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Gli Appunti Del Fango- yellow flower suite, movement 1: gospel overture (pt.2)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 16 giu 2020
  • Tempo di lettura: 22 min

(segue alla parte precedente)

Le suore decidono per noi i ruoli delle recite. Attendiamo provenire dall’alto il verdetto, che cala su di noi come un volatile di luce, e ci investe della forma a cui siamo destinati. E nel frattempo in molti pregano, pregano che questa forma sia quella di un soldato romano, prestigioso per la sua bellissima armatura, il suo petto d’argento e le sue vesti e pennacchio scarlatti di virile coraggio. Dimenticano che il centurione della recita di quest’anno può essere il pastorello anonimo della recita del prossimo, che tutto viene continuamente ribaltato dall’avanzare degli anni. Dimenticano che c’è altro dal momento presente, dall’avvicinarsi dell’assegnazione del ruolo più vicino: “vincere” in quel caso, “conquistarsi” la forma migliore pur senza aver fatto niente, è il maggior motivo di orgoglio immaginabile, equivale alla più eroica impresa e alla dimostrazione della superiorità del proprio essere. Quindi tu, individuo spavaldo e determinato, che acquisisci la spada di gomma e la lorica di plastica resa lucente, diventi anche fuori dalla recita come il personaggio che eri evidentemente destinato a incarnare, tu sei un soldato romano e fai parte del più grande e attraente impero; e poi tu, individuo dubbioso che viene sconfitto a braccio di ferro, come il pastorello verrai dimenticato, sei esattamente le pezze marroni che porti. Queste sono alcune delle regole che sembrano esser nate da sole in questa piccola società, ma la cosa mi puzza. Devo attendere che definiscano il mio essere? Io so chi sono, sono un banale osservatore, e che personaggio della recita potrai mai darmi? Va bene il pastorello, se è uno di quelli che ha assistito all’annuncio sulla montagna, alla rivelazione; oppure lo stesso angelo, ma ho i capelli neri e non mi verrà mai dato quel ruolo. Soltanto nella recita di Marzo, quando diventiamo tutti angioletti, tutti un unico personaggio -angioletti rosa o azzurri- posso avere un’aureola. Devo essere il primo tra tutti in tutta la storia a sperare nel pastorello, nel pescatore eschimese alla recita sui popoli del mondo? Lo interpretai bene, potei osservare i pesci nella mia rete, con l’attenzione di chi nel freddo artico studia la propria sopravvivenza. Ma è ridicolo, non esiste che qualcuno non sogni di diventare invece il soldato romano, così come le bambine desiderano essere la Madonna o la bambola o la ballerina; non importa che io abbia già sperimentato nel cortile (giungla) il mio destino, venendo sconfitto in tutti i giochi di forza o persistenza psicologica, confermando che non sarò un romano. Non importa perché anche io, in fondo, ho subito il fascino del guerriero. Voglio brandire una spada, un giorno. Ce lo dicono tutti. Nessuno ascolta il vangelo quando parla di cose noiose, appizziamo le orecchie invece quando arrivano le battaglie finali di un’epoca, quando il drago vuole divorare il bambino in fasce, ricordiamo il leone di Marco e l’arcangelo che ha il permesso di uccidere sotto gli occhi di Dio. Queste cose riflettono quello che accade ogni giorno, al prepotente che per primo sale alla sommità dello scivolo e scaccia tutti ricordano la sua vittoria, ai sottomessi consente un canale per ciò che vorrebbero fargli. Ci meniamo fingendo di essere belve feroci. Sanno tutti benissimo che vogliamo essere i romani che mandarono a morte Cristo e tuttavia lo considerano normale, non lo considerano blasfemo come tante altre cose, non si preoccupano del fatto che ciò che dicono sul perdono e la pace passi inosservato nelle menti della maggioranza, continuano a ripeterlo perché “è il proprio lavoro”, flebile giustificazione. Ci sono dei tipi di violenza accettati. Se non il romano, vogliamo essere l’esercito di carte da gioco nella recita del Paese Delle Meraviglie, altri carnefici. In tutto questo, come posso io, che so di essere un pastorello, accettarlo? Come posso accettarlo se ogni cosa mi dice di desiderare di essere più forte, più intelligente, più bello, più provvisto di spada di quello che sono? Tutto tranne il semplice osservatore che sono. Insegnatemi a voler bene a me stesso come voglio bene al prossimo mio.

(sembra tutto molto complesso, io vado in cerca di queste complessità, ma la spiegazione è solo una: non sarò mai un romano perché ho la pelle scura di un mediorientale.)

Conosco due tipi di arcangelo. Uno è San Michele che sta in piazza, l’altro è quello dentro la chiesa. Quello in piazza si erge, si fa guardare da tutti, è la prima cosa che vedo, regge una spada. Lo ricordo quasi come un membro della famiglia, un vicino di casa, un mio giocattolo preferito. Grigio, scuro, uniforme e coerente come una roccia, bucherellato dai proiettili di una guerra ancor più famosa di quella contro il maligno, quella in cui nacquero queste strade. Dietro di lui, condottiero sul piedistallo, molti piccioni che abitano il centro di Aprilia scivolano rapidi sul vento, si infilano nelle nicchie dove fanno i nidi, nel muro arancione. Le sue legioni, tutte pronte alle sue spalle, al suo comando partiranno in battaglia nel cielo, una formazione di moltitudini alate che domina tutto. Il mostro decapitato ai suoi piedi, lo sconfitto, mi ricorda in ogni suo aspetto un coccodrillo. È lui che guardo per molti minuti con espressione incantata, per tutto il tempo trascorso fuori prima di entrare. Incredibile, c’è un coccodrillo nella mia città! La statua che sta dentro, invece, è molto diversa. Innanzitutto, è colorata e lucente: questo San Michele dalla chioma spessa e fulva, quasi lunghetta, è bello e ispiratore. Ha un’espressione furente che cade giù, giù, segui quello sguardo più feroce di un pugno fino alla faccia del diavolo a cui è rivolto, il diavolo che è schiacciato e umiliato sotto il suo sandalo. La lancia è infilzata nel petto verde scuro, mostruoso, vediamo ogni domenica il sangue grumoso di Satana che si ammassa sulla ferita prima di bere quello del salvatore. Non ha l’aspetto di un coccodrillo, stavolta: di affascinante ha solo la pelle verde di un rettile e due belle ali draconiche, ma per il resto è soltanto un essere umano, brutto in volto, che come ultimo gesto di disprezzo ha deciso di ribaltare il collo a guardare in faccia il suo assassino. È meno interessante del coccodrillo e in questo caso posso fare il tifo per San Michele, che appare più bello. Posso appoggiare la sua missione. Ma c’è un dilemma: per quanto nella statua all’interno io possa tifare il guerriero, con le sue ali magnifiche e il mantello rosso, se dovessi scegliere la più bella tra le due statue, indicherei senza dubbio quella di fuori e questo per la sola presenza del coccodrillo. Anche se è sconfitto, è lui che guardo. A volte ho paura che a casa mi scoprano e inizino a dirmi che sono destinato al diavolo. Ma cosa devo fare? Un coccodrillo è molto meglio di un guerriero. E abitava in questa zona, quando, come mi è stato insegnato, qui c’era una grossa palude. I piccioni sono arrivati dopo. Ma bisogna concedergli che anche la storia da loro riscritta ha i suoi punti di fascino. Chiudo gli occhi durante l’insegnamento della suora e mi muovo nel corridoio del tempo, afferro la piuma e rivedo la scena per come è veramente: anche questo sogno è ancestrale a suo modo.

La Mangiatoia ha un’entrata come quella di un tempio. Sopra questo pavimento fluttuante, questa scatola di latta sospesa, si erge a sud un porticato con pochi pilastri, esternamente dello stesso colore giallo chiaro. Non è molto alto, e più che un vero luogo di culto, sembra piuttosto un’altra scatola appoggiata sopra a quella più grande, un comune cofanetto ingigantito che solo per caso assomiglia a un luogo sapiente. Mossi appena due timidi passi oltre le colonne (non c’è una porta), subito è fittissima l’oscurità, netta la differenza tra la piazzola aperta e l’unico posto chiuso che esiste, l’unico posto in cui non c’è il rischio che le proprie riflessioni vengono sbattute via dal vento. Ma c’è un problema: qui si può entrare solo in due condizioni: se si è legati ai sudici giacigli, senza possibilità di movimento, imprigionati in un sonno imposto privo di sogni; o se Madre Dusra è presente. È il suo nido, e misteriosi poteri bloccheranno l’ingresso agli intrusi quando lei è lontana. E lei, ombra imponente, sempre tratterrà il timoroso Femi dallo spingersi troppo in là con la sua fantasia. Così non può veramente godere di quel buio intimo e tranquillo, la tranquillità è tutta schiacciata dai movimenti di una creatura troppo più grande di lui, troppo più potente (capirebbe che è proprio questo il problema, se solo avesse modo di capire). Deve attendere che sia di nuovo voltata come quando prega con l’addome esposto al meteo, che si occupi di altro, per volgere lo sguardo a quella tenebra, piena di storie. Sono grandi e mitiche, fanno paura e sono sublimi: l’unica esperienza che assomiglia a ciò che si vede con gli occhi chiusi. Una “casa”, un “riparo”, una “caverna”, devono essere un posto simile alle “palpebre”. Forse si ispirano a esse. Mangiatoia: è qui che si mangia. Femi, Makio, e tutti gli altri che forse ci sono o forse no (in questo momento gli pare di sì), gettano il viso come animali nei recipienti e si strafogano. Madre Dusra guarda dall’alto, tra accondiscendenza e lieve disgusto. Gli esseri sotto di lei sono stati creati con eccessivo bisogno di sussistenza, con grande appetito. Lo sa, e deve accettarlo, perché se così non fosse le cose sarebbero molto diverse, diversa potrebbe essere anche la preghiera che è tutto ciò che sa fare. Perciò continua a nutrirli e guardare. È il suo latte che mangiano, il suo rigurgito? Da qualche parte deve pur venire quella brodaglia. Invece, il mangime per i piccioni -che tanto assomigliano a Madre Dusra, ma che si possono tenere tra due mani come batuffoli- quello è già presente in sacchi di canapa eternamente riforniti, abbandonati contro una parete. Femi eseguendo i suoi compiti li apre, raccoglie una manciata di semini e li getta ai piccioni che sempre riposano tra gli anfratti bui della Mangiatoia, sempre letargici e grassi, simpatici, voraci come loro ma meno rumorosi nel mangiare. Forse per questo Madre Dusra li tollera di più. Magari, questo posto lo chiama “Mangiatoia” perché è dove mangiano i piccioni, e non Femi Makio o simili, che non si sa cosa sono ma che sono sicuri di non essere né piccioni né Madre Dusra. Beccano, beccano. Chissà se anche lei mangia così. Dove c’è Mangiatoia c’è cibo, ha imparato, e se La Mangiatoia è il nido di Madre Dusra, ne segue che anche lei deve mangiare ogni tanto. Ma qui, dove la si può guardare in faccia, l’oscurità continua a nascondere le risposte. E il mistero di cui si circonda produce l’effetto di indirizzare tutte le domande su di lei, rendendola il primario oggetto di curiosità che sostituisce gli altri dubbi. Chi sei, Madre Dusra? Mangi forse nel cielo, vai a caccia nelle tue escursioni? Dormi, o ti basta la preghiera? Perché la pronunci? E perché sei tanto più alta e grande e spaventosa di noi?

Femi le vuole bene. Anche se ha il piumaggio più nero di uno spettro, anche se ha le zampe nude e squamose, rosate come ghiandole pulsanti; anche se ha gli artigli che scricchiolano sul pavimento, spargendo brividi; anche se torreggia come un obelisco, ingobbendosi appena sotto il basso soffitto del tempio, e così arcuata sembra voler ricoprire tutti noi come una volta, e beccarci; anche se il volto le esce scoperto dal collo pennuto, bianchissimo come una carne di larva morta, anche se ha le labbra ossee come un becco, e un naso sopra queste, e due occhi rossi e grigi che non vedono niente, Femi le vuole bene. Non conosce il calore: sotto il basso soffitto, in quella piccola spelonca, i venti continuano a soffiare, ancora più ruggenti che fuori. A differenza di lei e dei piccioni, lui ha le ali ma non ha una protezione di piume per ripararlo. È perciò stando vicino al suo alto corpo, che istintivamente si avvicina alla fiamma, l’elemento che non è mai esistito lassù. L’infante, si dice, si riscaldò (che significa?) grazie agli animali che erano presenti nella mangiatoia. Un animale spiccò un rumoroso voletto di fianco a Femi che seguiva i movimenti indaffarati della schiena di Madre Dusra: si sentì puntar contro uno sguardo posto ai lati di una piccola testa. Piccione dall’occhio rosso, vuoi ancora da mangiare? Senza girarsi tende una mano e lo accarezza, avverte sotto il palmo le pulsazioni del corpicino morbido, strati di carne al di sotto c’è un cuore minuscolo che si è acquietato (sta scritto, no, si dice, che l’infante si riscaldò grazie agli animali della stallamangiatoiagrotta). Madre Dusra deve essere abbastanza compiaciuta della benevolenza con cui Femi si occupa dei piccioni, che sempre riconoscono il suo tocco e i passi in cui si legge un futuro storpio. Quegli stessi uccelli fanno a guardia nel tempio. Non escono mai tutti insieme, separati stormi partono con lei a turni, ce n’è sempre qualcuno appollaiato sui trespoli avvolti dall’ombra. Sono forse i piccioni che spargono un potere capace di bloccare chi vuol fare l’intruso nel tempio abbandonato dalla sacerdotessa padrona? Comportamento degno di sentinella, soldato -guerriero, e infatti sono veloci nel volo e un giorno forse partiranno in battaglia guidati dalla comandante. Il cerchio rosso che non sbatte mai, fisso. È lo stesso che punta come un macchinario preciso alla soglia, e si viene visti senza vedere, perché l’uccello è minuto e può guardare nascosto da una nicchia. Si avverte solo la presenza di osservatori dai mille occhi, e il consueto fracasso di ali irrequiete, tubare sommesso da dietro la pietra, breve starnazzare che irrompe; e quell’odore di penne impolverate, che al chiuso viene lanciato ovunque dalle correnti, riempiendo. Quelle stesse piume rimbalzano, tutte sfilacciate, rovinate, di colori diversi rimbalzano per il pavimento buio, tra macchie di guano candido che tappezza ogni superficie (sta scritto, no, si dice anche questo: che chi ha le ali ma non possiede piume, è Il Nemico. Nella statua Il Nemico soccombe alla sbarralancia del guerriero bello, e sono visibili le sue grosse scure ali membranose, prive della grazia di un comune volatile. Femi si chiede se debba forse preoccuparsi per se stesso. Il peccato originale è l’essere nato con una forma che assomiglia più al Nemico che all’angelo. Ali senza piume. Ignoranza del calore, come la vipera che si rintana nella frescura in profondità, come il rettile decapitato…)

(un pensiero peccaminoso: questo odore e queste piume, che forse dovrebbe raccattare e appiccicarsi addosso per ottenere il perdono, questa sporcizia del tempio e gli escrementi, appartengono tutti a Madre Dusra e non ai piccioni. Viviamo nei suoi relitti. Madre Dusra puzza. Perché non viene qualcosa a distrarmi da questo pensiero, come accade per tutti gli altri pensieri?)

Madre Dusra gracchia, si direbbe irritata. Il piccione trasalisce e salta via, si vede il volo basso scomparire in un angolo lontano, al riparo forse su un capitello invisibile per la tenebra, diviene uccello crepuscolare. La coda sprofonda nel nero. Un altro gracchio appuntito di lei. È Makio che la irrita, sempre. Non svolge il suo compito. Femi nutre i piccioni, mette ordine nel nido, passeggia in cerchi nella piazzola mettendo in moto il tempo. Fa altre cose ancora, forse lucida le sbarrelance. Sta scritto, si dice di mettere la propria casa in ordine, e lì c’è solo la casa di Madre Dusra. Makio però non fa questo, non si sa cosa faccia. E quando verrà l’ora del buio, di stare tutti per obbligo sotto il soffitto e sopra i giacigli, Femi lo sa già: Makio verrà immobilizzato ancora una volta, tremendi legacci e catene, e con sguardi tremendi e ineffabili farà scuotere tutto quel mondo che non ha idea di un tipo di fuoco chiamato odio. Ma Madre Dusra preferirà questo a lasciarlo libero di muoversi. Femi è a disagio, odia quella scena; vorrebbe solo accarezzare i piccioni. Ma Madre Dusra sta per ordinargli di condurre Makio al suo cospetto. Questo è necessario per costruirsi un ordine, e poter proseguire le attività del giorno.

“Makio dov’è? Voglio vederlo qui!”

Non ci vedeva, era cieca e arrabbiata, spaventata. Chissà cosa mai temeva potesse fare un essere basso e gracile in tutto simile all’inoffensivo Femi. Eppure questa preoccupazione le aveva ridotto così gli occhi. Madre Dusra, rimanendo con le spalle verso Femi mentre graffiava nervosamente il pavimento davanti a lei, aveva ruotato il collo come un barbagianni, e ripetendo il suo comando implicito lo aveva cercato. Ali aperte, continuava a riempire l’orizzonte e pochi riflessi di luce bianca dall’esterno mostravano appena le poche parti familiari del suo essere. Ansia con forma corporea, si muove con fruscio di lunghe penne. Gli occhi dovevano essere stati un tempo come quelli del piccione di prima, bottoni sanguigni, pieni. Ormai il rosso era opaco. Non c’era pupilla, il bulbo era segnato da patetiche striature grigiastre, come frazioni di colore caduto via. Sempre uguali a se stessi, comunicavano un solo messaggio senza variazioni emotive. Femi leggeva un inesistente inarcamento di piume-sopracciglia, mortificato, inconsapevolmente trasferendolo da una sua espressione vista qualche volta riflessa nel ferro delle sbarre. Così mettendo i propri occhi nei suoi giungevano sempre insieme la paura e la compassione: povera Madre Dusra, doveva soffrire anche lei. Si accorse che il petto le palpitava un po’. Dalle labbra dure soffiava un tubare debole e tenero. Senza altra scelta Femi si voltò e partì, per compiere ciò che gli era stato chiesto. Trova Makio e placa il dispiacere di lei (placa quest’aria opprimente, ti prego!). Rovesciando la situazione dell’entrata, aveva ora dietro di sé a seguirlo come ombra pensante lo sguardo cieco della padrona del tempio, e molti passi avanti le sbarre, che lo attendevano fuori. Entrambe le direzioni salutavano senza parole.

..

Lo vide subito. Bastò riabituarsi allo sbalzo di luminosità, riemerso dal luogo rinchiuso, e subito riconobbe Makio in piedi nella lontananza, fermo davanti all’estremità gremita di sbarre, lo guardava. Ma come faceva a trovarsi sempre da un’altra parte? Non dirmi, pensava tra sé, che esistono passaggi sconosciuti in questo posto. Gallerie: un concetto donatogli da un lontano momento in cui ebbe fortuna di chiudere gli occhi e vedere. Com’è possibile altrimenti? Prima erano fuori e Makio non c’era, poi dentro e non era neanche lì; e adesso eccolo, dov’erano prima, sempre nascosto nella zona che l’occhio non può coprire. Anche lui è un’ombra pensante, ma queste sue pensate sono forse troppo furbe e la cosa inquieta un po’. E non sembra capace di guardare senza infondere l’occhiata di uno strano contenuto, una sostanza urticante. Femi, come chiunque vivesse in un posto del genere, non poteva essere abituato a questo. Avvicinandosi montava l’agitazione. Il corpo di Makio teso, il braccio disteso sul fianco termina in un pugno chiuso. Dei capelli castano chiaro si distinguono le ciocche disposte come scaglie, ciascuna scaglia di numerosi fili appuntiti. “La pelle è più chiara della mia”, Femi lo vede bene anche quando quello è incatenato nel buio e si ribella. Sta sorridendo? Può esistere un sorriso che fa male, dunque, che mette a disagio. Si chiama sfida, si chiama superbia, si chiama io sono contro di te, conflitto, insulto. Elementi che compongono la sostanza urticante. Questo essere appartenente alla propria stessa specie è un enigma. Femi è arrivato: sono uno di fronte all’altro, le sbarre alla loro sinistra, e oltre il cielo vastissimo che è perennemente sinonimo di tempesta. Nuvole corrono, loro si guardano. Piume sbattute sul pavimento strisciano tra le gambe leggermente divaricate. Un’ulteriore sferzata di labbra acuminate spinge più in su il sorrisetto di Makio, la sua colpa.

“sei venuto a obbedire alla pazza, femminuccia?”

La pazza.

“anzi, sei venuta, visto che sei femminuccia. Sempre a obbedire, vero? Quanto devi star bene.”

Questo non è vero, pensa Femi, io non sto bene per niente. Sente una leggera ebollizione dietro le orecchie, un fastidio, perché quello ha detto una cosa sbagliata su di lui. Forse è la prima volta che pensa con tanta decisione questa cosa, “io non sto bene per niente”, e si sente invadere da un movimento interno sconosciuto, come magma, come se quello che ha pensato l’avesse pronunciato, come lava. Gli basta averlo pensato. Aggrotta la fronte. Altra piccola scoperta di oggi: è probabilmente necessaria una minaccia per poter imparare.

“e allora adesso mi dirai di seguirti dentro, perché è la buona volta che mi metto a fare qualcosa di utile, chissà invece che cose indicibili faccio tutto il giorno. No?

“s-sì…”

“e poi, visto che non darò nessuna spiegazione, verrò legato a quel lettaccio. E il casino che pianterò vi farà venire gli incubi. No?”

“sì…”

“e allora sai che ti dico? Io rimango qua. Voglio vedere che fai. Se non ti vengo dietro dopo che me lo hai chiesto, come farai a farmi entrare nella Mangiatoia? Non hai idea di come si fa.”

“c-che vuol dire?” -rivolge una domanda. Non a lei, rimasta nel nido, irraggiungibile, ma a lui, presente là di fronte, spaventoso.

“già, che vuol dire? Stupido ritardato.”

Dolorosa, questa parola.

“non lo capisci, vero, se non te lo dice la sgorbia, l’uccella. Stai sempre zitto perché non capisci niente.”

(Che ne sa lui di cosa provo? Delle cose che vedo quando chiudo gli occhi? Sta zitto tu! Io sono un profeta, un osservatore, il pastorello e l’angelo della buona novella…)

Femi è agitato. La pazza, sgorbia uccella. Ci sono certe cose che a sentirle fanno nascere brutti presentimenti. Non va bene, non deve esserci ciò che è brutto. Non deve dire così.

“n-n-non… non..”-, annaspa. E Makio lo sbeffeggia, modula una voce grave e impacciata, imita il balbettio, accompagnandolo con ridicoli saltelli sul posto, caricatura di un passo goffo.

“nonn, nonn, nonnnnn so nneanche pp parlare! Sono scemo, io!”

Impossibile controbattere. Il flusso bizzarro che scorre dentro il corpo raggiunge gli occhi. Che roba è, lacrime?

“ma guardalo, gli tremano le labbra. Ti sto aiutando, scemo, sono il tuo unico amico, scemo. Almeno rispondo alle tue domande, non come l’uccella merdosa, che è tutto sudicio qua per colpa sua.”

“t-tu non mi hai risposto a niente!”

Parole scoppiano fuori dalla bocca. Sente cambiata la sua voce. Ma non è una sola, è prima bassa e gorgogliante, poi uno squittio e un fischio, poi di nuovo grave… non va bene per niente. Sente le budella scoperte, dovrebbe proteggersi l’addome.

Makio smette di sorridere. Lo guarda severo. Gli occhi suoi sono più chiari, stanno un po’ più in alto. Più o meno però i due hanno la stessa altezza. Strano: se fai una faccia minacciosa la differenza d’altezza sembra più grande. Femi si ritira un po’, si accartoccia impercettibilmente. Makio sorride di nuovo.

“mph. Su questo hai ragione, sai. Non ho risposto. Faccio qualcosa di meglio: io conosco un sostituto alle domande a cui l’uccella non risponderebbe mai neanche se imparassi a chiedere. Guarda, che ti faccio vedere.”

Stette fermo. Aspettò. In breve gli capitò a tiro una piuma adatta, la raccolse. La maggior parte erano piumette insignificanti, rovinate, potevano assomigliare a forme non ancora complete, immature con ancora qualcosa del piumino infantile che erano state. Ma ecco che dal vento era giunta una piuma lunga, bella, con le barbe unte e lucenti, il calamo grasso. La tenne dritta davanti a se, tra due dita, con l’altra mano la tastò e spettinò. Doveva essere una piuma caudale, pensò Femi, che così tante ne aveva accarezzate. D’un tratto Makio ruotò la piuma, stavolta tenendola orizzontale con entrambe le mani.

“guarda cosa so fare.”

Piegò le mani. Echeggiò un rumore mai sentito, una scintilla ossea. La piuma si era spezzata. Non era più come le altre piume grandi. La faccia di Femi scoprì nuovi pruriti. Ticchettavano le palpebre, sbattendo intermittenti con frequenza mai provata. Non riusciva a non guardare la piuma spezzata, e allo stesso tempo non voleva vedere. Si poteva spezzare la piuma e forse anche tutto il piccione. Si sforzò di chiudere gli occhi. Ma li riaprì subito perché nemmeno la scena che vide dietro le palpebre gli piaceva. Ecco di nuovo Makio davanti a lui con in mano una piuma spezzata. Sembrava soddisfatto.

“aaaaahh”, sospirò di goduria, “hai sentito quel rumore? Quando lo sento, mi spariscono dalla testa tutte quelle domande senza risposta. Mi si riempiono le orecchie, mi si riempie tutto quanto. E le mie mani sono felici perché hanno fatto una cosa piacevole.”

D’un tratto Femi capisce. Esistono risposte di questo tipo. Nell’oscurità delle palpebre, ha visto una scena che gli faceva vorticare e tuonare il cuore, un temporale nel petto: era Makio che si arrampicava sulle sbarre. Era possibile scavalcare e lui cercava di farlo. Ma la tunica lasciava scoperte le gambe, e queste si laceravano a fondo sulle punte acuminate. Da Makio usciva del sangue, fiotti acquosi da buchi sulla carne chiara. La sua faccia faceva delle smorfie e la sua voce era di sospiri desolanti. Ma ancora volgeva lo sguardo al cielo che si stagliava immenso aldilà, e riprovava a salire. Femi capì: Madre Dusra lo sapeva.

“allora, che fai? Mi porti dentro così la pazza mi sgrida? Vattene, che ho da fare.”

Sì, ha da fare. Doveva scavalcare, riprovarci come faceva sempre, era chiaro. Makio guarda Femi, più ghignante che mai. Sa di averlo spaventato. Femi capisce: agisce: e ora è Makio a spaventarsi.

Il sangue cadde scrosciando, tantissimo, molto più copioso che nella scena immaginata. Makio, per la prima volta, spalanca gli occhi e la bocca. Il terrore è giunto su di lui.

“MA CHE CAZZO FAI?”, grida. L’urlo rimbomba, nessuno ha mai parlato così forte. Deve essersi sentito anche dentro.

Una cascata rossa. Femi, per provare ciò che ha capito, ha fatto prima un esperimento su se stesso. Tendendo il braccio all’indietro, ha afferrato la punta di una delle sue alucce, quelle ridicole alucce azzurrine di gommapiuma, incapaci di volare, che Femi Makio e quelli come loro portano attaccate dietro alla schiena. Ha impresso nel braccio una cosa nuova: forza, odio, volontà di strappare. E ha strappato: ora dall’ala esce il sangue. Interessante: è così che si fa.

“c-che cazzo hai nel cervello…”, balbetta Makio, “stupido… ritardato, ti odio, ti odio!”

(stupido, ritardato? Eh no! Non stavolta!)

“perché dici così, Makio?”, chiede Femi, con tono più che mai innocente, mentre l’ala dalla punta strappata perde colore.

“p-perché? Ah, vuoi sapere che penso di te, vuoi che la dico tutta?”, rialza la voce Makio, con la nuova faccia pallida, atterrita.

“sì dai, dimmelo.” (altrimenti un altro rumore, un’altra scintilla dovrà riempire la risposta, come mi insegni…)

“bene, penso che oltre a essere ritardato fai schifo, fai schifo te e fa schifo quell’uccella che puzza di merda di piccione e puzzate uguale, perché sei uno schifoso e ti piace lo schifo che fa lei e ti rotoli nella sua sporcizia. E sei un pervertito da vomito, ogni volta che vai là dentro speri di intravedere nel buio quella zampaccia nuda rosa e bitorzoluta che esce dalle piume, e speri di guardarla, vero, quella zampa nuda!”

Un flash. Una zampa nuda. Ha un colore come di pelle, di carne, l’unico colore di pelle che conosce… appartiene a una creatura enorme, più potente di lui. Potrebbe schiacciarlo. Quel rosa, quella pelle squamosa, potrebbero ricoprire tutto il mondo… c’è un calore, da qualche parte lì. Sotto le rughe, i brutti peletti che spuntano senza dar vita a piume complete, sotto le squame c’è un sangue caldo dentro vene e arterie, ci si può appoggiare e rincantucciarsi, al sicuro. Sì, la guarderebbe. Guarderebbe una gamba, schifosa, vecchia, rinsecchita. Che diavolo c’è che non va in lui? Come fa Makio a saperlo??

(insulti. Di nuovo. Eh no! Non stavolta!)

Femi mette in pratica ciò che ha imparato. Balza in avanti. Braccia tese. Si immagina degli artigli sulle proprie dita. Afferra, graffia: sotto la tunica di Makio sente il torace, è molle e riceve dolore. Spintona. Makio ricade all’indietro, l’aureola di plastica in cima al filo che spunta da dietro al colletto ondeggia avanti e indietro senza più fermarsi. Makio si rialzerà e restituirà il colpo: nasce la lotta.

Favola: sta scritto, si dice. C’era una volta, nell’immensa palude pontina, un coccodrillo. Non era un grosso esemplare: viveva di pesci e insetti, uccelli acquatici, qualche carcassa di bufalo. Ma in quell’ecosistema aveva vissuto per anni con successo estremo, con la propria tranquillità. Tra tutti gli animali che passavano di là, solo i bufali adulti erano più forti. Per il resto, di esseri che competessero c’erano soltanto i misteriosi spiriti o diavoli della palude; ma con questi tutti convivevano in armonia e rispetto. Questa Mamma Coccodrillo trascorreva le sue giornate felice nell’umidità, sempre a bighellonare sotto il pelo dell’acqua, facendo uscire le gobbe ruvide solo per farsi accarezzare dalle frequenti piogge fresche. Arrancava sui lembi di riva, frastagliati come un atollo e di compattezza morbida come torba, solo per cercare un canneto o un’argilla adatta per la sua nidiata. Ma la sua ricerca era meticolosa e difficile: sempre trovava dei difetti in molti luoghi, sentiva che la prole dovesse nascere in un punto destinato a essere per sempre importante, tale da rimanere in piedi anche se tutto il mondo attorno stesse crollando. Così Mamma Coccodrillo per lunghissimo tempo tratteneva le uova all’interno del suo ventre. C’era da perlustrare ogni angoletto della grandissima palude. Si dice che visse così addirittura per molti secoli.

Ma al sorgere di una nuova era gli spiriti avevano cominciato a soffiare più impetuosi di prima. Di solito questi, placidi come la superficie delle acque, ricordavano nel carattere la stessa aria salmastra da cui prendevano forma. E a un tratto erano inquieti, spargevano bisbigli che giungevano agli esseri come gridi di allarme: dicevano che le cose stavano per cambiare, che con i sensi sviluppati in loro possesso potevano starne certi, avvertire la cosa incombente. Dapprima difensori, soltanto in virtù del proprio esistere, del territorio dagli attacchi degli umani più avidi, ora andavano dicendo che questi cominciavano a non temerli più; si dedicavano a sopralluoghi sugli acquitrini, facendovi brulicare quei loro ben precisi sguardi in cui risiedeva concupiscenza di costruzioni, smottamenti di buona terra e acque; e perfino quelli che c’erano sempre stati, i timorosi e sobri paria delle capanne, cominciavano a perdere la loro superstizione. Altri spiriti ancora sostenevano che non fossero gli umani la vera catastrofe, ma che questi erano solo una parte di qualcosa di più grande. Insomma, le cose sarebbero cambiate, e scappavano via gli uccelli, confabulavano nervosi i ronzii di zanzare. Solo questo poté convincere Mamma Coccodrillo che, dopo secoli di esitazione, c’era bisogno di deporre le uova alla svelta e che, eventualmente, si sarebbe arrangiata per trasferire il nido da un’altra parte in un secondo momento: il luogo prescelto dal destino lo si poteva sempre trovare più tardi, se fosse riuscita a sopravvivere.

Un giorno, Mamma Coccodrillo stava ferma a contemplare il cielo su di una riva di lunghe e sottili erbe intricate, simili a paglia. Con la coda, copriva una dozzina di bianchissime uova, da qualche giorno deposte in una rudimentale conchetta da lei scavata in maniera provvisoria, in attesa di potersi spostare. Come sempre in quel tempo, stava pensando a come fare per trasferire il suo nido e individuare la spiaggia migliore (era una madre molto attenta, e non le importava di perdere l’intera giornata per riflettere sul problema, senza mangiare). All’improvviso, vide spuntare davanti a uno scurissimo nuvolone temporalesco, come fosse uscita da questo, la mostruosa sagoma di un gigantesco uccello mai visto prima. L’istinto le disse subito di tenersi pronta: avrebbe dovuto combattere. Non ricordava più quando era stata l’ultima volta. Ma aveva deposto le sue uova, e quando questo è ormai avvenuto, si deve accettare di doverle difendere. I palpitii in fondo a sé, immersi nel saggio sangue freddo, così invecchiato, le dicevano che non ce l’avrebbe fatta. Ma non poteva neanche fuggire e aveva un dovere da compiere. L’uccello, un’esemplare femmina, si precipitava verso la riva. Atterrando, sbatteva le ali che come un mantice gigante lanciavano sterpi e rametti con una ventata prepotente. Un tonfo polveroso si levò quando i piedi rosa a tre dita toccarono la piccola spiaggia sterposa. Le due “madri” si fissavano dai due estremi del lembo di terra, l’isola sospesa tra una sconfinata pozzanghera e il cielo pronto alla tempesta. Era chiaro e immediato che possedessero volontà opposte. L’arpia nera e bianca, dal petto gonfio che si insuperbiva a quasi due metri di altezza, torreggiava minacciosa su Mamma Coccodrillo che, appartenendo alla stirpe delle lucertole, stava sempre schiacciata a terra e sembrava indifesa. Cominciando a sibilare, spalancò la bocca, come fanno i coccodrilli che prendono il sole sulla riva: non c’era da scherzare nemmeno con i denti feroci così scoperti, con gli artigli delle sue zampe preistoriche pronti allo scatto (e la coda di tremendi muscoli e placche, che proteggeva il tesoro più grande). Paura e sdegno della morte, sensazioni esplose soltanto ora nel rettile sempre vissuto come immortale, rispondevano ai due occhi rossi, vivissimi, che calavano come un giudizio finale da un’altezza inarrivabile. Mamma Coccodrillo ha deciso: sarebbe certo morta, ma non prima di aver cavato via la vita da quegli occhi.

“fatti da parte, demonio di palude”, gracchiò l’arpia con orrendi lamenti, “il tempo sta cambiando. In questo desolato paese di fango si ergeranno le scogliere dove prolifererà la mia gente. E su questa spiaggia io costruirò il mio nido, e sarà soleggiato e bellissimo, e accoglierà molta prole in festa, e sarà come un giardino in cui crescano numerosi bellissimi fiori dal gambo verde e i petali più gialli del Signore del Cielo.”

“vuoi fare un nido, tu? Ma tu non sei una madre.”, soffiò infuriata Mamma Coccodrillo, “Il mio olfatto e ogni scaglia del mio corpo mi dicono che non porti uova nel ventre. Farai da guardia alla prole degli esseri fertili. Con che diritto puoi dirti madre? Per ora, vedo che non porti nascita ma solo morte, la mia e quella dei miei figli.” -E dopo averlo detto, per l’ultima volta, quasi per nostalgia, si coprì gli occhi ocra con la membrana che aveva sempre usato per proteggerli dall’acqua troppo torbida. Sapeva che mai più avrebbe potuto immergersi nelle profondità che erano il suo mondo, che voleva tanto far conoscere ai coccodrillini.

L’arpia fece schioccare orrende labbra d’osso. Rispose: “anche tu porti morte, poiché con gli artigli e le zanne, bestia delle tenebre, dilani e scortichi senza pietà la carne di mansuete creature, che povere e ingenue si abbeverano scambiandoti per un tronco, maledetta ingannatrice; quanto al diritto di chiamarsi madre, questo, nell’epoca che arriva, può essere stabilito soltanto in un modo: lo si attribuisce a chi vincerà nel combattimento.”

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Ciò che accadde dopo, la leggenda non lo vuol raccontare; ma lascia molto dietro sé. Sappiamo che ad Aprilia non rimangono coccodrilli. A volte pare di udire, nelle notti estive di concerti di rane nella periferia, quando l’aria è magica e resuscitano le lucciole, un sommesso sorgere di quell’acuto pianto a schiocchi tipico dei coccodrillini; e si cerca il nido, calpestando il terreno attorno agli stagni, simili a torba… ma poi ci si desta, e si crede che non può trattarsi d’altro che fantasmi. E un solo coccodrillo di pietra rimane umiliato a osservare la piazza dalla testa recisa. Forse un tempo venne lì trasportato, su di un’altura o scoglio, da un predatore del cielo. Ancora agonizzante negli occhi, ormai deturpati da striature argentee incapaci di riconoscere la luce, infierì sul cadavere dell’avversario.

Per il resto, non sono stati mai trovati resti di uova candide. Vennero forse schiacciate da piedi nudi dalle dita appuntite. Resta invece un nido noto per i fiori gialli che lo decorano.

Detto questo, anche a voler credere che i piccioni della piazza discendano da un’arpia, non si deve ritenere che siano cattivi, o che buoni sarebbero stati i coccodrillini se fossero nati: nella palude vivono sempre specie animali che semplicemente rispondono delle proprie volontà. Alcune sopravvivono fino ai giorni nostri, e un giorno forse morranno come morì Mamma Coccodrillo. Noi osserviamo ciò che si compie, che si dice, e che ora sta scritto.

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