grano verde
- Milky
- 26 lug 2022
- Tempo di lettura: 24 min
Non so cosa andavano a fare, lui e altri uomini sul monte. Ma so che nella mia mente ha l’aspetto di un soldato. Tutti erano soldati, tutti con il fucile in spalla. Imprimeva un peso sulle ossa e i muscoli, un peso misterioso che pareva sconfiggere tutti i misteri acquattati in montagna nei boschi e nei ruscelli, di diversa specie. Il suo mistero era quello di risucchiare, segretamente, tutta la vita che nei muscoli e nelle ossa scorreva. Eppure, rimaneva ancorato alla spalla, continuando a farsi portare per mezzo d’una persuasione di ferro freddo e letale. La guerra era finita. Nessuno doveva portare fucili, eppure ancora tutti li portavano. Segnavano con un marchio arrossato le spalle, e un altro marchio dove non si poteva vedere.
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La marcia si inerpicava lungo i bordi dei campi bianchi, e le tozze e corpulente colline del mezzogiorno, una brulla l’altra boscosa, si rivelavano in certi punti più ripide e austere di quelle autentiche montagne di roccia che nell’entroterra perforano il cielo, lo fanno sanguinare e piovere. È per quel cielo che i contadini vedendo i rilievi vogliono salire a pregare, ergere croci che anche dalla pianura si vedono allineate sulle cime. Avrebbero trovato una croce? Non ricordavano e non sapevano, il colle che chiamavano monte era alberato sulla sommità. Avrebbero dovuto cercare un po’, trovare prima ancora delle croci le loro lunghe e deformate ombre a far da meridiana su una gialla radura che si fosse squarciata, come una gola salmodiante in preghiera al fieno e al pane, sul loro cammino. Alle pendici, che si apprestavano a scavalcare, onde di canicola ad annebbiare la vista. Caldo torrido frazionato solo dalla vacillante ombra intermittente di un compagno che prosegue più avanti. Ombra frazionata solo da orme, piccole orme di passaggio da un estremo all’altro del campo. Lungo il bordo verdeggiante, si allineavano alti e spinosi gli alberi liminari della foresta che discendeva su un intero lato del rilievo. Ritmicamente accordava il respiro, i passi, l’affanno crescente. E il fucile appeso minaccioso urtava le sporgenze ossute del bacino, delle ginocchia, dello zaino portato per una sola cinghia così da fargli spazio, farlo spadroneggiare sul dorso e su un’intera parte della sua persona fisica. Ti do il mio corpo, gli diceva, la mia divisa, ti do il mio nome. Te l’ho dato per troppo tempo e ancora quando ho paura sono spinto a ridartelo, a fare con te questo patto. Così, a ogni passo, una presenza dietro, pronta a sparare. La gola doleva in quello sforzo di respirazione forzata.
È così che immagino quei momenti, leggende sfumate nel tempo, negazioni, occultamenti.
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-portati questo. Le tue parole sveglie non ti serviranno-, gli aveva detto, come se ancora fossero ai tempi della guerra, della prima adolescenza. Qualcosa in agguato, lì nei posti in cui abbondavano i nascondigli e le imboscate, occhi in osservazione dal buio. Qualcosa capace di attentare alla loro pace, distruggere gli incontri d’amore recidendo irreversibilmente il filo teso nel cuore della loro distanza. Lei giù al fiume, al mulino, lui su, a continuare quella estenuante marcia. Per far che? Per difendere cosa, per mirare a cosa? Non erano rassicurazioni sufficienti, quelle date da simili domande legittime di quelli che cominciavano a passar di là, sempre più di frequente, tra le campagne e il paese, gente in pace che vuole godere la pace, ergendo per essa monumenti e infrastrutture dello stesso piombo e ferro che avevano scintillato il Gloria alla guerra, appena qualche anno prima. Domande legittime ma ignoranti. Solo chi è dentro, chi cammina sul confine col monte e col fiume, ancora marchiato delle armi, può conoscere quella tensione, tale da portarsi ancora il fucile ovunque ci siano cavità e tunnel e macchia selvaggia. Come ombre abbattute di bovini sacrificali si impegnavano, in fila risalivano, sparivano lassù. Riapparivano più tardi. Così erano tutti gli uomini che salissero per cercare qualcosa. Così devono diventare anche loro che salgono, e che si spera scendano.
Portati questo, gli aveva detto. Un gesto che si dirige deciso nel palmo della mano di lui, il palmo di lei chiuso sul suo e un piccolo oggetto sembra luccicare nell’oscurità color carne prodotta all’interno, piccolo cuore che sembra vivo. Freddo al tatto ma attraversato da linee, ruvidità complicate, cardiache. Legno inciso. Qualcosa di antico, troppo antico che non si può nominare. Ma fortunatamente anche il figlio del Padre nacque e morì nel legno. Il legno è buono, il legno è buono, non ti preoccupare, che ti protegge, si diceva lui, immaginandosi bene che fosse proprio lei, parole devote e ispirate d’amore, a dirglielo. E la forma che il legno ha, in quest’opera intagliata, questo talismano: ali aperte e becco: esemplare di spirito santo. Anche questo è buono, anche questo è buono. Per quanto, dalla forma, possa assomigliare più a… una civetta?
Cerca di scacciare un lampo nero di suggestione, ricordo di storie udite. Vedere circoli nell’aria di cavalli pazzi, rubati dalle stalle in prodezze notturne degne d’un predone, celebrate da stridule risate. Tutti conoscono il loro arrivo gridato sotto la luna nuova, brigantesse esperte d’erbe e numeri. Vederle ubriache attorno al noce della città antica dei normanni, circoli continui, circoli continui. Il tempo è un cerchio, non lo sapete?, così dicono, salmodiando ai loro dei, queste e altre cose dicono loro in formule che sono veleno per le orecchie senza peccato, le si bagna con l’acqua santa a ogni festa patronale, di tutti i paesi che costellano la campagna. Costellano: ovvero disegnano una buona stella del mattino sulla nostra geografia -aumentano luci elettriche, s’aggiungono alle ombre degli steli fluenti sopra la strada le ombre di fili sospesi. Stella del mattino con punte che cominciano a brillare sempre più numerose e accese nel buio eterno dei secoli, che dall’inizio dei tempi soffiava tra campi e foreste, sull’acqua scura del fiume di notte.
Scaccia il lampo nero della suggestione. Donne che portano nelle vesti logore ma ipnotiche e nei denti scoperti lo sporco e il proibito, scappano e si sparpagliano per tornarsene a popolare le fervide febbri di paganità scese da rupi nordiche. La fuga solleva da quelle vesti d’aracnide un vento scuro che ha odore di carne e liquori dedicati alla caccia: l’olfatto acuto, sensi stimolati da danza e vini sconosciuti, capta un odore come incenso e acquasantiera, che le fa fuggire. Un amuleto. Dato da lei. Non può essere un potere di quelli oscuri, cerca di convincersi. Di nuovo dubita -sono giorni di tensione, è un momento di tensione-, perché talismani e simili, teriomorfi e lignei, erano ai colli dei popoli morti e sepolti in torbiera, prima che la luce del Verbo giungesse a rischiarare e abolire le paure antiche. E al dubbio si sente ridere, uccello sinistro, come una donna ladra da lontano, nelle ombre vicine e lontane. Ma no, no, insiste: è un amuleto che mi ha dato lei, lei che schiaccia sotto il calcagno la testa del maligno: è per forza l’altro significato. È il legno buono della croce risorta, è lo spirito santo, amen.
Strinse il pugno dove teneva quella figura scolpita, penzolante dal ciondolo.
Un fruscio. Un sussulto nell’ombra avanti, compagno collega compare. Un fruscio che flette nell’ansia le muscolature ingrigite di chi ha passato gli ultimi dieci anni a sforzarsi. Una metà nello sforzo di dimenticare il precedente sforzo. Si sente un fruscio e si è soli in marcia per salire in montagna, per riappropriarsi di qualcosa seppellito sulla cima. Strumenti utili, approvvigionamenti per la sopravvivenza edificata sul terreno delle vecchie trincee. Cancellate coi piedi come strisciate di fango su zerbini. Guerra grande e più vecchia. Anche quella di ieri la stessa sorte?
Dai cespugli soffia un fruscio e lui si ricorda improvvisamente di un grosso cane bianco, un pacifico fantasma pastore che accompagnava il passaggio dei girovaghi nei pressi del cancello del vecchio morto giù al frutteto, vecchio fattore morto, brava persona, buonanima, giù a quel villaggio non lontano dal ponte per il paese, dove gli asini si fermavano. Il cane buono di lui, fedele, morto. Accompagnatore. Immagina la sagoma, nitida come certi sogni, così intensi da non poterli raccontare nemmeno a lei -giù in paese, può solo pregare. Giù, con lo scroscio ritmico del mulino nelle orecchie, l’orecchio umano è un meccanismo di macine e cerchi che s’aziona e prende vita accogliendo in sé il tintinnio dell’acqua di fiume. Tu vai, tu vai pure lassù, io prego per te e qualunque cosa accada, l’acqua del fiume sarà sempre dentro me, l’acqua del fiume per come è adesso, trasparente e gelida, in questa giornata calda, in questo sole che imbianca il grano.
Sola nella camera, sotto un raggio di sole obliquo che strisciava verso i letti ordinati, pregava perché lui lassù non incontrasse l’altro accompagnatore dei sentieri, quello nero, col pelo selvatico. Lei l’aveva incontrato, meno che ragazza. Le aveva ringhiato al suo lancio d’un sasso nell’acqua. Elusivi, si dice che le persone possano camminargli accanto nei boschi senza accorgersene, ma loro sempre sentono l’odore e il rumore. Accompagnatore con aghi e soffi di foresta incastrati qua e là nell’irsuta pelliccia. Solitario, si abbeverava a una pozza formata da un fianco sinuoso allargato quasi a stagno, cinto di fronde fitte. Fiume, serpente d’acqua che irriga il mondo conosciuto svolta capriccioso e si rifugia nella barriera degli alberi, protetto nel folto (ma lei cosa era andata a fare lì? Le ragazze non si allontanano, se non hanno da fare, per gli uomini e per la casa -avrebbe detto un domani, sospirando, che “era così a quei tempi”-, le ragazze perse vengono punite dall’ombra forestiera, bestia o persona, che appare nella via per inseguire, odorare, seguir tracce, saltare addosso). Non era stata attaccata, non era fuggita. Il demone selvatico si sarebbe infuriato se si fosse voltata e avesse corso, solo allora l’avrebbe inseguita, lei lo capì, perché era veloce di mente -anche se femmina dicevano-, perché osservava. Un demone da non irritare, nemmeno da scannare, nemmeno chiamare il prete, nemmeno un fratello con muscoli o esorcismi in tasca, per proteggere le gambe sue in fuga. Pochi passi delle caviglie scoperte contro i sassetti, caviglie anemiche nobiliari della discendenza signorile, uno dei due colori del popolo fluviale. Passo signorile, lembi di gonnella tenuti con indici e medi, l’aveva riportata con dignità sul sentiero. E voltandosi, l’aveva visto un’ultima volta, bestia che pareva invecchiare a ogni passo, il collo chino e le quattro zampe claudicanti in ritmico scrollo di spalle ossute girgionere mentre spariva nelle ombre della boscaglia, la coda a spazzola trascinata sui sassi bianchi della riva. Peli sparsi sul bianco come monito ai dispersi. Lei pregava che non l’incontrasse, lui lassù, lui che nella pelle era scuro come quello era scuro nel pelo.
Ma non c’era nulla: nemmeno un rivolo di vento simbolico che fosse uscito dagli spazi aperti nel folto, una frescura di fogliame. C’era stato solo un fruscio. L’amico si voltò. Sguardo eloquente. Io non ho visto, tu non hai visto, sappiamo però di aver sentito. La tua favella non può salvarci, da qualunque cosa possa succedere qui. Lo sanno e proseguono in silenzio, dimenticando le proprie doti, i propri espedienti, tasselli di sopravvivenza al nemico e all’alleato, fino a quei giorni in cui erano infine usciti fuori dai fantasmi. Quando sentono un fruscio e nulla si vede sanno qual è il fantasma di cui avrebbero più paura. Ma in giro, a parte il grano sconfinato e alto che cresce alle pendici e per un tratto s’inerpica, a parte l’ombra della selva, non si vede nulla, e non si vedono bandiere. E non si sentono né stridii né ululati né fulmini, non si sente un marciare disciplinato e ossessivo di stivali d’antico granito, tonanti saette di nibelunghi che piombano sul suolo di streghette meno potenti di foreste meno nere. In verità quelle streghe di cui aveva temuto l’ombra nel suo amuleto erano già tutte scappate via come uno stormo di obsolete cornacchie, trascinandosi assieme alle vesti i lembi superstiti del proprio mondo, già quando s’erano uditi ampi sopra al cielo i primi fischi antiaerei gridati dai centri abitati, e le prime avvisaglie di quel temporale di soldati in marcia. Sudavano ora di tensione e sudavano ricordando quello spettacolo -perché era uno spettacolo, ma non bello e non brutto, terribile eppure incantevole, inutile era per loro provare a raccontarlo nelle lettere ai parenti e le amate. Nemmeno raccontare quella tensione, del momento presente, di qualsiasi fruscio che evoca fumi ingannevoli di atmosfere andate. Ma nulla di tutto ciò. Sarà stato un animale, un animale. Che non lascia orme e non esce dal folto, che non è un cane pastore bianco. Fantasmi di ogni genere.
C’erano i racconti di quelli che avevano visto quel cagnone uscire dalla recinzione e andare incontro con gli occhi neri e tristi, a chi voleva recare offerte alla memoria del vecchio fattore morto, alle due croci di legno che aveva lasciato lì al cancello, prima di morire. Come sapesse. In quei giorni sembrava quasi che tutti i vecchi sapessero quando sarebbe successo, certe cose si capivano. Gli sembrava che cominciassero a capirlo sempre meno. Pure i cani lo capiscono, terremoti esondazione malattia vecchiaia. Bianco e maestoso era quello, lui però non l’aveva incontrato. E a giudicare dal nulla soffiato fuori dal bosco, non l’avrebbe visto nemmeno lassù, quel fantasma bianco. Strinse il ciondolo ancora. Devo chiederle dove l’ha preso, perché ce l’aveva proprio lei, che del diavolo ha tanta paura, e di tutte le cose che possano ricordarglielo. Deve aver creduto davvero che fosse uno spirito santo, scolpito da mani devote.
Ombra nera cammina coprendo il terreno davanti, compagno scuro come la sua stessa ombra, scuro di pelle come lui. Sono in due sul monte, uno dei colori del popolo fluviale, maggioranza. La carnagione della nostra gente è un campo battuto e vituperato dal sole, riflette, e il pelame sparso di barba e torace s’arriccia per una qualche vergogna che nemmeno conosce. C’è un peccato originale in questa terra. C’è un vangelo, sicuramente da qualche parte, sicuramente nei cuori di tutti quaggiù fintantoché ancora resistono queste campagne, un vangelo che racconta di Cristo che viene a battezzarsi una seconda volta nel fiume V., Cristo in persona venuto quaggiù a vivere la sua storia e imprimerla come fuoco parlante nelle vene sotterranee della terra che ha nutrito la gente, Cristo in persona venuto a schiacciare sotto il suo calcagno le teste nere cigolanti con la linguaccia rossa tra le zanne dei demonietti locali. Con questa immagine, da bambini, questa immagine mai raccontata da nessuno, eppure stampata e illuminata nella mente, prima di addormentarsi, le preghiere ripetute giornalmente. Erano cresciuti e s’erano abbruniti di lontana stirpe palestinese, le mani callose per il lavoro quotidiano. Scacciano arbusti e rovi per continuare a salire. Il compagno, ombra nera e volto nero, se si rivolge al cielo allora è per pregare, per cercare un segno. Lo vede, fermo per pochi istanti, la gamba dolorante in avanscoperta, alza il collo e guarda in su. Una lacrima salata scorticante di sudore gli scivola sulla fronte in un singolo svelto rivolo, prude al passaggio. Sole che acceca, nella sua pianura bianca fluttuante compaiono però due macchie, forse due uccelli. Oscuri rapaci coi loro sguardi acuti dalla distanza, dalla memoria, dicono che tengono d’occhio, che non dimenticano. Non ci sono segni divini nel cielo e non c’è nulla a cui pregare: il compare riabbassa la testa, sconfitto, e non guarda più in cielo dove crede d’aver veduto sguardi spiacevoli, volanti in circolo, artigli prensili che si posano su bandiere e destini.
Silenzio. Il campo si allarga, spinge i camminatori sul bordo, il suolo si fa disordinato, rivoltato, solcato. La terra sottoforma di talpa si oppone alla coltivazione nei luoghi che si inerpicano, dice che è proibita e fallimentare. La terra ha occhi che vedono fino alle vicine montagne striate dai terrazzamenti, o dallo sfruttamento di ogni pianoro. Qui c’è da salire ancora, qui comincia la vera salita, avvisa con un cenno. Ma c’è qualcosa che li attende e li lascia lì, a non saper che fare. Il silenzio è grande, fluttua sul pianoro, aleggia tra i cumuli di grano simile a miscanto soffiante adagiato alle carezze serotine della brezza; ma non è il tramonto e non c’è quell’odore di linfe d’insetti campestri -quel colore del grano diventa un inganno se lo fissano a lungo. Possono ritrovarsi d’un tratto, con la mente, nei fienili dove avevano spiluccato le spighe, nel sudore e nei bagliori rossi che attraverso le fessure delle tegole avevano per tanto tempo ornato le loro gambe scure. No, il sole è giallobianco, è passato mezzogiorno, è torrido, non c’è pietà che cade dal cielo. Ma il silenzio, il silenzio che trovano, non è del cielo e non è della terra. Per questo si fermano, scrutano fino a tagliarle le onde di calura aleggianti tra il grano e la terra dove smette di crescere, fino all’altra parte del campo giallo e marrone, dove vedono chiaramente un labbro di terra rivestito di foresta incurvarsi e sempre più salire, verso sinistra, lì devono costeggiare e proseguire per raggiungere la vetta tozza e piatta, il cervello del monte tondo. Ma se nemmeno il vento, visibile nello scuotersi delle fronde e delle ombre incubate nei grembi frastagliati del fogliame, se nemmeno il movimento vivo di un simile gigante respiro produce rumore, è giusto dire che riconoscono quel posto e il loro dovere? Non saranno capitati da qualche altra parte, dove le cose non vanno come le conoscono?
Stringe il legno intagliato, prega dentro sé che le lacrime degli occhi dell’uccello siano acqua benedetta, che possa toccargli i solchi del palmo. Proteggerli come la stretta che ogni volta sembra un addio -talvolta un affettuoso rimprovero che spesso le rivolge, troppo drammatica. Ricorda che anche lei gliel’aveva detto, lassù la favella non ti serve, lassù non ti serve la resistenza al dolore del cuore, che ti ha permesso di arrivare fin qui tra guerra e vertigini, si può sempre cadere, precipitare dal mondo alto e schiantarsi sulla pianura. Posso solo pregare, io quaggiù, l’aveva ascoltata piagnucolare così. E allora voleva solo avvicinarsi al momento in cui da un rialzo avrebbero potuto voltarsi e vedere il mondo sottoforma di valle, e riconoscere il mulino, a un fianco del rorido serpeggiare d’argento. Vedersela lì piccola piccola in una finestrella invisibile per la distanza, curva e china con le nocche abbarbicate quasi a lacerarsi e far emergere arterie viola sul dorso delle mani, invecchiate solo loro, prima del resto, prima di tutto, per lo sforzo -c’è troppo per cui pregare a questo mondo. Meglio dimenticare alcune cose per cui pregare, meglio sigillarne altre in ripostigli scuri e muti del cuore-, dice a se stesso, usando per se stesso quell’artifizio della favella che tanti gli attribuiscono, vedendola disegnata sulla curva del sorriso dei suoi baffi. Peli neri che nascondo sempre alcune cose, per chi li vede da un lato solo, lui lo sapeva.
Ricordando il fucile e toccandoselo, lì in spalla, in quel pianoro di silenzio si mettono a fare le sentinelle, come avevano fatto un tempo, sentendo un burrone nel torace che attendeva di riempirsi, o attendeva soltanto che finisse, qualunque cosa fosse la cosa che stava vivendo, una sensazione che esiste solo per voler morire. Tensione la chiamavano alcuni, febbre pazza, fastidiosa da espettorare come una flemma biancastra e anomala nello sputo, decima più soldati della tubercolosi. Ricordano lo stare in piedi al sole quando tutte le forme illuminate dal giorno, la luce saggia del bene, sembravano invece cospirare ed evaporare un veleno invisibile nel mondo. Indescrivibili momenti d’attesa, eterni, che tornavano a essere eterni se la disgrazia imponeva di rimetter mano a quegli istinti lasciati chiusi, sigillati dopo la sparizione dei conflitti di ferro e fiamme, dopo le impiccagioni e le cadute infernali dei comandanti, re del caos. La maledizione non sembra averli lasciati: di nuovo in attesa, di nuovo a far le sentinelle. Di nuovo a sentire l’eternità nel torace. Un’eternità diversa da quella che prega lei laggiù, piccola rannicchiata sempre più piccola, nella penombra della stanzetta, a sognare angeli di fuoco arancione.
Il silenzio sinistro finisce, si impicca, cade. Riprendono la marcia e ne vedono un’altra, diretta da qualche altra parte. Un palpito di terrore nel petto, il fruscio prende forma.
All’improvviso, da un margine flessuoso e ondulato d’un gruppo d’arbusti simile a una riccia capigliatura, brillante di un verde chiaro incapace di seccare, emerge un uomo, affaticato prende la salita. Da dove è venuto? C’è una strada che passa per il bosco? Si voltano, si cercano le facce, sguardi eloquenti, le risposte fanno rinascere la lingua del silenzio, lo stesso di prima interrotto dai passi, fruscii, rametti spezzati. Sotto il peso che gli affatica la vecchia schiena, avanza caparbia la sagoma di un anziano portatore di fuscelli. Ma negli incastri nodosi di quel suo zaino di legno il grano si adagia ordinato, in fasci precisi, l’uno sopra l’altro. Grano verde, verdissimo, negli occhi pungica e cigola dalla distanza come flauti d’erba primaverile. I due compari, tenendosi il grano bianco a un fianco, fanno rumore, riprendono la marcia. Il vecchio non si volta, è un vecchio sordo, o un vecchio che ignora. Non fa che procedere, forse seguendo un guizzo che lo precede svelto, ombra tra le spighe alte in piedi e radicate al suolo, così fitte da nascondere le gambe e l’aspetto di quella sua guida -un cane, dunque, davvero? Non si può vedere. Per come si fraziona quell’ombra, acuminata tra le striature naturali e ipnotiche delle spighe sempre più fitte in quel bordo del campo che il vecchio costeggia, lui che lo osserva da lontano pensa stranamente a un porcospino. Una guida porcospino che affila l’olfatto tra i sentieri, dove conduce il suo padrone. Strano pensiero. Odora di muschio e aghi sparsi a terra. Mah, per un vecchio del genere, uscito dal bosco come niente, come una brezza personificata, può anche darsi. Tintinna il ciondolo. Ne ha visto un altro -ma certo è solo una suggestione- al collo del vecchio. Non vede il volto, certo, non riesce nemmeno a capire se quella striscia bianca sotto il naso è baffi o rughe gonfie, certo, ma una ghianda che dondola al collo riesce a vederla -sarebbe assurdo, pensa, e si prende in giro da solo. Ghianda, legno intagliato. Talismani per affrontare la salita. Fermiamoci, dice il compare, con un cenno. E si fermano. Solo allora si accorge che i fucili per un po’ avevano smesso di pesare, per pochi passi, poche centinaia di metri.
…
Un giorno, di tarda sera, era entrata a cercare il fresco, soltanto il fresco. Abbeverarsi di un’acqua, intingerci le punte delle mani prima di rivolgere il saluto alla casa, al suo abitante, all’abitante che abita nel cuore di tutti noi fedeli, aveva detto innumerevoli volte l’eco dal pulpito, l’arbusto in fiamme, il petto grassoccio, la leggera asma ansimata a ogni gesto corpulento. Abbeverarsi d’acqua e un’aria che non è autunnale, non è invernale, è un freddo diverso, per sempre intrappolato qui nella pietra delle pareti. Non scorrono nella pietra il sangue e i brividi della carne, per questo è senza peccato anche se fredda, anche se dissimile dal sole. La ragazza, un po’ impaurita, s’inginocchiò istintivamente al primo banco giù in fondo, guardandosi intorno per la navata stretta destinata ai pochi fedeli di quella zona della valle del V., guardando nei pattern dei caotici chiaroscuri della pietra il segno del passaggio dei tanti che, a quell’ora, erano tutti assenti, tutti inesistenti, tutti nei campi. I campi? Inesistenti, allora: perché guardandosi attorno, in quell’ambiente separato e diverso da tutto, non c’erano campi, non c’era erba. C’era solo pietra, candele morenti, salmi rilegati in rosso come pelle di bue scottata -eccolo, un elemento di campo. Solo nelle preghiere, nelle pagine: parabole di grano e lavoro dell’uomo. Le pagine sacre li capivano, a loro contadini, erano il massimo conforto, il massimo balsamo da versarsi dentro, dentro dove dimorava il Padre. E se il Padre dimorava in loro, e se il Padre dimorava nella casa in cui era entrata, allora -la ragazza era molto logica, ma non lo diceva a nessuno- significava che quella casa era come… la ragazza inginocchiata d’istinto si guardò attorno, impaurita, soffermandosi sui segni dei passaggi, i fedeli assenti, che l’avrebbero salutata e riconosciuta di domenica mattina, e quella stessa mattina l’avevano salutata, a messa ogni mattina prima del lavoro, buongiorno signorina, buongiorno a una delle signorine dei signorini del podere più grande adiacente al paese. Gentili leggeri inchini e gesti cordiali, sorridenti, e allora diamoci la mano, insieme pensiamo al crescere lento e miracoloso della spiga dal seme che dorme in terra. Era sola, dentro la casa del Grande Padre, la casa fredda gelida dov’era entrata per cercare frescura. Si mise al centro della navata: colore grigio, color rossobruno dei salmi e delle colonne similmarmo traslucide per le irregolari lacrime di tardo sole che passavano appena, sempre più fioche, dalle finestrelle fatte male della chiesetta antica. Solo una navata, e questi colori, e un distantissimo gocciare. Tutta la vita, tutte le campagne che esistono, racchiuse solo nelle parole, nelle preghiere. E, passati nemmeno due minuti, si ritrovò a pregare, rivolta al simbolo appeso, che con le mani e con la carne aveva imitato nell’entrare.
Subito sentì una morsa, rapida e passeggera come chela di scorpione, tra la base del collo e il seno: entrare in quel posto soltanto per rinfrescarsi, la lunga camminata sulla sterrata fino all’ingresso, tra lo stridere di piccole locuste brune e luccichii aerei di rosse libellule sul grano, soltanto perché il sole, il regno celeste, poteva far male alla carne e la pelle, con la calura, ammazzava le bestie da soma. Vanità di ragazza, debolezza d’umanità, tentazione. Guardò sulla sinistra, verso il confessionale, scatola d’ebano traversata da sospiri. Ed eco di un gocciare fresco e misterioso, da qualche parte, non smette di gocciare qualcosa che irrora lì dentro da qualche parte. Si avvicinò al confessionale. I suoi passi schioccarono note alte nell’ampio ambiente, una gloria d’organo. Sentito suonare una volta a un tempio di città, la città, dove andavano a lavorare i signorini del podere, cercare fortuna dicevano. E trovare morte: al tempio di città il funerale di qualcuno, funerale di un padre come un altro, un falegname di galilea, e il limaccioso canneto dell’organo come l’arbusto delle scritture cantò, soffiando musiche alte che dovevano ricordarle il paradiso. Non poteva essere, non doveva essere, che i suoi passi, i passi di lei ragazzetta, le ricordassero adesso quella musica celestiale. Piedi consunti, da passi e da terra, basse forme vicine al suolo e al corpo. Accelerò verso il confessionale.
Nessuno entrava, nessuno c’era. Tenendosi a metà tra la penombra, non minacciosa, che dimorava nel legno, e il vago lucore dell’enorme stanza vuota, insomma senza entrare del tutto nella scatola dei sospiri, percepì un ascolto lì dentro acquattato. La rassicurava ancora, nessuno sarebbe entrato. Tutta la chiesa era diventata un confessionale, per lei, per questo era vuota, per questo non c’erano prete e chierichetto e vecchia solitaria in meditazione a un banco in fondo, separata da tutto. Due candele sull’altare quasi si spengono, l’odore che si sente non è il loro, è la massa di innumerevoli candele già morte, soffi fumiganti assorbiti dal legno tarlato e dai solchi della pietra, odore della casa stessa. Odore tuo, del tuo confessionale: dice così una presenza senza corpo, una voce senza prete, un occhio nel buio dall’altra parte. Le sembra di udire, sommesso e indistinguibile, un grugnito che la esorta a incominciare. E una fretta strana la coglie.
Comincia allora a elencare. L’orgoglio suo per aver pensato proprio adesso che fosse solo per lei la chiesa. La lussuria e l’accidia che figliano per generare una prole lurida, quella strana fiumana di brividini sotto la pelle sua bianca, da qualche anno, che le dice di cercare il fresco, abbandonarsi mollemente. Disonorata la festa e oltraggiata la sua casa, cercandola per il corpo e non per lo spirito. Sciocchezze, comincia poi a elencare, quella che la mente le dice essere sciocchezze di giovinetta, risate trattenute e giochi ambigui tra innocenza e malizia riparati dall’erba alta dei campi. Orgoglio ancora, per aver pensato di potere, lei, decidere cosa è una sciocchezza. Ma se è così, chiedeva, allora perché tutti sapevano, perché tutti vedevano i giovani andare nel mondo, allontanarsi e fare quelle cose, quelle cose che si cantano soltanto in canzoni di volgarità e passione diverse da quelle della domenica, perché permettono questo prima che tutto si trasformi in festa sacra, unione sacra, patto sacro, discendenza? Forse perché è necessario? Ragazza mia, sei piena di dubbi. Avrebbe avuto il coraggio di esprimerli a un ascoltatore più corporeo di quello che, come in sogno, credeva stesse seduto dall’altra parte del confessionale? Credeva di no. C’era sporco nelle sue parole. Guardò il suo ginocchio piegato, i suoi piedi lì nascosti sotto il peso del corpo e già pronti a rialzarsi, tesa com’era a metà, come se il tempo della sua confessione fosse limitato. Pronta a uscir fuori e di fretta, senza farsi vedere da chiunque potesse girare lì intorno.
Non una presenza, qualcosa. Un annuire di grugniti -forse immaginati. Gocce, su questa pietra edificherai una grotta eternamente fresca e rorida. Il tempio del Padre e il tempio dentro di sé è in realtà una Madre: grembo grotta come la mangiatoia, all’inizio di tutto. La ragazza si sforzava di fantasticare una terra lontana di deserti e olivi. Ma tutti i paesaggi che riusciva a vedere erano solo campi di grano, asini, il fiume e i monti attorno, il mulino, se stessa.
Grugnito che la esortava a continuare. Ebbe un brivido, dal ginocchio alla testa. La nudità gelida del pavimento fendeva il tessuto gialloverde della gonnella, fendeva la pelle e le ossa, la toccava, e ogni tocco la sporcava. Qualcosa prima ancor di se stessa l’aveva fatta rabbrividire. Sporgendo la testa all’indietro, oltre le sue spalle, vide disegnarsi sull’uscio, proprio davanti all’ingresso, un’ombra. Qualcosa sostava lì, centrale nella luce che penetrava, qualcosa a metà tra il mondo fuori e quello dentro, qualcosa che poteva interrompere la confessione, sancire lo scadere del suo tempo. Quattro zampe irsute, secche, quasi quattro serpi di rovi, anche lui ramingando cerca forse un rifugio di frescura? Le quattro zampe scosse da un brivido, come quando rizzano il pelo e soffiano con la lingua rossa tra i denti, brutti brutti. Gatto nero all’ingresso, fermo al centro. Una paura, un gattovolpeluposcorpione, un maligno del colore che teme, prima di addormentarsi, prima di recitare i versi e proteggersi, premunirsi al mondo scuro dentro la palpebra. Un balzo agile e l’ombra d’animale, qualunque fosse, era sparita dal pavimento, risucchiata dall’altro estremo dell’ingresso lì proiettato. Sparita per sempre da tutto il mondo.
Si sentì svenire. Qualcosa la sorresse, qualcosa impedì la caduta. Una mano del confessore uscita fuori all’improvviso? No, forse la sua stessa mano bianca, per istinto avvinghiata a una ringhiera d’ottone. Stava sbagliando ancora, stava mentendo. Un peso nel petto, che lo faceva sentire gelido, e in contrasto con la calura esterna, la calura di tutti i giorni, la calura che si deve ritenere buona. Per questo aveva cercato il fresco: mancava d’equilibrio. Ed era troppo logica e troppo devota per tollerarlo. Doveva raccontare al confessore quello che le aveva detto il suo ragazzo.
Un soldato, come certamente anche il parroco o chiunque fosse sapeva. No, forse è un parroco d’ombra. Esiste soltanto in questi momenti strani, in cui una casa del Padre diventa una casa di sé, un polmone, un organo interno. Meglio specificare, perché possa capire. Un soldato, di quelli che, chissà come, hanno ancora paura, si portano il fucile in spalla quando salgono in montagna. Lui le aveva mostrato la fascia che aveva legato le loro braccia. La teneva in una cassa. La guardava a volte, assorto, sembrava diventare un’altra persona in quei momenti, e lei gli toccava la spalla, e lui rideva, e lui cangiava, lui parlava come nessuno sapeva parlare tra tutti loro, poveri incolti. Lo sa parroco?-, intercalava, raccontava senza fiato. Una fretta di concludere.
Era salito in montagna. Gli uomini salgono e tornano giù portando sottobraccio leggi incise su tavole, comandi, cose da fare, portano a compimento il giorno. Procacciare: sotto una botola, un vecchio pozzo in cima al monte per far bere le bestie e ora in disuso, lì dentro altri compari avevano ammassato le bombe che si usavano per pescare, gettandole nel fondale del fiume. Dovevano recuperarle per questo, o per farne qualcos’altro? Lei non sapeva, non s’intendeva di queste cose, e lui l’aveva zittita, dicendole che non s’intendeva di queste cose. Nemmeno della tensione nei loro volti, lui e il compare. Un cugino o qualcosa del genere, scuro come lui. Che ne sa una ragazza così candida, la pelle troppo fragile. Che ne sa, quelle potevano anche essere bombe rimaste dalla guerra, inutilizzate. Da lanciare ai pesci, farli morire di spavento come ne morivano loro nei ripari, o da lanciare ai cristiani.
La pelle bianca era soggetta alle alterazioni, al rossore, un velo puro in cui s’espande a macchia il peccato, un animo puro per questo più a rischio. Il rossore, lo sentiva espandersi da dietro le orecchie, le avrebbe raggiunto il volto. Che ne sa lei, che ne sa. Si voltò di scatto, i capelli neri lucidi a nasconderle l’irritazione. Trasse da un cassetto qualcosa. Prendi questo. Lei non ne sa niente, lei non può saperne niente, perché solo a un uomo è dato parlare a profusione, spiritoso e poi razionale e poi romantico, e al tempo stesso tace tutto quanto. Prendi questo, e io pregherò. Gli mise in palmo un pegno amoroso. No, gli mise in palmo una dimostrazione: io so più di quello che credi: io ho più risorse di quelle che vedi disegnate su di me, sul mio corpo debole: io ho un amuleto che ti proteggerà, un amuleto di cui tu non sai niente. Raccontando la scena al confessore invisibile, lacrime invisibili, presto seccate, cominciavano ad affiorarle sul volto come fantasmi in corteo, come fumi di candele ormai consumate.
Sempre più veloce nel discorrere, spiegò al confessore fatto di grugniti, ormai impossibili da dire realtà o suggestione, che il suo ragazzo aveva incontrato un fantasma sul colle. Che avevano avuto paura. Dopo essersi fermati, erano risaliti, di fianco alla foresta, che s’agitava burrascosa come un mare di notte, un regno frondoso di spiriti osservatori. Non c’erano orme sul sentiero tra il grano bianco e la foresta. Le orme sue e dell’amico, solo quelle. Non orme d’animale in quel tratto. L’avevano visto entrambi. L’avevano visto con il grano verde che non sarebbe dovuto esistere in quella stagione. Avevano sentito le vene attraversate da una bianca corrente. Ed era stata lei. Era sua la colpa dello spavento dell’innamorato.
Anni prima era successo. Non sapeva cosa aveva fatto, quando aveva raccolto vicino al greto, da sola e allontanata, quell’amuleto abbandonato in terra, sotto il fogliame. Al centro di un cerchio. Troppo preciso, forse qualcuno l’aveva tracciato, proprio per posarvi un oggetto, occultamento rituale. E raccogliendolo il fiume si era mosso, con un rombo gutturale d’onde, e l’animale selvatico aveva ringhiato in risposta al suo sasso. Il fiume, che le diceva qualcosa. Ma i fiumi non parlano, battezzano e basta. Non parlano a lei, almeno. Alle ragazze che dormono al sicuro in casa, che la notte non fuggono attraverso le foreste per uscire sui campi e razziare e terrorizzare. Ma lei se l’era messo in tasca, dicendosi che era una croce, che era una colomba. Di quelle che tubano nelle piazze, sui campanili. E aveva dato le spalle al fiume, sentendoselo dietro che la fissava, il fiume in cui pescavano gettando le bombe. Il fiume, le acque dove era andata a risciacquarsi la coscia dal sangue che era colato a rivoli lunghi e appiccicosi. C’è un fiume anche in te, le aveva detto. No, no, i fiumi non parlano. Si era allontanata dicendo a se stessa che era un oggetto buono. Ma un oggetto buono non l’avrebbe fatta irritare, davanti alla faccia di lui. Mentre nel salutarlo lo accarezzava, gli accarezzava la barba nera, la pelle color terra, e tratteneva i brividi nell’accorgersi che nel farlo aveva dentro assieme all’amore un’altra strana cosa, non sapeva se era lei o se non era lei.
Gocce, fumo di candela. Un leggero vento spira nella casa già fresca, smuovendo ancor più imperioso le fiammelle ormai già impotenti sulla cera. Lei ha dimenticato il fresco che cercava entrando, per abbeverarsene.
Sono stata io? Sono stata io?, chiedeva al confessore, insistentemente. Nel petto tremavano palpiti mai visti, e allontanava da questo lo sguardo. Gettato al pavimento dell’ingresso. Sarebbe ricomparsa quell’ombra di pantera, suadente mutaforma? Incalzava il colore della sera da fuori, proiettandosi fin là dentro. Nelle ombre e nei bagliori del crepuscolo chiedeva, prima di tornare alla casa con il mulino, una risposta.
-vattene.
La voce parlò. Una voce che non conosceva. Nessuno del paese, nessun parroco che esistesse, nessun chierichetto che fosse cresciuto e diventato uomo per assumere quel tono profondo, indescrivibile. Erano parole, era qualcuno? Era un ringhio che diventava parole. Qualcosa davvero sedeva dentro la scatola del confessionale, qualcosa di cui forse aveva disturbato il riposo.
-vattene! Corri fuori da qui!
La casa del Padre oscillava nei suoi occhi, nella sua mente mentre scappava, senza chieder nulla alle gambe. Non guardò fuori nella piazza in cerca di sguardi da cui nascondersi, in cerca di gatti di janare per vedere se esistevano, se la inseguivano. Non vide nulla. Oltre la soglia di casa, odore di polvere. E di candele ancora, riverberi. Prima accasciata, pallida, poi fatta stendere, le mani incalcolabili di fratelli e sorelle ad afferrarla per ogni lembo. Era andata a pregare, spiegò sul letto. Non dovevi, non con questo caldo. Ammonimenti bonari, sorridenti alla sua devozione, nessuna traccia di vero biasimo. Loro non sanno: ho mentito di nuovo: sono una ingannatrice. Il braccio bianco, sempre più pallido, piegato sulla fronte, rivolta al soffitto, alle sue crepe scure minacciose che sempre le portavano incubi. Lentamente, con le immagini e la chiesa ancora a rotearle nella testa, vide le palpebre chiudersi e riaprirsi ritmicamente, chiudersi e riaprirsi, non riaprirsi più mentre li sentiva dire di andare a chiamare lui. Che teneva ancora da qualche parte l’amuleto che le aveva dato lei. Il legnetto dell’anticristo. Non delle belle parole con cui addormentarsi. Cos’era quella voce che mi ha risposto dal confessionale? E perché io me ne dovevo andare? Ho sbagliato ancora, smetterò mai di sbagliare? Non belle parole con cui addorment..
..
Lui le aveva raccontato: non c’erano croci in cima al monte. Dovettero perlustrare per trovare il pozzo in cui i loro compari avevano sepolto le bombe, il pozzo nascosto da rovi ed edera. La cima era alberata, la cima era piena del vento che la scuoteva tutta, gli alberi vivi impetuosi. La foresta, aperta in ampie radure, era viva, respirava, un rombo gutturale di legno buio. E lassù, aveva detto lui, diventando pallido quasi come lei, perfino quel forte vento aveva parlato la stessa lingua del silenzio, che li aveva sorpresi giù alle pendici. Dalla foresta e sferzando la radura il vento l’aveva investito, smuovendogli le vesti, sospingendolo indietro tanto era forte. E aveva provato un brivido. Di piacere. Il cappello verdastro era volato via, sollevato dalla sommità della testa. Non prendere gli esplosivi, sei salito quassù solo per raccogliere il tuo cappello, sembrò ululare poi, dopo che il suono ebbe cominciato pian piano a riaffiorare. Marciò indietro nell’erba verde, e chinandosi per raccogliere il cappello sentì il fucile completamente vuoto, completamente privo di peso.
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