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Gli Appunti Del Fango- vocazione apriliana d'immersione

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 10 feb 2021
  • Tempo di lettura: 10 min

Nella palude del tempo un blocco pesante e inamovibile, feroce per quanto spaventosamente è fermo, è una base fangosa sulla quale tutto “avviene”: rivoli d’acque correnti sulla superficie, si muovono. Ma essa stessa, là sotto, non è un divenire. I rivoli sono solo per gli esseri che necessitano ossigeno, che non possono respirare all’interno del blocco di fango, gli esseri della superficie. Si circondano di finti movimenti, non scendono mai là sotto nella stasi. Quasi mai.


Nella palude del tempo, a un certo punto, il compilatore degli Appunti Del Fango vuole “gettarsi”. Potrebbe dire che “quei momenti sono inevitabili”. Forse potrebbe dire di voler scendere, “fare ritorno” là sotto. Ha scritto del Fango, si è fatto suo “osservatore”. E avendolo osservato qui, in questa città, ai suoi occhi così tanto desiderosa di mostrarsi come progenie di esso, conosce la sua ubiquità, l’onnipresenza delle melme che lo compongono. E a volte -non sempre- non riesce più a sopportare di fingere che non ci sia, che il suo principio d’immobilità gorgogliante che soltanto fagocita e avvolge non valga ovunque nel cosmo. Perciò, “tanto vale”, si dice tra sé con parole di esseri di superficie, “tanto vale accettarlo del tutto, in maniera esplicita, da far coincidere la propria esistenza con la propria comprensione”. Ovvero, cancellarsi come soltanto agli esseri della superficie è possibile fare: bloccando il respiro. Soffocando, discendendo là sotto, entrando nella cosa che non possono mai percepire fino in fondo fintanto che possono autodefinirsi: l’assenza di vita. Gettarsi nel Fango. Il Fango è stato cantato da chi, cantandolo, verso esso infine si dirige, ipnosi autoindotta. Patetico feticismo della verità di cui si ha fame. La verità, ciò che più le assomiglia, è una sola ed è questa.


Perciò, come sempre, vado in esplorazione in un campo liminale a qualche strada, quei campi di canneti e pozze in cui sempre scopro l’essenza più sentita e piena e profonda della città, che esiste in virtù dei punti in cui si denuda. Ne assaporo i grigi leggendo prima i verdi e i marroni sbiaditi. Dove? Un campo, insomma, un campo qualsiasi. Tanto li si riconosce, i campi della pianura pontina. L’importante è che si distingua bene la linea di demarcazione tra la vegetazione salmastra, rannicchiata su se stessa come schiere di ninfe impaurite dal freddo, e il cielo grigio chiaro, quella chiazza di smog e pioggia perennemente indecisa sulla propria caduta.

La scarpa affonda, sotto il velo di sterpi accasciati al suolo il terriccio è pastoso e diaccio. Acqua fredda fende la scarpa, il piede, le vene. Crepitano i rametti spezzati da varia agonia. Avanzo, rumori e sensazioni annunciano la mia intrusione consueta, l’osservatore nella sua vita altro non è che un intruso. Il Fango, là sotto, ruggisce. L’animale più forte, gli altri sono echi. Io sono eco che osserva inesorabilmente la gola da cui si è sprigionato fino a fondersi il suo arioso cervello di suono e globi vibranti di nulla. Aironi guardabuoi si alzano nella distanza, acutamente ricettivi all’intrusione, poco tolleranti. Vorrei scusarmi, ma al momento -cioè, in questo momento prima di gettarmi- non posso essere ipocrita e devo ammettere che il loro volo mi era necessario. Vederlo mi fa sentire a casa per un’ultima volta. Gli eucalipti lontani, solite dita avvizzite verso un palmo che cingono, mi lanciano un “ciao” verdastro.

Un campo qualsiasi di Aprilia, una pozza qualsiasi di Aprilia. Non piove da qualche giorno ma lo stagnetto qui rimane, freddo e tranquillo, irsuto di fili rossastri d’erba che lo trafiggono. Un boato di camion non troppo distanti, un pomeriggio apparentemente infinito nel momento di volgere quasi al termine. Questa è Aprilia, non smetterò mai di ripeterlo. Smetterò solo nel momento in cui, irrimediabilmente addentro il Fango, non avrò modo di ripetere alcunché.


Ma Il Fango vuole che questo occhiuto fascio di robe chiamato “io” svanisca? Cosa vuole?

Vorrebbe che continuassi, e facessi il nulla a cui ha condannato ogni cosa che si muove sulla sua superficie verso gli obiettivi imperscrutabili che gli appartengono. Illuse di averne di propri. Perché voglia che ci muoviamo, è una domanda che continua a procurarmi mal di testa. Cantarlo, forse? Ma nemmeno scrivere del Fango -lo so bene-raccontarlo anche a tutti volendo, ha alcun impatto. Non produce nulla che io mi senta di chiamare “buono”, e ciò che è “buono” è tutto ciò che esseri come noi necessitano per dimenticare quel fibrillante delirio e orrore dell’esistenza che è la palude del tempo. Dimenticare o accettare senza soffrirne. E chissà che anche al Fango, in fondo, non importi di questo nostro “buono”. Potrebbe esser stato lui a instillarcelo in forma di desiderio poiché ci spinge verso un qualche suo volere, insomma gli è utile per la sua sopravvivenza d’essere gigante e letargico nel ventre della terra e degli universi. O forse non è sua responsabilità, e completiamo i suoi scopi indipendentemente dal raggiungimento di questa cosa che non possiamo definire ma che pure ci strega. In ogni caso so che a sparire qui, in questa pozzanghera, sprofondato nell’umidità fin sotto le viscere del cemento sul quale nacqui e camminai, non faccio il “male” né per gli altri esseri, né per Il Fango. Ripeto, i suoi scopi sono imperscrutabili e mai sentiremo con certezza se effettivamente una nostra azione gli sia utile o deleteria, possiamo solo intuirlo. E intuiamo sempre che gli sia utile, perché è una creatura adattabile e astuta, irriducibile: nulla possiamo che gli sia “male”, sa trasformare ogni insignificante azione di ogni insignificante minuta appendice della sua esistenza in una forma di sopravvivenza reiterata, quel desiderio testardo imperterrito che forse possediamo a sua immagine e somiglianza. Dunque vado? Alzo il piede, ciack ciack fa il distacco della suola gocciolante dalla patina limacciosa.

Non posso produrre il buono, posso solo “tornare” al Fango (come se ci fossi già stato una volta, o sapessi già che ci sarei stato, per un concorso di fiati incantati della palude del tempo). Perché lui è immobile e assorbe, trascina, soffoca, inghiotte, incorpora, restituisce alla superficie in altre forme, trasforma nonostante l’immobilità, ignora le contraddizioni succhiandosi anch’esse nell’omogenea poltiglia della sua onnipresente linfa sporca e fradicia. Perché armarsi della finzione di una volontà propria per produrre qualcosa che in verità non produce proprio niente? È ipocrita, è egoista. Non voglio vivere per realizzare desideri di cui sono il solo a importarmene, assomigliando così a una miniatura insulsa del Fango priva però della sua eternità, e ciò che si ammanta dell’illusione opposta, “altruismo”, non sussiste nel mondo del Fango che impassibile continuerà a imprigionare nella sua logica la moltitudine degli esseri, l’infinità di stelle di carcasse sui bordi di queste strade, l’infinità di legno marcio d’acqua che è l’unico vero odore di questo territorio, sotto allo smog le esalazioni gli incendi di plastica le tossine le arachidi della festa la benzina inebriante la calura sull’asfalto la volontà di continuare. “Altruismo” che non cambierà ciò che per natura non può conoscere il cambiamento, e d’altronde perché dovrebbe? (inoltre sarebbe soltanto un desiderio compensatorio alla scelta di non partecipare alla guerra degli ego, un sostituto alla forza che hanno quelli che non temono Il Fango, che senza essersi accorti di lui anzi lo esaltano e amano e riveriscono e venerano a proprio modo. Io, l’unica forma di venerazione che conosco è la paura, che mi ammaestra la mano agli appunti; il mio personale tributo, è questo di raccontarlo come un cantastorie viandante sul ponte imperfetto del linguaggio, sospeso a precipizio sul fiume impetuoso dell’istinto, teso in mezzo alla distanza delle due sponde i cui colli boscosi del significato saranno sempre e solo un’immagine lontana, mai toccata. E a bloccare le uscite del ponte, guardiani antichi armati e protetti, che non tentennano né a risposte né a fendenti. Non a caso indossano abiti di fango secco.)


Fingo, a volte, interlocutori inesistenti per vezzo di narratore, per fingere una giustificazione, una premessa al mio scrivere appunti che so già essere “utili” solo a me stesso. Sto perpetrando il meccanismo, sto “soddisfacendo”, e così facendo genero a ogni istante -l’unità di misura della palude- nuovi cadaveri, nuovo riciclo di forme, nuovo finto movimento nell’immobilità, nuova sofferenza. Perciò non posso far altro che immergermi. In quanto Apriliano mi completo con la palude.

Un passo ed entro. Braccia tese lungo un corpo rigidamente, innaturalmente diritto. Tuffo a candela”, come imparai alla Rari Nantes da piccolo -per qualche motivo una torma di ricordi bercianti si sussegue a spintoni, sbatte e plasma in un grosso serpente bulboso di frenetiche parti. Il momento dell’incontro del corpo che si sforza di assomigliare a una linea verticale con la linea orizzontale che delimita e separa il mondo dell’acqua da quello dell’aria è un brivido gelido familiare a tutte le creature. Ma non dura nemmeno l’illusione d’un istante quel freddo di liquido che scarnifica ogni riparo, che sembra mettere in contatto la parte più profonda e protetta in un essere con un ghiaccio primordiale d’un ricordo collettivo perduto. Non dura, perché nel fendere quel diaframma, a occhi chiusi mentre sprofondo in una pozzanghera di Aprilia allontanandomi da camion e aironi a ogni centimetro che sparisco nell’acqua, spariscono una dopo l’altra le sensazioni del tatto, rimane solo la mente. Che sia l’ultima a sopravvivere nel Fango? Mi sento come dentro un tubo verticale, dritto a squarciare a metà lo spazio. Nero al suo interno come in un bagno di palpebre, rarefatto d’ogni cosa -dell’aria, innanzitutto. E la discesa al suo interno è una discesa che non ha paragoni, una discesa nel Fango che ha un punto di inizio -la pozzanghera da me scelta- attraversato il quale non esistono più distanze, spazi normali. Anche se sollevassi il capo, che non sento più di avere, non vedrei l’occhio chiaro e placido della superficie lontana, come la volta a cerchio di un pozzo ricolma di giorno. E la sensazione di star scendendo, seppur in un tubo dove non è né sopra né sotto, la costruisce la “coscienza” per non esplodere nel sentire le sue parti sfaldarsi, come gommosa corteccia inzuppata di fronde recise e morte.

E sprofondando, in nucleo alla discesa nella quale nulla si vede (“osserva”), vedo invece meglio quel serpente di ricordi in processione, definisco bene che cosa vanno a disegnare le sue iperattive contorte spire: è una mappa di Aprilia, sono dei luoghi. Luoghi, ovvero “istanti” nella palude del tempo, dove e quando mi parve di udire, non capendo se era un’eco remota o un rombo ancor più vicino del battito cardiaco dentro le orecchie, il vittorioso e folle ruggito del Fango, che esultava, sconquassava, si armonizzava ai contorni della mia esistenza. Non durò che un attimo ogni volta, quella chimera di boato e precipizio. Come faceva a essere veloce, se è per sempre immobile? “Qua le domande le faccio io”, sembra dire la peculiare oscurità che mi avvolge, che non è neanche veramente buia. È solo un posto strano e diverso da tutto. Forse per questo mi appaiono posti più normali.


Nella mappa vedo la Gramsci un marciapiede vicino alla Virtus un parcheggio in Via Nino Bixio se non ricordo male lo Sporting Village Parco Friuli Via Ugo Foscolo e poi come al solito Piazza Sturzo e poi le pareti bianche accecanti di un cesso lurido come una grotta a Campodicarne un fossato a Carano una pioggia a Campoleone e piscine varie piscine di sconfinate vasche.


Gramsci scuola dal nome di un pensatore in carcere prigione fatta di un altro genere di fango ma ad Aprilia prolifera tutto. Anche io consapevole delle lacrime che avrei versato nel tentativo di farmi valere e dell’umiliazione che ne sarebbe conseguita presi parte alle cattiverie senza scopo che non c’è motivo di perdonare. Cerchi concentrici nella melma, è densa e non si cancellano. Prepotenze che terrorizzato e codardo esercitai su più deboli ed ero il più debole di tutti. Sentii ruggire Il Fango a fare eco a parole schifose che pronunciai vendendomi per due risatine di altri coglioni, a reiterare il tonfo di un diario lanciato dalla finestra. Anni e anni dopo Sporting Village che non riesce a camuffare il bioma palustre, la mezza luna uncina il cielo nero opaco fitto di lame gelide, sogno l’ennesima capanna solitaria tra i canneti e i bagliori sulla palude che vedo traballare come ologrammi su questo terreno da qua al Rosselli là acquattato nel buio. Nello stesso posto identifico un’ombra di quell’evento di stupidità vigliacca e ancora pavido dopo tutti questi anni non riesco ad avvicinarmi e parlarne, come vorrei. Un esulto dalle profondità della terra, perché non ce l’ho fatta, perché anche io ho obbedito a regole di un gioco selvaggio e ancora trascino le conseguenze. Appoggiato a una parete non posso che continuare a mirare la luna, unica unghiata pallida d’una nebula informe, e di nuovo odo il grido mefitico giungere dritto da un’era in cui solo in solitudine desolata senza strada ci si poteva soffermare in tal modo sulla terra zuppa di questo luogo maledetto della maledizione più terrena. Dalla Gramsci alla Virtus per fare educazione fisica e lungo un marciapiede una macchina rigata ovviamente senza alcun motivo se non quello di dare ragion d’essere alla vergogna ribollente ogni volta che si sente dire che l’osservatore è una brava persona che non farebbe mai certe cose. Precipita nel fango, osservatore, perché solo scendendo osservi la tua bassezza e non quella delle regole che regolano tutto che poi sono le stesse da cui ti sei fatto manipolare ed è colpa tua. Non rifugiarti nel boschetto in fondo al campo da calcio, rimane ciò che hai fatto proprio su quel marciapiede a cui dai le spalle, il gracchio delle cornacchie nel cielo là dietro lo senti perciò il resto del mondo esiste ancora. E vergognati di nuovo in un cesso sperduto mentre di là gli altri ascoltano il concerto, illuditi che non ci sia peggiore dilaniazione nelle viscere mentre ti contorci e stranisci per questa strana caverna che sembra un unico puntino nell’universo nero, quella notte galleggiante sul campo di terra marrone era così scura e priva di stelle che faceva paura e un suo ruggito sovrastò il concerto e gli odori di birra salsicce e cannabis e il ricordo del ragazzo che dà il nome all’evento. Faceva paura davvero. Fanno paura tristezza gli altarini che sorgono nei luoghi di morte appollaiati alle strade, santuari ultimi rifugi di forme scomparse ormai ossa o polvere. Paura come i suoni cristallini come gocce da stalattiti in profondità di una grotta che udii a Foscolo e l’odore marcio delle estati al Friuli, scarti industriali annidati nella terra dicono, paura per un odore che fa rumore di una risata che si droga di putrefazione. Come il gatto di un parcheggio a cui mi avvicinai per conforto nel suo riposo, credevo dormisse e invece era morto. Disteso, il corpo rilassato, ma triste. Mi strinsero una morsa del rimpianto che sentivo avesse provato per una morte squallida e come di un qualcosa simile a un corpo estraneo in gola. Ogni notte come quella migliaia di cadaveri su tutta la palude, forse piansi forse gridai. Il vento ogni volta lungo quel fossato a Carano, prova ad avvertirmi, smettila di vivere così, puoi cantare Il Fango senza esserne schiavo, ma lo dice per schernirmi e infatti sono a un passo da un canale in cui melma e larve di zanzara salgono allo scoperto. Puoi solo fendere innumerevoli piogge su strade che non conducono, guidavo a Campoleone e credevo, con terrore, il più sincero terrore in questa città, che quella strada sarebbe continuata all’infinito, balzando da benzinai e cupe case di stazione verso un nulla oblungo. Piovevano grigi violacei e non c’era niente, solo un richiamo che era sia una risata che un urlo disperato mi ricordava l’esistenza di altre cose.


Dovrei risalire. Dovrei raccontare che l’osservatore è risalito in superficie, che c’è un metodo per districarsi anche una volta che gli Apriliani scelgono di fondersi alla propria essenza locale. Ma che senso avrebbe?


Aprilia è del Fango. Dal Fango non si risale, da questo territorio non si esce. Ecco perché non racconto una risalita, non questa volta.


Continuerò a fare cose senza senso, per un senso di forze che non appartengono a nessuno, i cui concetti di “scopo”, “volontà” e “capire” non possiamo neanche dissotterrare dal fondale vorticoso di un incubo. Ci saranno Gli Appunti a distrarmi, a cantare di disperazione appresso a questa scia che è un odore e un suono, che è legge e caos.


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