guasto sulla linea
- Milky
- 30 nov 2021
- Tempo di lettura: 22 min
Stavo pensando qualcosa come “aah, se solo fossi un fumatore!”, credendo che la sigaretta fosse un portentoso amuleto per superare le attese. Mi dicevo che avrebbe dato ai miei pensieri un sapore diverso, trasformandoli in fumo. Con le volute striminzite, verticali fino a sfiorare le tettoie della stazione, si sarebbero scritti nell’aria invece che sulla carta. Questo avrebbe costituito un notevole supporto per me, per sentirmi in grado di far ordine nel loro groviglio e nelle loro lunghe catene. Si dice che gli scritti rimangono, mentre il fumo presto scompare nel vento. Eppure sono certo che avrei ricordato meglio tutto quanto andavo pensando, e che peccato che non me ne ricordi! Così pensavo, e mi dicevo, manifestando quotidiano cinismo da svolgersi come un esercizio, “saranno anche sciocchi pensieri, inutili come tutti gli altri di chiunque, ma almeno sono i miei e dovrei tenerci”. Ecco a che serve una pira sacra, un rituale condensato in un tubetto comodamente posizionabile all’interno delle tasche.
Così, mentre gironzolavo lungo i binari, immaginandomi con un’aria pensosa diversa dalla mia pensosità abituale, odoroso di fumo sui capelli corvini e sul bavero scompigliato e improvvisamente diventato un improbabile genio, all’improvviso mi sono sentito chiamare. Devo trattenermi dall’appicciare la mia sigaretta immaginaria, devo invece voltarmi: chi è, e perché chiama proprio me, e perché ne sono così convinto? Con lo sguardo scavalco il primo bizzarro assemblaggio di ferraglie marroni della ferrovia, vado sull’altra piattaforma, in cerca dei luoghi liminali dove possibilmente può nascondersi una presenza sconosciuta. Non c’è niente dietro il distributore di snack, né sotto, non ci sono ombre seminascoste dalle colonne nemmeno a ridosso delle obliteratrici. Allora passo alla piattaforma successiva. Ma si ripetono soltanto le fiumane incessanti degli avventori della stazione, uguali nella forma, convinte come un unico banco senziente di essere diversissime nei dettagli; il loro flusso è l’emicrania dei giorni, trascorrono spettrali i colori delle sciarpe, degli ombrelli, si rintanano finalmente al caldo oltre i finestrini illuminati di giallo, diretti chissà dove, pronti a scomparire per sempre dalla maggior parte delle esistenze di tutti gli altri singoli “dettagli” componenti il flusso, ciascuno di loro diretto altrove… penso allora che chiunque sia deve essere un gran furbo, per andare a chiamarmi mimetizzandosi in una simile circostanza che si ripete senza sosta proprio in questo luogo enorme. Insomma, andai avanti così per un po’ finché, scavalcando varie piattaforme e rivolgendomi anche verso i negozi di là dai controllori in piedi, alle loro altre luci dal pulsare ininterrotto, così simili ai clienti o ai piccioni che si intrudono calando in volo da sotto i lampioncini sopraelevati, insomma andando ad aguzzare la vista anche fino agli scaffali lontani e i movimenti forsennati tra corridoi d’elettronica e cosmetici e cibarie, mi rassegnai ad accettare l’assenza di quella voce che aveva chiamato. I controllori restavano immobili e indifferenti, statue guardiane del loro portale colonnato. Le colonne lucide, diverse dai pilastri della tettoia, erano sentinelle anche più efficaci e squadravano i passanti con un singolo occhio poligonale e rosso. Io ero dall’altra parte della soglia da loro tracciata, tra quelli che attendevano il treno. Colonne, videocamere ed esseri umani controllavano e separavano le cose lì presenti.
Non l’ho scritto con il fumo ma ricordo che stavo pensando all’enormità della stazione e al suo nascosto ecosistema di intrichi elettrificati, roditori e vagabondi, ombre e inverni interminabili; e all’improvviso mi sentii chiamare per la seconda volta, dalla stessa voce. Mi guardai di nuovo intorno, e vidi gente raccolta negli spessi giacconi antivento che attendeva lo stesso mio treno. In questi casi non si può mai spiegare perché, ma appariva ovvio che non avessero sentito alcuna voce provenire da nessuna parte che fosse abbastanza forte da divergere nettamente dal costante rimbombo del mostro ferroso, delle incalcolabili attese, del nero fuligginoso sparso su tutto come se persistessero ancora gli spettri delle locomotive del passato. La stazione era una caverna ronzante popolata da plurimi ecosistemi frenetici e in tutto ciò soltanto un suono aveva sovrastato l’insieme, era una voce che chiamava me, che l’avevo udita tra gli altri ignari, forse per ingannarmi e divertirsi in questo modo. Questo sarà anche un tipo di sospetto che sono portato ad avere, ma è difficile non pensarlo quando uno si ricorda che la stazione è un mondo chiuso e gigantesco -non bastano i collegamenti viari con le campagne e le altre stazioni e le grandi città che si stagliano sul lontano orizzonte, rimane un mondo chiuso; non basta sentirlo come un cuore pulsante nell’organismo troppo più grande e antico della città, rimane un mondo gigantesco. Formato da innumerevoli micromondi, la mente non può contenerlo nella sua interezza: esploderebbe per le infinite pressioni interne da tutti i minuscoli tasselli della realtà inconoscibile, sanguinolenta schizzerebbe fuori in fiumi di neon iperattivo i numeri, una cifra dopo l’altra, ciascuna una cosa che esiste, e questo cervello pirotecnico diverrebbe immagine parossistica del caos solitamente associato al viavai di un posto dove vengono a posarsi e a ripartire i mezzi di trasporto. Se in questo sistema di caverne inesplorabili, di attimi inconcepibili che si susseguono ogni ora, dalla mattina alla sera, compare una voce ignota, ci si può aspettare qualsiasi fantasma, qualsiasi stratagemma infido escogitato da un abitante possessivo per prendersi gioco di un ingenuo viaggiatore. Mi resi conto di essere esattamente un viaggiatore.
Ed ecco, chiamò per la terza volta. Scocciato, allarmato e in parte curioso, dovetti abbandonare per una buona volta le mie riflessioni, pestate con la punta del piede in mancanza del posacenere. Non è che in quel richiamo fossero proprio distinguibili dei termini d’una lingua o di un’altra. Si sentiva un’impennata nel tono, un’inflessione che pareva rendere inequivocabile l’intenzione di rivolgersi a qualcuno -il sottoscritto. Poi, si intuiva che ci fossero delle frasi di senso compiuto. Allo stesso tempo in questa sua indefinitezza riusciva a brillare d’una sua specificità divergente dal tutto, simile all’eco di una moltitudine che si confonde nel vento, ma che indubbiamente esiste, occupando spazi esagerati. Un coro rimbombante condensato in un punto vicino. Per via di queste caratteristiche temetti per un secondo che si trattasse di un annuncio da un altoparlante: questo avrebbe spiegato anche come mai nessuno si fosse voltato in cerca di chi andava chiamando, trattandosi di una forma di comunicazione tipica di quella scena giornaliera, il linguaggio stesso della stazione che parla, di gente invisibile meno reale della propria registrazione sparsa a frastuono nel corso di annunci ben scanditi. Comunque, come è ovvio, non ero convinto di questa ipotesi, pur mantenendo in me una strana sensazione generata da questa somiglianza. Ripercorsi allora con la mente la curvatura che immaginavo avesse fatto la vibrazione giungendomi nei padiglioni, la ridisegnai nell’aria. Non proveniva dall’alto, come gli annunci, bensì dal basso. Mi girai a destra, poi a sinistra, al livello delle cose con la stessa mia altezza, e infine, mi sporsi oltre il binario, la striscia di terra squarciata stillante nero che mi si impregnava alle code degli occhi nel corso di tutto quel mio indefinito passeggiare avanti e indietro, lateralmente alla banchina: come uno che avesse perso qualcosa tra le rotaie, stavo con la schiena ricurva e pendente al di sopra dei sassi e delle erbette affannate che crescevano lì, presumo facendo una faccia inquisitiva abbastanza ridicola. Tra i ramificati interstizi di ciottoli e roccette, rimbombò ancora come un vento sotterraneo tale da sollevare lievemente lo strato sassoso e mi parve che, attraverso quei nascosti cunicoli, una luce incandescente lampeggiasse per poi subito spegnersi come braci di un camino, in corrispondenza dei punti enfatici del discorso. Questo era finalmente distinguibile, senza irregolarità, come se lo fosse sempre stato. Un timbro spiccava più degli altri, ma sembrava fosse un coro a parlare.
-ohé! Voi là sopra! Che, venite un attimo giù a darci una mano?-, disse la voce che mi chiamava.
Non era tanto perché stentavo a crederci, che me ne stavo titubante a fissare dall’alto quel suolo così cupo, che avevo già fissato innumerevoli volte con aria assente premuto contro il finestrino del mio solito posto singolo in fondo al vagone, in così tante ore d’attesa dei miei ultimi anni. Infatti, il motivo era che di nuovo mi ero incantato nelle sue geometrie inafferrabili. Sembravano non starsene mai ferme. Le piante che crescevano lì in mezzo, spargendo fin su l’odore denso di linfa sporca e impolverata d’una vita che alterna momenti schiacciati sotto il peso e l’incandescenza intollerabili dei musi dei treni ad altri risollevati dopo la partenza, mi trasmettevano una desolazione difficilmente esprimibile. Forse, però, è un bene che ci siano, a far da bordo ai sassi e al ferro, al cemento delle pareti che si rialzano diritte per inscrivere le rotaie tra una piattaforma e l’altra. Se non ci fossero lì a inghirlandare, gli arbusti e le foglioline forse d’edera che macchiettano parassitiche come alghe in una vasca, sarebbe anche peggio, mi dico. È giusto che provino a sopravvivere, nonostante la futilità di tutti i loro sforzi? Ovviamente non rispondo, ma penso in conclusione di approvare almeno questo aspetto di questo stato di cose. Forse per questo si sente dire che la speranza è verde. Proverbi che si generano a Termini e ancora rimangono tra noi, ci sarà stato un guasto sulla linea.
Per il resto ero combattuto, contrariato. Sarebbe molto più stimolata la mia fantasia bramosa di origini ed essenze delle cose se da questi squarci scavati nella terra fosse apparso soltanto un aspetto del sottosuolo divelto per come è veramente. Una strisciata marrone scura, quanto di più terroso possa esistere, di granelli puntiformi tutti compatti nell’unirsi come in una torba: ecco come dovrebbe essere. Questo è, che viene svelato da chi scava, sono così, le viscere della terra. Quei sassi neri erano invece una riproduzione. Messi lì dall’uomo, non erano naturalmente sotto la terra. Solitamente queste cose mi irritano e da ciò si può evincere tutta la mia incontentabilità, visto che la strisciata di terriccio nudo di cui parlavo prima, per quanto veritiera, m’avrebbe fatto schifo, e allora avrei provato schifo per la verità del mondo, cacciandomi dentro un circolo vizioso dal quale difficilmente riesco a uscire. Insomma, sembra proprio che debba ringraziare quei sassi. In fondo anche il loro colore nero è interessante. Ricompongono senza volerlo l’essenza delle tenebre che si celano sotto ogni spicchio di suolo, che gli esseri come noi reputano “pavimentazione”, “superficie calpestabile”. Sì, tutto sommato è accettabile, ammisi. Se non lo fosse stato, in quel tramestio ingestibile di sentimenti afflitti che informa tutto il viaggio di ritorno, ci sarebbero state anche queste insormontabili problematiche dell’esistenza in questo mondo fatto un po’ come è fatto. Mi stava bene il fatto che sarei stato invece in grado di concentrarmi, come da norma, sulla consueta stanchezza ingiustificata, sul fantasticare la bellezza delle stanchezze altrui e la trepidazione interiore per la comparsa delle luci serali oltre i vetri alla stazione di casa, su Ian Curtis che dice che le anime dei morti continuano a chiamarlo, sulla consueta mancanza d’un vero e proprio scopo su questa terra e la mia direzione per sempre perduta, sul sublime spirito paludoso e campestre dei paesaggi in successione della Roma-Nettuno, sul baratro del futuro, sui teschi nel sottosuolo, sull’insopportabilità generale del tutto. Ne avevo di cose tra cui scegliere.
Tra i sassi da poco accettati nel mio sistema, scuri e similissimi a pezzi di carbone, quasi scintillavano, imperlate dai residui della pioggia gelida della mattina che rifrangeva rarissimi raggi tardopomeridiani, le cicche di sigaretta accartocciate e ammassate ai lati della banchina. Tanti occhietti, tante stelle beige con punte bianche mezze divorate. Questi erano i sacrifici, le pire rituali dell’organismo alieno chiamato “gli altri”. Ogni cicca era una storia. Certe cicche erano piene di problemi. Certe cicche erano le ultime, poi basta dipendenze. Certe cicche erano morte. Ci si poteva perdere nell’intreccio dei destini che avevano portato ogni foglia di tabacco a farsi sigaretta e ogni sigaretta a essere fumata proprio da quell’anonima esistenza per finire accanto ad altri esempi così di esistenze varie, ci si poteva perdere vedendo che queste esistenze si incontravano soltanto per mezzo delle loro sigarette e nient’altro. Qualcuna magari si incontrava pure, chissà. Ma d’altra parte, di nuovo, qualcuna era pure morta, sicuramente. Ci si poteva perdere così ancor più che nell’oscurità in mezzo ai sassi, già più scuri della notte e di una grotta. Oscurità scandagliata di tanto in tanto da un lampo dal colore del fuoco, una voce proveniente da là sotto.
Mi sembrava una buona idea quella di scendere a dare un’occhiata.
(E perché no? Tante volte si fantastica, sopraffatti da un mondo che pullula di cose, sorgenti d’emicrania, di gettarsi sulle rotaie. Ma non altrettanto spesso si prende in considerazione un altro tipo di abisso, quello della massa nera dei sassi lì sparpagliati che tante volte si osservano senza nemmeno farci caso dal finestrino. E se uno, invece, in quella nerezza provasse a sprofondarci, imprimendosela definitivamente dentro gli occhi fino a non vedere nient’altro, a non essere circondati da altro, non sarebbe un tipo di nulla uniforme altrettanto salvifico? Anzi, è anche meglio. Se scendo là sotto, se mi immergo, non do fastidio proprio a nessuno. Mica possono interrompere il traffico se non ci sono budella sparse. E a nessuno importerebbe che sotto l’anonimità ammucchiata dei sassi e delle cicche si nasconda qualcuno. Un tizio anonimo che ha scelto il sottosuolo.)
Non so quanto tempo fosse trascorso, ma finalmente risposi alla richiesta provenuta dal basso. Prima tossicchiai, allora ricominciai la frase. Rispondere a chi sembrava rivolgersi direttamente a me, prendendosi pure la briga di farsi sentire solo dal mio istinto (che era poi l’unico ad assicurare che fossi proprio il solo destinatario), era dopotutto una questione di cortesia. E io in queste cose sono un macello.
-e va bene, allora scendo. Ma solo perché stavo già pensando di scendere io!
-e a noi che cazzo ci frega? Basta che scendi.
Era un discorso così logico che non potei fare a meno di annuire pieno di ammirazione. Intanto, scavalcando la banchina, mi preparavo a scendere. Mi sentii mortificato quando, atterrando con un balzo, calpestai in parte una di quelle piantucce moribonde. D’altra parte però immergendomi nelle profondità sassose non avrei potuto mai più commettere azioni di quel tipo, e ipocritamente mi dicevo che la piantina, quella che dal nostro incontro ci aveva rimesso di più, doveva pur essere in grado di comprendere questo e accettare il proprio sacrificio come necessario. Necessario a chi, a me così che posto star tranquillo a non sentirmi in colpa, senza far male a niente? A quella importava solo di fare la sua bella fotosintesi, poveraccia! Comunque, per quanto potessi dispiacermi, avevo deciso di scendere. Sciaguattava sotto le suole il tappeto umido e zuppo di pioggia delle cicche, la pressione dei piedi faceva sgorgare l’acqua dai pori spugnosi dei filtri con un cigolio fradicio. Avevo la sensazione che la pioggia mi trapassasse le scarpe i calzini e la carne come ghiaccio inarrestabile. Dovevo farmi coraggio per poter superare quell’istante, subito immaginato con un brivido a quel contatto, in cui l’immersione mi avrebbe trasmesso a tutto il corpo tutta l’umidità raggelante succhiata dai sassi. Dopo non avrei provato niente: sentivo nettamente che fosse così. Si sarebbe dissolto il corpo con i suoi fastidi, digerito dal buio ed entrato in perfetta armonia nel suo flusso interno diretto all’ingiù; senza troppa distinzione tra il contenitore della mente pensante e i sassi costituenti il circostante. Così rassicurato mi fermai per un po’ al centro delle rotaie, proprio in cima a un nero cumulo di ciottoli. Infilai prima soltanto la punta di un piede in un punto dove si sprofondava. Constatai che là c’era un accesso, un’area in cui, come avevo immaginato, si creava un vuoto cavernoso, in cui il corpo poteva sprofondare nei sassi come in un fluido. Dopodiché era solo discesa. Allora affondai ancora il tocco, rabbrividendo tutto. Sforzandomi di non sentire il freddo, una delle mie millecinquecento paure più grandi, cominciai la discesa. E vedevo allontanarsi le colonne nere della stazione, i fili sospesi in alto, calanti e intricati e lunghi fin nell’orizzonte, nel pomeriggio dove all’improvviso brillava un sole tra le nubi cariche di pioggia. Compariva infine, imbeveva la città e la periferia, verde e marrone di acquedotti antichi, stagliata come un’isola galleggiante sull’orizzonte delle ferrovie parallele. Vedevo gettarsi nell’infinito i pezzi di mura romane, i graffiti deposti dalla subcultura hip hop negli anni novanta, scritti in direzione dei campi e delle vie del ritorno. E vedevo l’orologio della stazione squadrare tutto il sottostante con uno sguardo ibrido di pixel e lancette, e vedevo le sagome delle persone svelte ai bordi delle linee gialle, indaffarate, senza occhi per i sassi neri tra le rotaie e per chi tra questi decide di gettarsi, indisturbato. Sentii richiudermi sopra i miei capelli gli ultimi sassi e l’eco di una voce sempre più attutita, “dalla sette alla quattro codatreno, dalla tre alla uno testatreno…”
…
All’inizio, nella zona più vicina alla superficie, era proprio come se si trattasse di un complesso sistema speleologico, di tunnel e gallerie, spazi cunicolari in cui il passaggio era permesso soltanto a piccole agili forme, e spargeva un’eco di cozzi e sbriciolamenti, scivolate sulle superfici umidi, passetti. Incontrai quasi subito un topo. Non che ci si vedesse benissimo, là sotto, ma non ancora sufficientemente lontani, ultimi irriducibili spiragli di chiarore si erano abbattuti facendo scintillare, in una cavità tra sassi perfettamente incastrati, delle lunghe vibrisse. La faccetta timorosa del roditore rotondo era così stata visibile per un breve istante. Era piccolo e bruno, con gli occhi grandi.
-ma guarda un po’! Tu devi essere un topo comune.
-molto piacere.- disse il topo.
-ci sono anche ratti da queste parti?
-difficile. Sono grossi, loro. Vedi scintillare gli occhi negli angoli lassù, tra i corridoi della stazione e alla discesa per la metro, quando sono pochi gli umani che girano.
Eh già, me li potevo figurare molto bene. Ero contento di sapere che un mondo incomprensibile mi veniva rivelato da un suo abitante proprio nei dettagli con cui io stesso me lo immaginavo e semplificavo. C’erano gli abitanti dell’ombra, e spesso erano essi stessi delle ombre, vettrici di infezioni e sapienze tenaci per sopravvivere inosservati, rapidi, prolifici attraverso le ere e gli ambienti. Occhi rilucenti nel buio, vibrisse. Una stazione che si addormenta e al contempo si risveglia, pullulando d’altre vite, possedendo molti volti. Questa era l’essenza di tutto, e me la stava raccontando un topolino già quando non ero sceso nemmeno di un metro.
-vi ho visti, sai, a volte.-, confidai.
-davvero?
-sicuro, mentre guardavo dal finestrino. Mi accorgevo di piccoli movimenti tra le foglie, di balzelli sopra i sassi. Sveltissimi vi infilavate nei buchi. Una volta uno di voi l’ho seguito per tutto il tragitto che ha fatto lungo la banchina.
-questo mi sembra strano.
-mah, dipende. Forse non siete abituati a essere notati. Anche questo mi piace di voi. E mi piace che vogliate nascondervi subito quando vi si individua, sento che per questa caratteristica sarebbe assai probabile, per noi, trovare molte affinità. Se ce ne fosse il tempo, ovvio, ma…
-eh sì, sì…- annuì il topo, guardandomi ormai dall’alto, capendo che alludevo alla mia discesa ormai inarrestabile. Lui invece sarebbe rimasto là, ai suoi piani superiori, collegati con la luce, dove aveva un gran daffare.
-comunque anch’io ho fatto la vostra scelta. Ecco che scendo anch’io, in un mondo d’ombra sicuro, uniforme, vasto e protetto. Addio!
-arrivederci!
-no, aspetta, prima che mi dimentico. Sei stato tu a chiamare? Ti serve una mano?
-no no, non sono stato io. Per quello devi scendere più a fondo.
-ok ok, mi sembrava infatti. Ciao eh.
Vidi un ultimo scintillio sopra di me, la coda verminosa che fluiva in un balzo da una cavità all’altra, e il topo che se ne andava alla costante ricerca di qualcosa. Soddisfatto, anch’io me ne andavo in cerca di qualcosa, seguendo un’altra direzione e con il privilegio di non doverla più cercare con il corpo. Ero una macchia nera, una parte stessa della composizione di quel mondo. Ero solo osservazione e discesa, e il topo, ormai un ricordo, era soltanto immagine. Come un topo dei cartoni scisso da un topo visto in una stazione, nell’oscurità di una metropolitana. Era soltanto una leggenda senza fondamento, ma laggiù mi sembrò vera. Per certi esseri con le vite segrete e seminascoste, attivi nelle zone liminali dei mondi complessi di ogni giorno, diventava facile intrufolarsi a piacimento nel mondo dell’immagine, rimanervi per sempre. E scendevo in una fossa dove forse si generavano, chissà, magari il cervello della stazione. Umano o di un altro essere? Le immagini umane erano collettive, o nascevano per il volere di qualcosa di più grosso e oscuro. Fui richiuso da un secondo strato di sassi, sufficientemente lontano dalla superficie.
I raggi del sole non potevano raggiungere quel livello di profondità. Perdendo anche gli occhi, percepivo cumularsi in vaghe ombre della mente strane incredibili sagome, grosse miodesopsie galleggianti come meduse abissali. Questi erano gli abitanti di quello strato. Compresi che non erano tanto legati alla stazione quanto a ogni tipo di profondità esistente. Esseri che si potrebbero incontrare sprofondando dovunque, o anche percorrendo altri tipi labirinti dove sopraggiunga la cecità, dove le sensazioni del corpo non ne ostacolino la manifestazione. Sapevo che non erano stati loro a mandare la richiesta. Si tratta di esseri troppo alieni, e non si interessano di inviare messaggi. Intelligenti, ma di un’intelligenza diversa, esistenti, ma senza ingombrare. Scendendo ancora, li salutai con un cenno silente, che nelle mie intenzioni doveva essere solenne. Non che a quelli importasse della solennità, ma importava a me, volevo tributargliela. E mi sembrò, per pura suggestione, di avvertire una vibrazione, come a significare che una di quelle sagome avesse annuito, solenne e filamentosa.
A quel punto, già da un po’ anche i sassi avevano smesso di essere sassi. Non erano stati che un pretesto per il mondo fisico e la superficie, un’imitazione solidificata dei blocchi neri che costituivano questa realtà. Scorrevano corpuscolari lungo i bordi della mia coscienza. Se anche ci fosse stata la terra nuda per come sarebbe dovuta essere, come avevo pensato prima, credo che in una discesa attraverso un passaggio simile a quello da cui ero entrato, alla fine avrei comunque trovato qualcosa di identico. Cominciavo però a nutrire perplessità circa il fatto che il mio punto di partenza fosse stato proprio una stazione. Se un posto del genere si poteva trovare a partire da qualsiasi cosa, allora non c’entrava molto la natura separata di quell’ambiente, quell’enorme organismo. O c’era ancora qualche legame? Così pensando scendevo ancora, e ciò che aveva sostituito l’udito mi faceva avvertire un piacevole scroscio, cullante e ipnotico, dalle tante particelle che si frangevano placide a quelli che sarebbero stati i lati delle orecchie.
A risolvere in parte quel primo dubbio ci fu un abitante di quello strato profondo. Ovviamente, nulla era più visibile, ma si intuivano con molta facilità le forme che le cose avrebbero preso se fossero vissute altrove. Questo era un essere lungo e serpentiforme, dotato d’occhi lucenti come fari. Sbuffava e strepitava trasmettendo gli impulsi d’un cuore metallico a ogni superficie, quasi facendo ritornare per un attimo la consistenza alle cose del buio profondo. Assomigliava alla metro, ma viaggiava laddove non c’era più nemmeno il sottosuolo della terra, nemmeno le gallerie scavate nella roccia. Non c’erano nasi che potessero sentire le correnti d’aria viziata e calda, ma come una corrente si dileguò, rapidissimo, credo senza una ragione particolare. È vero che le cose si muovono, lì: ma non è detto che si debba per forza avere la mentalità, come la si ha in superficie, per la quale è concepibile che qualcosa si muova soltanto se possiede un qualche desiderio e una volontà di vivere.
Forse ero finito laggiù come all’inseguimento di un bianconiglio. Allora a un certo punto sarei dovuto uscire dal paese di tenebre simile a quello delle meraviglie. Non solo era sconfortante, ma l’averlo pensato provava che ancora mi risuonavano dentro echi di canzoni, storie, nomi, situazioni. Voleva forse dire che a un certo punto avrei dovuto far ritorno? In fondo lo sapevo, che non poteva esser così facile. Ma allora perché ero sceso? Cosa mi sarebbe rimasto da questa esperienza? E soprattutto perché il dubbio tornava a tormentarmi, perché riusciva a inseguirmi dovunque mi andassi a cacciare? Avevo creduto che nascesse dal troppo peso delle cose del mondo, dal loro essere troppo numerose, dalla paura e dal caos. Lì, dove c’erano poche cose, e solo quelle che volevo percepire io, in perfetto ordine sistemico, qualcosa di spiacevole si manifestava ancora. Sentivo di avvicinarmi a un punto molto lontano, il più lontano dalla superficie, ma che aveva con questa qualcosa in comune. Infatti, pur dissolto il corpo, ebbi per un istante l’impressione che ci fosse un’inequivocabile vento gelido. C’era qualcosa a muoversi là sotto, a spargere correnti. Allora mi ricordai che ero sceso perché qualcuno mi aveva chiesto un favore. Anche perché volevo scendere, certo, ma in fondo forse sapevo che non sarebbe mai potuta essere una fantasia infinita, una conclusione così perfetta in tenebre così convenientemente accoglienti…
Così mi ritrovai davanti a quelle “persone”. Non voglio dire che fossero proprio persone, anzi non potevano assomigliarci, eppure non verrebbe di chiamarle altrimenti. Se si pensa a quell’oscurità, al luogo in cui vivevano e tutto ciò che negli strati superiori aveva preceduto la loro esistenza, schiacciata e nascosta là sotto, per qualche motivo la parola affiora da sola, quando se ne racconta.
Dopo aver vissuto un certo tempo indefinito là sotto, uno ci si abitua, è ovvio. Anche io discendendo non mi curavo più del tempo che passava, lassù, dove avevo lasciato tutti gli orologi di tutte le stazioni e tutti i polsi e tutte le menti soggette ai giorni. Chissà se il mio treno era già partito… ma sotto non era né giorno né notte, e si avvertiva soltanto vagamente, simile alla flebile ombra di un filo, una cosa simile a un susseguirsi di momenti, movimenti letargici delle cose letargiche del sottosuolo che producevano minime conseguenze. Ci si abitua a questa assenza altrettanto presto che con l’assenza delle pareti, di cose solide diverse dal mare di corpuscoli che infittisce i dintorni della coscienza. Perciò, se improvvisamente una di queste assenze viene messa in risalto, riconducendo alla memoria il modo in cui erano le cose nettamente separate nei loro contorni solidissimi, il senso di spaesamento sopraggiunge impetuoso come un cavallone che si abbatte violento contro la faccia. E ancor più strano sembrava dal momento che pareti e soffitti continuavano a non esistere, ma era apparso un pavimento. Se anche questo fosse stato assente, non si sarebbe potuta avvertire la differenza, mentre, se fosse stato presente anche solo un altro elemento oltre a questo, forse sarebbe parso meno strano. Ma a quel modo, con soltanto una linea di terra e nient’altro, con nulla più in cui sprofondare e al contrario un’enorme mole di roba soprastante, che all’improvviso pareva premere come una pressione titanica capace di forgiare fossili e diamanti… tornai d’un tratto a percepire soltanto con i piedi, tornai ad avere una parte inferiore del corpo. Il resto invece, lo si dovrebbe immaginare come una cosa lasciata a scomporsi liberamente. Si potrebbe dire una specie di eruzione continua, di cui è appena visibile la bocca di vulcano che l’ha generata. Non riuscivo a raccogliermi. Ma piano piano, mi accorgevo di camminare. E in seguito mi accorgevo che potevo riuscirci perché immaginarmi sotto gli strati che avevo attraversato mi spaventava, e questa paura mi restituiva una forma. Qualcosa da proteggere, che ha desiderio di star ferma in se stessa. Facevo avanti e indietro, spaesato e senza meta, in cerca di pensieri. E se qualcosa laggiù avesse gridato “allontanarsi dalla linea gialla”, come avrei reagito? Mi venne in mente che anche nello strato più basso dell’inferno, d’altronde, doveva esserci un pavimento. La luce delle sue fiamme, temprate dalla pressione dell’abisso, forse erano tanto forti da lampare fin nelle crepe della superficie, laddove la terra bramava di squarciarsi, mostrare il mondo inferiore e la sua verità brutale…
Non saprei dire come fosse, questo mondo, ma certo, avendo recuperato un po’ di forma e di inquietudini, potevo percepire certi elementi in termini più simili alla vista delle cose da me così lontane in quel momento. Innanzitutto, uno strano gas sotterraneo, un sentore quasi inodore di combustione. Vorticava infuriato da crateri squarciati qua e là. Compresi che, a differenza degli strati superiori, che erano un mare indefinito, quel pavimento era un luogo ben preciso, che non avrei potuto raggiungere da qualsiasi foro. Era localizzato proprio lì e da nessun’altra parte. Qualcosa d’immobile come conformazioni geologiche luccicava spigoli dritti e affilati, ma spariva subito. La pressione era forte, ma non abbastanza da riuscire a far mantenere la forma a nulla che potesse persistere in quello stato squilibrato, con troppa base e troppo poco altro. Le conformazioni rocciose, a differenza mia, non potevano avere la risorsa della paura… passavo frenetico accanto a immagini che affioravano insieme al dubbio costante che già da un po’ mi accompagnava, vedevo accanto a me musi morti di bestioni enormi, precipitati nello strato più sottostante dell’esistere e della memoria del suolo -potevo chiamarlo così! Lo calpestai più forte, per sentirne la consistenza, ma dovetti constatare che non era ancora possibile. Soltanto una compattezza perfettamente piatta e inattraversabile come un piano cartesiano. Ai colpi piccole onde d’urto si spargevano nei crani delle creature, facendo scricchiolare i denti di roccia. E poi delle voci. Giusto, le voci! Mi chiamavano, continuavano a chiamare, così diceva anche una canzone ascoltata che parlava delle anime. Le canzoni che ancora ricordavo, che ritornavano nitide nella coscienza, mescolandosi ai fiotti di gas libero e iroso… echeggiò nell’oscurità un feedback di sporche distorsioni in bilico tra il punk e il post, vidi le voci popolarsi d’un accenno di carne, o meglio, di nuvola…
In quel pavimento senza variazioni ero come al centro di una radura. L’impressione era data soltanto dalla comparsa, tutt’intorno a me, di quelle figure sedute in cerchio. Io ero al centro, qualcuna mi era vicina. Altre giravano, si sarebbero dette “in piedi”, se fossero state “persone” di un tipo più antropomorfo. Ma erano molto diverse. Alte figure simili a nebbia azzurrina, con una testa prominente e qualcosa a metà tra fiammelle e fori pieni d’una sostanza torbida al posto dello sguardo. Riconobbi una delle voci, era quella che più forte delle altre mi aveva chiamato.
-eri tu là sopra?
-sì…
Mi avevano cercato. Non sapevo come aiutare. Avvertii molto sinistramente il ritorno di una sensazione sgradita, delle cose che non si profilavano nel modo che le immaginavo nemmeno nell’inchiostro malleabile di quel buio lontano, oppure non riuscivo proprio ad anticiparle. Di certo non avrei mai potuto prevedere la necessità per la quale mi avevano fatto venire.
-hai da accendere?-, disse la persona-fantasma capo.
Istintivamente mi portai le mani al petto, e poco dopo notai che per la causa ero arrivato al punto di dotarmi di mani e di un petto. Questo di certo mi darà dei grattacapi più tardi, pensai, ma a quello serviva da accendere e quando è così non potevo mica mettermi a lamentarmi delle disgrazie delle fisicità e tutto il resto. Così da una tasca tirai fuori un accendino e glielo passai. Sporse due appendici di bruma molliccia, lo afferrò e se lo portò al capoccione vorticoso. Un lembo si protruse come imitando un labbro, dal quale a sua volta si protendeva un cilindretto sottile della stessa sostanza, evidentemente una sigaretta. Se l’accese, mandando nel tentativo tre lampi di fuoco che risplendettero per tutto l’orizzonte concepibile, destra sinistra e sopra. Forse avevano un accendino quasi scarico, ed era quello che prima, quando ero su, aveva scintillato fino alla superficie, appena visibile negli interstizi tra i ciottoli. Ma qualcosa non riusciva a scacciare il presentimento che s’era trattato d’un fuoco non interrelato a quella faccenda.
-grazie!-, disse, e aspirò una bella boccata. Mi parve che tutte le altre persone-fantasma facessero la stessa cosa, come se un solo accendino fosse bastato per tutti gli abitanti di là. Avvertii un gran sollievo farsi a pennacchio da ciascuna di quelle figure sedute o vagabonde intorno a me, e più sentivano sollievo più sentivo mancare il mio. Capivo fin troppo bene quanto importante dovesse essere per loro quel rito, dunque non potevo esplicitargli i miei veri dubbi: non avrebbero compreso. Allora, per dar voce al mio dubbio, diedi voce a tutt’altro, un tipo di domanda che avrebbero potuto capire.
-..ehm, immagino non si trovino molti accendini, da queste parti.
-eh, no. Solo sigarette.
Solo sigarette. Rimanevano solo le cicche, sopra i sassi. Ogni cicca era una storia, un’esistenza che se n’era andata chissà dove. Ma forse si ritrovavano quaggiù? Come un’area per i fumatori. Quando uno proprio non ne poteva più, se ne usciva in questa forma, si appartava in un confortevole buio a fumare. Di quelle cicche non rimaneva l’accensione, non rimaneva lo strumento che le aveva accese. Non rimanevano nemmeno i ricordi e i nomi delle labbra che le avevano aspirate. Rimaneva solo, come una vaga forma a metà tra l’essere umano e un banco di fumo, il recondito desiderio che aveva fatto sì che venissero prodotte e consumate, che infine le aveva ridotte a quello stato, derelitte e intrise di pioggia sui sassi. Nicotina, attesa, riflessione, noia, ansia, crisi d’astinenza e cedimento, debolezza, stanchezza, ritardo del treno. Magari tutto questo non era biodegradabile, e dalle cicche colava andando a depositarsi sotto i cunicoli, sotto il suolo, negli strati sepolti.
Non resistetti a lungo, ero preoccupato.
-senti, ma quindi adesso…? Mi tocca risalire?
-eh, per forza. Perciò, grazie davvero.
-e come faccio, mi posso risollevare come sono disceso?
-macché, devi nuotare.
-nuotare?
-sì, insomma, nuotare o scavare, quella cosa che fate… vedi lassù?
Alzai la testa che ormai si era bella che formata sopra un collo e una giacca, che peraltro aveva tasche da cui potevano uscire accendini. Sussultai immaginandomi quella maera di sassi e corpuscoli neri che avrei dovuto scostare a manate. E il treno che avrei dovuto prendere, e la via del ritorno al freddo in anticipo sull’inverno, e l’arrivo a casa in cui non avrei avuto voglia di fare altro che fissare il vuoto. Non sembrava un’impresa possibile e, forse perché mi sentivo improvvisamente sfinito, avvertii una potentissima allucinazione uditiva. Un lento e netto rintocco, più gutturale ancora del ronzio monotono della stazione, di tutti i gargantueschi organismi antropici in coro. Il tempo tornava, col dubbio, con la forma, con tutto ciò di cui non ero riuscito a separarmi del tutto, nemmeno in quella strana area fumatori. Comunque, se sono qui a scriverne, non era un’impresa così impossibile. Infatti quando fui di nuovo in superficie il treno che aspettavo quando ero là prima di scendere sulle rotaie, non era ancora arrivato. Anzi, c’erano ancora da aspettare dieci minuti, e io non avevo una sigaretta che potesse aiutarmi a trascorrerli e a far ordine tra i pensieri che in quel tempo si sarebbero susseguiti, alla spasmodica ricerca di un equilibrio.
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