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H. no yama

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 22 set 2022
  • Tempo di lettura: 27 min

Aggiornamento: 1 dic 2022

Era alta, più di chiunque. In un cassetto ben infossato dentro la fronte, sepolto tra ciarpame di cicche consumate e cadute una dopo l’altra insieme a brandelli di carta mangiati dalla pioggia, rimaneva un vaghissimo ricordo del dormitorio. Tipo che qualcuno l’aveva paragonata per scherzo a un mostro lungo diventato virale su internet, monumento -dotato di nome e istinti e personalità e chiaroscuri perfezionati da innovativi software di disegno- a una qualche new wave dell’horror. Non conosceva, non aveva approfondito. Affondò le assurde sottili terminazioni degli stinchi nell’erba che cresceva alta sul margine della Marsicana e si avvicinò alla staccionata solitaria nel mezzo del boschetto, abbarbicato su una peluria verde del promontorio gettato a ridosso della vista panoramica. Troppe cose dovevano essere approfondite, per vivere. Anche lei, studiando con quegli occhi grandi e acuti, ne aveva saputo qualcosa, poteva vantare la propria personale serie di nozioni inutili e risibili e straordinarie e inaspettatamente sagge e portentose per peso mnemonico, e sapeva che tutto ciò era bagaglio di accessori e firme del sé. Zavorra di vanità. Distolse la sua faccia dalle superfici riflettenti. Vetro posteriore; pozzanghere di una pioggia né recente né lontana; campi a valle che parevano assorbire liquidi e luci, diventando nella distanza imitazioni di rettangoli argentei; cellulare gettato su un sedile, opaco oltre i vetri chiusi; unghie in emersione da un antico strato di smalto scrostato; legno traslucido della piccola palizzata; una fotografia stampata su carta granulosa, piegata nel taschino anteriore della camicia smanicata, scattata in quegli stessi posti, lei bambina tra volti semicancellati da qualcosa di simile al tempo, qualcosa di inafferrabile. Scuriva le linee che attorno ai volti di vecchi e adulti si contorcevano componendo scarabocchi e correndo tra pieghe della carta e pieghe intrinsecamente presenti nell’aria di allora. Lei che aveva capelli diversi e dimensioni diverse, negli abissi della foto, il mondo basso dentro quel mondo sottile dall’altra parte. La patina bruna in cui nuotavano sedie di plastica guardiane di pianerottoli, vecchi di paese di cui ricordava le voci, di cui il mondo ricordava pochissimo. Invece il mondo dall’altra parte ricordava molte cose e le immergeva in quella fitta, ipnotica trama di granelli offuscati da qualcosa al loro stesso interno. Ma smise di guardarlo.


-basta accessori e firme. Sono fatta tutta di gimmick.


Disse rivolta a nessuno in particolare. Rivolta ai pini e gli abeti dall’altra parte della curva. Non rispondevano, non uscivano tra i rami o dalle cavità dei tronchi i volti marroni appuntiti di vibrisse e orecchie come nelle illustrazioni dei libri sulla montagna che aveva sfogliato da piccola, irrealistici acquerelli pieni di bestiole e alberi tutti raccolti in uno stesso posto. E ciascuna macchia di colore sulle pellicce e le foglie era una sola cosa con l’odore della carta che doveva essere plastificata in qualche sua parte, odore ingegnerizzato per mandare il messaggio: amami, inalami. Cercava di scorgerlo, incarnato in qualche forma di fauna e flora, nel paesaggio circostante, ma c’era solo un odore d’erba coperto dall’odore d’asfalto sfregato come una scatola di vecchi obsoleti fiammiferi. Non appariva nulla che con le orecchie potesse ascoltare ciò che lei aveva da dire, sugli accessori e le firme e le gimmick e tutto quanto avesse mai pensato nervosamente e smemoratamente in attesa di mezzi di trasporto in attesa di addormentarsi in attesa di successivi momenti, riflessioni effimere riguardanti tutti i problemi sciocchi del mondo, profumate di menta. O di carta plastificata.


Ma le vere montagne si rivelavano prevalentemente disabitate: c’era stato un inganno, un inganno dei libri che avevano illustrato il suo immaginario nel momento stesso in cui illustravano il Parco Nazionale. I cassetti nella fronte alta produssero un fracasso, una temporanea messa in discussione, un ricollocamento all’interno di un nuovo ordine. Schiacciò la sigaretta sull’asfalto, ruotando bene la scarpa, dopo aver parlato da sola -no anzi, alle conifere e le loro rosse cicatrici. Pensò agli anni ’70, quando quella curva e tutto il mondo dovevano essere avvolti da un filtro beige di nostalgia, e un tedio torpido vagamente minaccioso come uno scintillare di spie rosse in fondo a tutte le cose, e una consapevolezza di una qualche fine imminente eppure intangibile, non proprio specificata. Periodo noto come ’70, come un numero identificativo, quando fare qualcosa come lasciare la cicca appena schiacciata lì dov’era, tra erbe sacre ai popoli prelatini e tane di toporagni, era considerato normale quanto respirare. Doveva esserci stato in questi posti, in quel tempo sempre più lontano eppure immobile in qualche impressionabile ventricolo della sua coscienza, un silenzio molto più sinistro. Allora, si cercava di coprirlo con una partita alla radio appoggiata su una seggiola, un Jazz bianconero di palazzi torreggianti su piazze indaffarate in scansione del calcio minuto per minuto, e con sparatorie, e con la Corte del Re Cremisi e con l’inconscio battito impaziente di scarpe cigolanti sulle tegole medievali del paese e il rumore scintillante dei fiammiferi. Periodo noto col suo numero, cercavano di far convergere un’idea del mondo con le guglie della sua forma reale, credevano all’illusione, agivano, ma stavano per stancarsi. In montagna passavano ore immobili, che allora chiamavano noia. Mao gesticolava vivo da qualche parte, in un continente di polvere catodica. La voce di Moro raggiungeva, da lontane città e prigioni fino a quel medioevo di montagna separato dal tempo attraverso barriere infinite di foreste abruzzesi, le orecchie di chi firmava tracciando croci, singolarità d’un monolite chiamato meridione chiamato arretratezza. E in ventre a quegli anni di turbamento si cominciava a produrre brusio, sempre più brusio sopra ai contorcimenti della coscienza. Ed erano rimaste una cosa come due o tre aquile e un grifone su tutti gli Appennini. Le montagne erano ancor più disabitate dunque, pensò con aria assente H. concludendo la sua reminiscenza di un tempo mai vissuto, durata appena qualche istante, il tempo di spegnimento d’un odore nelle sue narici. Il tempo di raccogliere la cicca schiacciata.


La macchina giaceva desolata sullo spiazzo d’erba ora folta ora strappata, scuotendosi nello scheletro metallico ogni volta che qualcosa sfrecciava sull’asfalto -una torma di motociclisti girovaghi diretti a un rifugio, macchine sormontate da mountain bike, jeep rumorose, volti appiccicati ai finestrini, per guardarla. Che si guardano? Ah, già. Con la sigaretta immediatamente successiva conficcata nella fessura tra indice e medio, ricordò due cose: intanto, avevano tutti il viziaccio di guardare, appena c’era una cosa a caso -doveva essere un fatto evolutivo: ecco, nella savana, no anzi nel bosco d’alta quota abruzzese, una scimmia bipede che si staglia sull’orizzonte, ha occupato lei da sola quello spiazzetto ricavato un po’ forzatamente tra i cespugli, da dove si vede bene tutta la valle. L’altra cosa che ricordò, era che ancor di più avevano il vizio di guardare lei. Sì, sì, sono gigante, sono uno scheletro venuto male per il vostro sollazzo. E, spettacolo ancor più curioso, non sembro capace di offendermi, e quella che sentite nella voce quando replico in questo modo: è serenità è capacità di partecipare allo stesso scherzo è capacità di persuadere senza ostentazione circa il fatto che dimenticherò tutto presto. E in realtà non lo dimenticherò e quelli di voi che se ne accorgono e al tempo stesso si accorgono dello sforzo di persuadere del contrario lo riterranno ancor più di valore, e allora osservatemi: sono io il panorama, sono gli animali che non vedete nelle città roventi e che dovete venire a osservare quassù dopo averli visti così pucciosi sulle brochure, sono i parchi a tema, sono le grotte con le file chilometriche davanti alle bocche millenarie, fresche di ghiacci e cristalli sotterranei. Dentro me ci sono stalattiti, e pensieri simili a misteriosi protei di pelle trasparente che rifulge nel gelo assoluto dei fiumi cristallini gorgoglianti nel profondo di quella cecità geologica.

La macchina giaceva desolata, agonizzando nello scheletro. Sul punto di crollare. Grazie per avermi portata fin qui, mormorò bussando un ringraziamento sul tetto. Vide sul cruscotto cicche e carte mangiate dalla pioggia, contenuto della fronte. L’acqua era entrata violentemente dagli spiragli dei finestrini, sorprendendola in alta quota. Acquazzoni, incontrollabilità dell’umore. Un altro ricordo di dormitorio: discussioni sulla personalità, i segni astrali, la teoria umorale, elementalità degli ormoni. Cosa sei cosa non sei dicevano, tu sei quattro lettere e una carta d’identità cucita nelle trame più minute, tu sei una canzone che ti piace sei quello che dice di te il tuo gusto in fatto di principesse, sei "il tuo preferito" di qualcosa a caso, sei la scelta che fai svegliandoti. Se esisteva un sé da qualche parte, in qualcuna di queste cose, lo si metteva in ridicolo parlandone. Ma era anche così, indirettamente, che si apprendevano cose più profonde -supponeva. Per esempio, l’universalità dell’emotività dell’acqua. Salendo su quei monti appena dietro casa, arrampicandocisi con la macchinina cigolante, trovava il nebbione e l’umidità di muschio che da una certa quota in poi penetrava come un respiro segreto nei pori di tutte le cose, e toccandolo si metteva in contatto con il saggio immortale che respirava lo stesso muschio guardando le gru in volo sul Monte Tai e tirandosi i fili argentei della barba, e con il diseredato sul canyon in cerca d’estasi da ayahuasca per compensare l’abbandono e trovare miti di coyote e uccelli tonanti nei crateri della luna mentre gli Alice In Chains continuavano a diffondersi dagli altoparlanti, e il freddo della notte desertica a infiltrarglisi nelle ossa magre. Lei e il vecchio taoista e il giovane sprofondante nella sua felpa. In fondo siamo tutti uguali, pensò H., stiamo facendo la stessa cosa o no? Sul cruscotto stavano le custodie dei cd accartocciati. Era stata sorpresa dal calore squagliante del sole, quando, sempre ad alta quota, cos’è che era successo? Doveva essersi addormentata. Per ore, senza mangiare, dentro la macchina, sotto il sole. Che c’è, una tipa come me solo perché è gigante deve per forza mangiare? E una sequoia e un abete rosso devono per forza tirar su dalle profondità del sottosuolo una varietà di sali minerali ed energie palpitanti di succhi fungini? Ricordò il gran mal di testa quando s’era svegliata sotto il sole che pareva voler esplodere alto sopra quella distesa di prati e sassi bianchi e stelle alpine e sterco di vacche e scritte lasciate dagli innamorati del passato perché le leggessero gli osservatori dallo spazio. Emicrania da mettersi a piangere. Poi aveva visto una poiana sul primo filo incontrato nella discesa, quello che arrivava più in alto di tutti. Per la corrente di chi? Mal di testa a forza di domande: forse non stava funzionando poi molto come vacanza o fuga o qualunque cosa fosse. Ma c’era qualcos’altro che poteva fare, dopo la pausa dalla continua salita. Una foresta s’ergeva in prossimità della cima, pareva un bastione sormontato da lance, nei cui interstizi delle gole assetate di notte stessero già annaspando impazienti per il momento della tenebra che filtra velocemente attraverso i rami, per andarsi a depositare lì, risucchiata.

C’era chi in quella foresta entrava e non usciva più. Ogni paese aveva i suoi Alberi Blu, della notte, della cancellazione d’ogni memoria. Ogni genere di ricordi aveva lei. Entrare nella foresta: una possibilità. Nel bagno in comune, sporco, diversificata fauna di fuorisede. Nel dormitorio, discorsi autolesionisti, bisognosi di cure per fondamentali mancanze.

Nel dormitorio si decidevano la personalità e si frammentavano le ore di studio in innumerevoli pause drummino. In questo e in null’altro consisteva il suo ruolo.


H. carezzò di nuovo la macchina che pure non doveva avere nessun legame emotivo con lei, aberrante ammasso di ferraglia e fuoco, nessun legame d’acqua. Somigliando sempre più a una sequoia, aveva deciso: sarebbe risalita sempre più, immobilizzata sempre più, fino alle gambe assottigliate e trasformate in venuzze terminali delle radici, a formare reti di se stessa replicate infinitamente nel sottosuolo, fino a non esser più se stessa, fino ad avere importanza nel non essere sé. E allora avrebbe lasciato lì la macchina. Una tomba di qualcosa, una pelle vecchia, un insetto che non esiste più e rimane a crepitare, ancora, al vento, spostamento d’aria generato dalla velocità degli altri ancora in vita sull’asfalto. (Sono stata in una bella vita, in fondo, e adesso sembro volerne una più bella. Sebbene il mio oroscopo e temperamento e numero identificativo dicessero che ero ascetica e rinunciataria. Anch’io invece cerco una forma del piacere, nelle piante che voglio diventare, e figliare dai tanti frutti che avrò, tanto più che da umana non volevo averne.) Da umana, c’è per forza da accarezzare un’ultima volta gli sportelli chiusi, gli occhi vitrei dei fari spenti. Da lì la luce s’era diffusa nella notte sui frequenti passaggi delle volpi, sugli alberi diventati streghe lignee nel buio e sulle curve terrificanti come la morte che appare incarnata di fianco a un letto, di fianco al sonno di un parente in agonia. Da lì, mostro meccanico, s’era però diffusa una protezione, luce che tagliasse una simile apparizione di morte, facendo esistere al suo interno dei coni, del giallo vivo in cui potesse rendersi visibile la vorticante polverina in perenne sgretolamento su tutto il mondo percepibile. Stessa che vedeva in un garage, dieci venti trenta vacanze fa. E sempre da lì s’era diffuso Leonard Cohen nelle foreste del pomeriggio nuvoloso, un solo pianto e preghiera nelle montagne, e vide echeggiare la poesia attraverso le madonne nelle edicolette triangolari e le croci d'alta quota, seminascoste tra trespoli di civette o confitte tra rocce roride di rivoli sorgivi o sulle cime dove parevano captare segnali dai cieli. Quell’album era per una Vecchia Cerimonia, era tutta la malinconia dell’essere innamorati. Lei lo sapeva proprio perché di amore aveva deciso di non saperne niente.


Cinque sei sigarette. Ne approfittava: da sequoia o quercia o abete non ci sarebbe stato modo. Campare a sole e terra, aria e merda. Solo fumo passivo. Nell’aria attorno. Vide, già proiettata in occhi vegetali che filtravano tutto di verde e venature, i baffi degli anni ’70 infiammati da un tabacco incessante, e insieme i tabacchi di un 2030 non così distante e pronto a nascere in una pangea arida più d’ogni altra cosa, l’aria gravida di vizi senza rinuncia, gli incendi che bruciano anche l’acqua dei reni della foresta. Ma lei sarebbe stata lontana da tutto ciò e nell’ultimo pezzo di eden, lei sarebbe salita lassù verso un prato cinto, muragliato e protetto da miti tolkieniani di roccia melodiosa. Irraggiungibile dall’uomo. Lassù dove non l’avrebbero trovata il fuoco imminente, o ricordi della vita in cui si doveva obbligatoriamente avere identità. Lassù sarebbe cresciuta più alta d’ogni altra, e gli uccelli l’avrebbero cantata nidificando in lei, strappandole quelle che erano state le unghie, le ciglia, gli occhi, in perenne ricrescita dolorosa e vitale, divorandole i figli per spargerli poi nelle foreste del mondo, battezzarli foreste. E lei in silenzio a farli cantare, a far crepitare la bava cristallizzante delle crisalidi in ogni suo incavo, a far gorgogliare le radici tra rocce azzurre e rosa e prati dove una sfumatura smeraldina veniva serenamente stemperata ogni sera da certi sfiniti sospiri di crepuscolo che si sdraiavano in terra, infilavano sottili dita cobalto tra i fili d’erba. Lassù dove s’erano per un istante estinte aquile e avvoltoi degli Appennini, e un orso delle caverne s’era ibernato nelle sottogallerie di un inverno senza fine, piene ancora dell’eco dei ghiaccioli tintinnanti, dei fiocchi cadenti, le lacrime antiche dei sapiens che scoprivano un fuoco e un calore reciproco.


Si poteva toccare un calore senza bruciarsi. L’avevano scoperto lassù, i suoi antenati, la sua specie. L’identità che c’era prima di lei, collettiva, un’altra con cui confrontarsi. Confronto: insegna che c’è un calore nella specie, lo ricerchiamo. Ma allora perché, io, in tutto questo.. perché? Negli umani una contraddizione. Bruciarsi al fuoco, bramare il calore che li aveva salvati dal gelo. Finiti anni ’70 e in un flash anche i '20, sarebbe arrivata l’era fiammale. Ma c’era in loro un impulso a cercare il ghiaccio, un freddo che li avrebbe salvati? Tendevano naturalmente al fuoco capace di bruciare, perché era lo stesso che li aveva salvati quando nelle caverne avevano scoperto sulle pareti le ombre proiettate di se stessi e degli altri. E allora non poteva esserci lo stesso dualismo nel ghiaccio, le cose fredde? O forse era troppo forte il ricordo dell’alleanza al calore: nel gelo più infinito, voler dimenticare tutto, volersi trasformare in nulla nel buio di caverna, dimenticare le belve e le valanghe e l’assideramento che attaccava gli istinti, gli impulsi a muoversi e uscir fuori a vedere il sole moltiplicato senza confini nei frammenti esagonali di una neve totale e accecante. Ma ecco, scoprirono d’avere altro, per superare l'inverno: forme di sé residue, fuoco che scalda. Come sarebbe stata invece l’era fiammale? Nessuna caverna in cui, tramite il ghiaccio, scoprire una parte fredda di sé, grazie alla quale sopravvivere lo stravolgimento climatico. Erano troppo caldi, i sapiens, troppo pronti a scottarsi. Sarebbe stato meglio evolversi da esseri viscidi o nascere da una madre di neve, un battito cardiaco eternamente rallentato. Solo acqua fresca e nutrienti freschi dell’humus, solo questo avrebbe gradito lei, rigettando l’umanità, l’unica identità ch’era proprio di tutti -almeno tutti quelli con cui avesse fatto certi discorsi.


Era dimagrita di colpo. I bracciali cadevano, tintinnando sulla ghiaia prima d’arrestarsi. Pensò alle gallerie che aveva attraversato, il fascino con cui le aveva osservate da bambina, anche allora da dentro una macchina, dentro macchine sempre inadeguate sempre cigolanti sempre fatte di fuoco mortale che a ogni metro percorso andava arroventando l’aria. Ma le gallerie, sembravano belle, sembravano passaggi temporanei per gli gnomi e gli spiriti d’altura -come momenti di quiete tra i giorni nostri, come brevi interruzioni, tutto sommato non così spiacevoli, della musica diffusa dalla radio…


Un portachiavi, il pokemon Dratini. Un adesivo, icona femminile di un secolo scorso tra i tanti, e l’unico che avesse icone capaci di sorridere eternamente al possessore dell’amuleto, sorridere senza religiosità di madonne senza enigmi di gioconde. Sailor Moon faceva con le dita il segno V sull’erba d’Abruzzo, il volto al cielo d’eterne nuvole grigie. Lente come i mammut che lì nei paraggi avevano esalato un ultimo barrito tra i fiati biancoazzurri di un freddo giunto al suo tramonto, e videro quello stesso panorama, che si trasformava, che pian piano si scioglieva, e i banchi nevosi che accogliendo le variazioni luminose del sole e i suoi mille occhielli di fuoco come una rete di riverberanti cristalli di rugiada, facevano sorridere tutti loro del branco sotto la proboscide e le zanne ricurve. Lei invece? Lei era un’allenatrice di draghi. Fantasticava il funerale vichingo dell’automobile praticato lanciando dalla sua tasca -piena di draghi davvero, e di voli immortali sul Tai- un drago che esplodesse contro il veicolo. In ogni albero c’era una cavità, per far da tana a qualcosa che sapesse strisciarvi. Sorrise. Sarebbe stata contenta d’esser piena di cavità, qualcosa che nasce solo per essere amorevole. Amava sognare d’avere draghi, di essere lei stessa i draghi dormienti in spire dentro i suoi buchi, di essere tutto meno ciò che doveva per forza essere qualcosa. E d’afferrare le nuvole in volo, e di sciogliersi nell’osservazione fissa di montagne di muschio infinitamente innalzantesi attraverso una nebbia sconfinata, pittura shan shui. E amava sognare, per l’ultima volta riscaldandosi a un fuoco interno, di giorni andati in cui entrava con tutto il corpo nel portabagagli, vedeva i boschi restringersi sempre più dietro lei, l’unica che restavano a salutare mentre il resto della famiglia sui sedili guardava solo avanti. Vedeva alberi passati attraverso il riflesso della sua faccia sul vetro posteriore, sui ricci d’incerto colore che allora le crescevano attorno come aureola, come segno zodiacale. Mentre nell’aria chiusa dell’auto, in flusso vibrante di fiume e trote sonore, scorrevano Battiato e il cd delle canzoni per bambini e i CCCP e i differenti gusti di una madre e di un padre e le inconciliabilità rumorose di tutti i padri e le madri in viaggio su quelle strade, e un qualche canto o preghiera che qualcuno voleva fosse captato da santuarietti per strada eretti da abruzzesi devoti e pastori col cuore tuffato nel mistero, dall’altitudine. E tutte le famiglie erano state così, e tutto ciò che nasceva e cresceva come alberi nei prati alti doveva esser immerso nella stessa musica, talvolta interrotta nelle gallerie di gnomi, sotto le gambe del Gran Sasso ch’era un gigante più di lei, e pure più stanco e sonnolento.


E H. sorridendo tra sé ululò, suono che aveva sognato di sentire nelle vacanze d’infanzia -era tornata proprio lì, per sparire lassù, nel posto che solo lei sentiva di conoscere segretamente. E gridò come l’estinzione di cui aveva sentito parlare, e pregò come le sante ascetiche che rimanendo sconosciute ai miti del popolo s’erano ritirate, scoprendo fondamentali pozioni d’erbe e muscarie. A nutrirsi di funghi indigesti fino alla fine, sopravvivere d’agonia piena di visione. H. alta e con occhi grandi si carezzò la testa, scoprendola un disastro di lacrime incontrollate. Il ghiacciaio del suo volto evidentemente si stava sciogliendo. Ma avrebbe smesso di sentirlo sciogliersi. And is this what you wanted, to live in a house that is haunted by the ghost of you and me, ricordava il canto finale di Cohen del pomeriggio perché l’album era ricominciato in loop, e la sua chitarra era legno caduto dal cielo. Prendendo un gran respiro e assaporandolo come l’idea che non avrebbe fatto più nient’altro che respirare, spiò i passaggi fluviali delle nuvole, frammentati in cascate di lanuginoso vapor acqueo. Nelle nuvole di montagna vivevano angeli in tonache brune e arancioni. In una radura ricavata a forza da una qualche operazione di ricerca consumistica del panorama condotta negli anni ’70, fluttuava tra ricordi e oblio una macchina mal ridotta, in apparenza sul punto di collassare in un movimento disastrante irradiato da ciascuno dei graffi che la attraversavano come sul dorso d’un cetaceo o mostro lacustre. E portava dentro un piccolo caos: un goomba di plastica caduto sul tappetino, cd da Rubycon a In Rainbows tutti ugualmente malconci, un libretto ancora unto del sudore di un carabiniere di montagna -era stato un’apparizione, manifestazione dell’ordine in un passo inghiottito da ombre verdi e cascate scroscianti, che l’aveva agitata più di uno spettro. Un cellulare, anch’esso caduto, dove le ultime 100 foto ritraevano solo caprioli incontrati nel nulla. Un sacchetto di cibarie vuoto, risalente a giorni o settimane prima, il segno di un eremo passato. Tutto questo era come fogli di preghiera, di pergamena marrone.


I passanti che avevano vizio di guardare videro uno strano vuoto che li fissava di rimando, vicino a quella macchina solitaria nei pressi del punto panoramico. Come se qualcosa d’enorme fosse stato lì.

Rabbrividirono, tutti quanti. L’assenza li fissava. Come una cosa di carne e ossa e occhi. Come un animale dallo sguardo immobile, come satana secondo alcuni. Cespugli e ombre senza mai, mai esser visto. Per questo sulla Marsicana smisero di passare per il resto del pomeriggio, come se qualcuno avesse avvisato telepaticamente chiunque s'apprestasse ad avventurarsi verso l'alto, o tutti, sentendo un’aura raggelante, avessero fatto inversione, prima di salire, prima anche d’avvicinarsi soltanto. E chi passava lo faceva sfrecciando, affrettandosi per sfuggire allo sguardo di quella cosa che non c’era nella radura. E nella notte ci fu silenzio e interruzione di luci dei rifugi, come non accadeva da tanto, e la nebbia sbuffata dai bramiti e gli occhi a perla scintillarono come uniche luci sotto le stelle e i rami fitti, fino a Forca D’Acero e la foresta sulla cima, il luogo in cui si scontravano in eco senza tempo le corna e i rami.


H. non si accorse della mancanza di segnale nei passivi circuiti del cellulare fin quando non li sentì resuscitati nella tasca degli shorts. Vibrò all’improvviso, spaventandola, come un insetto moribondo ricondotto al sole, non appena attraversata la soglia dell’albergo, un invisibile campo di forze formanti una membrana tra l’aria fresca della sera puntinata di respiri arborei e un mondo di corridoi illuminati, flusso di luci e odore di detergenti. Nella carta da parati, floreale e lacustre, un altro mondo. Un ticchettare lontano, provenienza non identificabile tra le varie stanze del pianterreno confinanti alla reception per uno o più lati. Il ticchettio come le anatre selvatiche delle tende sorvolava le smorte coscienze dei pochi clienti che, sulle stesse sedie conquistate a ogni colazione in onore all’inflessibilità di nuove abitudini temporanee, se ne stavano immersi nei lumicini fiochi riverberanti nell’arredamento ligneo in attesa di qualcosa che H. proprio non riusciva a capire. Gettò uno sguardo nella stanza della colazione passandoci accanto. Gettarono uno sguardo a lei gli occhielli del centrino cucito a mano dove sarebbe stato posato il vassoio delle marmellate, e si unì allo sguardo la gente un po’ attempata che lateralmente le rivolgeva occhi venosi, carichi di una certa inquietudine anch’essa inspiegabile. H non si fermò e proseguì, sentendosi ancora il veleno dietro, nel buio fuori dall’area soggiorno oltre le porte di legno sempre aperte del corridoio. Vide la sfuggente e indaffarata ombra di una cameriera scomparire e ricomparire dalla porta girevole di una cucina, i suoi passi illuminati da bianchi calzini totalmente privi di suono. E sentì i passi suoi attutiti dalla moquette degli scalini quando, portando in grembo la sensazione, simile a un concentrato di crampi, d’aver camminato e camminato per mesi fino ad aprirsi la carne dei fianchi, cominciò a salire lentamente fino alla sua camera, un respiro sfinito dopo l’altro.


Nell’albergo si rintanava la coscienza in una coltre di luci rimaste spente, una coltre di soppressione del possibile, e in ore inverosimilmente prolungate, frammentate da pause drummino in freddi balconi affacciati sui boschi, ci si intorpidiva nella nevrastenica immobilità di un letargo provvisorio. In questo e null’altro consisteva il suo scopo.


H. sapeva vedere, immaginandoseli, i propri occhi aperti che scintillavano acquosi nel buio totale della stanza quando era rannicchiata e un po' tremante nelle coperte folte anche in estate. Attraverso la serranda semichiusa veniva assorbito il buio, proliferante dagli angoli delle montagne mentre il sole scompariva. Due sorgenti lacrimose insonni in volto di tenebra.


H. emerse nella notte dalla porta trascinandosi, per i gomiti ossuti e ogni appiglio di sé, fumosi tentacoli di oscurità, che ancora la appesantivano mentre con fare uggioso scendeva oltre il pianterreno, verso la spa. Affondava le tasche nel k-way macchiato dai discontinui aloni caffelatte di una dimenticata pioggia fangosa. L’aveva preso per difendersi dal vento dello spiano erboso all’esterno della stanza della vasca, dove aveva deciso che sarebbe andata a contemplare il vuoto, e per le gelide pareti sotterranee di pietra, che sempre più la inghiottivano. Nei cunicoli della memoria di cui suo malgrado non era riuscita a liberarsi, vedeva frapporsi tra sé e la direzione d’ogni suo passo una rete sotterranea di innumerevoli cantine dalle pareti identiche a quella. Scaffali pieni di conserva in barattoli, sportelli bianchi decorati da adesivi del Giro d’Italia, d’un noto biscottificio, di estinti partiti politici. Ragnatele, gechi rosa gonfi d’organi palpitanti sottopelle, scorpioni rannicchiati nelle profondità d’ogni linea d’abisso tra il pavimento e i divani e i mobili e le pareti. Ciò che un tempo aveva immaginato, con un ambiguo brivido di repulsione e di scoperta, di toccare con le dita tese. Ed era il luogo in cui aveva pensato che sotto ogni casa bianca, sotto ogni giardino, stessero identiche cantine, identiche caverne di letargo.


Faretti subacquei s’accesero automaticamente. L’acqua oleosa e gelida ghermì le costole sporgenti e le braccia, ben aderenti al busto per schermirsi dallo sbalzo di temperatura, strappò con violenza dalla pelle una cartina di incrostazioni d’una lordura capace di rendersi invisibile, di sembrare parte del colore naturale di un corpo. Strato a strato, in un processo quieto perché non ne sentisse il trauma, si sfaldò la crisalide di mammut lanoso che l’avvolgeva. Corteccia animale. Per quanto si desiderasse assomigliare agli alberi, smettendo anche di nutrirsi di oggetti solidi, i pori della pelle procedono da cellule animali, il destino è scritto secondo processi animali. Se l’indomani o il giorno stesso o quello prima si fosse messa a scalare in cerca di altipiani irraggiungibili e lì avesse deciso d’abitare, sarebbe forse diventata solo un albero peloso e bollente di vene nel ventre. Non un albero autentico. E dalle terminazioni dei rami avrebbe pianto, in omaggio a certe albe di giorni tristi, lunghi barriti di proboscide. H. si concesse una risatina a occhi chiusi, piena di sospiri, incerta se fare colazione l’indomani, recarsi nella stanza arabescata delle venature del legno e delle marmellate in vaschette, dove c’erano gli sguardi che la ammonivano, facendole credere d’essere come una specie di presagio sinistro in agguato nel folto attorno a una radura, facendole credere d’essere qualcosa che metteva a disagio, e che avrebbe fatto meglio a non sedersi a mangiare lì in presenza di povera gente terrorizzata. Altrimenti sarebbe stata cacciata da una violenza ansiosa, bandita dai sentimenti custoditi in quegli occhi, di cui avrebbe visto la schiusa, avrebbe visto la forma e udito la voce e i ruggiti. Non era al sicuro. Né nutrimento né riposo.


-che pensieri mondani da animale affamato che vado a fare!


Ghignò rivolta al soffitto, fitto di sporgenze lignee come il soffitto di vecchie chiese, e dove stavano altri faretti volanti, di luce sgretolantesi in altre farinose luci simili a nebbia che pian piano calava sulle palpebre, chiudendola in un sonno acquatico.

Quando sollevò le palpebre vide il vapore alzarsi dalla superficie. Capì che da qualche minuto stava sentendo dei rumori, non del tutto processati dalla parte sveglia della coscienza. Una donna dall’altra parte della vasca. Doveva aver impostato il flusso regolabile delle bolle su un maggiore calore. Entrò in acqua come se non avesse visto H. -che sia diventata invisibile, anche in questa luce soffusa del bagno? Che sia diventata nulla più che una macchia appena più scura nell’acqua?-, si chiese, senza indignazione per la mancanza di un avvertimento da parte della donna o di accuratezza nell’accertarsi che non ci fosse nessuno, ma piuttosto imbarazzata, come se l’esser stata trovata lì, senza aver impostato le bolle calde -come a un tratto supponeva dovesse esser normale-, l’avesse colta nuda in un qualche suo progetto di cui nessuno avrebbe dovuto sapere.


-stai tranquilla,- le fece la donna come se l’avesse letta nel pensiero, mentre il suo corpo scompariva dentro un vorticare di latte, acqua imbiancata dall’idromassaggio e dai faretti. -e vedrai, il calore non ti darà fastidio.


H., arrossita, non seppe che dire e si limitò a un cenno del mento, che subito dopo giudicò troppo sbrigativo, forse impercettibile, ma era troppo tardi per ripeterlo più chiaro, e arrossì ancora. La nebbia saliva sprigionandosi dalle bolle e offuscava la sagoma, gli occhi penetranti di quella donna altissima, alta quanto lei. H. pensò all’improvviso d’essere finita in una scena assurda, d’un film scarno di dialoghi o di uno strano purgatorio, e un brivido salì contando ciascuna sua vertebra sporgente sulla schiena, facendole credere per lo sbalzo di temperatura di non essersi mai mossa da una febbre sprofondata tra le coperte della camera, resa uguale ai pensieri per azione dell’oscurità forzata.


-hai casa qui?-, chiese la donna. Sembrava parlare alla nebbia, senza sguardo, senza enfasi.


-..no, cioè… l’avevo. La mia famiglia.


-si capisce.


(si capisce? Da cosa?)


-..e lei, invece?-, chiese H., sentendo dilatarsi bollente nei vasi sanguigni un’esitazione, eccitata e timida come di fronte allo spettro di un animale parlante incontrato in un bosco, in un sogno.


-certo, anch’io. Si capisce.


Si capisce. Una medesima stirpe di donne alte che aveva popolato i picchi d’Abruzzo, per assomigliare alle sue rocce. Non c’era altra spiegazione. H. si impressionò ancora: sembrava un’altezza identica. E la stessa forma dei capelli, la scodella rovesciata di ciuffi nettamente distinti, qua e là lucidi. Lei corvina, l’altra ruggine. No, non ruggine, decise, ma il colore assunto da certi punti scarnificati della corteccia. Luminosi di rosso quando la mattina uscendo da un albergo si sente tintinnare la rugiada, così tanta da chiedersi quando sia piovuto senza alcun rumore.


-..scusi, ma… perché mi chiedeva della casa, se sono in albergo? Forse..


-per la spa non serve essere clienti. Si può pagare, fare una tessera. Ma tranquilla: nessuno entrerà oltre a noi.


H. annuì. Era questo che la preoccupava? Che entrasse qualcun altro?


-…anche se.-, fece la donna, accennando a un sorriso, per la prima volta rivolgendo a H. le sagome simmetriche degli occhi, taglienti attraverso il vapore. H. sentì un ago conficcarsi in un piccolo neo tra le sopracciglia.


-c’è una vecchia storia. Se stavi qua un tempo, l’avrai forse sentita. Certe volte i paesani trovano una martora in bagno. O nella camera da letto. Non nel pollaio, comunque.


-una martora?


-qualcosa le attira. Credono d’aver trovato una sorgente di montagna. O un posto sicuro in cui partorire, nei sottotetti di legno che in inverno ricevono il calore del vapore. Deve essere per loro come dormire nel cavo di un albero.


H. udì passi e gorgoglii di tubature, distanti oltre le pareti, sopra le pietre fredde del sotterraneo, sopra il soffitto di legno.


-a ogni modo, certe martore scappano subito quando vengono scoperte. Altre più rare invece, in fretta, s’alzano in piedi e cominciano a parlare come le persone, in una lingua strana, forse giustificandosi, forse insultando. Perdono poco a poco i baffi e i peli, e diventano ragazzine, in gonnella e con tanto di cestello per rubare l’acqua.


-ah…


-…o forse la storia non era affatto così. Forse la sua origine si è perduta, intrappolata in un tempo che non ha più nessun modo di comunicare con noi. Nemmeno una linea in comune con il nostro tempo.


Linea in comune: H. apprezzò quell’idea, sembrava una nozione dimenticata che senza preavviso riemerge dall’inconscio, lucente e viva. H. s’osservò le dita, le ossa dentro, le linee che aveva in comune con decenni passati, quando genitori e nonni e antenati della stirpe delle donne primitive da cui discendeva salivano le strade per abitare nella casa da poco costruita, nelle vacanze da poco conquistate all'alba dell'invenzione del tempo libero. Le linee verso il neonato benessere e l’abisso suo gemello. Nessuna linea in comune, però, con un folklore fatto di martore che rubano l’acqua, che sono ragazzine in realtà. D’istinto lanciò occhiate ad alcune pareti in muratura, innestate al lato del gabinetto come placche nelle pareti di pietra, e vide che anche lì c’erano in carta da parati i fantasmi di colore di qualche giunco, qualche anatra selvatica, e chissà perché si sentì in allarme per quei volatili eternamente in fuga dentro l’autunno acquerellato di una stagione di caccia.


-comunque, è facile distinguere le martore dalle persone vere. Sono basse, e hanno le unghie lunghe. E hanno un odore inconfondibile.


Quella stranissima donna sorrise. Orecchie progressivamente acute e vigili, temprate da qualcosa di invisibile e gelido proveniente dal bosco, potevano percepire un fruscio, una slavina in miniatura -il vapore tutto intorno, che pareva sgretolarsi-, oltre a un rumore di passi, stavolta netti, stavolta corporei, vicini. Istanti, vicinanza, istanti, imminenza: il tempo veniva rimesso in moto mentre, pure ostacolato e silenziato, quel ticchettio d’un orologio nascosto al pianterreno continuava a propagarsi, nel nucleo d’un apparato dell’organismo albergo.


La cameriera apparve invadendo la parte visibile delle scale, culminante nell’anticamera con gli armadietti. Cauta, s’ammantava le vesti, già fruscianti, negli ultimi strascichi d’ombra prima che le accensioni automatiche al suo passaggio la rivelassero, tozza e d’aspetto svelto, ma privo di nervosismo. In piedi sull’ultimo scalino, osservava immobili le due bagnanti, riempiendo le guance rotonde e l’espressione del volto d’enigmi insolubili. Gli occhi le erano diventati per un istante due braci nel buio.


-ah, mi sa che siamo oltre l’orario di chiusura. Vero?


La cameriera non disse niente. L’espressione delle labbra puntiformi, gli occhi piccoli totalmente spalancati, incastonati in quel volto semisferico, volevano dire forse uno scontrosissimo sì deciso a non farsi pronunciare da lei, ma solo dai clienti che avrebbero dovuto capire da soli. Le dita strettissime al petto di quella specie di strano accappatoio color melagrana accentuarono l’aura d’aguzza ritrosia. Minuta. Forse quindici anni, e negli occhi un’età decisamente più grande, ammassata da abitudini pratiche e sbrigative, esercitanti un’autorità implicita. Gli abiti che parevano provenire da un’altra epoca stranamente non la separavano da quanto la circondava, dai faretti lattiginosi, dal deodorante che intermittentemente lanciava colonnine fragranti di muschio da uno sfiatatoio di plastica.


-mi conosce: sa che quando comincio, a ciarlare di certe cose, il tempo si ferma. Questa pallosa signora O. e le sue storie inventate! So che pensi questo, ma non importa.-, fece la donna alta, la misteriosa “O.”, alzandosi dall’acqua, e alzando la voce per sovrastare il crepitio delle lunghe gocce grondanti, mentre l’idromassaggio perdeva potenza, spariva.


-..quindi… era una storia inventata?-, fece H. come rimpicciolendosi nelle increspature dell’acqua, incerta tra apprensione e delusione.


O. scrollò le spalle. Non voleva dire niente, assolutamente niente. Né sì né no. Insomma, ma che voleva questa ragazzina?, certe storie, cambiava poco che fossero vere o no -H. capì che doveva accontentarsi, rimanendo ferma, incantata nell’acqua, a guardare quella corporatura che pareva uscita da uno specchio -forse solo un po’ più piena di lei- diventare una falena bianca e lanosa dentro un accappatoio ridicolmente lungo.


-ci vediamo!-, disse senza voltarsi, e sparì nell’anticamera, dietro l’ultimo nembo di vapore.


H. sentì lo sguardo spazientito della cameriera. Indicandosi confusa, ripensò agli occhi di quegli altri clienti, agli sguardi che le lanciavano sempre (nei ricordi collettivi, doveva star sepolta da qualche parte una feroce battaglia ancestrale con le donne primitive della sua stirpe, che la rendeva odiosa agli uomini. Questo l'avrebbe spiegato, avrebbe giustificato la cattiveria). Poi capì: era ancora nell’acqua. La spa chiudeva per tutti, non solo per O., non solo lei doveva sparire dietro una nuvola vaporosa, tornare nelle nebbie che l’avevano verosimilmente partorita.


Mugugnò un fioco ohmiscusitanto, mentre goffamente sgomitava verso la scaletta, attraverso i flutti in spegnimento. La cameriera si voltò, sbuffando impercettibilmente. Nel vederle i lunghi capelli raccolti sulla nuca, fili d’inchiostro lucido, le venne in mente la parola “oiran” che aveva letto in qualche romanzo, di cui non riusciva a ricordare nome, autore, dettagli. Memoria mortale più d’ogni altra cosa, prima o poi fino ai decenni passati, prima o poi fino alle cantine custodite negli occhi impressionabili di bambina. Un’amarezza ribollì nel basso ventre insieme a una fame nervosa, bramante d’azzannare l’aria, nutrirsi di ghiaccio gassoso. H. non comprendeva cosa volesse e dopo essersi rivestita, rinunciando alla sua contemplazione notturna del giardino, docilmente lasciò che “Oiran” la indirizzasse con fare marziale verso le scale senza servirsi d’altro che uno sguardo carico di giudizio. H. arrancava verso i piani superiori escogitando di mettere il k-way e guardare il tutto dall’alto del balcone, ma continuava a sentire uno sguainarsi di lame dietro la schiena, la presenza bassa eppure pesante, gravata da un alito di melograni e autunno. Presenza molto più pesante dell’altra donna che al contrario ispirava una tensione di natura opposta, nebulosa o spettrale. Ma, dovette riconoscere, il silenzio le accomunava. Silenzio totale che apparteneva a entrambe, ne avvolgeva le figure in aloni impenetrabili. Lo comprese con una pavida fitta al cuore, mentre tornava ad ascoltare i tonfi goffi dei suoi passi, per quanto leggeri, per quanto fossero stati desiderosi di diventare radici, di perdere peso.


Nel buio inclemente del corridoio, s’arrese a illuminarsi la via con lo schermo del cellulare, felice di riempirsi di segnali, valanghe di notifiche e messaggi non letti in quel mondo di impulsi invisibili. Il bloccoschermo di fiori di loto su uno stagno mandò riflessi rosa e verdi sulla moquette, guidandola dentro una cecità nera nei cui strati più profondi le parve d’udire di nuovo la stessa assenza di rumore di quel tardo pomeriggio, l’ombra che filtrava dentro le pareti dell’albergo sparendo e ricomparendo da una porta girevole, calzini lucenti felpati. Voltandosi appena prima di girare secondo il percorso delle scale, vide dileguarsi un lampo di penombra più scura di quella circostante, che per qualche associazione emanò un lontanissimo sentore di foglie cadute. S’immaginò “Oiran” con una folta coda rossiccia frusciante da sotto il lembo della veste, e un grembo d'acqua nascosto come fosse refurtiva.


.

(sognò di stare nella vasca, con O. e Oiran. Ridevano. No, forse non era un sogno, forse era successo lì. Forse aveva la febbre. Nella sua camera non arrivava il ticchettio dell’orologio e non poteva, per niente al mondo, accendere le luci, perché H. era così: aveva dei principi. E un portachiavi bellissimo. Strinse il draghetto in pugno, regina di draghi, sequoia fallita, rannicchiandosi con le ginocchia quasi schiacciate violentemente contro il petto, calde, soltanto un po’ calde sotto le coperte. Forse stava solo ricordando, forse le saliva la febbre. Ridevano nell’acqua, distendevano le braccia sul bordovasca di granito, simili a tre amiche. Dovresti bere almeno il tè domani, le dicevano, quell’insistenza uguale uguale a certe pause drummino del dormitorio, in mezzo alle lezioni, in mezzo alla vita, ma H. non sapeva se provarne il consueto fastidio o no. In fondo voleva bene a O. e Oiran senza sapere perché, mah forse perché nascevano da un albergo di donne misteriose prive di rumore, mah forse anche lei era nata là e ci era tornata per questo, forse l’albergo era frutto d’un suo delirio infantile, spuntato da un sottosuolo di cantine immutate dagli anni ’70. Che erano numero, concetto astratto di aria beige e lotte politiche e prescienza della fine e dischi prog e scarpe cigolanti e adesivi di biciclette.)


(prova il tè domani mattina e dolcificalo con la marmellata o il miele delle vaschette che hanno sapore d’albergo, ricomincia così, non con la fetta biscottata perché è troppo dura è troppo reale e occorre gradualità, ma insomma perché parlate di queste cose, protestava lei, queste cose mondane da animale affamato. E allora se vuoi fare la cosa contraria, rispondevano, falla comunque gradualmente. Diventerai un bellissimo albero, se la tua inedia la farai gradualmente. O una bellissima persona ancora in vita, se gradualmente non la farai.)


(siete gentili O. e Oiran, ma non vi conosco.)

.


Strano sogno. H. mise il k-way e fumò via dalle narici le prime ore mattutine, rivolta al cielo biancogrigio, che accettava l’offerta di perle rugiadose sollevata dagli alberi. Tabacco nutrimento, dissetarsi del paesaggio.


Un misto di lacrime e risate e fili di tabacco cadde sulle tegole del balcone mentre H. scopriva quanto stupido e poco rivelatorio fosse stato quel sogno, quanto indecisa fosse rimasta. Ma già si vedeva seduta affianco a quell’indecisione sua eterna compagna, seduta nel sedile accanto in macchina, già si vedeva a guidare e inquinare la via del ritorno, le curve che dopo anni d’assenza aveva rivisto e fatto riemergere nella memoria in una risonanza tra mente e mondo, e i rami ai margini, e i cartelli stradali, e l’autostrada. E distrattamente fantasticava dei posti che si cancellavano dietro lei, dietro le ruote e il tubo di scappamento rovente. Strani incidenti avvenivano a Forca D’Acero per colpa di chi avvertiva strane presenze nelle radure e perdeva il controllo dell’auto.


Come sassetti appenninici rotolanti in angoli delle scarpe, avrebbe ticchettato dentro lei, dentro la città, la forma dell’albergo coi suoi fantasmi e le sue carte da parati limacciose, autunnali. Tutto si seppelliva poi, nascosto, tra fossili, cose primitive, e chissà quando sarebbe tornato a farsi sentire. Calori d’ignota origine accesi improvvisamente dentro sé, impulsi a cercare nutrimento, senza nome. Sguardi incontrati per caso, maligni o d’amicizie nate e scomparse nel giro di una vacanza. Senza forze nelle braccia muoveva il volante e lasciava che a ogni curva le reliquie disordinatamente sparpagliate sul cruscotto cadessero.


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