Grongo e le sorprendenti capacità d'osservazione
- Milky
- 21 gen 2023
- Tempo di lettura: 31 min
Aggiornamento: 22 gen 2023
Si divertì ancora per un po’ a manipolare quello strano pezzo di scoglio che si era portato a casa da una qualche lontana gita alla laguna costiera, mezza dimenticata, mescolata alle altre gite sparse lungo una linea di tempo così frastagliata da indurlo a sospirare di continuo contro gli effetti snervanti dell’amnesia, e giocare a immaginarsi che ogni fiato esalato fosse un pezzo grigiastro di speranza che se ne andava. Tanto per mettere una firma incontrovertibile alla sua scomparsa e rendere la cosa almeno sopportabile. Girò la sedia cigolante verso la serranda abbassata da mesi, rotta e grondante di liquami d’ombra che negli occhielli suoi come tanti fluidi in una rete rimanevano lì imprigionati e per sempre a contemplare tutto quanto era nella stanza. A contemplare lui che se ne stava là sprofondato nello schienale con il plaid sulle ginocchia, a sentirlo dire, “beh che guardi?”, soltanto per creare un dialogo con qualcosa che fosse all’altezza della sua oscura cagionevole intelligenza, che solo in quel luogo riusciva a raccogliere le forze per potersi reggere e strisciare sicura per incontrare le conferme delle sue conclusioni. Così abbassò anche le palpebre, ulteriore serranda tra sé e l’ossigeno che da qualche parte doveva esistere, a rimbalzare indefinitamente tra i terrazzamenti impalpabili dell’atmosfera, sui marciapiedi e le aiuole giallo malaticcio deprivate di linfa. Il pensiero che ci fossero forze impegnate nel mantenimento di simili cose generò un prurito di disgusto da qualche parte in gola, un’incrostazione di corpi estranei difficile da raschiar via.
(un ricordo molto vago, collocato su una nuvola prenatale, prima del karma, prima della stanza. In un’altra stanza, osservava a lungo il tappeto, la consistenza simile a pongo dei blocchi di un meccano o qualcosa del genere sparpagliato multicolore a scopo ornamentale in un angolo, foglie lunghe di piante in vaso, biancore di scaffali stipati di libri sulla mente e tutte le sconfortanti pulegge del suo marchingegno. Lì su quella nuvola sedeva su un divano, igienizzato per non lasciar tracce del sudore e le squame degli altri prima di lui. L’orologio ticchettava, amplificato, echeggiava anche, con un corridoio di voci appena accennate di là dal muro e la porta scorrevole di legno fulvo, di là in un mondo ch’era tutto un reticolarsi di stanze pressoché identiche, uffici predisposti a una stessa operazione. Lì aveva incontrato ancestrali divinità levatrici. Gli avevano detto: sei una tempesta di immagini metaforiche, le secerni per schermirti da qualcosa che metafora non è. Quando vomiti un profluvio di questa schifezza di rumore mentale, stai guardando da un’altra parte, stai voltandoti da qualcosa che possiedi. Crei una foresta con tutte le sue bestie, ma che ne è della notte ricoperta da fronde e sentieri e occhi scintillanti? Crei una massa d’acqua con il fondale popoloso, ma di cos’è fatta la sabbia? Ricordava molto vagamente di aver tentato rispondere, aver sentito come il solletico un po’ pericoloso d’un ago nel mezzo d’un groppo di qualcosa di simile a sudore che gli si era raggrumato nella trachea, e aver di conseguenza grugnito una risposta pressoché corrispondente alla traduzione sonora di tutto ciò. Dopodiché tutto diventava frammentario. Cos’era quella luce? Lo conduceva fuori da un grembo in cui davvero si trovava allora? Prima delle azioni, prima delle cose, nel limbo? E si sentiva un rumore di traffico e accensioni di luci da sotto una finestra? Diventava tutto frammentario ma gli venne da ricostruire le scene mancanti in questo modo: divinità che lo prendevano a calci, su una chiappa e poi sull’altra, per farlo piombare su un pianeta contundente. Da lassù continuavano a urlargli: sogliola!, e poi: sgombro!, e poi: sardina!, e altri nomi di pesci designati per far pensare a qualcosa che si divincola, spargendo da branchie annaspanti un’acquetta di affanno perenne. Aprì gli occhi. Occhi fissi sempre aperti, anche nel sonno. Scintillavano nel buio della stanza, la nuova sua stanza della sua vita e del suo ritiro, come granelli o infinitesimali frammenti di vetri apparentemente preziosi alle pendici di un vulcano sottomarino.)
La roccia produsse uno strano tonfo nel venir collocata con gesto inconsapevolmente violento sulla scrivania di legno. Gli parve che le tre oblunghe appendici rosa custodite all’interno delle sue cavità labirintiche rabbrividissero per un perverso, delirante piacere provocato dalla vibrazione dell’urto.
(si figurò quella roccia-mollusco, o qualunque cosa fosse, al centro d’un abbraccio salmastro di increspature, ergersi sulle acque recintate a ridosso della costa da fitti reticoli di sabbia limacciosa. Monaci asfissiati dalla clausura uscivano una volta all’anno dalle tane di neve e legno invisibilmente costellanti i colli sporchi e opachi dell’orizzonte irraggiungibile, scendevano fino a quelle mortificanti piane di melma distanti dal cielo per inginocchiarsi in preghiera davanti agli stagni salmastri al cui centro le rocce scure e violacee fungevano da pupilla rugosa, emergendo come in ammonimento di qualcosa d’indefinibile. Quei monaci -li vede, inginocchiati, uno due e tre- sono in realtà pezzi di sé, cioè nonni e trisnonni, cioè totem cioè guide cioè consanguinei che ha cavato fuori a forza da certi anfratti del suo sangue che ha preso a esplorarsi con la mano intrusa in certe mattine pigre, nelle lunghe ore di veglia sotto le coperte.)
Lunghe ore in mantelli di buio, la mano come per domare un prurito si inoltra in orifizi astratti, e lì solletica le cose che dovrebbero rimanere a dormire.
Strascicando dietro i suoi passi il plaid cominciò a comporre una spirale dalle pareti della stanza verso il centro. Se solo non ci fosse stato il letto. Ascolta il mio ragionamento, -sembrava dire in quei momenti rivolto proprio al materasso-, tu sei fondamentale, è vero, tu sei ciò che probabilmente mi tiene ancorato, che seda totalmente l’istinto alla fuga da una situazione stantia probabilmente rischiosa, ma in quest’operazione, che pure è una forma di movimento e dunque non dovresti giudicarmi, anzi dovresti incoraggiarmi, ecco, in questa operazione tu sei d’intralcio. E non sarebbe meglio allora se fossi soltanto un giaciglio d’immaginaria paglia sparpagliata nel centro esatto della stanza, per niente ingombrante, dove io possa rannicchiarmi alla fine della mia operazione circumambulatoria? Stimola il sangue nelle mie vene e i pensieri nei miei sfiniti impulsi elettrici. Ti chiedi dove possano andare a parare? In tutti questi giorni accumulati in cui non sono andati a parare da nessuna parte? Ma non ha importanza, non ne ha affatto, perché, avendomi nel tuo grembo di coperte per tante lunghe sudate appiccicose ore -si rivolgeva ancora al materasso-, sai che a qualcosa devo pensare standomene qua dentro, è anzi tutto ciò che posso fare. E “fare” è bene, no? “Fare” è esattamente l’antidoto alla mia condizione, no? Per far sì che io finalmente cresca e possa lasciare il tuo nido, mamma! -chiamava “mamma” il materasso secondo il principio dell’imprinting: era la prima cosa che avesse visto dalla sua rinascita, da quando aveva aperto gli occhi nel buio della sua camera in un giorno in cui s’era accorto che la serranda non c’era proprio verso di tirarla su, da quando aveva aperto gli occhi su una fitta tenebra in cui s’andavano confondendo la memoria e le illusioni danzanti che l’avevano preceduta. La fitta tenebra era andata sempre più addensandosi tra i muri e il mobilio e il vetro perennemente chiuso del balcone inaccessibile, soffiando quasi, ma d’un respiro rassicurante: lo calmava sentire quel motore mai del tutto arrestato proveniente dal nucleo più profondo dell’oscurità, pareva fili di fusa che andassero dipanandosi dal centro puntiforme attorno cui si raggomitolavano, appositamente per farsi ondine nell’aria ormai quasi irrespirabile e raggiungerlo, solleticargli le narici, le orecchie, i capelli che vi si abbarbicavano in ricciolini d’incuria. Figlio mio bello! Addormentati nella mia pancia bastarda di buio che t’ama, t’ama tantissimo, tanto più di qualunque cosa possa “esistere” (hahahah, rideva quello strano enorme colore senziente frangendosi in pluricefali echi anche tra le rientranze della roccia-mollusco posata a mo’ di souvenir) là dove c’è quell’ossigeno bugiardo, che ti dice di respirarlo così che tu possa refrigerarti i polmoni, sì, certo, ma lasciandoti al contempo nudo, esposto, soggetto alle polmoniti! E nessuno di noi qua dentro -né me, né te, vero?- ha alcuna voglia di morire in modo tanto atroce e antiquato: una pozza di sudore putrescente, ridotto a un verme fradicio e striminzito, ricoperto dei tuoi stessi orribili fluidi corporei, la primissima cosa da censurare in un essere vivente. Che poi è esattamente così che muoiono tutti, indipendentemente dal modo, quindi non pensarci nemmeno a escogitare cose strane.
No, aveva scoperto un modo molto più sofisticato, no, c’era la progressiva sparizione: questo l’obiettivo che in moltissimi modi aveva tentato di perseguire. Scriveva a tal proposito in tantissimi suoi deliri pseudo-letterari che postava attraverso i suoi numerosi tentacoli infiltrati al di sotto delle soglie di schermi blu palpitanti d’elettricità nel buio, che raggiungevano spazi online dove potessero esistere fantasmi d’occhi in grado di leggere, giudicare -e, non appena cominciavano a captare qualcosa di tanto meschino come un s.o.s. all’interno delle sue confessioni mascherate da sogni, prontamente eliminava tutto quanto.
In verità Grongo -questo un nome a caso tra i tanti pseudonimi che aveva adoperato nel firmarsi, tutti del tutto irrelati tra loro al fine di depistare le indagini identificatrici di un’imprecisata entità astratta e onnipresente e indubbiamente malvagia che lo tallonava da tempo immemore- aveva cominciato, la sera precedente (o quella prima?) a scrivere circa alcune cose che aveva trovato sui fondali sabbiosi delle sue intensive esplorazioni dentro il proprio buco di culo, e quasi a lasciar che il file Word s’imbrattasse con il puro colore non edulcorato di alcune cosiddette emozioni suscitategli da ciò che aveva incontrato. E trasformando le proprie dita dotate di branchie in altrettanti pescetti dotati di vita propria, e lasciandoli andarsene sulla tastiera e nello schermo in modo da macchiare il foglio di nuvolette dove poteva veder confezionate e denudate, come dentro palle di vetro con neve, le nebbie interiori, sentiva ramificazioni di un alito fresco attraversargli la muscolatura intorpidita, ricordandogli che un tempo era stata, presumibilmente, parte di un organismo, un meccanismo vivo, mobile, capace di surriscaldarsi. Solo che per importanti sue scelte non ci aveva mai fatto così tanto caso. Il problema, il dilemma di Grongo, era che quell’improvviso benessere, concepito come un albero di cristallina aria semisolida scoperto all’interno di se stesso, con le radici e i rami affondanti nella terra e del cielo d’un mondo mentale che a sua volta si collegava a un’infinità di dimensioni analoghe provviste dello stesso albero -ecco, quello stato somigliante a una terra pura era un benessere che andava immediatamente rifiutato: scrivendone, sentiva che quanto provava andasse subendo un lenimento della propria entità lancinante, bella perché insondabile, e Grongo (che nickname idiota!) detestava medicamenti effimeri. No, se non posso applicare la cura definitiva, e cioè sostituire la mia testa, inerte penzolante stupida in fondo al mio corpo da biscia, e acquisire un’anima del tutto diversa, non ha senso che io “guarisca un pochino”, comprimendo soltanto, mettendomi un tappo ai buchi che ho: tanto vale……
Il massimo valore risiedeva, dormiente in un sonno d’oro nero, nella verità, pura e profonda e impronunciabile, che faceva capolino sgusciando con fare svelto e timido dai buchi della roccia strana, quel pezzo di scoglio con le flaccide polpe senzienti a penzolare a intermittenza, ora fuori ora dentro, facendo credere d’essere una specie d’animale. Sei forse un mistero tu? Cosa fai quando quelle tre dita molli affioranti dalle cavità non sono visibili, cosa fanno dentro te, dove si rintanano? Quale l’estensione dei tunnel rocciosi simili a interminabili grotte che sospetto scavino a fondo nell’invisibile di là dalle tue pareti superficiali, quando vi accosto l’orecchio e mi pare di sentire il boato rimpicciolito d’un mare che mi pare fatto di polvere? Più esteso del mare reale! Che poi sarebbe quello che mi entra nel respiro da sotto il letto e i mobili, insegnandomi a respirare di nuovo.
Dunque Grongo diede fuoco al suo proposito, all’azione che aveva intrapreso, alle pagine che aveva scritto. Ecco fatto: nessuna traccia rimane, online o altrove. Grongo fantasticava le forme quasi ferine del netto rifiuto che avrebbe contrapposto a quanti, agitando le mani con indignazione dietro i loro nickname altrettanto idioti, gli avrebbero detto che si riconfermava un deficiente e un intrattabile stronzo ogni volta che negava agli altri, per una sorta di insensata ripicca cosmica, di leggere le cose che scriveva. Gli stessi poi, con le mani agitate e le voci da piazza, che gli avrebbero detto di lasciar perdere per sempre le parole e il linguaggio tutto e l’espressione tutta se mai avessero letto una sola riga -aaah, com’era bello esser convinti di qualcosa. Perché ti ho mai tradita, roccia mia?, implorava quasi Grongo, ma con la maschera atrofizzata del volto contorta in un tentativo di serenità e sollievo, rivolgendosi allo scoglio in miniatura posizionato sul suo altare. Si sentiva quasi come se, avendo ceduto per un capriccio fulmineo e imprevedibile all’impulso di dar forma verbale ed estetica al groviglio di trappole psicofisiche in cui s’era immerso da tempo, avesse voltato le spalle alla sublime verità incarnata dall’oggetto, la sublime immutabilità di fondo del pensiero, della propria condizione. Oh, perdonami, roccia sacra! Solo a te devo elencare “le mie cose”, le cose che mi pare di scorgere, quelle sfumature che mi si agitano nell’addome provocandomi poi talvolta strani fastidi -che credo abbiano anche, talvolta, una fisicità concreta. Ma non perché tu possa così consolarmi, salvarmi, indicarmi una via, al contrario: sentendo la mia preghiera tu riecheggi quanto è giusta, tu mi insegni che in ciascuna di queste cose è racchiuso uno specchio infallibile, di chi sono, cosa sono, della profonda nera ma oooh tanto bella bella raggelante fossa che è lo spazio e il tempo che si profila davanti a me, che è me stesso, letteralmente me, sto trasformandomi in tutto ciò che vedo. In tutto ciò che mi ucciderà senza pietà. Sia benedetto il thanatos che mi ha reso tanto disastroso.
(i tre monaci inginocchiati, stringendo nel sudore di mani giunte e rosa per il troppo tumulto di sangue il pendaglio del loro ordine sconosciuto fuoriuscente dal cappuccio, cantilenavano una nenia in versi nebulosi davanti all’acqua bassa e smossa, dedicandola alla roccia sacra che s’erano scelti per il rito annuale, sgomenti per la teofania che sopra questa andava galleggiando in sibilanti spire di fumoso inchiostro vivo: un possente re di tenebra, un albero di nettare color degli abissi che spiegava le appendici tentacolari ovunque, stiracchiandosi in un gesto come di chi per mesi è rimasto rannicchiato in postura scorretta su una sedia girevole, o dentro una palla di plaid. Aaaaah, faceva quel demone sacro sopra la roccia sacra, verso il cielo grigio uniforme della laguna, e agitava qua e là le sue grosse liane di biscia, di pesce viscido. Erano profondamente commossi, i pii monaci, dentro i cappucci di stoffa simile per tonalità e consistenza al terriccio grondante da una zolla di muschio strappato. Scesa a piedi dai monti tendenti al paradiso per venerare la pianura, per venerare l’inferno. Pii e commossi carezzavano l’emblema intagliato sul pendaglio, le spire del suo animale araldico districate al di fuori di una pietra.)
Continuava la sua preghiera, inginocchiato, sulla sedia, dentro il fagotto del plaid. A te elenco le mie cose: Le penne per gli appunti e i fogli dello studio stampato e fotocopiato in maniera ricorsiva, senza eco e inconcludente proprio come il linguaggio, giacciono in un angolo non importante della scrivania; la polvere accumulata in leonini batuffoli dalla quale facilmente e senza pensiero distolgo puntualmente gli occhi cadutici per sbaglio, immediatamente reindirizzati verso pensieri d’altra e più interessante, più inebriante natura; la schiena manda segnali spesso esagerati e contraddittori, facendosi a macchie di fuoco in più punti, calmandosi poi, e ancora, sprigiona brividi freddi, corse di ghiaccio su superfici di ruscelli invernali; che altro.. da ciascuna squama di pelle caduta sul pavimento, sempre immagino ergersi specchi carnosi: balzano in su materializzandosi in un flaccido rintocco da quelle pallette di dna morto, e riempendosi d’una sostanza riflettente mostrano numerose accoppiate della faccia e il corpo di un Grongo in diverse fasi della sua bruttura, l’evoluzione dell’aspetto di un Grongo così dannatamente intrappolante da averlo portato a disfarsi di tutti i veri specchi, per vedere se stesso soltanto nell’umile aberrante materia che fa nevicare da pezzi di sé, involontariamente, ogni tanto, che gli scappa di vederla e ricordarsene, ogni tanto; lo schermo aperto sul legno lampeggia e circolano in serpentelli di pixel le frasi che mi divertii a comporre, e rimanendo là, abbandonate, diventano stracci e coperte dismesse sui davanzali dei balconi di seconde case rimaste chiuse a chiave per un tempo indefinibile nella pietrificata quiete d’un paesino arroccato disabitato per tutto l’anno tranne l’estate, diventano roba che non avrei dovuto iniziare, perché nulla dice mai niente, nulla che sia parola e sogno e prodotto della mente e del cuore riesce mai a instaurare il minimo contatto col mondo (disperdendosi anzi nelle nebule e matrici della sua onnipresente barriera); ah, già, il mondo: da qualche parte in un cantuccio della parete (facilmente ignorabile anch’esso) deve esserci una cartina, una mappa del pianeta colorata d’infanzia con la sua legenda di simboli marchiati a fuoco nell’immaginario, il leone sul faccione giallo convesso dell’Africa, igloo ammonticchiati sui cristalli di forfora dell’artico, bastioni austeri sui verdi piattumi mitteleuropei………
(i monaci si commossero, lacrimavano di lava i loro cuori, quando videro che il loro sacro fantasma soffriva -non sapevano se per un’euforia selvaggia o un dolore inconfessato- nel disegnare con nuove dita di fumo le forme che aveva visto nelle sue appartate visioni del futuro; distillate negli anfratti neri del suo tempio di preghiera, quando si ritirava laggiù lontano da discepoli e altri lebbrosi in cerca d’aiuto sulle lande emerse e desertiche di quel mare minerale che, certamente, riempiva il nucleo della roccia da cui era stato emanato, per manifestarsi a loro, dolorante, bellissimo. Probabilmente evocato dal potere insito nelle strisce di carne mobile, misteriosissima, che si riposava e risvegliava nei buchi. Orgogliosi erano, i pii monaci, del loro credo scaturito da reliquie-molluschi, orgogliosi dell’ombra contorta di biscia e pesce che fluttuando lassù, sui loro capi indegni prostrati, materializzava le loro speranze di disfacimento, i loro sogni d’una nuova nebbia nera che calasse sul mondo, per cancellare tutto ciò che in questo era incontrollabile. E queste forme disegnate dal fantasma divino erano un’idea vecchia del mondo, erano sagome senza contenuto di ciò che aveva abitato i continenti, prima che scendesse sulla terra l’ombra suprema a cancellare e uniformare ogni cosa. Tanto vuota era stata l’esistenza fino a quel momento?, si chiedevano riconoscendo le forme proiettate dalle dita di fumo in una sorta di gioco mnemonico. Dagli alberi e le montagne alle bestie della terra e il cielo e le acque, alle torri che sarebbero tutte sgretolate in sabbia -tutto ciò si riduceva ai soli confini, le sole linee. Era bene, era bello che l’ombra andasse a relegare in una prigione chiusa in un passato irreversibile tutta quella vacuità.)
Per inciso, mentre Grongo era intento a elencare "le sue cose", il suo corpo prematuramente invecchiato emise più volte brontolii impronunciabili, di diversa e biasimevole natura, i quali non poterono che rinvigorire i tumulti d’odio verso se stesso. “Come ci siamo ridotti male, amico mio…”, mormorò rivolto a se stesso, per poi sentirsi rimproverare, dalla parte di se stesso interpellata: “amico? Non osare rivolgermi parole tanto affettuose, che schifo”.
(era bene che l’ombra imprigionasse nell’oblio il creato. Ma, allora, cos’era quel lamento grottesco? Fischiava e si disintegrava nell’aria puzzolente di stagno a partire da piccoli vortici di foschia che costellavano le lunghe “braccia” del fantasma, insomma, pareva quasi che piangesse, o che avesse in sé gli spiriti del legno verde quando prende fuoco. Non dubitarono più quando lo sentirono parlare, senza bocca e senza volto, fluttuante sopra di loro, e parve quasi che due lunghi e sottili lembi, a mo’ di braccia, s’incurvassero all’indietro per infilarsi in gesto disperato tra immaginari capelli: “maledetti bugiardi! Bugie maledette! Non era davvero il mondo quello! Ci hanno mentito con le sorprese dei formaggini Tigre e i cataloghi natalizi, ci hanno ipnotizzato dalla nascita! Bugie del cazzo, dopamina perversa e machiavellica! Che cazzo me ne faccio adesso della mia vita? Sto qua a farmi venerare in eterno da monaci che non esistono, inebriati dall’estetica delle mie visioni inconcludenti, distanti dal reale? Ho sorprendenti capacità d’osservazione, amici! Ho osservato una stanza fino a vederci dentro anche quello che ci si nasconde, lontano dagli occhi!”. I monaci ammutolirono e, pur non potendosi scorgere i volti nelle macchie scure che adombravano le bocche dei cappucci, poterono percepire nettamente le espressioni sconcertate che lampeggiarono nel momento in cui istintivamente, per la prima volta nella storia della loro fede, si voltarono tutti e tre all’unisono in cerca degli sguardi degli altri, in cerca di complicità nel dirsi “questa volta non ci ho capito niente”. Ma pio e grande era il loro cuore e per questo accettarono i grandi misteri, le oscure parole che evocavano cose mai viste, provenienti da dimensioni lontane.)
….; l’eco di frasi ripetute a caso, senza alcun controllo, uscite dal nulla, come se ci si aspettasse di sentir rispondere dalle pareti le facce di folletti da cameretta, o si sperasse di compiere un balzo temporale direttamente al delirio che accompagna gli ultimi istanti di una tarda vecchiaia in cui i miei discorsi sono disinibiti, e scorrono, turpiloquienti, veritieri; ritornelli di canzoni; lunghissime sequele di sospiri a ogni cosa sbagliata e stupida detta e fatta in un mondo precedente la nascita, quando c’era una tenebra diversa dalla nuova madre che respirandomi nelle orecchie e nell’ombelico la singola incrollabile nota del suo ronzio mi culla da mesi, sospiri rivolti alle imperfezioni di uno spaziotempo brutto che insiste a incollarmisi dietro come un cordone di karma pregresso indesiderato e insolubile; ah, forse è stato già detto, ma si può sempre ritornare a discutere delle sagome proiettate da quel grande, potente, divino buco nero, abisso aperto là, pronto a spalancarsi ancor più imperioso sotto i passi possibili, se mettessi piede fuori da una stanza in realtà molto più vasta di quella in cui dormo e deambulo e mi siedo male sulla sedia girevole e scrivo e cancello ciò che ho scritto e piango dentro le mani che imitano la forma di una roccia sacra verminosa oscena e…………………
Una stanza mentale senza confini, anzi li ha, ma li espande incessantemente perché è un universo, un universo secondario di Grongo nato dentro quello più grande perché da quest’ultimo si possa proteggere. Patina di cervello. Emozioni e cognizioni, stupide figlie di puttana, lasciatemi in pace: io non voglio più esser vivo, e nemmeno morto in una pozza di vomito e sangue e urla come in fondo sono tutti i morti: io voglio la coscienza dei nonviventi!
Così dicendo Grongo agita la testa nella sabbia di fondale e crea una nuvola, ci si rifugia dentro, sembra sorridere con la piega strana della mascella e gli occhi grigi vacui, ghigno d’un re tursiope nato nella stirpe dei pesci-biscia. Riavvolgendo le spire, si riposa inerte sul fondale.
Ed elenca le sue cose. Le azioni, il karma, i silenzi e i linguaggi entrambi inconcludenti, le voci, le impressioni a cui dà forma per circondarsi di minacce…
(lo spettacolo della teofania nella laguna continuò. I monaci sentirono i cuori colmarsi d’un orgasmo estasiato dal divino, nel vedere come da ogni nuovo tentacolo serpentesco uscissero sagome sempre più nette, sempre più… dotate d’occhi. Questi sguardi s’intagliavano nelle carni di tenebra per rivolgersi, tutti, alla creatura da cui erano scaturite, artefice della sua imboscata. Anche la roccia, lì al centro della pozza paludosa, si contorceva, come una barca scossa lateralmente da passeggeri frenetici, e frenetiche erano le appendici carnose nel farsi ricettacolo di quella proiezione. Videro che l’ombra era fatta di tante altre ombre, era un’ombra che non era mai potuta esistere, in realtà, senza parassitare, senza diversificarsi dalle “facce” delle alte ombre. Un paio d’occhi bianchi lacerati minacciosamente nel fumo di una sagoma appena emersa si avvicinarono svelti al fantasma centrale, il primo esemplare goffo della sua stirpe. Disse, torcendo nel nervosismo mani immaginarie: “uuh, ecco.. lei è una persona amica, di, mh, tanto tempo fa, suppongo…” e quell’amica gli diceva: “fammi la domanda che vorresti farmi”, “ma poi mi odieresti”, piangeva pateticamente l’ombra che perdeva ogni dignità. Ma infine domandò, all’insistenza della compagna e quella sua interna fatta di autocommiserazione e vergogna orgogliosamente indossata: “ti avvicinasti a me solo per pietà, non è vero?”. L’ombra “persona amica” era capace di profondo e perentorio silenzio. E poi di rispondere, infondendo le parole dello stesso sentimento: “non ho mai fatto niente del genere. Ma adesso mi allontano da te. Per pietà.”, ed era tutto un continuo confusionario e melodrammatico così, di ombre amiche e nemiche ed entrambe le cose e un fantasma terrorizzato dal prossimo suo, tanto che i monaci, ancora estasiati, faticavano nel conflitto interiore dato dal contrasto tra la fede e il profondo disgusto che tutto ciò avrebbe normalmente generato in loro. E l’ombra fluttuante, senza alcuna capacità decisa e ascetica di concretare il suo rifiuto del mondo, se ne stava là a contorcersi a mezz’aria, a piagnucolare: “ecco, avete visto? Tutto ciò che io mi sono aspettato nelle conversazioni anticipatorie, alla fine si realizza. Io sono il dio unico della mia stanza, io sono una schifezza!”, e tutto il resto appresso. Uno dei monaci disse che se ne sarebbe andato. Dove?, gli domandarono. Mah, a riflettere un po’, fece, sono molto sconvolto. So che c’è uno bravo in città. Si può prendere un autobus, la stessa linea dei colli. Ci riporta non lontano dal convento al ritorno. Sì? E allora andiamo. E così, andandosene, divennero tre schiene incappucciate color terriccio intagliate sullo sfondo grigio e limaccioso della scena del fantasma affranto, asserragliato da voci che non aveva mai sentito davvero e che costantemente si ripeteva, inginocchiato fluttuante in un cerchio di accuse autogenerate. La roccia sacra pareva nulla più che una palla tumorale di fazzoletti e panni sporchi appallottolati, talmente abbandonata all’inerzia e gli umori che la impregnavano e l’assenza di luce da aver fatto fermentare un’intera coltura di muffe presto senzienti, tricefale, progenitrici di una verminosa idra.)
Grongo mosse i suoi passi possibili oltre la soglia della sua stanza poco vasta, esponendosi al precipizio, la probabilissima cattura da parte dell’abisso sotto ciascun tocco dei calzini antiscivolo sul pavimento.
Grongo emerse dalla foschia tipica del corridoio per percorrere l’ingresso della casa, vuota e calma di mattina. Entrò in cucina e afferrò un bicchiere (già, già, il sostentamento..) che riempì di latte di mandorla. Ebbe l’idea di renderlo più sostanzioso, così che nella fatica postprandiale dell’organismo potesse poi generare allucinazioni nel letargo di plaid e sedia, e così ricevere nuove rivelazioni. Ma nulla andava bene: lo zucchero era bava di lumache di mare, brutalmente assassinate da un abnorme macchinario dispensatore di sollazzi e bugie; il miele era un pezzo di sole squagliato, troppo eccessivo, troppo esplicito il legame tra il suo ingerimento e un conseguente vibrare infiammato d’energia che non si può dissipare; i semi, similmente, erano eccessiva autocoscienza dei processi digestivi, della propria capacità di sporcare, inquinare, lasciar tracce di sé su questo mondo; i biscotti, invece, erano la domanda ossessiva e senza risposta insita in ogni loro briciola e particella, ogni atomo proveniente da una spiga che è esistita, che è stata recisa, che è stata compattata e cotta e in tutto ciò passata per mani di agenti sprofondati in anonimia, che sembrano dire a ogni morso e tocco delle labbra “per te, solo per te è sgusciata fuori dal suolo questa spiga, e adesso la cancelli, per sempre”. Nella dispensa non c’era proprio nulla, insomma. In compenso sul tavolo molleggiavano indolentemente certi batuffoli di polvere, impossibile dire se fossero sporcizia residua di pasti passati o se fossero autentica polvere grondata da soffitti e angoli. Grongo afferrò due tre batuffoli di polvere e li inzuppò nel latte di mandorla, lasciandoli poi sprofondare e amalgamarsi in un composto dove era piacevole vedere dei corpi esterni perdere i propri confini con il bianco circostante.
Assaggiò: vago sapore misto di sabbia e cacao. Non era un buon sapore. Però era così familiare da far venire il mal di testa. Come leccare la membrana invisibile d’elettricità statica che si assemblava sempre davanti allo schermo di un vecchissimo televisore, chissà quando, tv di una cucina color tramonto collocata su un mobiletto accanto alla boccia del pesce rosso. Come carezzare con la lingua, a colazione o dopo cena, quella membrana che ha qualcosa di minaccioso, il rischio della folgore. Oltre la quale s’agitano fotogrammi di un bue antropomorfo e una tartaruga, colori assuefacenti, note musicali che sembrano sfrangersi e materializzarsi, bellissime e tangibili come tempeste di pollini, in quadratini e strisce luminose, che scendono, che percorrono dall’alto al basso lo schermo, che sta guardando, che sta incidendo se stesso dentro chi guarda ed è guardato: in una parete dentro te, in un istante prima del sonno, mi proietterò ancora nei tuoi schermi neri, striscerò indisturbato sotto le tue sinapsi, sottenderò ogni tua futura percezione e interpretazione. Notte, è notte oramai, tardi, è tardi lo sai. E poi un ultimo fotogramma di righe colorate verticali, un theremin arcobaleno. Grongo si ricordò che nel mondo prima del karma, anzi, in una delle sue ere più distanti e irreversibilmente imprigionate, addormentarsi era stato simile ad annegare in una nuvola bluscura di carezze, i tocchi interminabili di mani di un banco di tritoni e sirene in un fondale dove le mani non erano minaccia. Grongo ricordò che il sonno di quella notte era stato discontinuo, visitato insistentemente da identità multiple della catastrofe -anche lei era probabilmente in crisi, e stava “a farsi le pippe sul ricordo dei cartoni della buonanotte”, ma almeno era salda, persistente. Non come lui, non come te, Grongo, che puoi solo guardarti dentro e trovare, cosa, una lisca e qualche lamella di branchia? Non come me, che non trovo più niente da nessuna parte, disse Grongo, parlando da solo, al tavolo della cucina dove biancheggiava sporca e polverosa una macchia di latte di mandorla sgorgato da gesti letargici e imprecisi.
La visione ripetuta dei cartoni animati era diventata un'attività vuota. La lettura, la scrittura, la visione dei film ormai ridotti a fotogrammi muti e senza volto dilatati attraverso lunghe ore, perfino la tanto amata immersione in paesaggi soggettivi scevri delle imperfezioni del reale e linee accidentate... Grongo sentiva ai lati del collo l’accumulo gravoso di un’acquerugiola simile a fiatone quando si metteva a fare ogni cosa che aveva sempre fatto, che aveva amato fare. Bevuto che ebbe il latte di mandorla e polvere, fece per ritornare in camera, dove se non altro gli rimanevano gli altoparlanti del pc. Ma la musica poteva tradirlo, farsi della stessa natura emicraniale dei biscotti: numerose anonime esperte mani l’hanno estratta da strumentazioni, studi pieni di pannelli di controllo costellati di bottoni e regolatori e levette e display indecifrabili, simbolo di quanto illusorio sia il sapere, o perlomeno, quanto fuori dalla portata di Grongo, simbolo di quanto Grongo rubi e si porti nella sua tana le cose fatte da sconosciuti carnosi spettri che vivono, si consumano, sono mossi fin dentro l'anima da qualcosa che Grongo nella sua anima non ha. Ma la musica, almeno, gli diceva: “dorme chi non ha niente a cui pensare, perché dormire quando posso pensar male?”, la musica, almeno, gli diceva: “dentro di me non c’è niente di niente, miliardi di mondi esistono ancora, migliaia di vite per fallire ancora”. La musica gli diceva che anche chi stava barricato dentro Il Muro poteva godere di second sight, e diceva che il Vero Amore Attende, in qualche posto chissà dove, infestato di immaginario, di insoddisfazione irrisolvibile.
Dunque, andiamo a ricevere, a iniettare, somministrarci. Syd Barrett era un pesce biscia ghignante anche lui.
Il telefono squillò improvvisamente, come se Grongo, passandoci davanti nel ripercorrere in corridoio gli stessi identici passi dell’andata, l’avesse risvegliato. Un brivido animalesco gli si propagò dalle spalle alle vertebre quando, perdendo del tutto la ragione, fendette con il braccio la penombra del corridoio e afferrò la cornetta di quell’anacronistico telefono fisso, figurandosi lo scintillio di predatoria bramosia negli occhi rossi dell’apparecchio sempre accesi e pronti all’agguato anche quando tutto è assente e sparisce, quando tutto sprofonda facendosi indistinto nella quiete immobile nelle viscere dell’appartamento. Vuoto di mattina, vuoto sempre in qualche sua parte, a ogni ora. Pronto, disse Grongo, sentendo uscir dalla voce roca quella roba che l’aveva grattata in risposta a certi pensieri, capaci di influire sul corpo.
-pronto?
-…
-pronto?
(siete forse i ladri?, avrebbe voluto aggiungere Grongo. E perché no, in fondo era stato tanto incauto da rispondere, colto da un impulso totalmente senza senso.)
-….
Grongo, per straordinaria intuizione, colse nella punteggiatura solitaria profferita dal misterioso interlocutore la composizione della stanza in cui si trovava. Una stanza che conosceva, una parete illuminata solo dagli occhielli della serranda affacciata su una via soleggiata del centro, una stanza arancione. Risalente a prima della rinascita.
-è il signor Grongo?
Rabbrividì di nuovo, molto più seriamente. Questo sì che era un brivido serio, tutt’altra storia rispetto a quelli che gli procuravano i suoi viaggi da fantasma. Peggio di qualsiasi laguna salmastra in cui si radunassero oscuri adepti a venerare le rocce oscene, strumenti della sua evocazione. Peggio delle deprimenti verità cui perveniva laggiù.
-pronto? Grongo, mi dica, ce l’ha la lingua o no?
-..s-sì, sono io..
-come pensavo. Mi ascolti, Grongo. Sono ***- (Grongo dimenticò immediatamente il nome di quella donna dai modi governati da pragmatica intransigenza) -e la chiamo per conto del suo operatore. Lei sono mesi che ignora le nostre offerte. Sono offerte vantaggiose, che facciamo per lei, solo per lei, che è nostro cliente da tanti anni.
(ah sì? Sono cliente da così tanti anni?)
-perché le ignora? Non fraintenda il mio tono: questa non è una minaccia.- (lo era.) -vogliamo solo capire.
Grongo si rese conto presto che non l’aveva veramente chiamato “Grongo". Era un altro suo nome, dal sapore quasi nostalgico e tanto tanto goffo e inadeguato, cui era diventato semisordo. L’orecchio interno dell’orecchio interno aveva ricombinato a proprio piacimento i fonemi per fargli arrivare, semplicemente, il nome in cui più convintamente s’era identificato in giorni senza convinzione. Ma averlo capito non era abbastanza da procurargli sollievo.
Un clacson e un’ambulanza scivolarono via, si disintegrarono nelle vicinanze del posto in cui si trovava l’interlocutrice.
-era un’ambulanza quella? Mi scusi, ma dov’è?
Grongo si stupì di aver fatto quella domanda. Si era vomitata da sola, senza permesso. Che diavolo stava succedendo a Grongo, da un po’ di tempo a questa parte? Gli sembrò d’avvertire un mutamento d’espressione nella faccia, un po’ abbronzata tranne che in corrispondenza degli occhiali, della donna dall’altro capo del filo -una condizione, questa, che di norma sarebbe bastata perché Grongo non vedesse affatto l’abbronzatura e gli occhiali e i corti lisci capelli tinti di rubino della donna misteriosa, né il suo abito zebrato, né la penombra che l’ammantava tutta in quell’angolo della stanza arancione, ora rifulgente ora dormiente nelle luci e ombre del centro urbano. Un distacco freddo l’aveva prima disarcionata, e poi riportata allo stesso atteggiamento di prima, nella necessità di avere il controllo della conversazione.
-...questo non la riguarda.
Silenzio di nuovo. Grongo sentiva un orologio ticchettare lontano. Prima della vita e dei ricordi. Prima che la serranda di camera sua (aspettami, cameretta mia: sono caduto in una trappola. Ho sempre ragione, quando parlo dell’abisso, infido bastardo: uno dei suoi stratagemmi mi ha imprigionato) si rompesse e rinchiudesse per sempre il buio assieme a lui, compagni sul letto a una piazza e mezza.
-perché non legge nemmeno i messaggi? Perché lei non li legge, lo sappiamo. È inutile che finga.
-mah, è che…. non mi serve granché. Ho poche esigenze, in generale.
(è che, cara signora, io sono uno stregone segreto che emigra dai confini del visibile e tangibile, e con lo spirito si tuffa là sotto dove si contorce la base tentacolare di tutte le singole cose, e della singola cosa di cui queste non sono che membra stanche, intorpidite. Lei non è che un braccio dell’inferno. E io sono un braccio, stupido e col mal di schiena e inconcludente e pervaso da ridicole crisi, ma mi vedesse quando mi ricongiungo alla mia originaria ombra, e vibro di tenebra ancestrale: lì soltanto divento vero, lì soltanto io vedo, e vivo. E allora, mi perdoni, ma le sue offerte, che sembrano a lei così urgenti, sembrano a me un po’ lontane dai miei interessi primari.)
-crede di essere divertente?
-no…
-ha la lingua tagliente?
-..nemmeno.
-e allora mi ascolti. È facile, perfino lei dovrebbe riuscirci.
(ma tutta questa confidenza? Ci conosciamo forse? La risposta è sì. Io sono stato in quella stanza. Io so chi c’è con lei. Dietro una porta, su un corridoio stipato di sedie con gli schienali attaccati alle pareti color caffelatte, stanno in fila a origliare divinità prenatali. Tendono l’orecchio alla porta, alla conversazione telefonica, per loro una succulenta prova che io ancora esisto e disastrosamente cerco di trovare un modo mio, personale e sicuro nella tana, di farlo. Voi mi avete cacciato a calci nel culo dal limbo e adesso vi divertite a vedere come me la cavo, non è vero?)
-deve soltanto inviare: SI. Non dovrei dirglielo visto che è tutto scritto nel messaggio, ma a quanto pare con lei non c’è altro modo. Si è stancato perfino di leggere i romanzi e i fumetti, figurarsi un messaggio, non è vero? L’offerta si attiverà e rinnoverà in automatico, se il suo credito sarà sufficiente, naturalmente. È bene che controlli il suo credito. Glielo ricordo, perché lei se ne dimenticherebbe. Quanto all’offerta, mi ascolti di nuovo. Hey, sta ascoltando? Si distrae troppo. La prego di non inseguire i suoi pensieri mentre parla con me: ne conosciamo il contenuto, e possiamo garantirle che non meritano tanta fatica.
Grongo rifletté, più velocemente del solito per esigenza impellente, sul fatto che un simile scambio con un’operatrice -o qualunque fosse la sua mansione- tanto aggressiva poteva voler dire soltanto una cosa: la conferma che era cascato rovinosamente in una trappola progettata in combutta dalla sua autosuggestione e quelle parti della realtà che veramente assomigliavano alla sua autosuggestione. Il momento della prova da superare, in quella storiella della mattina senza capo né coda.
-quanto all’offerta, deve stare tranquillo: l’ultima che le proponiamo è la più conveniente. Glielo garantisco io. Non c’è nemmeno bisogno di confrontarla alle altre, faccia come dico.
(nel corridoio arrivano pure i monaci, si siedono sulle sedie pensate per i clienti in attesa. Ha finito?, chiedono agli dèi riguardo me, il cliente oggetto di ispezione, analisi, operazione in atto in quel momento. Aggiungono pure di ricordarsi di quando ho “dato completamente di matto”. Io sono il dio d’ombra caduto chiuso nella stanza, mi potete immaginare, anzi vedere, oltre la porta chiusa nelle vibrazioni telefoniche, mentre una misteriosa operatrice dall’accento marziale e incrollabilità d’obiettivi si sta occupando di me, della mia autopsia. Vedrà aprendomi in due che mi sono nutrito di svariate deliziose forme del nulla, procacciato con fame spasmodica in rari slanci proattivi.)
-lei non ha motivo di accettare una qualsiasi altra offerta. Sarebbe solo uno stupido.
-e infatti…
-ah, adesso non mi faccia incazzare. Lei è noiosissimo con questa storia, lo sa? Sempre a darsi dello stupido, stupido. Sta guardando dall’altra parte, non è vero? E mi guardi in faccia mentre le parlo! Mentre le do una lezione!
Per una buona volta Grongo si decise a reputare assurdo quanto stava ascoltando, quanto gli stava accadendo, restaurando la distinzione netta tra i deliri onirici e le cose esterne.
-..no, non è che sto guardando dall’altra parte, è che…
(..è che io ho ben altro dall’intelligenza, io ho una sua forma aliena, simile alla sensazione che si ha, vedendo apparire al centro d’una stanza normalissima, una pietra estraniante di forme mollusche, di appendici palpitanti e vive, assurta a idolo della propria ricerca. Una ricerca immaginifica. Perché la ricerca emotiva è una fonte di dolore così ovvia e roboante da sembrare esuberante quasi, va bene, possiamo anche ammetterlo, ma……)
-e la smetta con le scuse.
(la smetto di ficcarmi dentro quella pietra e cercare le parti di me che assomigliano ad anguille. Ho cancellato i miei scritti, quelli che avevo firmato a nome “Grongo”. Non sono un re di bisce e pesci, il ghigno congelato sul mio volto non è dovuto a una mascella da tursiope. È una smorfia. Dicono, loro là fuori, che si possa essere monarchi soltanto del proprio destino, e non d’animali allegorici. Questa è la smorfia di chi al destino ha rinunciato e si limita a guardarlo proiettato, in forme danzanti fantastiche, come interminabili film che per abitudine vengono visti sempre prima di andare a dormire, cullandosi col rumore del proiettore, della fragilità della pellicola. Del respiro della tenebra madre. Adatta al cinema.)
-lei è timido, eh, Grongo? Peggio per lei. Anch’io lo ero, crede forse di essere speciale? Tutti lo eravamo. Poi ci si sveglia però. O forse non tutti si impegnano. Mi sbaglio?
-mh.
A un tratto a Grongo venne un’idea.
-senta, il fatto è che ho lasciato la pentola con la pasta sul fornello e…
-ah, alle undici di mattina, si anticipa il lavoro, eh? E dire che non mi sembrava così diligente. E va bene, allora, mi dica un po’: come la condiamo, questa pasta immaginaria?
Era stata un’idea stupida. Ed era stato davvero un colpo basso, da parte di lei, quello di dire che ore fossero. Ma Grongo fu mite -confuso, ma mite, nel tastare come un cieco in cerca di parole, scappatoie dagli ostacoli che s’era gettato da solo davanti. Come ci fosse una seconda testa d’anguilla deficiente sgusciata da una sua branchia, una testa piena di merda e dispetti che usciva fuori a sabotargli il prosieguo non movimentato della vita quando meno se l’aspettava.
-…beh, allora, la pasta…. pensavo, intanto, l’olio…
-mmh mmh. Certo. Fondamentale. Poi?
-mmh, sì. Sì, l’olio, dicevo, e pooooi…. eeeh, l’aglio, e poco scalogno…
-che gliene pare di un po’ di bottarga?
-mi scusi, non mangio carne.
(perché cedo un dettaglio personale, un pezzo di me, a una tale stronza?)
-la bottarga è uova e pezzi di pesce. Non sono uova di bue né di tartaruga.
-non mangio pezzi di animali, come le devo dire..
-aaah, e come pensa di entrare in connessione con il prossimo?? Come pensa di sentirsi parte di qualcosa, eh?????
-ecco, a tal proposito…
-lasci perdere. Lo so, io, in che maniera pensano quelli come lei, sa? Vada avanti. Olio e aglio e scalogno, e poi?
-….e poi, beh… la polvere….
-eh?? Come ha detto?? Le hanno mai detto che deve parlare più forte per farsi capire dagli altri?
-la polvere, dicevo. Quella che ho trovato sul tavolo.
Nel silenzio che seguì per l’interezza del minuto successivo a Grongo parve di udire lo sferragliare di auto o forse treni che si susseguivano nella strada sotto la finestra della stanza dell’interlocutrice. E un orologio, che continuava a ticchettare, nascosto in corridoio, o nella stanza là, oltre il filo attorcigliato, astratta e irraggiungibile, e nella stanza prima del karma, e nelle lagune e le montagne, e negli organi interni e nei vuoti da loro lasciati. Contemplò il ricordo, ricostruito, dei pattern sul tappeto a lungo fissati quando prima della rinascita era stato tante volte in seduta, una terapia lunga che nella sua percezione era diventata inseparabile dall’attutimento, inoffensivo e agrodolce come l’imbrunire, del traffico lontano, del tubare dei piccioni del centro e l’accendersi di luci, sempre l’accendersi di lumicini fiochi nella sera del suo immaginario. Tutto condensato in un tappeto che fissava per cercare risposte. Fissò i ricciolini rievocati del tappeto in attesa della risposta.
-bene. La polvere, dice. Bene. Allora le auguro di strozzarcisi. Buona giornata, Grongo.
Detto questo, agganciò. Il segnale intermittente della linea chiusa palpitò per cinque volte la sua squillante e disturbata tachicardia, prima che anche Grongo calasse con un sonoro schiocco la cornetta nel suo incavo, nello stesso automatismo che l’aveva fatto rispondere alla telefonata indipendentemente dal suo volere.
“ah, e accetti l’offerta, perché non ha scelta”-, gli parve che così aggiungesse tra i denti il telefono, bestia di nuovo in letargo, un’ultima volta prima d’assopirsi. Una forte retorica di sconfitta-vittoria impone a quei nevrotici intrattabili esseri che vi sono immersi di cercare di averla sempre vinta. Grongo pensando a ciò mormorò un soddisfacente e liberatorio vaffanculo sfregandosi i molari e se ne andò ammantandosi del fruscio del plaid verso la sua camera.
…
Grongo compilò il numero senza alcuna memoria d’averlo mai appreso, istintivamente. Corrispondeva certamente, senza necessità di conferma, al numero che era apparso su Google in seguito alla sua ricerca, “possiamo aiutarti” aveva detto il motore di ricerca, porgendogli le cifre ben stagliate sul grigio metallizzato della navigazione in incognito. Squillò due volte. Interminabili pause. La sera -sua seconda emersione battesimale dal corridoio- profumava di docce, bidet gorgoglianti di saponi intimi, luccicanti colate di pioggia su un asfalto nero pervaso dal riverbero di fanali e lampioni cristallizzato in tanti frammenti simili a nevischio, coriandoli desolati dopo un carnevale. La sera odorava di orologio e nero e giallo che in maniera più accesa tornavano a combattere tra corridoi e mobili, finestre, serrande rotte e non rotte.
-ha bisogno d’aiuto?- rispose subito, dall’altro capo, l’operatrice con cui aveva parlato quella stessa mattina. O era stata la mattina del giorno prima, del mese prima?
Era lei.
-….ah.. io… ecco, veramente.
-mh. È lei…
-……sì.
La donna sospirò a lungo. Sospirava anche lei!, si meravigliò Grongo. Se la figurò accasciarsi un po’ più a fondo, un po’ più scriteriatamente, più scomodamente, nella poltrona vicina alla finestra della stanza arancione, ora illuminata dall’alta lampada simile a un attaccapanni in un angolo.
-e va bene, Grongo. Come sta?
-ma è sicura che….?-, chiese Grongo, domandandosi se fosse tutto normale, se quella donna mai vista ma riconosciuta consumasse se stessa in due lavori tanto diversi, o se non fosse stato tutto semplicemente parte dei meccanismi sottesi alla trappola in cui era precipitato.
-sicurissima. Può dire quello che vuole.- nella sua voce nessuna traccia di rimprovero, ma nemmeno di compassione. Ricordava un giudice imparziale che attenda di ascoltare la ritrattazione di un imputato, in egual modo aperta alle possibilità che dica il vero o il falso.
-allora, perché ha chiamato, come sta?
-eh, insomma…
-allora torniamo alla prima domanda. Perché ha chiamato?
-…io non lo so. Non capisco. Mi farete del male, o mi aiuterete?
-nessuno le farà del male. Lei si fa del male da solo, Grongo. Sempre.
-ma non posso certo abbandonare le manovre caute, la certezza che il mondo sia spietato…
-su questo non posso darle torto.
-ecco, vede? Ogni volta che interagisco posso uscirne solo più confuso. Prima sembra incoraggiarmi, dirmi di avere speranza, poi, quando le mostro la mia verità, terribile, mi dice che è la verità di tutti. E se al contrario m’avesse detto che è falsa, mi sarei sentito isolato, in fondo a un cosmo glaciale. E lei avrebbe tentato di consolarmi, mentendo. Ogni volta che parlo con qualcosa che non sia me stesso…
-ma cosa vuole che le dica, Grongo? La vita è fatta di questo. Lei deve solo sforzarsi. E non è vero che non è capace, sforzarsi è anzi l’unica cosa che sa fare. Solo che gli sforzi suoi, a volte, entrano in conflitto con quelli degli altri, e se questo è un motivo per andare ogni volta a chiudersi in camera, lo dico per lei, non ha speranza: la sua camera non la segue ovunque, lei non è una chiocciola. Deve accettare, come le avranno già detto. Non deve prendersela a male se l’altro si sforza di farle accettare un’offerta, per esempio, e lei si sforza di rifiutarla. È così che vanno le cose. Tutti si dimenticheranno di lei. Nessuno andrà ad annusare le sue tracce su questa terra, cercando vendetta per il fatto che è esistito.
Benché ci fosse ancora qualcosa di sospetto negli intenti dell’operatrice, Grongo poteva vederla sospirare, essere sincera sulla sua poltrona. E sentì di nuovo in sé il respiro di un albero d’aria pura, dai molti contorcimenti di rami e radici, nel ripetersi mentalmente l’ultima frase, il modo in cui era riuscita a dirgli una delle cose più rassicuranti che potessero venirgli dette. Che desiderava gli venissero dette, un desiderio che non sarebbe nemmeno mai riuscito a formulare.
Nessuno cercherà il mio odore. Nauseabondo nella camera in cui da parecchio non cambio l’aria.
-perché ha chiamato, Grongo? Stava per compiere qualcosa di scemo e irrimediabile?
Sgomento, Grongo mandò giù un groppo di bava. Orologi e finestre esistevano, tappezzavano ogni cosa. Corridoi esistevano dentro ogni cosa. Dentro le rocce sacre e riconsacrate al proprio isolazionismo, dentro le voci roche, dentro le conversazioni, dentro le pause.
-no. Non credo. Io ero solo curioso di sapere cosa m’avrebbero risposto.
L’operatrice, ancora, sospirò, più a lungo di prima. Gli occhi chiusi in meditazione accarezzavano le lenti rettangolari con le ciglia spioventi, come a rimuovere dal vetro organico una patina impercettibile di polvere.
-va bene. Non si preoccupi, è una cosa molto comune. La maggior parte delle chiamate, a dire il vero.
Grongo annuì. Sentì all’improvviso che era stata una giornata stancante. S’accorse d’avere muscoli e polmoni logorati, e un desiderio di accasciarsi sul letto. O sulla prima cosa che trovava. Il pavimento del corridoio, per esempio.
Sollevò il telefono dal mobile, e facendo attenzione che la spina non si staccasse, l’adagiò lentamente a terra mentre anche lui si calava verso il basso. Intanto, elaborava la sua prima o seconda richiesta.
-senta, le dispiace se… mi sdraio un po’, e stiamo semplicemente un po’ qua, come dire…
-in silenzio?
-sì.
Sospirò.
Insieme, Grongo e la cornetta del telefono, entrambi con l’addome rivolto al soffitto, ascoltarono il ronzio di fondo; il traffico rimbombante fin dentro le pareti, i gorgoglii di tubature che ivi incontrava; gli inafferrabili respiri della polvere che invisibile grandinava ovunque; il respiro dentro loro, la molle fragilità dei contenitori; il sangue che scendeva verso la testa, facendole credere di percepire con inusitata intensità il movimento dell’intera terra, il cui perno girava, proprio in corrispondenza della schiena, là sotto di loro, sotto il pavimento. Dove non c’era all’improvviso nessun piano di sotto, nessun appartamento, nessun’altra stanza. Solo il vasto vuoto della gravità, il vuoto al centro di un loop mai arrestato.
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