guardiani d'agosto
- Milky
- 19 dic 2021
- Tempo di lettura: 19 min
C’erano diversi punti nel bosco che demarcavano, con la nettezza austera propria solo degli alberi, tutti quei suoi passaggi, tappe dello sprofondo tra gli intrichi e le fronde. Servivano per gli intrusi, per quelli che ci venivano portandosi dietro dei pesi che li avrebbero resi facili vittime di qualunque cosa di oscuro potesse nascondersi in quella vita: un rumore ignoto, un guizzo fulmineo di peli o ali nere, il nulla. Assoluto e riempito di tutto il peggio di cui viene solitamente riempito. Così il bosco diceva, avvisava. Ricordava, perché è una prerogativa della corteccia quella di mescolare memoria e materia.
“Sappiate cosa si può incontrare nel mio territorio”, scrive la vita che non sa scrivere, che non ha imparato i simboli incisi. L’inscrizione è più forte di un grido.
Perché il bosco abbia questa volontà non lo so dire, per quanto mi senta invece di dire che non si tratti di una premura verso uno smarrito avvisato, come potrebbe sembrare. Non certo rivolta a invasori della mia specie: questi alberi non hanno questo tipo di volontà. Ma forse in fondo il bosco, anche lui come le creature, avvisa dei suoi pericoli, i confini del caos al suo interno, soltanto per potersi dire eccomi, io sono il bosco: come tale ho molte cose. Manto di foglie morte sul mio suolo; radici sporgenti grosse muschiate; un primo tronco caduto sul sentiero; una roccia saggia di barba verde che s’erge al centro d’un bivio, stradine di sassetti sua progenie dispersa a ondulazioni di ruscelli, l’uno impetuoso l’altro placido. Confini, soglie, diversità dell’aria per tasso d’umidità e densità d’incantesimi.
Dice “questo sono io”, il bosco. Spinge i gufi al richiamo dal tronco cavo anche quando non c’è nulla per cui stridere. Attraverso radici e hummus nettarino di linfe senzienti informa tutto se stesso del proprio intento. Così i cespugli immobili emettono rumori, battiti, fruscii a ogni istante. Il bosco è in ascolto.
.
Io ovviamente appartengo a quella specie di invasori con un peso dietro. Il mio primo oltrepassare risuona come un tuono, mi sembra. Un tuono silente però -posso dirlo adesso, lontano da là, già sapendo che a un’altra soglia anche il gheppio selvatico avrebbe lanciato un richiamo agli esseri, laddove doveva esserci una soglia più grave. Varcarla significava qualcosa che noi non possiamo nemmeno immaginare, e in uno sforzo per poterlo fare, acquisiamo brividi e istinti che avremmo preferito mantenere dimenticati.
Pochi passi di là dal primo tronco caduto, in una minuscola area preliminare compresa tra questo e il ruscello quasi immediatamente vicino, come prima cosa decido di accorgermi della mia vescica e fare qualcosa in proposito. Noto che il modo in cui lo decido è molto insolito per me, troppo immediato. E allora mentre faccio crepitare il fogliame rasoterra con le gocce emesse quasi sofferentemente, come sangue da una ferita, penso a cosa sto facendo: ma come mi viene in mente? Un luogo sacro, proprio i primi momenti dopo averne varcato un’area importante, macchiato da un bisogno corporeo, una sporcizia interna.
All’improvviso, da un promontorio sovrastante, irrompe un rumoreggiare pasticciato, movimento ingombrante d’una grossa creatura. Ho finito e mi risistemo, cauto. Guardo su, qua e…
-ciao.
Salto. Era accanto a me! Ma forse non disse ciao, no. Era la mia suggestione ad avergli insegnato un saluto che non poteva appartenergli. Questo sempre perché mi introducevo coi miei pesi proibiti in un mondo che mal tollerava simile impudenza. Mi avrebbe questionato, deciso se impiegare misteriose forze per espellermi, rigettarmi fuori dalle fronde, coccige lanciato a terra e fatto strascicare fino a raggiungere quella striscia erbosa di brivido sulla quale si mostrano le prime file di ombre; il confine osservato dalla distanza sicura del campo, la nidiata dei racconti e le fiabe, l’origine del coro di singulti imperversanti con le stelle nel nero di là dalla finestra. M’avrebbero fatto rifare ritorno a quel punto, le forze seguaci del volere di questa natura.
Così doveva essere la ragione di manifestarmisi in forma di spavento, per quella creatura. Apparteneva, nell’aspetto in cui appariva a me, a una stirpe che conoscevo bene da perlustrazioni in fantasticherie del giorno e della notte. In quelle di una certa specie saltavano fuori forme inaspettate. Come la sua, con esili palchi in testa e umidi occhioni di topo selvatico così grandi che parevano quasi centro attorno al quale si generava il corpo scimmiesco. Tutto brunito di irti pelacci nocciola che lasciavano nude macchie di pelle bianca solo nell’interno braccia, parti di mani e piedi, frammenti sul collo.
Dunque è quel tipo di bosco abitabile da questa forma, penso senza i giusti indizi per pensare -in questo bosco mai visto, particolarmente diverso dagli altri boschi in qualcosa di ineffabile, io non sono che un invasore peraltro inesperto. Mi aveva interrotto e spaventato, come tanti pesci da stagno che sentono il sasso lanciato, i pensieri che erano scaturiti dalla “questione” dell’urina.
-lo so perché hai deciso di farla proprio qua.
Quelli simili a lui parlano spesso così, nei casi peggiori con un effetto che fa diventar matti. Un monotono belante che si mangia le sillabe e a volte sembra sparire nel silenzio a meno che non lo si solleciti, e sarebbe tollerabile se fosse solo questo: si avvertono nella stessa vibrazione vocale rauca un gelo terrificante, che spezza i ghiaccioli formati a zanne sotto le gengive di pietra spoglie di muschio morto, insieme a una sconcertante scherzosità indecifrabile, anche buffona, simile a un gioco di bambini senza fine.
-perché sei entrato nel bosco e lo hai fatto perché vuoi essere un animale dopo che ci entri dopo che passi la soglia e ti perdi dentro, verde e nero vedi.
Cerco di ascoltarlo, lo guardo soprattutto. Seguo le volute della sagoma scalatrice di rupi rannicchiata davanti a me, giunture flesse a proteggerlo come un riccio. È facile figurarsi, mentre tengono insieme quella postura, sotto pelame frammisto a foglie morte e sotto quegli occhi tremendi, interminabili ossicine e ossa più grandi, pur sempre sottilissime attraverso la fragile lunghezza come certi rami e alberi che nascondo dal terriccio in sagome arcuate e deformi.
-un animale dici?
-certo certo. Corna piume becchi, artigli tele veleno. Vuoi correre sotto il sottobosco, infilarti, afferrare la terra, strappare zolle nella corsa. Verde e nero vedi.
Se me lo diceva l’essere, borbottando di sotto alle numerose punte dei palchi ciascuna come un saggio druido osseo e immobile, potevo star certo che allora quanto andava dicendo dovesse almeno essere una parte di uno dei modi in cui vedevo il mondo. Prima e dopo aver urinato c’era stato un momento di strana percezione. Sapevo in ghiandole ruvide o vibrisse o lingue del cervello d’appartenere al bosco, e che a me apparteneva, il tutto pur nella totale inesistenza dell’idea del possesso. Solo per pisciare tra erbette e roccia. Tutti sapevano dell’odore, e così lo sapevo di nuovo io che mi sentivo echeggiare, perché avevo orecchie come quelle del bosco e olfatto come tutti i suoi nasi dentro al mio. Per un istante fui il bosco e mi sentii urinare dentro me stesso, contaminare dalla mia tossina.
-ti trasformi ritto orecchie e di occhi, muso cerbiatto occhi di spavento tondo.
Un leggero mal di testa mi percorreva quando quell’essere mandava parole sconnesse in quel modo. Se parlasse per tramite di ricettori sulle corna e per un’ipnosi d’occhi sempre più sconcertanti, o in qualche altro diavolesco incanto, non si può sapere; ma in quel suo modo ignoto sapeva farmi udire una grammatica, un’imitazione e riflesso del modo in cui figuravo le cose. Perciò quando tale struttura scivolava via, come colate fangose su pendii percorsi a nocche e balzi, sembravano sfaldarsi tutte le altre forme che lo componevano, il corpo teriomorfo e il pungente odore d’umidità fungina e felce sporca d’ormoni animali. Restava solo un vago capogiro, dato dalla sua sola presenza, esistenza davanti a me nello stesso mondo.
(voglio trasformarmi in bestia quando entro qua dentro?), penso senza dire.
-vorresti non ci riesci. Hai marchiato il territorio invaso ma non ha odore come altri animali.
(sono un invasore…)
-ha odore di altri fantasmi che ti porti dentro.
Eppure, volevo dire alla creatura, per un istante sconosciuto ero stato come privo di pensieri. Reticolato dentro da intrichi di nervi palpitanti che già custodivano in sé, tra fluidi ribollenti e impulsi quasi elettrici, tutto quello che si poteva sapere in un’esistenza simile. E nonostante questo, ero ancora appesantito? A che mi serve introdurmi in questo posto, oltre il suo fitto proibito, se…
Pensando l’assenza dei pensieri, questi subirono un nuovo arresto diverso. Scontrandosi contro una parete di roccia e radici abbarbicate, videro il mutamento rapido e imprevedibile nei comportamenti della strana bestia, nell’aura che emanava. Mi fissava ora in silenzio, muta. Gelida nel significato di quel suo volto senza bocca, una goccia ricoperta di peli che fino a poco prima s’alzavano appena sventolati dal sottostante sbuffo d’una mimesi di comunicazione. E s’acuiva la profondità d’occhi neri, in cui non ero che il bipede minuscolo riflesso traballante nelle singole puntine di luce chiara dentro il nero equoreo. Capii che non poteva più esistere un dialogo tra me e la creatura. S’era serrata all’improvviso, il suo cervello cangiava seguendo battiti di un orologio interno, o magnetico nel cuore della terra. Stavamo fermi davanti al costone erboso, sotto l’ombra delle querce. Senza una mossa, lì a studiarci, frusciava solo il vento tra la vegetazione bassa che così s’asciugava le gocce e gli odori, le polveri fibrose sulle trame delle foglie. In giro come messaggi agli abitanti del bosco.
Ero davanti a un animale imprevedibile. Quanto detto prima non esisteva. C’erano solo un invasore, che aveva marchiato un territorio altrui, e l’animale che difendeva tutte le colonne terrose o di roccia, con alberi aggrappati e fitta pelliccia di felci ed erbe alpestri rossastre. Sentii tutto il rischio del movimento e del rumore.
Devo muovermi. Proseguire nel bosco e capire meglio cosa mi spinge al suo interno, com’era inizialmente; o fuggire, impulso dato da nuova paura. Ma non posso rimanere eternamente bloccato in questa immobilità. Guardando senza batter palpebra con pupilla incrinata, avanti e in basso dove sta rannicchiato. E negli occhi dove prima si scorgeva curioso profondo mistero, intelletto di foresta, ora c’era solo una fissità inquietante, cerchi dietro il cui fosco vetro s’amalgamavano in correnti lacustri intenti gelidi, alieni. Illeggibile contenuto di testa bruna coronata di rami.
Per fare quel che devo, qualunque cosa sia, non posso rimanere così. Ma ogni cosa sarebbe errore. Per la prima volta è il bosco a rendermi goffo. E come goffamente avrei detto altrove, pressato sempre dagli imprevisti in agguato, come se ancora quella creatura potesse capirmi balbetto:
-…che c’è?
Suona come un rametto spezzato sotto un piede ingombrante, non felpato. Simili rumori goffi non sono ammessi. Innesca l’ira e la fuga e in un istante stiamo correndo.
Cerco di correre lontano da sporgenze di disperazione e inadeguatezza della mia forma, calandomi al terreno nell’accelerare. Vedo sfuocati e vorticanti pochi riferimenti che si mescolano visivi e olfattivi, nel tremore d’erbe e polle solari tra le chiome. Un odore bianco in una striscia erbosa laterale, penombra del sottobosco, susseguirsi di liane e tunnel tra i rovi che mi lascio dietro correndo. Ma corro comunque inadatto ai terreni selvatici, senza sbattere a terra gli arti anteriori, che non afferrano il suolo; corro disperato mentre la creatura salta e grida, lacera l’aria e i palpiti del cuore atterrito con un raccapricciante soffio, ricolmo di multiformi galoppanti stridii, selvaggi e riecheggiati nel bosco, gridandoli uguali alla sua massa frondosa e gli uccelli neri lanciati a ventaglio fuor delle foglie. S’inacutiscono ebbri della vita primordiale sprigionata, che gioisce del suo ritorno. Il richiamo antico che suonava dalle bocche del bosco, prima degli invasori, reincarnato più lieve in un giorno d’ombra silvestre. Oggi, ridotto, basta a liquefare il cervello invasore, devastato dalla vertigine di quella che doveva essere la sua perduta intensità al tempo dell’impero di legno e artigli. E correndo disperato senza mai voltarmi pur riesco a vedermi riflessa nel volto stesso del mio istintivo terrore la creatura che mi insegue dilungata in pochi rapidissimi scatti d’avvertimento, le corna che avanzando spezzano seccamente le punte di rami troppo sporti al terreno e si riempiono di foglie sgretolate, gli arti ossuti e le dita lunghe che vorticano frenetico fracasso cervino nella corsa da scimmia impazzita; e nel pelo del volto gli occhi, pur immutabili, mi infondono una nuova nera scintilla. Rabbrividendo d’un istinto consapevole di quanto ignota e oscura sia la propria provenienza, sento che nei bulbi scuri e acquosi s’annida la morte.
Si ferma solo quando giudica, per i suoi sensi, che mi sono allontanato a sufficienza. Sono risalito per una parte opposta della collina. Le gambe vacillano per le ossa flesse dentro la carne, linfe azzurrognole del midollo minacciano di recidersi: solo ora capiscono d’aver corso in salita, oltre la propria tolleranza fisica, spinte lassù da forza estranea al volere. Il sangue vorrebbe irrorarsi fuori, pulsando al ritmo scoppiante del cuore, dalle tempie, per tutto l’addome. L’eco della fuga, dell’orrido grido, si percuote poco anche fuori di me, nel singhiozzo malinconico d’un uccello fuggito lontano, negli steli che vacillano ancora in questo spazio sicuro. E su quest’erba, sconvolta ma già dimentica, abituata alle tempeste e i silenzi della selva, m’accascio, cercando di respirare, di farmi piacere lo sfinente e ruvido sapor d’ossigeno che struscia frigido sulla lingua, entra in gola, rintrona. Espiro, un corpo rigonfio e sgonfio nei momenti sotto l’ombra. Negli istanti passati devo davvero essermi trasformato in un animale.
…
Camminavo da lungo tempo per una specie di sentiero. Una fila di pietre sparpagliate caoticamente, una striscia color mattone di terra piatta che sporadicamente macchia la pavimentazione boschiva sotto i fili d’erba. Mi domando la formazione di quella via, un precedente e frequente passaggio d’altri invasori. Mi rispondo.
Ombre diverse s’aggiravano sotto le volte complicate dei rami, avevano cominciato a intrufolarsi dopo un antico interminabile inverno. Estirpavano gemme grasse della terra proliferata, stillando nettare dal suolo bernoccoluto, nel bosco appena sghiacciato, fatto d’alberi nuovi. C’erano stati anche allora degli scontri, abitanti vecchi e nuovi. Fantasmi dalle lunghe zanne celesti e bianche di neve. Creature poi più piccole, giunte in seguito, felci irriducibili che tollerano l’inverno. Un fremito nascostissimo nell’atmosfera presenta come in costellazioni i contorni sfumati di queste sagome spettrali.
Salendo file di pendii evoco la figura del primo abitante incontrato. Lo trovavo amabile oppure spaventoso. Aveva detto che mi stavo portando dietro i fantasmi. E ripensandoci, sentendo negli scricchiolii e lampi di penombra lo sdegno del bosco per queste mie cose, ancora avanzavo timoroso di molti occhi nascosti ai miei lati, attenti negli spazi invisibili. Fuggendo l’avevo lasciato là, sotto la rupe, e scoprivo, per allontanarmi, l’altitudine del bosco. C’è una cima di questa collina, una corona di querce. Salendo s’avvertono soffi d’autunno nell’atmosfera, vapori e vaghe brine che inscrivono già le sue forme future. In piccole spettrali nubi anticipano il tempo, o ne richiamano il corso cangiante da forme sue precedenti, registrate in intangibili sensori della natura. Odore di pioggia di tardo settembre esala dalle foglie d’agosto e i tocchi caldi delle lentiggini di sole calanti dal fogliame. Lingue sbavano sentori umidi dai legni vecchi. Mi avvicino verso qualcosa -forse solo una scarna o boscosa o ugualmente gelida cima di collina-, rimangono qua e là le cose che passano, indietreggiano. Uno scricciolo con le ali chiuse si tuffa da un’alta ortica nel folto dei pungitopo, sparendo inghiottito sotto il mareggiare del verde acuminato. Il piccolo globo del suo corpo sotto le foglie è un’ombra che s’assottiglia, scompare, va a sparpagliarsi con tutte le altre strusciando i contorni delle cose e infine non lascia suoni o tracce sul suo passaggio. Nelle lunghe pause tra il ritmo caotico di legni e cortecce cigolanti, sento solo il ruscello alla base del colle, ostruito dal verde scuro e l’altezza, e il vento che nasce e muore e va in letargo, infinite volte senza stancarsi. Passo sotto molte volute di magri arbusti piegati e viticci penduli che inverdiscono la luce, le danno un olezzo di linfa che mi piove sul corpo quando mi chino e attraverso, varco le molte soglie.
…
Stavo rannicchiato sotto le travi -nient’altro che tronchi orizzontalmente conficcati alle pareti- e strisciando a passetti da seduto mi accostavo a un angolo, a sentire il fresco granitico dei mattoni sulla schiena. Con una mano sporca di terra cercavo di raggiungere la spalla opposta indolenzita, lo strato di pelle e muscoli infiammato per come m’ero piegato nell’entrare. La fessura, aperta e luminosa sulla parete esterna, dove un tempo c’era una porta, era più bassa di me. Un tronco morto caduto giaceva sull’uscio in rigoglio d’ortiche e felci e curve d’edera calanti a terra. L’avevo scavalcato, e là, fermo e dolente, m’ero riposato ascoltando i soffi tra le fessure, ed echi microscopici contro l’afrore polveroso sulle pareti in pietra della vecchia costruzione abbandonata in cima alla collina.
In uno spazio meno fitto di bosco, priva di tetto, la casupola rotta e giallastra si riempiva di sole, rifluito da gambi e foglie dell’edera onnipresente come tessere d’un mosaico virescente. Una singola, minuscola stanza, abbraccio di pietra, piante, raggi. Linee: tra i mattoni, nere e sottili; lungo il profilo di rampicanti sinuose, nel loro nucleo; e ondulate e brune o concentriche sul bel manto liscio e fulvo delle cortecce, quei tronchi messi a trave, trespoli per i barbagianni. Formiche interminabili camminavano sulle loro insenature e salivano ai pori marci di ciò che rimaneva d’un tetto mangiucchiato ai bordi delle pareti frondose. Da sopra e dall’ingresso penetrava il frinire scarso e intermittente di qualche cicala acquattata nelle zone calde là fuori. M’ero poi accovacciato sotto una ragnatela di trama fitta e perlacea, gravida di globi marroni. Si sbriciolavano polverosi, sfregandomi capelli e nuca, brulicavano poi lungo il dorso.
Sotto di me, il terreno s’incurvava, un dislivello erboso che s’accosta alla parete opposta all’ingresso. Un antico gradino forse, riinghiottito dal tempo e dal suolo del bosco vorace. Una zaffata giallastra, portata dalle dita di vento che penetravano tra le pareti vegetali del sentiero, rivelava la vicinanza d’un fienoso campo d’ulivi d’altura, laddove sul colle cominciava una calvizie mediterranea verso la sua facciata occidentale. Allora dovevano essere numerose le casupole di pietra nella boscaglia circostante, vive o decadute, dove s’ammassavano olive in otri, dove cagnoni bianchi si riparavano dai temporali. Dov’erano figure rannicchiate come me sotto le geometrie intessute dai ragni, dalle crepe, dalle ore. E guardando l’abbandono delle travi e del soffitto vuoto, mi figuravo la strega civetta che popolava la casetta selvatica nelle notti tempestose e nelle fiabe mezze macabre mezze farsesche di bambini e vecchie a valle…
(salivano i monelli, intrusi ignari, per i loro giochi sotto i rigogli di luce bucherellante il fogliame, scendevano senza vedere o sentire autunni o inverni. Portavano l’immortale impressione del visibile che come lastre d’aria per sempre si imprimeva nel torace avvolgendo ogni sussulto del cuore, ogni loro vertigine dell’immaginazione: un edificio che gli si era mostrato afflitto dal corso naturale delle cose, dentro un cuore verdescuro e selvaggio del territorio. E dopo averlo visto gli schiaffi del vento sulle imposte di noce tarlato, nelle notti tonanti e gelide, avrebbero mostrato diafane sagome di lugubri voli e occhi come sacri e misteriosi fuochi sparpagliati nel nero univoco della selva risvegliata dopo il crepuscolo; la strega civetta, donna adunca e rugosa, che navigava il cielo cupo e freddo col fluttuante volo lunare. Nella falce ricurva del suo mento sempre si stiracchiava la pelle grigiastra per un furbo sorriso. E sospinta dalla tempesta, sui lembi frastagliati d’una veste fumosa o su un vecchio legno volante, quella infine discendeva sul paese, terra di scarsi lumi fiochi sotto le linee di porte e finestre serrate, e virava nei suoi giochi e perlustrazioni fino ai pressi di case e fienili tendendo lunghe mani rapaci ad accarezzare e sollecitare le magie sopite nei luoghi, spargendo fin nelle camere protette e tremule uno sghignazzo sussultorio. I sortilegi color pece, sbiaditi e fumosi, insiti nelle cose, si levavano ed erano liberati sotto il cielo notturno, a correre come effluvi per il mondo.)
La creatura aveva abitato qua? In un bosco mentale, che esisteva parallelo a questo, proiettandosi da sotto alle radici come un’ombra blugrigia sotto la luna piena? La strega dimorava, nascosta, nelle ombre dei rapaci quando riposavano sulle travi, negli angoli misteriosi quando a passare per quelle zone erano degli intrusi. La evocavano dalle ombre loro, portate dietro dai piedi.
A questo si riferiva il guardiano bruno con i palchi e gli occhi ancestrali? Io portavo dei pesi, la mia ombra, i miei fantasmi. Sedevo come uno zappatore colto da una pioggia improvvisa tutta evaporata in un secolo scorso, accucciato e infreddolito nello spettro di un pungente sentore d’olive, polvere e capre, che aveva aleggiato quando ancora esisteva il tetto. Ed esistevano le due creature partorite dal bosco in ere diverse, non si incontravano: così capii quale fosse la natura del peso di un intruso, il cui ingresso e odore innesca dal sottobosco alle punte dei rami d’alta quota un caos fuggiasco di richiami e passi, e ombre guizzanti e vapori cauti dal ruscello, code frettolose d’arvicole sotto le radici, voli improvvisi sbalzati dal riposo sulle frasche che provocano piccole piogge di ghiande. L’intruso viene nel bosco per fuggire l’umanità, per gettarsi nel cuore antico della terra e tramutarsi, rivestirsi di pelle nuova di bestia, sporco di humus, d’istinto scattante; e invece l’umanità se la porta dietro nei pensieri, in quelli più involontari. Non vede nel bosco un luogo d’assenza, dove non esista altro che quanto si vede. L’intruso vede una casa rotta che è solo abbandono, che è solo silente mucchio di pietre e legna lasciata alle idre rampicanti, alle ninfe, il suolo che infine sommerge e seppellisce negli strati dove dormono ancora, sotterranei, ghiacci arcaici e grotte e bestie sparite per sempre: è solo un edificio morto, e invece l’intruso vi indaga la vita, vede insieme a quel che vede un fumo di sagome in movimento lontano, bifolchi e otri, streghe, monelli, cose che parlano infuriando gli alberi e il vento.
Nasce nel bosco, sopra fiori calpestati, una semenza parassita rara, la vergogna. Non cresce spontanea nella vegetazione naturale, non si attacca in simbiosi alle cortecce o alle cose che si muovono tra di esse. La porto io, in imbarazzo per aver portato tutto il resto e per essa stessa. Per le preoccupazioni, le paure, le definizioni altrui come anatemi. Tutta robaccia che credevo schivata, dietro le fitte file di tronchi, resomi evanescente nella distanza come un’infinita fila di cinghiali che scompaiono mimetici nel bruno e verde irreale dell’orizzonte, in ipnotiche nicchie tra gli alberi. Protetto, credevo, da altri sortilegi del bosco. Ma sembra che non possa sfuggire alle forme del mio pensiero. E assomigliano troppo agli stessi pericoli che intendeva fuggire. Nell’angolo della casupola fatiscente posso udire il vento vuoto che invece di sovrastare insieme a ogni altra cosa i dubbi me li echeggia, soffia indietro; posso udire il mormorio lontano d’un guardiano, di numerosi guardiani, che difendono il bosco dagli intrusi. Non ho incontrato quello del ruscello, e mi domando, a quanto pare non potendomi tacere i ronzii nelle orecchie, quale sarebbe stato il suo comportamento. Di quali difetti mi avrebbe reso consapevole…
Mi rannicchio, chiudo gli occhi, non ascolto, e compongo una forma nota a un nucleo dentro di me, forse dentro alla mia specie, a tutte le creature i cui antenati videro nascere le colline intorno a noi, coperte di boschi.
(guardiano di corrente su sassi bianchi simili a uova. Testa di biscia dalle profondità e gli occhi ciechi, la pelle trasparente d’un girino, le branchie rosse come palpitanti lacerazioni umide e ansimanti al contatto dell’aria. Si leva il collo dalla superficie, scrosciano lunghe barbe di gocce incolonnate che tamburellano ricadendo nell’acqua; è un essere ritmico che sbadiglia gorgoglio di correnti provenienti da un ghiacciaio, in montagna o sotto terra. È antico quanto quel pezzo di mondo, la bocca ricurva da mascella preistorica, paralizzata nel gelo primordiale, non deve ingannare con l’idea, molto meno antica, d’un sorriso. Sento molto vagamente l’eco delle acque, in cima al colle che diventa brullo. Ma c’è, indubbiamente, è uno spirito potente, che ha informato d’umidità l’intero sottosuolo. Non posso sentire quello che mi dice, posso solo vederne la danza ondulata dell’emersione, gli schizzanti nugoli di gerrini rasenti l’acqua che lo circondano, famigli al seguito del capo saggio. Dovrei scendere, incontrarlo? Per vedere meglio, imprimermi sulla retina il riflesso di giada traballante d’alberi capovolti nello specchio d’acqua gelida. Sentire il gorgoglio. Ma se dovesse cacciarmi come l’altro guardiano? Meglio: solo loro sono in grado di cancellare i pensieri e tramutarti davvero, come era successo prima. Officianti di passaggi.)
Vermi d’acqua, come parassiti sulle scaglie della pelle, domandano, e sono parti di me, che mi figuro il guardiano.
(allora, in fondo, l’idea di appartenere davvero al bosco ti spaventa? Ci vieni solo fintantoché sai che puoi uscirne. Ritornare alle cose odiate, parole e proiezioni d’umani, menti come la tua lontane dalle leggi sotto l’ombra arborea che si distende imperiosa sulle altitudini, sulla processione delle stagioni.)
(ritornerai e fuggirai di nuovo, in un ciclo senza soluzione, dove puoi solo ricordare ciò che hai visto e che credi di aver visto, mescolandoli. Perciò rimani ancora a riposare, cosa esausta, tra le pareti della scomparsa umanità. Che non puoi vederla altrimenti. Che è in te l’idea del futuro in cui sarai fuori dal bosco, e di quello in cui ritornerai di nuovo, ogni volta vissuto così. Riposa, rannicchiati, temi il giudizio congiunto del naturale e l’innaturale, creatura che non può capire il presente, senza i palchi e le branchie e gli occhi notturni.)
…
Si sentiva l’odore del fango e il risveglio dei funghi. Prima ancora che la pioggia cadesse dalle nubi cineree giunte all’improvviso, per plasmarsi alla terra argillosa e quella filacciosa sotto i muschi, ogni cosa cantava la prossima umidità, a celebrarla rimbombandola dalle linfe, i più minuti stomi delle foglie, formicai dormienti, buchi di talpe. Presto avrei sentito gocce fredde e informi sulla pelle nuda, e sarebbe parso che il gelo s’acuisse dopo aver attraversato la volta delle chiome. Le gocce, abbandonato il mondo del cielo e penetrato il regno d’ombra, ne avrebbero obbedito ordini d’attacco e difesa; così il richiamo del gheppio, che avevo scorto in fuga lontana attraverso un buco di cielo tra le querce ammassate, voleva allarmare sul mio valico di quell’ultima soglia e insieme sul temporale che mi avrebbe ricacciato indietro, a valle in cerca d’un riparo. Dove erano i miei simili.
Li avevo temuti e fuggiti, li avevo pensati, disprezzando il loro pensarmi, e il non poter pensare le cose selvagge. Ma ne avrei incontrati per muovermi ancora laggiù, in un tempo d’attesa in cui la pioggia imminente non riuscisse così fredda. Da asciugarsi ai fuochi, lumi di fiaccole. E come me che ero lassù, sentivano anche loro tutti l’acqua disciolta nell’aria grigiobianca, fresca, sprigionante l’odore della strada che si sarebbe bagnata, i candidi muri tinti e scuri e azzurrognoli.
Ma erano ancora abbastanza lontani i tuoni, perché indugiassi ancora in quella specie di tunnel, senza saper che fare. Non sapevo su che versante del colle fossi finito. Sarei disceso, per liberarmi dall’intrico, dov’erano i gorgoglii sottili del ruscello, e ne avrei poi seguito il corso. Ma ero perso, dopo una soglia di rami a terra e fittissimo manto d’erbacce e felci alte. Verde e nero accecavano in una galleria d’alberi stretti, che nemmeno prima dell’arrivo delle nubi lasciavano passare il sole. le spine scintillavano da corolle e foglie seducenti, madide, ostruendo i passaggi nel fitto laterale. Qualche rovo sporgeva sulla schiena che procedeva china, e tutt’intorno aumentavano le ragnatele, essendo io entrato in quella grotta. Una grotta viva traboccante di linfa, un ingresso nel mondo più intricato e rigoglioso del bosco.
Aleggiava respiro di fresche acque sotterranee e veleni, e lucori spettrali su zanne di donnola. Era concesso abitare i cunicoli cespugliosi solo con forma sinuosa e dita taglienti. Se avessi proseguito, invece di prepararmi già, mentalmente, a uscire per via del temporale imprevedibile e il timore dei fulmini, cosa avrei visto? Un enorme cuore verde, mostruoso, di polline e pungiglioni? Incastonato tra impenetrabili tende di rampicanti in una conca chiusa da ogni genere di lembo arboreo, spinoso o fiorito, sempre ombreggiante, il nucleo più inaccessibile dov’era l’anima di tutto il bosco… ma prima ancora, un’altra soglia. Avevo cominciato a vedere le capacità della crescita fitta, del buio che provocava: ma non era che un’anticamera. Così, in fondo al tunnel, fin dove potevano avanzare i miei passi, si parava la ragnatela centrale. Le altre che avevo viste, anche solo per un unico colloso filamento, s’irradiavano da quella. Confinata in mano aperta d’un ramo secco enorme, fuori dal cespuglio ostruente il sentiero, le biforcazioni a squarciarlo come pugnali. E sulla tela, dentro incalcolabili spigoli e circonferenze sbavanti e rilucenti, s’apriva ad astro una regina di ragni. Liscia pelle di fuliggine, grande come un cervello, e il suo singolo occhio arancione privo di palpebra, incastonato opalescente nel dorso a riempirlo tutto, mi fissava e mormorava affievolendosi:
-vai viaaaaaaa…..
E la voce era un incanto di cristallo ruvido, geometria perfetta d’aracnide, carezza materna come di ortiche gravide di rugiada.
-più in là non puoi andareeeeee………
E spariva, empiendo l’aria e le pareti pulsati di quella nicchia, si ritirava, dopo essersi mostrata per mandare il suo messaggio, nella sua ermetica vita di cose brulicanti in tenebre scure.
Meravigliato, mi cullai nella voce. Il bosco mi parlava, un suo occhio. Potevo tornare tra gli umani, recando un dono che non appesantiva le orecchie e nemmeno l’ombra. E mentre indietreggiavo, per potermi voltare e lasciare quel nascosto angolo di selva, mi ammaliavo dell’assenza di luce: era un respiro traballante, sia scuro che chiaro, ad avvolgere tutte le forme, di quercia o d’arbusto, trasudanti penombra. E altrove, dopo passi e fughe di terra e aria, discese tra autunni ed estati, c’erano quei cerchi liminali del bosco dove anche in esso pioveva calda, scissa in barriere di fogliame, la luce iniettata di verde.
Yorumlar