo proteggiamo.-, commentò semplicemente il fratello più altezzoso. La voce fluida e glaciale ricordava il remoto fragore nascosto nel salire della marea. Si accarezzò una ciocca dei capelli lisci d’un blu quasi nero, che gli cadevano drittissimi fino ai capezzoli, così smuovendosi appena il copricapo a forma di piramide tagliata, d’un nero rilucente e vitreo. Lo sistemò subito e impassibilmente prese da un incavo della veste argentea e blu un lungo gohei, ma non ci fece niente e invece se lo tenne semplicemente appoggiato a una spalla. Così guardava Hiroo, un po’ inquietato dalle biglie cremisi degli occhi nel volto più bianco della neve, con la pelle di gesso da bambola completamente glabra, eccetto degli strani sottilissimi filamenti lattiginosi che gli baluginavano allungandosi come vibrisse dai pori in alcuni punti tra le sopracciglia assenti e sulle guance.
-sì ok. E in cambio?
-in cambio,- sentenziò la sorella -lui proteggerà noi.
-sì vabbè, l’ho già sentita questa. La dici dai tempi di Ninigi.
-volevi che resuscitasse la mamma?
Mentre le divinità riesumavano una piccola lite Hiroo coi suoi pensieri si sforzava di capire. Aiutare? Come avrebbe potuto lui aiutare loro, più vecchi del tempo? Hiroo quasi tremava per lo sguardo della dea. Fermezza di labbra puntiformi, il baratro degli enormi occhi obliqui di sola pupilla nera da insetto o alieno, la fronte enorme coronata di trecce sparse in raggi contorti e fermi, quasi ossei, in archi tutt’intorno alla testa; altri scendevano sottili sulle mani bianche cinte all’addome, il candore rilucente e confuso nei riflessi mandati dalla larga campana della veste dorata mai ferma, di consistenza magmatica in continuo rimescolo. Piena di fori larghi e vuoti, che si chiudevano per riaprirsi altrove, faceva pensare a un enorme alveare senziente e sciolto nella sua stessa incandescenza. Tutto nel suo aspetto incuteva timore, non per la propria incolumità, ma come davanti a qualcosa di immenso. Eppure era là, con gli altri due, e bisticciavano…
-e finitela…
-te fatte i cazzi tua.
-se continuate me eclisso proprio.
-ecco bravo. E statte fermo co quel coso.
-basta adesso. Sapete perché stiamo qua?
-mah, veramente…
-lo so. È un posto inaspettato, lontano dalla florida piana dei giunchi. Ma qua siamo chiamati.
-però io voglio sapè.
Il dio dai modi composti, sedutosi a gambe incrociate su delle radici, aveva cominciato ad agitare il gohei, disegnando nastri e spirali nell’aria a velocità costante. Gli shide lasciavano dietro il passaggio le proprie sagome diafane, mentre intorno anche il mondo cominciava a roteare, e a mutarsi il suo fantasma. Hiroo non ascoltava il litigio tra fratelli, ma seguendo le forme tracciate sprofondava in un torpore agitato. Pensò che dovesse esser peggio del tranello di una qualsiasi volpe, quando si accorse che la terra su cui sedeva e i rami sospesi in alto si scambiavano posizione di continuo. Non si era fermato il leggero brivido, anzi aveva trovato nuova fonte nella sgradevolissima sensazione che quel dio, la cui sagoma era informe in quell’estasi vorticante, lo stesse fissando. Come in dormiveglia a Hiroo si palesavano sequenze di immagini sublimi e vedeva in una nebbia d’oblio il volto bianco da bambola sgretolarsi e rivelare un secondo volto sottostante, fatto d’ombra e irradiante bruma d’abisso, e gli occhi rossi vi scintillavano ancora. Credeva d’essere trasportato altrove, e che qualcosa, come molte mani incorporee, afferrasse ciascuna delle parti che lo componevano, mutandole in fumo al tocco e recando questo fumo attraverso dimensioni lontane, e di lui sul terreno del bosco non sarebbero rimaste che squame di pelle vecchia, denti… un raggio luminoso, no, una domanda, cancellarono gradualmente tutte le visioni, e ricompose sempre più netto l’eco che gli risuonava indistinto come dal fondo di una grotta.
-hai con te un’offerta?
Era la dea a domandarglielo. Hiroo si scosse dallo sprofondo, dai sogni svegli. Si era mossa: era davanti a lui, china sulle ginocchia, il volto di lei davanti al suo. Si spaventò e al tempo stesso ebbe una sensazione familiare. Un’offerta? L’ultima cosa che ricordava era la spremuta delle cose dell’orto, lo strano vecchio, un sapore che prima di scomparire del tutto depositava qualcosa di appiccicoso in un angolo del palato. Ma non si era portato altro che quello: scosse la testa.
-grazie al cielo!-, esclamò il dio con il gohei, che aveva continuato a far girare lentamente, e Hiroo subito distolse lo sguardo.
-perché non hai un’offerta?-, continuò la dea.
(Che voce bella, che voce vitale, o terribile, non capisco. È curiosa, però. C’è una risposta sbagliata…? Cosa possono farmi se..? Sanno fare cose assurde, ho avuto paura… la dea fa una domanda a me. È incredibile. È per questo che si va nel bosco?)
-ecco…-, cominciò Hiroo, un po’ piagnucolando le cose che gli venivano in mente. -perché non bisogna mai portare del cibo dove ci sono i cinghiali. Diventano aggressivi. L’ho visto nel cartello davanti al bosco. Perché questo… qua siamo al monte Kōya, non è vero..?
Hiroo aveva pronunciato l’ultima intuizione suo malgrado, subito dopo chiedendosi da dove nascesse. La dea guardò gli altri due con un leggero mutamento del volto impassibile, forse stupore, corrisposto dagli altri. In disparte il dio dai capelli rossi sembrò ridacchiare e subito tornò a passeggiare in circoli nervosi, curandosi solo del terreno che calcava dissestando zolle.
-eh, mi sa che ti sbagli, piccolo.
(la dea rideva? Se avesse un volto diverso, starebbe sorridendo adesso. E anche quello strano seduto all’albero, come compiaciuto… l’altro invece anche prima era il più espressivo.)
-vabbè, allora, almeno una poesia per noi ce l’hai?- ringhiò il dio capellone. Hiroo di nuovo scosse la testa.
-mph. Forse è meglio. Co le poesie io so severo. Devono esse all’altezza…- disse tra sé grattandosi il collo con lo spadino falciaerbe.
-non importa.- disse la dea chiudendo gli occhi grandi -lui può non avere niente.
-ma perché? Insomma, che può fa? Rimane solo un sacrificio.
Sacrificio? Di nuovo la sensazione di fitta al cuore, alle dita. Ricordò un vecchio sogno di pelliccia e piume strappate lungo una via di foresta.
-giusto.-, fece il dio seduto rialzandosi di scatto. -torniamo al masso, magari…
-nessun sacrificio. Lui è a posto così.
Anche la dea, lentamente, si rialzava, torreggiando su di lui, riempendogli la vista, e si chiedeva, grato, come mai fosse buona.
-t’ho capito ma perché? Quanti anni c’ha? Che vantaggio dà?
-lui… lui farà il bravo. Vero..?!
Hiroo annuì velocissimo.
-lui farà il bravo. Ricordatelo sempre. Te lo ordino. E poi, ci venererà, si ricorderà di noi.
L’altro rise sregolatamente.
-ma che stai a di’! Nessuno lo fa più de ‘sti tempi!
-eh, me sa…-, mormorò pensoso il fratello più morigerato, massaggiandosi il pollice.
-tocca che vi aggiornate, fratelli.- la dea si chinò di nuovo, ancor più vicina, spaventosamente, a Hiroo col fiato impazzito in gola. -so’ tante le cose che succedono sotto al sole, sotto di me. E oggi, venerazione e appartenenza prendono forme che non sapete.
La dea scattò. Hiroo sussultò rapidissimo in risposta al mutamento già scomparso nel volto, uno sforzo duro ed effimero. Gli aveva afferrato le tempie. Senza recepire il tocco delle mani, Hiroo sentiva solo una fortissima pressione ai lati della testa, che gli faceva male, lo schiacciava. Ma non aveva voglia di piangere o gridare: la dea era buona e così afferrato se lo avvicinava alla fronte enorme, dove gli occhi scuri, e la loro singola puntina bianca d’un riflesso lontano, sembravano colare dentro i suoi, rifluire liquidi… e c’era un mormorio, gli parlava da dentro la testa, era la dea, la dea di tutta quella luce che aveva visto quel giorno e in tutto quell’ottobre caldo e acceso, che sembrava ritornare ora, a investirlo, ad accecarlo. E di nuovo Hiroo sentì di sprofondare in uno strano sonno, con il gohei che vago salutava lontano, dall’altra parte del cosmo, mentre un lampo bianco avvolgeva, cancellava ogni cosa…
.
Hiroo vedeva apparire paesaggi, personaggi. Prima era il bosco, proprio dov’era, con i sassi e gli alberi equidistanti, e le polle di luce nel mezzo, pelliccia di coniglio strappata e piume di polli in sacrificio. E tra le pozzanghere di sole ce n’era una enorme, fulgida, e le cose che vi entravano quasi sparivano tanto erano gialle e bianche. E c’era per metà nascosto in essa, quasi invisibile, un salaryman occhialuto in camicia bianca, con la sua valigetta, che forse gli sorrideva, e ai suoi piedi una bicicletta accasciata, con i raggi che ancora giravano. Poi il bosco sparì.. no, c’era ancora, era fuori dal bosco, su una via costeggiata dal fiume e dai campi. C’erano uno hokora quasi nascosto dai roveti e una bassa edicola in legno con Jizō, proprio non lontano da quel caseggiato che aveva visto prima. Hiroo istintivamente giunse le mani al bodhisattva premuroso, ma si accorse subito che lui non aveva mani, corpo, non c’era. E immediatamente la scena cambiò di nuovo, e lui c’era.
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Doveva essere uscito dal bosco. Chissà come aveva fatto. C’era riuscito, allora, alla fine? Era riuscito ad attraversarlo tutto, ed era arrivato fino in Giappone? Superando tutte le prove, incontrando gli altri della scuola di Machida, senza più timore di niente… oppure era Roma? Sembrava il salotto, quello della casa di Roma, dove riposava nel pomeriggio. Però, comunque, ce l’aveva fatta, no? E forse i compagni di viaggio come Momotarō o quell’eroe antico con i centauri, ed era ritornato, a casa, o da qualche parte…
La sala era vuota. Per terra non c’erano i libri, i quaderni, i fogli in disordine. Doveva essere passata Satō-san che aveva perso la pazienza definitivamente e cancellato per sempre le tracce di quelle maniere frivole. O forse lasciavano per sempre quella casa, era un trasloco… la finestra, grande, con gli alti vetri che quasi occupavano l’intera parete, filtrava bellissimi raggi del colore delle foglie secche. Era un altro tramonto d’una giornata limpida e serena di quell’infinita koharu biyori. Splendeva come fuoco sopra il fiume, che correva proprio davanti alla finestra, toccava tutta Roma e tutti i boschi di periferia del mondo, gorgogliando piacevolmente fin dentro casa. E stava seduta a guardar fuori, lì sul basso davanzale, una ragazza. Faceva profondi respiri, dopo i quali sembrava rimpicciolirsi, sfinita, e non sorrideva ai vetri, al suo volto riflesso. Lacrime lunghe e filiformi scendevano sulle guance, placide come i raggi. Hiroo si avvicinò.
-piangi?
Imperversava da fuori il misterioso chiacchiericcio delle acque correnti. La ragazza, o bambina, si voltò, senza cambiare espressione. Sembrava molto addolorata ma anche restia a esternazioni drammatiche. Non per questo però avrebbe sorriso.
-sì. Tu no?
-io devo essere coraggioso. Sono andato nel bosco, sai…
-soudesuka.-, fece lei, disinteressata, e tornò a guardare il fiume oltre il vetro. Hiroo avrebbe detto che fosse Haruko, perché il volto era proprio il suo, gli stessi capelli quasi chiari, perfino volpini al tramonto così rilucente… il corpo però era quello di una bambina. Alta proprio come lui, e non poteva essere che da qualche parte ci fosse una Haruko grande come lui, magari anche con gli stessi pensieri suoi. O gli stessi motivi per piangere.
-vedrai che andrà meglio.- disse goffamente, guardando il pavimento vuoto, privo dei suoi disegni, la polvere in tante piccole uova scaldate dalla fine del giorno. Di nuovo si voltò la ragazza, la bambina.
-certo. Sì, hai ragione. Andrà meglio.- si asciugò una lacrima. -prima, però… tu devi uscire.
-…come?
-esci dal bosco, Hiroo.
Il fragore del fiume sommerse ogni cosa, e anche il salotto della casa di Roma scomparve.
…
Un baco arrancava su una mano di Hiroo sdraiato a terra. Con il corpicino umido lo accarezzava dove gli faceva male. La terra formava una patina granulosa su lembi di pelle scoperta, puntellata di frammenti di foglie e bolle di luce filtrata dalla cupola di rami. Gli vibrarono le ciglia e si svegliò, sollevandosi presto, facendo cadere il baco. Si batté via dai vestiti i residui di vegetazione e terriccio dove riusciva e si stiracchiò. Aveva dormito nel bosco e si sentiva come dopo un buon riposo in una mattina di vacanza. Intorno a sé c’era lo stesso paesaggio costante di alberi, ombre e luce, molti sassi, anche un enorme macigno cinto da una shimenawa. Hiroo si alzò e riprese a camminare, rimettendosi sul suo viaggio. Forse era ora di ritornare.
Hiroo camminò a lungo, molto più di quanto si sarebbero giudicate capaci le gambe tozze. Così tanto che uscì fuori dal bosco, da un folto di ginepri e roveti ammassati sul bordo stradale non lontano da una vecchia borgata, alcuni condomini color sabbia che si ergevano su una distesa di radi campi spaziosi. In una nicchia al limitare del bosco Hiroo si fermò un’ultima volta e in gesto di saluto fece un inchino, con mani giunte rivolte forse a qualcosa che vedeva in basso tra i cespugli. Poi riprese il cammino, instancabile. Qualcuno disse d’averlo visto andare spedito al centro della strada, e la sua testa rasata grigia sparire nella distanza oltre l’ultima linea dell’orizzonte. Non sembrava per nulla preoccupato e camminava deciso, sembrava sapere dove andare.
Pensava che se anche avesse incontrato Tadashi e Saki e Fuyumi e Haruko e Satō-san e la mamma e il papà e quelli che lo chiamavano Irò avrebbe cercato di non vergognarsi più. Però non avrebbe detto cosa era successo nel bosco.
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