Gli Appunti Del Fango- yellow flower suite, movement 1: gospel overture (pt.1)
- Milky
- 16 giu 2020
- Tempo di lettura: 19 min
Una piuma sperduta dal vento va a posarsi lentamente sul cortile interno.
Da un lato Via Marconi, dall’altro la chiesa. Qui si può accedere solo sotto la veste di iniziati, passando per le porte stampate sul fondo della navata. Per la maggior parte dei fedeli alla messa, alcuni anche molto assidui, sono soltanto degli elementi dello sfondo, e non delle vere aperture, non un vero passaggio attraverso un’altra stanza, un corridoio, un’altra porta e un’uscita che non vedono. Mistero della fede. Ma queste porte sono vere porte per alcune categorie che ricevono il permesso di addentrarsi dapprima in direzione di quella parete, sul fondo misterioso della chiesa, riservato ai sacerdoti che da qui fuoriescono come partoriti dal marmo, e poi in quello che c’è aldilà. Divise bianche un po’ ingiallite, con un nome scarabocchiato nel colletto; oppure altre divise, grigie con le maniche lunghe gialle, come giallo è il fiore stampato sul petto per una categoria “secondaria”, che può vedere queste cose entro un periodo breve e di scarsa comprensione. Tre anni di prestigioso asilo di monache. Si dà per scontato che il passaggio del tempo andrà a oscurare sufficientemente la memoria dentro queste piccole teste. Non si pretende che venga cancellata ogni immagine del luogo, ma se questo non accade, non si può sempre dire lo stesso della sua importanza. Sì, insomma, era un cortile e basta, penseranno la maggior parte degli ormai cresciuti bimbi dell’asilo. Quelli con la maggiore attenzione e padronanza dei dettagli, molto ammirevolmente sapranno anche ben descrivere l’aspetto del cortile, colori e oggetti che io stesso non saprei ricordare. Ma spesso finché non viene chiesto, cosa improbabile, non ci penseranno. E invece in certi altri quel posto rimane a galleggiare in sottofondo. Come svegliarsi ogni mattina in una camera dalle pareti tappezzate di poster. Tra i tanti, ce n’è uno che ritrae proprio quel luogo, che così inevitabilmente riesce a farsi una piccola strada nell’occhio e a influenzarlo. Ma chi occupa la stanza dorme con le serrande costantemente abbassate e quest’ultimo rimane sempre un po’ obnubilato, non tanto sicuro di tutto quello che ha attorno sebbene lo veda ogni giorno. Deve sempre riabituarsi un po’ alla tenebra e all’odore del chiuso, apparentemente indissolubili -gli sembra di sentire aprirsi al centro della pupilla due fenditure, due narici, un occhionaso.
Una piuma, sperduta da un leggero venticello, ondeggiando va a posarsi su quel cortile interno. Deve andare avanti così per un po’, sbattuta violentemente. Dietro le sbarre di un “parco giochi”, un individuo identificato dalla divisa -quella grigia col fiore giallo- guarda aldilà, dentro il cortile, dove quella mattina stanno in attesa quelli con l’altra divisa. Sono alti, grandi, raccolti in un manipolo, mai visti così tanti passare di lì. Dal gruppo provengono delle voci. Giungono come i mormorii di un’altra lingua, lontana, che produce suoni fluidi come eco di acque. L’individuo dalla divisa floreale, l’unico rimasto in piedi immobile davanti alla scena, se chiudesse gli occhi vedrebbe cose che non conosce. Sculture, forme umane dal corpo che sembra cantare attraverso muscoli o seni. Di carne, di pietra e di luce allo stesso tempo. Perché questi banali chierichetti si trasformano in eroi al semplice calare di una palpebra? Eppure sono proprio voci di “eroi” quelle che ascolta, quella lingua strana e celestiale nella quale pure saprebbe discernere parole volgari, passato soltanto qualche anno in mezzo alla gente. Ma chiudendo gli occhi è così: bisbiglio di nuvole, di sorgenti e bagliori, di elementi che non sono la terra. Senza aver mai saputo nulla di esseri a metà tra l’uomo e il dio, di titani, o di splendenti figure regali di mosaici e bassorilievi sempre battute dal sole, può chiudere gli occhi e sentire tutto questo, provare l’emozione di trovarsi nel mondo. Se soltanto li chiudesse: per ora non lo fa, sembra incantato con volto di pesce. Guarda quei “grandi” e la loro irraggiungibilità, schiavo inconsapevole dell’incapacità di comprenderli. Ma a lui sta bene così, si accontenta di guardare e di esserci. Non pensa minimamente che le sbarre si possano scavalcare, che un abitante del suo stesso reticolo dotato di sufficiente curiosità e iniziativa, un distruttore di equilibri, possa anche decidere un bel giorno di provare a vedere che succede se passa dall’altra parte. C’è un ostacolo attraverso cui il suo corpo non può passare e non è capace di pensare il contrario. I chierichetti stanno in un altro mondo, un piano astrale, fine. A lui piace fermarsi a osservare, di tanto in tanto, fra poco riprenderà il gioco insieme agli altri che non hanno smesso di schiamazzare e correre avanti e indietro intanto che senza accorgersene fantasticava di eroi. Lui sta bene.
E tuttavia, una piuma agitata qua e là, lentamente va a posarsi su quel cortile interno. Sorvola la porzione in cui attendono, c’è qualche adulto con loro -alcune delle suore, delle catechiste, un prete giovane-, chissà perché sono tutti lì, una mattinata in mezzo alla settimana. A volte si vedevano piccoli gruppi, due chierichetti ogni tanto, forse di quelli più immischiati degli altri con le cose della chiesa, qualcuno che aiuta in mansioni generiche anche quando la domenica è lontana. Però non si era ancora vista una cosa del genere. Forse c’è una festività di cui non sa niente. La piuma sorvola, fa una strana piroetta, sforando di poco al di sopra della porzione recintata, piena di bimbi vivaci. Ritorna, discende piano piano. Ci sono, a pensarci, altre persone che passano là dietro oltre alla gente della chiesa, i chierichetti e tutti quelli che stanno dentro all’asilo. Per prima cosa, quelli del catechismo, che si vanno a infilare in uno strettissimo anfratto mezzo sotterraneo, che neanche si vede in mezzo a una delle pareti esterne. C’è una vetrata scura o magari sporca, comunque non si può vedere cosa fanno là dentro. E oltre a loro, presumibilmente, c’era ogni tanto chi andava a giocare al campetto. Forse ce ne sono altri ancora che sfuggono, mestieri elusivi o creature invisibili, lontani da consueti pensieri. Passano per una parte o l’altra, con in mezzo la “barriera”. Alla piuma questo non importa, può cadere sia di qua che di là. Contiene un concetto nuovo: i due mondi non sono del tutto separati. Se si potesse fare come quella piuma, uno potrebbe ascoltare più da vicino la lingua degli eroi (degli dei? Non era uno solo?). Piano piano infilarsi in quel gruppetto, forti della propria bassezza, circondarsi di una foresta di gambe e scoprire che cosa sono, se sono buoni o cattivi. Stanno sotto un gazebo, vicino a una tavola imbandita all’aperto. Un tavolo verde scuro. Patatine, Coca Cola, aranciata, pizzette, rustici. Se ne sentono gli odori insieme alla plastica riscaldata dal sole. Dove c’è chiesa, c’è cibo, o almeno così sembra essere. Questi “ebrei” ossessionati dal pane, intanto, e poi, pensa stupidamente, tutti i vecchi che conoscono vanno spesso alla messa e amano cucinare o mangiare, una delle due cose. E i parenti del sud parlano per metafore di santi o digestione, non preoccupandosi (a torto, lui pensa) della contaminazione e mescolanza dei diversi tipi di imbarazzo provenienti dai due diversi concetti. Chissà se un giorno per timore di perdere la fede dovesse venirgli un’ulcera o una roba simile.
La piuma finalmente è caduta. Non so se si è posata ai piedi del gruppo di chierichetti in festa (chissà per cosa) o se viene trascinata insieme a quelle foglie che sembrano di gomma in mezzo alle radici degli alberi del parco giochi, i bimbi corrono in un certo disordine di oggetti sparpagliati, spesso sporchi. I ricordi si fanno confusi e mescolati, perché quello stesso osservatore avrebbe un giorno percorso gli stessi luoghi indossando l’altra divisa, dall’altra parte della barriera. Nessuna tavola imbandita, però. E poi lo avrebbe fatto ancora, per il catechismo. Forse fu in una di quelle volte che raccolse la piuma -da quelle parti, è pieno di piume svolazzanti: ci sono dei nidi mezzi sfasciati nelle nicchie che ospitano le vetrate multicolori della chiesa. Non importa, non importa quando la raccolse, quanto grande fosse la sua mano quando lo ha fatto. Nel momento in cui accadde si aprì un corridoio. Legnoso, marrone, impregnato d’incenso, proprio come quelle stanze nascoste a coloro che in chiesa rimanevano normali spettatori. Muovendosi al suo interno, si raggiungevano quei luoghi variamente sparsi nel tempo, a proprio piacimento. E può sempre apparire, disegnata nel vento, trasmessa dalla punta della piuma impugnata stretta e tenuta in alto a incontrare lo sguardo- può sempre apparire una strana “scena”, o forse una “storia”, la stessa di quella volta.
Nessuno aveva mai voglia di dormire. Il pomeriggio, provvisto di quella regola ingombrante del riposo imposto, trascorreva con difficoltà, come affaticato all’inverosimile da un perso indefinibile, una piccola tortura per tutti.
“Abbassa quel braccio!”
“Abbassa quella gamba!”
Lo facevamo per gioco, per un gusto che non avremmo saputo spiegare. Per dire “ci sono”, o per dire “questo è il mio arto e nessuno lo può negare”. Le suore e la “maestra” gracchiavano formule standard di rimprovero a intermittenza. C’era da chiedersi se la distensione dell’arto al di sopra della massa dei corpi supini nella penombra fosse un’invenzione di quelli del nostro “anno”, un’innovazione portata da un geniale membro della nostra comunità abbastanza carismatico perché la accettassero tutti senza questioni, o se invece era un comportamento universale mostrato da tutti quelli che erano stati all’asilo. In entrambi i casi erano vane le insistenze dei tutori, laici e non. Tutta quella turbolenza -corpi troppo piccoli per contenere un eccesso di irrequietezza- produceva un ritmo cigolante di lettini scomodissimi. Sembravano privi di materasso, corpi vuoti di insetti. Luce blu di dormitorio, blu anche la polvere di cui è satura l’aria viziata e pungente del dormitorio. A ogni movimento uno scricchiolio simile a una lamentela, e a questo ne facevano eco altri tre, altri cinque. Non si trattava solo di energie sovrabbondanti nei piccoli, nessuno avrebbe mai voluto dormire in letti del genere. Ma in cuore a quella cadenza digrignante di squittii si generava e spandeva, perfettamente celata, un’ipnosi unica e incontenibile: così la testarda resistenza al sonno finiva per produrre un sostituto a questo, una trance non priva di sogni.
Braccio: alzalo come hai visto fare a un altro. Gamba del lato opposto: alza pure quella, dopo che hai abbassato l’altro, il principio dovrebbe essere lo stesso. Ha detto il nome di un altro, non il mio. Non ci si vede niente con questa quasi notte al chiuso. Non mi vede abbassare la gamba e nel secondo tentativo indovina il mio nome. Non è la voce della suora della mia classe, l’aula di Alice e lo Stregatto. È quella dell’aula Sirenetta, mi conosce perché mi sono spesso infiltrato lì ad ammirare le verdi profondità marine dipinte sul muro, i suoi pesci e alghe, attendevo uno squalo che certamente doveva incombere in qualche punto cieco dell’abisso. I muri, bisogna riconoscerlo, ci regalano bei paesaggi. Li voglio vedere per poi ricordarmeli. Solo che adesso anche lei si ricorda di me. Non posso essere semplicemente come le figure dei dipinti, e muovermi come mi pare e piace da una parete all’altra dell’asilo? Ma fa lo stesso: mi sa che tanto queste suore conoscono tutte mia madre. Ora attendo che altri alzino braccia e gambe. Ascolto i rimproveri. Arriva prima il cigolio o il movimento? Dopo un certo giro tocca di nuovo a me. Non dormo, non riuscirò mai a dormire qua sopra e qua dentro, questo scheletro, questo dormitorio. Anzi, non solo non ci riesco, se potessi riuscirci mi rifiuterei. Però sono intorpidito. Ciclo, turni, gambe, rimproveri, prossimo cigolio. È divertente, è noioso, è divertente, no! È solo che non c’è niente di meglio qua dentro. E va bene, questa volta mi hanno avuto, ma un giorno, un giorno riuscirò a scamparla questa cosa. O l’ho già fatto? Mi è già successa quella cosa? Spesso non capisco se viene prima il passato o il futuro. Torpore, torpore, sonno anche se sveglio, noia anche se gioco. E infatti mi sembra che raccolgo una piuma. Quando è stato? È stato fra tanti anni, o tanti anni fa. Sento, penso come quando ho la febbre, sarà colpa della polvere blu. E dei cigolii gnnniiiikk. Una piuma, ecco cos’è. Bianca, sudicia e unta, frastagliata dal caos: la maggioranza dei piccioni di Aprilia vive in questa zona, custodi della piazza. Questa dev’essere appartenuta a uno di quei piccioni dal manto pasticciato. Mi sembra di vedermelo davanti, nero e occhi vermigli, cosparso di macchie bianche come vernice lanciata addosso, sono sicuro anche se qui c’è solo la sua piuma, anzi non c’è nemmeno quella. Tengo la piuma alzata davanti a me. Sbatto gli occhi, come succede. Li riapro, sempre sulla piuma, sono concentrato, è il perno del mondo perciò non vedo niente di tutto quello che attorno a questo continua a ruotare. Non vedo il suo mutare. Quando distolgo l’attenzione dalla piuma e ritorno al paesaggio circostante già non lo riconosco più. La piuma ha introdotto il mutamento delle cose, o forse le ha svelate per come erano essenzialmente, comunque mi sento di reputarla un oggetto magico capace di questo e altri misteri. Mi trovo in una sorta di “piazzola”. L’area, i contorni, la disposizione, tutto questo è come nel cortile, ha anche la stessa aria familiare. Ma è diverso nei dettagli. Il terreno non è grigio a mattonelle mezze soffici, è un unico blocco compatto color cappuccino o crema insomma una di queste tinte giallastre da bar. E poi sembra che sto -o sta? Sono ancora io il personaggio? Succede anche in molti sogni, al principio se stessi per poi assistere dall’esterno alle azioni del personaggio mentre una parte di noi continua a viverle direttamente, un collegamento wireless tra cumuli di budella contenuti in ventri diversi. Dicevo, chiunque sia che sta in questa piazzola, se si avvicina al limitare della sua area vede che dà sul “vuoto”, o più che altro il cielo. Tutto grigio, annuvolato. Solo il cielo plumbeo, anzi quasi bianco, il sole non esiste ma al suo posto non viene la notte. Cielo immenso come da un balcone solitario che fluttua, Via degli Oleandri non c’è. Eppure, inspiegabilmente, questa sembra essere la differenza meno marcata rispetto al paesaggio normale.
Passeggia. Come in una cattedrale, ogni passo canta un’eco contro l’aria inerme, abituata solo al vento e la sua assenza, un silenzio che sembra guardare. Suppone che il pavimento sia cavo all’interno. Se provasse a divellere le lastre prive di contorno, a scavare un tunnel e scoprire i segreti del sottosuolo, lì troverebbe (crede) soltanto una caduta attraverso abissi di nubi vaganti, oppure molto più in basso un secondo pavimento, l’altro estremo di una scatola di latta sospesa nell’atmosfera. Cavo come le ossa che conosce, o pieno come la terra su cui, vagamente, ricorda di aver camminato un tempo? Deve essere stato un sogno, o una leggenda tramandata. Passeggia, struscia: a volte qualche piuma caduta si attacca ai piedi, per qualche fenomeno che al tatto ricorda il magnetismo. Poi se le scrolla con movimenti decisi. Gli escrementi bianchi e longilinei, pennellate furiose, li trova sempre già rinsecchiti, per sempre stampati: non imbrattano, sono i pattern caotici del pavimento stesso. In alcuni punti ancora indugiano i pidocchietti rossi, avidi di rimasugli nutrienti. Nervosi si scontrano e poi scappano via, senza ricordare nulla, pulsano come globuli nella linfa del presente. E intanto i passi echeggiano, toc toc, creando l’unico orologio del cielo. È questo che sta facendo? Percorrere il perimetro in cerchio, apparentemente senza far nulla di particolare, mani in tasca, l’occupazione di una lancetta. Aspetta qualcuno? Se è così, deve essere un luogo frequentemente adibito all’attesa. Si direbbe annoiato, ma nella maniera di qualcuno che è tuttavia abituato alla noia. Ha imparato a seppellirla sotto uno stato in sovrappensiero, di pensieri inscalfibili perché sempre in sintonia col meteo. Oggi la testa fa nuvolo, dunque. La rialza periodicamente, squadra dall’alto al basso, dal basso all’alto le acuminate sbarre di ferro nero che simili a ciglia cingono la piazzola. Scintillano, come superficie d’acqua notturna, come arterie in cui saettano fiotti scuri: a volte le lucida, gli sembra di ricordare. O forse lo fa qualcun altro: quando è sovrappensiero in questo modo, per scacciare la noia, gli risulta difficile aver sicurezza su quelli che giudica come dettagli abbastanza trascurabili. Ha la sola certezza di aver in quel luogo trascorso la sua esistenza, che quindi a esso si lega mediante il vincolo o il tramite di un qualche “ruolo” necessariamente radicato a qualunque cosa può vedere lì, al loro insieme, tutte le cose che ha visto. In una tale esistenza, ha certamente interagito con quelle sbarre (anche solo guardandole come fa adesso, alzando il capo a intervalli), poco importa se l’impressione di aver strofinato su queste un panno inumidito sia stata costruita dalla mente, per effetto della prolungata convivenza, o se effettivamente la lucentezza che vede sia da imputarsi al suo lavoro. Il suo “mestiere”, “ruolo”, insomma quello che è stato posto là a svolgere dal destino è intatto fintantoché ci rimane. E non possiede la facoltà di dubitare sulla permanenza: lancetta non può saltare fuori dal quadrante. Sono nero brillante, o un grigio molto scuro. Lisce e morbide, non troppo fredde. Né sottili né spesse, ma un po’ si assottigliano salendo. Per poi cambiare, separare bruscamente dal fusto una punta che è come un pungiglione. Lance di guerra rivolte in alto. E il sangue che in sparute macchioline imbratta l’estremità tagliente (non ci si riesce a salire fin lassù nelle pulizie, chiunque sia a farle) non gli fa pensare che appartenesse a qualcuno che ha cercato di scavalcare. Sarà parte della colorazione naturale. Dopotutto, come si vede nella statua all’interno di un edificio vicino, anche la lancia dell’arcangelo termina in una polpa rossa. Il petto del diavolo squarciato sembra uscire da questa, non il contrario. La maestra e una suora in coro, un po’ più impetuosamente del solito urlano di star fermo a uno scalmanato che conosco solo di vista.
Risveglio. Mi stavo addormentando pur continuando a muovere, alzare e abbassare, come un automa? No, dev’essere qualcosa di diverso: conosco il risveglio: è una camera chiusa con le serrande abbassate. Poster, fotografie, sembrano essercene molte. L’asilo, una giungla, il libro dell’asilo di Kipling, poi altre cose come una spiaggia, banchi di scuola, un’illustrazione a colori su di un libro di animali; bosco al limitare di una campagna, un’edicola e un panettiere su una via che porta a un’altra scuola ancora. Qui non c’è nessun risveglio che abbia queste caratteristiche. Mezzo intontito, strappato di forza al dormiveglia, mi sembra di udire un frettoloso sbatter d’ali là fuori e mi ricordo che intorno al dormitorio preme un esterno caratterizzato dal cielo, gli alberi, le strade. Eppure quel voletto potrei benissimo averlo immaginato. Un meccanico scattare di timpani infastiditi quando ritornano da un abisso dove incubano le cose viste nei sogni, strepitano in protesta per darsi tempo di riabituarsi alle condizioni di questo mondo qua. Sento lampeggiare qualcosa dietro gli occhi. Qui è sempre pieno di cigolii, non è cambiato molto e questo, almeno in parte, mi rassicura. Fra poco ritornerò a vedere una piazzola che conosco senza averci mai camminato.
Passeggia ma si arresta alla caduta, da sopra le nuvole, di un riconoscibilissimo fruscio. Gli segnala che la persona che stava aspettando è arrivata. Si guarda intorno. La piazzola è vuota, ordinatamente, come di consueto, riflette uno stato di calma. Per quanto poco estesa e regolare, ha bisogno di muoversi per notare qualche differenza. Come se a rimanere fermi sul posto una strana rifrazione calasse a oscurare l’ambiente circostante, come se tutto rientrasse in una proiezione predefinita del luogo che si infrange soltanto attraverso il movimento. Perciò, deve riprendere la sua ripetitiva passeggiata in circolo, l’attività dominante, come respiro. Si riscuote e nel farlo torna istintivamente a guardare le sbarre, voltandosi in una sorta di saluto. Deve allontanarsi dal bordo, ripercorrere l’interno e arrivare da lei. Loro rimangono là, dice tra sé, a guardarlo dalle retrovie. Strano: è questa la prima volta che gli viene in mente che quando lei vola e se ne va via, a zonzo per il cielo, le sbarre diventano lontane e non cingono più il mondo. E quando ritorna qui, nel momento in cui sorvolando valica il perimetro, queste non si trovano tutt’intorno, ma sotto, molti metri al di sotto del suo ventre accarezzato dai quattro venti. Ora sa di guardarle un po’ diversamente, e che diversamente lo guarderanno di rimando. Legge un saluto ricambiato nei riflessi di luce biancastra sul ferro nero, poi si gira e prosegue verso il centro.
Bastano pochi passi pensierosi prima che si veda la sua ombra ovoidale, alta. Tutta nera, dandogli le spalle, se ne sta coi piedi immobili piantati a terra, il corpo diritto esegue invece dei piccoli movimenti. A volte spalanca le braccia, o ali, e alza il capo a contemplare l’immensità monotona sparpagliata in su, lontano, l’atmosfera. Sta pregando. Ora non la vede in faccia, ma sa che quando fa così, spesso la dura bocca rimane aperta, a raccogliere il vento nella sua conca, il labbro inferiore calato come un peso morto. A volte escono piccole parole cantilenate, fischi malaticci appena percettibili. Lo sguardo cieco si fa vacuo e un po’ roteante. Atterrata nello stesso punto della piazzola, dove i suoi artigli nel tempo hanno impresso graffi bianchi più fitti che altrove, è appena stata nel cielo e forse gli rende grazie. Non ha mai chiesto se sia effettivamente questo il senso della preghiera. È sollievo, per aver fatto ritorno inerme? (è dunque possibile non fare ritorno?) C’è un protocollo dell’aria che impone gratitudine a chi si muove al suo interno? O è qualcos’altro, un’estasi ancora troppo grande, un altro “mistero della fede”? Ha queste domande dentro di sé, ma non può farle. Non sono mai state bandite, non c’è una legge ufficiale e formulata con parole imponenti, o parole anche solo udibili; nessuno però gli ha mai insegnato come si chiede. Questo basta perché non chieda mai, a meno che non accada “qualcosa” e lì è difficile che “qualcosa” accada. Accadono altre cose. E quello che vede ogni giorno è destinato a rimanere là, lontano da lui, ologrammi che lasciano solchi nella sua mente ma che non si lasciano penetrare dall’indagine o la curiosità. Qualcuno, “lo stato delle cose”, ha interposto una barriera tra lui e le cose del mondo. E guardandola, guardando Madre Dusra che distendeva il corpo piumato, tanto più alto di lui, guardandola nell’atto di farsi sferzare con ipnosi e goduria da una saggezza immateriale non percepibile da altri, pensava che lei doveva saperlo. Doveva sapere che lui non le avrebbe domandato niente, doveva sapere che possedeva dei vantaggi. Le domande, al massimo, poteva porle soltanto lei, ma lei non aveva bisogno di niente e non chiedeva se non per farsi descrivere le cose ottenebrate dalla cecità. E se chiedeva poco, tantomeno dava risposte. Avvicinandosi, si cominciava a distinguere più nel dettaglio il piumaggio, da massa scura e uniforme a un tessuto di tinte scivolose. Qualche piuma bianca spuntava in mezzo alle altre nere delle ali, e certe zone del corpo a ben vedere, più che un nero puro, erano di un marroncino scurissimo o grigio metallico, a volte perfino con riflessi bluastri. Macchiette più chiare, puntini minuscoli, costellavano tutta la nuca e il dorso: si cominciavano a distinguere anche quelli. Ormai vicino, doveva solo aspettare che lo interpellasse. Per ora non diceva nulla, in attesa che concludesse. Immersa in quello stato, certe volte si accorgeva comunque di lui che le si avvicinava alla schiena con una tipica camminata goffa, in altre invece doveva passare del tempo prima che si riabituasse a sentire le cose. Ma era sempre la prima a parlare.
“Femi, sei tu?”-, fece la voce roca e monotona della preghiera. Un silenzio rispettoso le confermò che era lui.
“andiamo fra poco. Ho quasi concluso.”- disse nel mezzo del rito, concedendo una piccola parte di sé a tutto il resto. Forse lo aveva sentito arrivare già da un po’, non doveva essere un’estasi particolarmente intensa. Vista da fuori, però, appariva calata in una zona profonda, dalla quale emergevano solo i riflessi di lontani gesti formulaici.
“e Makio dov’è, dov’è andato, dovrebbe essere qui anche lui ma non c’è”-, si concesse di nuovo, stavolta rivelando qualche lieve aspetto di concitazione a rompere la parlata normale di quei momenti, un sibilo senza emozione: fuori dalla preghiera, la stessa frase avrebbe avuto un tono non privo di un certo disprezzo. “Femi” era un diminutivo di “Femminuccia”, il modo in cui chiamava lui per via della sua chioma, fatta di numerosi riccioletti neri, che ondeggiavano delicati da dietro le orecchie. “Makio” era un altro diminutivo, una corruzione di “Maschiaccio”, un altro che come lui passeggiava da quelle parti. Non ricordava se ce n’erano altri come loro, forse sì, non ricordava quanti erano o se li avesse incontrati (tutti dettagli poco importanti). Makio però lo conosceva bene. C’era e non c’era, si comportava in maniera “strana”, dicendo spesso di non voler fare molte cose. Madre Dusra si arrabbiava, e quando nelle ore del buio dovevano stare sui letti, e su questi si contorcevano, era Makio a ricevere i più frequenti rimproveri. Gli era proibito il movimento, e una volta, nella penombra confusa, a Femi parve di vedere che era stato immobilizzato sul materasso con delle catene o legacci. Vedeva i pugni chiusi e tesi, pieni di vene. Madre Dusra non tacque i rimproveri neanche in quel caso, forse perché Makio aveva trovato un altro modo di offenderla. E anche quando parlava con lui, le sue parole avevano l’insolita capacità di “fare del male”. Femi non reagiva, perché per sentire la rabbia aveva bisogno di qualcuno che gli spiegasse come farlo, e lì non c’era nessuno del genere. Tutto ciò che poteva imparare da sé era l’osservazione, affinarla sempre più, senza alcun aiuto, era nato con questa facoltà, normale per tutti gli esseri ma l’aveva fatta sua; e aveva imparato da sé a praticarla anche a occhi chiusi, rivolta a cose lontane, inspiegabili. Tutto il resto -le domande che aveva dentro, la tristezza e la rabbia- per venir fuori necessitava un insegnamento. Ma anche mancando questo, si accorgeva che un effetto era prodotto in lui dalle espressioni di Makio, dal suo sguardo in cui si incontravano ira, giudizio, malizia, gioia nel dolore; dagli insulti e dalle smorfie, dalle mosse e dal corpo forte. Anche quando se n’era andato, quello che aveva sentito continuava a rimanergli dentro, e in qualche maniera, “non era piacevole”. Capiva che doveva essere lo stesso anche per Madre Dusra, che infatti parlava di lui sempre in quel modo un po’ minaccioso. Più spesso, assorbita nel cielo, cantava il perdono.
Madre Dusra cadde su se stessa, quasi in ginocchio nello stesso punto della preghiera. Il torso rimaneva alzato, ma ora un po’ abbattuto e raccolto verso il suo interno, appesantito. Femi vedeva pulsare la schiena gonfia, così scossa dall’affanno. Finiva sempre così, ci voleva un tempo variabile prima che si tirasse su. Era un’attività stancante, come se rivivesse un’antica battaglia. Le ali distese ora si accasciavano a terra, e appariva più evidente in quei casi quanto fossero lunghe: due grosse tende che fluivano dai lati del corpo, due ombre piumate che coprono vaste porzioni di pavimento. Prive di forza, giacciono così per un po’, oggetti morti; poco dopo, però, improvvisamente prendono vita, la sinistra sguscia all’indietro, la destra nella direzione opposta, seguendo una torsione del busto, ed ecco che vanno a ripiegarsi sul corpo che lentamente si sta alzando. È pronta, ha recuperato forza a sufficienza, è ora di andare. Ci ha messo poco, forse questo conferma che era meno assorta del solito, oppure ha dato un’accelerata: lo si avverte dal tono un po’ appassito.
“su, Femi, ora andiamo dentro…”, disse a bassa voce, mezza invecchiata. Frettolosamente si scostò dalla sua postazione, decisa a volgere sempre le spalle a Femi, che ora la seguiva verso la zona coperta, “La Mangiatoia” (soltanto al chiuso, dov’era più buio, lei gli mostrava la parte anteriore del corpo). Come sempre Femi era lento, camminava un po’ tonto. I passi di Madre Dusra invece, ticchettio di piedi nudi dalle lunghe dita, erano sorprendentemente svelti, e sempre lo distanziava di parecchi metri, fermandosi ogni tanto per dargli un po’ di recupero. Lui tentava solo in quei momenti di essere un po’ più veloce, poiché lei lo invitava così. Cercava, per meglio riuscirci, di immaginarsi cosa poteva portare un essere come Madre Dusra a muoversi sempre in quel modo. Davanti c’era lei che si fermava solo per lui, in direzione della Mangiatoia, mentre dietro erano le lontane sbarre insanguinate a guardarlo. Tra questi due principi si spostava il suo corpo, un puntino, e tentava di imparare a correre con la stessa naturalezza. Era per trovarsi in questo genere di movimento, teso tra due forze, che lei ogni giorno usciva in volo avventurandosi nei cieli? All’improvviso fantasticava la madre del perdono, l’uccello della pace, nelle vesti di una guerriera in lotta con degli opposti. Solitaria, come la vedeva sempre, o al contrario parte di un’ardita schiera di difensori di un unico importante principio, altri combattenti con cui si incontrava a metà strada sopra una laguna di nubi. Femi, nel suo piccolo mondo, aveva sentito parlare di pochi esseri. Esclusi quei momenti in cui chiudendo gli occhi incontrava figure misteriose, di cui lui stesso non sapeva niente, poteva immaginare ben poche cose, quelle che appunto aveva sentito raccontate. E tra queste, aveva ascoltato dei guerrieri. Figure alte e forzute, alate (tutto era alato, lì), portavano una spada o una lancia, e abbattevano Il Nemico. Nella sua testa, tra le poche pagine del proprio personale bestiario di esseri conosciuti, solo “il guerriero” gli sembrava poter coerentemente incarnare quel concetto di “velocità”. Gli venne da sorridere mentre raggiungeva Madre Dusra, quasi all’ingresso: ogni giorno, gli pareva, anche senza domande collezionava una piccola scoperta, ed era solitamente una bella sensazione. C’era però qualcosa che gli impediva di riuscire pienamente nella realizzazione di quella pur piccola impresa, la “velocità”, e quindi anche di entrare un giorno a far parte di quell’ipotetica schiera. C’erano più tipi di guerriero e alcuni non gli piacevano.
...
(continua nella parte successiva)
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