Gli Appunti Del Fango- vicino alla vigna (uccello dejavu)
- Milky
- 9 ott 2020
- Tempo di lettura: 21 min
Un piccolo fumo si innalza sulla distesa di ciottoli e sabbia grigia. Il fuoco, quasi spento, sovrastato da materiale bruciato e ormai perso, si può vedere solo se ci si avvicina e accovaccia attorno a quello spiazzo di terra smossa a conca dove era stato acceso. Lo alimentavano pochi pezzi di arbusti secchi, tristi e mutilati, già spogli e come privi di linfe prima di incontrare la fiamma. Sembrano provenire da una terra troppo calda o troppo fredda, dove attraversare l’aria con le proprie membra quasi si avvicina a un atto clandestino. Il prezzo di metter radici là è il lasciarsi avvizzire. Eppure, questo è un territorio che viene chiamato “temperato”, dove la tundra e il deserto sono fuori posto. Ma a sentirsi fuori posto è solo chi attraversa il paesaggio. Ogni tanto, sparute fiamme rade sgusciano gassose crestoline dai pochi buchi tra un legnetto carbonizzato e l’altro. Non è il vento che soffia denso e pesante, infittendo polvere nell’atmosfera, a reprimerle a tal punto: sono talmente basse e svogliate che neanche arrivano al livello in cui esso soffia, non ne subiscono l’influenza. Un fuocherello così può avere ragion d’essere. Stanno in pochi con le gambe incrociate sotto il sedere, in bella vista le piante dei piedi nudi ingrigite e dure come cuoio secco, odoroso di caldo e carne, le unghie non tagliate che sporgono insolitamente chiare -giallastre- anche dalle dita viste da sotto (chissà perché, ricordano un sorriso); sembra abbiano calpestato i carboni ardenti. Stanno così seduti e ascoltano, ascoltano per esempio i polveroni trascinati qua e là, in attesa di sfrangersi sulla più prossima parete che interrompa la piatta aridità, così che la granula di detriti macinata forse per secoli a fluttuare tra i tumulti del meteo vada infine a depositarsi a terra con uno schiaffo, lontana irrecuperabilmente da qualsiasi cosa di cui fosse parte un tempo lontano, viva o fredda di roccia. Oppure, ascoltano i singulti di un uccello lontano. Si chiedono quanto brutto possa essere un uccello che si trova a frequentare questi luoghi. Uno di loro trova una risposta: brutto come noi. Ridono, soddisfatti. Lo accoglierebbero tra loro, davanti a quel misero falò ad asciugarsi le penne da sostanze simili a pece, dai pensieri di reietti che finalmente si appollaiano laggiù, laggiù soltanto. Oppure, ascoltano il rotolare improvviso di un ciottolo, che sembra palesarsi a intervalli giusto per scandire il tempo, o forse per ricordare che in effetti esiste qualcosa prima che un silenzio fumoso metta in dubbio la cosa, o forse le due cose sono sinonimi. Chi è che li muove? Conoscono le entità che lo fanno. Conoscono tutte le entità. Vengono lì, nella piana scorticata, per interpellare però soltanto alcune di esse, quelle che li ispirano, a cui si sentono di somigliare -o vorrebbero che così fosse. Non necessariamente tra queste ci sono quelle che muovono i sassi con forze invisibili che non si spiegano (o forse chissà, oggi saranno evocate anche quelle, il rituale può anche cambiare moltissimo da un giorno all’altro). Non ottengono nulla di tangibile da questo rapporto con quei, quei, “cosi” che più spesso sono invisibili ma che a volte si fanno vedere da qualcuno, snob eterei. Forse, semplicemente, si sentono soli nella bruttura che hanno scelto per essi. Un uccello saggio che sorvola proprio lì commenta tra sé, “hanno fatto bene”, perché sa che se hanno preso una scelta non poteva essere altrimenti. A qualcuno tocca quel ruolo.
Soprattutto ascoltano le voci che soffiano sotto la terra. È un rantolo rancido. Fatto di denti sgretolati e marciti che assottigliandosi sempre più nell’abisso della decomposizione vanno a farsi un tutt’uno col fluido in cui sono immersi, gli olfatti più acuti sanno cogliere quali tra le particelle entrate nei polmoni appartenevano un tempo a un osso che fu putrefatto e in seguito sublimato. Il fiato dei corpi ammassati sotto la terra, tutti in uno stesso luogo, è fatto di brandelli molli che per primi cedettero, anche prima di queste sostanze ossee, perché la ciccia e le sue polpe molli sono sempre la prime ad andarsene. Se ne vanno prima dell’anima nel momento della morte, e anche una volta schiattati scompaiono prima di tutto il resto, perché sono deboli, hanno un gran significato contingente soltanto al loro mondo temporaneo e una volta che lo scopo è giunto al culmine non attendono che siano altri a sollecitarne la rovina, il marciume è un meritato riposo. Nel fiato si avverte la loro origine, una bocca deturpata che soleva produrre parole, solo una cavità vuota e stupida, uguale ai tanti insignificanti pozzi e buchi nel terreno cui in vita non si è degnato più di uno sguardo colmo di indifferenza. A spiarla così, con occhi di talpa nel sottosuolo, e con la consapevolezza di cos’era un tempo, si riconosce nelle linee incurvate dell’apertura forse un lamento, una cosa che dà angoscia, l’idea che stia ancora inseguendo con un urlo -così disperato, così umano!- qualche desiderio che non si è riuscito a compiere, una persona che non si è incontrata, un posto che non si è visto, una sacrosanta solitudine magari. Gli amanti sperduti che vagando mettono piede sul ripostiglio di tutti i morti dei villaggi vicini hanno i brividi, si rattrappiscono come l’erba ruvida croccante sotto i loro passi se soltanto cominciano a pensare a questo dialogo ininterrotto sotto di loro. Non quelli intorno al fumo nero, quelli che stanno laggiù seduti. Loro questi discorsi li ascoltano volentieri.
Nel mezzo del tanfo, che fosse dente o pelle, che fosse risentimento o una risata, nella polvere che rende vani gli sforzi, essi odono altro, una sconfinata bellezza. La crudezza del paesaggio ha reso aridi anche i loro corpi scuri, che ormai bisognano di poca acqua, ma osservando bene ci sono lacrime invisibili, di sbuffi e nulla, che rigano i volti commossi. Non è brutto questo odore cadaverico, non è brutto stare vicinissimo a tutti loro, tutto questo ammasso di cose che un tempo potevano trovarsi qui come siamo noi ora: perché a ogni momento in verità è così, tutto ciò che attraversiamo un tempo pulsava, tutto è un riciclo, è la terra intera a essere un’immensa fossa comune -e chiamano noi avvoltoi e beccamorti, solo perché scegliamo di frequentare il luogo dove sappiamo certa la presenza dei nostri fratelli!-, dicono quelli intorno al fumo, e gioiscono e ridono e piangono di ogni paradosso come questo in una danza scapestrata che assomiglia in tutto alla vita, sul palcoscenico della morte.
(Perché non è brutto? Perché si trova sulla stessa linea di tutto il resto, lo stesso continuum, la stessa trama lo stesso sogno la stessa spirale lo stesso mandala. Chiudi gli occhi e parla al serpente che scende dentro di te, osservatore, guarda i suoi occhi fissi, gettati nel lago dell’iride. Incontra l’oltretomba in fondo alle acque, affronta le avversità e i mostri marini, riemergi purificato d’abluzione e rinnovato e migliore, fatti una passeggiata sulla riva finché non incontri qualcuno che ci è arrivato prima e se ne sta seduto comodo e rilassato in mezzo a tantissime cose. Guarda in faccia questo buddha cosmico che è comparso nel tuo interno e digli, “ao ciao bello, come va?”, e vedrai che pure lui è al centro di un universo vorticoso in cui si vede proprio tutto quanto, santi e bestemmiatori e alberi e bestie e bestiole e mostri e vivi e morti. Ti dice di cercare tutto, quel buddha sornione, per nulla arrogante, di cercare quella cosa in cui vedi tutto il resto, può essere una qualsiasi delle tante che prendono parte al bel diagramma del colore dei lapislazzuli, del colore del vuoto perfetto tra le stelle e i pianeti. Anche i morti vanno bene, perché no, quella è una strada particolare, come tutte le strade ha le sue caratteristiche, i suoi meriti e i suoi intoppi. No fratello, non sei pazzo a volerti recare nella piana delle sepolture a recitare le tue canzoni, a godere il tuo amore, a peccare e sbagliare e pentirti e imparare e sbagliare di nuovo. A passarci le tue ore mortali, mortali capisci, è tutto normale. Puoi trovare una grande intensità in questo tuo rapporto con l’aldilà, avrai a volte la tentazione di sentirti più sensibile e incompreso degli altri, ma sta tranquillo che ce l’hanno tutti e ogni tanto ritorna e poi ti passa tipo l’influenza di febbraio che quando te la becchi è un ottimo momento per recitare mantra incredibili che neanche sapevi di sapere. E pure se quelli del villaggio ti ostracizzano e ti chiamano col nome con cui chiamano te e un’ipotetica tua gente, ciascun villaggio un termine semi-dispregiativo diverso, che importa? Non li devi mica odiare sai, loro fanno le loro scelte e tu le tue, alla fine di tutto vi vorrete bene allo stesso modo e basta. Torna da me quando ti va ma non perché sono bravo, anzi perché come te sono coglione e per tutto il giorno non faccio altro che stare seduto.)
(Così sono portati ad ascoltarsi pensare alcuni di questi reietti, quando si sentono soli e sconfortati, è come una preghiera che si raccontano e che li giustifica, poi stanno subito meglio e continuano nel modo loro.)
Due amanti erano partiti con una passeggiata, che si è trasformata in una sterminata ricerca della via del ritorno a casa, costantemente nel timore della sua vanità, del branco di lupi o del manipolo di briganti. Si sono persi, con eccitazione adolescenziale un po’ celata e casualità un po’ voluta -forse inconsapevolmente- si sono ritrovati a passare per certi territori cosiddetti periferici, certi territori dai quali ci si raccomanda solitamente di stare lontani, per molti motivi diversi. Tra questi la piana delle sepolture. Non si sa mai quali spettri e streghe possano comparire nella notte in un posto così, molto più terribili degli spettri e streghe che si incontrano nella foresta o nella palude. Hanno qualcosa di strano, le presenze di luoghi del genere, qualcosa che ti fa sentir male dentro più di qualsiasi altra paura, dicono sempre quelli che la sanno lunga. Forse perché ognuno di loro ci è stato, perchè ci si è perso in gioventù forse di proposito o forse no, o proprio per superare una sfida di coraggio, per provare il proprio valore in faccia alle superstizioni ed essere invece tornati con un’esperienza che è meglio non nominare più, soltanto la si accennerà quando inesperti e bambini domanderanno “sei mai stato a…?” e per un momento un’ombra che sembra sprigionarsi allo stesso tempo dal cosmo e dal cuore calerà a ghermire la stanza o il cortile, liberando la morsa sibilante soltanto al reprimersi di ogni curiosità. Ma i due amanti si rassicurano: la notte è ancora lontana, quando sarà calata avranno camminato molto e lontano dall’area deserta, e si troveranno forse in un luogo sì pericoloso, forse sì pullulante di demoni, ma non di quella specie che infonda nell’animo quel qualcosa che è sgradevole perché fa pensare a… a cosa? è sgradevole, non sanno perché ma lo è, ecco. Comunque possono godere, non temendo la catastrofe a causa del giorno: il cielo di tinte grigio bianco e cobalto non sarà quello di una giornata in cui proclamare la propria gloria al mondo, non il cielo delle giornate d’iniziazione o quello per amoreggiare, per mangiare la polpa dei frutti più grassi; ma è pur sempre il giorno, è il contrario della tenebra e di ciò da cui sono stati messi in guardia sopra ogni altra cosa. Possono godere perché potranno comunque dire di essere stati in un luogo pericoloso, e per quanto lo abbiano fatto nel momento di minor pericolo sanno che la cosa susciterà scalpore e ammirazione a sufficienza nei pari. Per rassicurarsi ancora i due della coppia si guardano intorno, esaminano, cercando di non udire il canto del sottosuolo, di fuggire sempre dai messaggi lasciati da ossa e cenere, ignari delle parti di sé che schiuderebbero e farebbero fiorire (il potere concimante della materia morta, il ciclo eterno è fuggito dai molti che ritengono quella l’età della dirompenza della vita). Insomma, c’è un vento costante e greve, certo cupo coi suoi spifferi baritoni, ma lo si sopporta; probabilmente è dovuto alla scarsità di alberi in quell’area, ce ne sono pochi molto lontani e il resto tutti arbusti radi. Questi strepitano soltanto un po’ ai colpi del vento, a volte qualche ramo è così debole da spezzarsi con colpo secco che echeggia. Può far paura ma è così fulmineo, passa subito. Non è un vero tuonare di temporali, non sta per venire a piovere, con quei lampi terrificanti… anche questo è buon segno. Poi, tenendosi stretti, mentre ancora avanzano, si accorgono che a volte un sasso rotola; non lo vedono, ma lo sentono, e si chiedono cosa lo faccia rotolare. Se ci fossero grossi animali, li vedrebbero, certo. Deve essere qualche animaletto terricolo. ((uno di loro ricorda di quando, in un giorno in cui fuori il sole picchiava dirompente e in cambio l’ombra dentro la capanna s’era fatta intensissima, vide uno scorpione così forzuto da sollevare una pietra con le chele, e spingerla, darle colpetti con la coda contorta; sembrava quasi giocarci, eppure poteva spaccarsi la testa da un momento all’altro, restare schiacciato.. ma questo non conta, crede: conta invece che anche un animale di quelle dimensioni può essere abbastanza forte da muovere sassi e fare certi rumori, perciò non c’è da aver paura…))
L’odore sparpagliato dal vento che corre, è un po’ strano. Si capisce che è un odore completamente diverso da qualsiasi cosa si senta al villaggio, nemmeno nel posto delle latrine o quando il raccolto è guasto di muffe funghi e pioggia fangosa, o la melma lambisce le fondamenta della abitazioni, o muore qualche animale (anche se nel miscuglio quell’odore è presente, intromesso nell’ondata quasi stordente); se non per altro, non torneranno lì una volta usciti, essendo odore cattivo, e si dicono che forse è quello uno dei motivi per cui è un posto evitato, forse un particolare portato al parossismo. Però è davvero sgradevole. Non sanno perché, non riconoscono nulla. Sono sentori che provengono da un ignoto modo di esistere. Si accorgono che piccole particelle, granelli, si infilano nelle narici, fastidiosi come parassiti. Questo li induce ad accelerare, vogliono concludere in fretta quel loro coraggioso passaggio. È come se un’alta pira bruciasse eternamente, coriandoli di cenere che sempre discendo diagonalmente, come una carezza a lutto. Ma no, non c’è, non si spiega l’impressione di un’inesorabile pioggia cinerea. Appunto solo un’impressione, una pira astratta. All’improvviso si accorgono di un fumo nero. Una singola colonnina sottile, magrissima, deperita. Hanno un sussulto nei petti, quei toraci che più di tutto vogliono proteggere dagli scossoni in agguato nel mondo, postaccio così ostile agli amanti. Si stringono più forte la mano. Come hanno fatto a non accorgersene prima? è una scena che pare balzata dal nulla, usando la distrazione come tunnel per giungere lì da un nascosto covo di misteri e immagini. Subito è netto nella mente un altro importante motivo per cui quello è posto sconsigliato.
Seduti in cerchio, quasi del tutto nudi, avvicinano mani grosse a un fuocherello inutile quasi sparito. Hanno la pelle nera, discendono da alcuni dei popoli più antichi del territorio. Da sempre versata in erbe e unguenti, in demoni e mostri con facce grottesche, quella gente là. Ma non tutti hanno preso quella via. Quelli che stanno fuori dalla comunità sono presenti dappertutto, in tutti i popoli. Ce ne sono alcuni con cui si può anche interagire, con moderazione, magari semplici solitari, un po’ reclusi, qualche asceta, qualche povero mendicante, qualcuno che fa del viaggio e dell’incertezza i propri scopi in vita, oppure i musici erranti. Loro invece appartengono quasi a un’altra cerchia, alcuni li dicono più apparentati con certi tipi di diavoli e animali che agli uomini. Assurdo che se ne siano ricordati solo adesso. Sono presenti nella coscienza, nel linguaggio, tra giovani insolenti si usa un certo tipo di insulto eccessivo che contiene il loro nome, sono presi a volte a esempio contrario di tante cose decorose, e sono sempre in relazione a questo tipo di terra brulla ricolma di scheletri, il decadimento tangibile. Eppure prima di vederli erano stati ignorati da quella parte della mente attiva, attenta a cogliere dettagli per meglio valutare il grado di pericolo della situazione. Li guardano, da laggiù, si scambiano qualche chiacchiera, divertita, si direbbe. Nella coppia, qualcuno ha un brivido: non sopporta che ridano, foss’anche per qualcosa che con loro non c’entra niente. Un timore del tutto matto, ma forse a causa della distanza abbastanza contenuto da non sprigionare escandescenze. L’altro cerca di mantenere uno sguardo fisso in quella direzione, non sapendo bene cosa aspettarsi da questo approccio. E quelli se ne stanno, a dirsi cose che certamente non possono esser comprese dalle menti che non vogliono mai avventurarsi in quella zona, e a ripetere i passaggi dei tantra mandati a memoria, parole che sbloccano nicchie oscure, nidi di essenze incatenate nel mistero. Nelle facce scure come bruciacchiate si riconoscono anche da lontano, fendenti, gli occhi chiari che si allargano al centro e poi appuntiscono come smeraldi intagliati, come i notturni guizzi verdastri che significano gatti in agguato nelle chiome della foresta. I capelli neri e lunghi sono spessi come la torba, duri come una corazza cresciuta fuori dal cranio. Il corpo pieno di cicatrici, macchie di sporcizia, lembi di vesti fatte a brandelli che hanno senso giusto per qualche cerimoniale forsennato. Qualche striscia di gelatina bianca, finti tatuaggi in bava di larve che fa geometrie ipnotiche, utili in metamorfosi allucinate. E poi le palme, gli arti di sopra e sotto così induriti e polverosi... nella coppia si distoglie lo sguardo: non vogliono vedere quei corpi scuri, sarcofaghi di conoscenze che non dovrebbero appartenere a nessuno. Fanno cose impensabili con i morti. Si racconta che vengano qui non solo a cantare canti di tomba e fantasma, a danzare le danze di pantere e vipere, a bagnarsi di infusi densi e torbidi dall’odore di fuoco d’inferi; ma anzi amoreggiano senza sosta per intere settimane, cantilenando di un’enorme spaventosa donna e un enorme spaventoso uomo e del loro incontro, e che in queste orge infinite come zampe d’anfibi coinvolgano anche i cadaveri. E magari ne bevono i fluidi, magari li strappano e indossano e ci si infilano dentro o ne mangiano parti, e godono di ciò che accade al cervello quando la malattia data dall’aver ingerito materia putrefatta gli fa provare l’ebbrezza di sentirsi decomporre. Questa è la paura che gli amanti hanno di coloro che scelgono come luogo d’amore il luogo della morte, queste le cose che ritengono di sapere perché sentite dire sul loro conto, e vorrebbero allontanarsi più in fretta.
Nel gruppetto intorno al falò, qualcuno alza la testa: ha sentito un rumore.
-hey, hey, avete sentito scavare?
-sì, e allora? Lo abbiamo visto passare prima, sta qua in cerca di ossicine per farsi le zanne.
-sì, sì, lo abbiamo visto prima. Ma mi fa piacere.
-perché?
-perché è un bell’animale, ecco.- detto ciò, allegramente guarda per aria. Magari spera che gli occhi si chiudano da soli per vedere quell’animale tra i presenti al corteo di un buddha.
L’altro ghigna e ridacchia. Sembra soddisfatto della risposta. L’animale di cui parlavano qualcuno lo chiama “cane da cimiteri”, è più piccolo di un lupo ma più alto di una volpe, e ha un incedere zoppicante che lo rende goffo e lento, poco scattante, tutto un sobbalzo di spalle di pelo sporco. Quando si vede la luna le rivolge guaiti acuti che sembrano poesie musicate, mentre altre volte lancia urla stridule e trapananti come se lo stessero scuoiando vivo, e invece non succede niente di grave. Mordicchia anche i corpi più vecchi e cattura con la lingua vermi e insetti che saettano sulla pelle sfatta. Raspa tra le macerie e i truciolati, bravo scavatore che a volte fa compagnia ai frequentatori dei tumuli. Si stava già allontanando, lo si era udito scavare ma già non si vedeva più. Arrivavano altre cose, degli umani addirittura, due. Sanno subito che non sono di quelli che possano tollerarli ((ma ricorda cosa dice il buddha: non vanno odiati per questo)). Cosa fanno qui, nel luogo totale dell’assenza umana?
Solo due peli sottili rigano i sassi rammentando il passaggio di un animale girovago. E nel frattempo la distanza tra i due diversi gruppi umani, una coppia e un gruppo più vasto di emarginati, senza accorgersene, fuggiasca dalle volontà, si è fatta più corta. I due provenivano dal villaggio e di questo portavano il timore delle cose selvagge, con la regola di fuggirle. Il contrario accade, il passaggio per la piana desolata si trasforma da solo in una diagonale che li accosta maggiormente agli uomini sporchi. Questi dal canto loro dei villaggi, ricordi remoti, portano dentro un impulso contraddittorio, un odio della comunità la cui intensità talvolta si trasferisce in un impulso a farne un’altra, un bisogno di comunione che non poteva essere espresso nel ventre vivo della tribù. La tensione che ha avvicinato gli “intrusi” ai guardiani di tombe è ignota e strana, non si sa se sono i piedi dei giovani a muoversi contrariamente alla testa verso la paura e il disgusto, per piazzarsi alla giusta postazione sì da guardarne spavaldamente le grinfie e fauci e massa oscura; non si sa se è quella voglia di gente che i reietti hanno, a essersi manifestata all’improvviso in forma di uno strano potere sotterraneo che sposta le zolle sotto la terra, facendo scivolare come su un’isola galleggiante gli ultimi arrivati fino alla zolla su cui scoppietta il falò. Dove si depositano i morti e rimbombano ancora nell’aria gli ultimi impercettibili rintocchi di canti funebri e pianti da lungo conclusi, le forze invisibili si moltiplicano. Rotola un sasso.
Si può pensare ciò che si vuole del modo in cui sia successo. Comunque si guardano, si possono distinguere reciprocamente più da vicino. Occhi di smeraldo nel corpo nero. Non c’è nel taglio di quelle noci acquose quella stessa amalgama di sentimenti caldi dei vecchi del villaggio, delle madri che hanno partorito molti figli, dell’uomo che alla sua età più forte taglia da solo interi mucchi di legna. Sentimenti che si sentono frusciare come mille sussurri negli angoli delle orecchie, chiacchiericci infiniti dalle molte bocche. Sono invece lì gli occhi della lacerazione aguzza strisciata sopra la pelle nelle notti fredde e ventose, passate fuori dalla capanna dove si raccontavano storie e si stringevano i corpi, all’aperto con sporadici ripari caduchi di tronchi flessuosi che non resistono il temporale. Iridi acquattate nell’erba alta, conoscono la solidarietà in leccate su ferite nella pelliccia irsuta.
Quelli dei tumuli riconoscono una “coppia”. Riconoscono Shakti e Shiva che come in costellazioni scintillano numerosi nei reticoli dei due corpi lì di fronte, numerosissimi boccioli irroranti le due forze che scorrono nel mondo. Non “uomo e donna”, come direbbero, ma due entità in cui i due principi del titano e la titanessa sono compresenti ugualmente, manifestandosi in maniera più o meno marcata sulla superficie che giunge ai sensi. Ci sono coppie, pensa la ragione che non ancora discerne, coppie di uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna, e infinite altre combinazioni. Ma gli occhi forestieri penetrano attraverso la carne, che sanno già moritura e prossima compagna di campo, divelgono la copertura effimera e cercano ciò che davvero traballa come acque nel fondale portante. Due ricettacoli di Shakti e Shiva stavolta sono arrivati da soli, senza doverli richiamare nell’evocazione ed estasi. è un’opportunità, un evento da celebrarsi, pensa uno di quelli, desideroso di “conoscerli”. Occorre rafforzare l’incanto del presente fortuito con un gesto di rito. Getta un ramo odoroso nel fuoco, lì tenuto sotto le pietre insieme ad amuleti, cianfrusaglie.
Vedono nel corpo più alto che i boccioli di Shakti sono riservati ma rabbiosi, mentre Shiva è lesto e senza domande, manovra i muscoli e distribuisce parsimoniose carezze per ammansire Shakti, confonderla riguardo alla sua rabbia. Nel corpo più basso e coi fianchi larghi, Shakti è sia fuoco che acqua, si completa in sé stessa; Shiva è incatenato, vagamente ribelle che brama il giorno della libertà, un vulcano. Eccoli semplificati, complessità di molti boccioli come alberi magici ridotte a ciò che hanno in mezzo alle gambe, ricettacoli multiformi dei titani e degli infiniti loro avatar che al villaggio diventano solo “uomo e donna”. Soltanto attributi di una carne che non riuscirà a trovare sé stessa, non prima riempirsi di larve e terriccio. Quelli dei tumuli, in effetti, amano fare la conoscenza di questi due individui che hanno deciso di legare i propri destini, anche nel viaggio misterioso che stanno compiendo attraverso i confini del territorio. Arriveranno alla foresta, il pantano, alle spiagge perfino? Sarà per belva o per inondazione, per malaria o per uomo ostile?
-hei… -sussurra piano quello alto-lo senti? Un incenso…
-sì, aveva un rametto ancora verde, ma da dove l’ha preso?
Parlano piano e in effetti quelli non riescono a sentirli, ma tanto prestavano attenzione ad altro. Li sorprende la comparsa di fronda viva, nella terra di arbusti spogli crepitanti alla bufera.
-non sopporto questo odore.
-neanche io. Questo dolciastro acre. Mi pizzica dentro il naso.
Nei contorni fluidi delle loro figure, la gente dei tumuli vede vorticare uno Shiva impetuoso, in forma di cavallo, che galoppa e nitrisce schermandosi dai pruriti dell’olfatto, mentre dietro su uno stagno cinto di massi Shakti, libellula in un’alcova di ninfee, lo studia e assorbe. Ha un fremito improvviso, da tutto il corpicino a tubo fino alla punta delle ali vitree, si propaga nelle tracheole l’aroma spumoso. In parte quelli del villaggio sanno apprezzare quella sorta di incenso. è la parte che si accorge della stessa pianta impiegata nei rituali collettivi, non subito riconosciuta quando stretta nella mano impolverata di chi scava sepolture.
Vedendo questo, uno di loro -quello resosi conto della “opportunità”- interroga, va a curiosare nel ponte tra la mente e le parole che potrebbero pronunciare in risposta, nella lingua della gente. Osa interrogare. Non possono, quei paria, interpellare la gente vestita (o meglio non sono soliti farlo, poiché di legge obbediscono solo a parole ispirate da sé stessi, da un cinghiale bianco che contiene una divinità, da un trillo di civetta o un succo di funghi). Non possono, quelli della gente vestita, sentirsi interrogare da uno di quelli, loro sì per legge. È come il brivido dato dal toccare l’addome bulboso di linfa d’un insetto vivo, come una striscia di liquame che si appiccica addosso oleosa. Impurità, lo credono quasi un peccato, pur non dipendendo da sé. E un peccato diviene tabù.
-volete?-, dice l’uomo dei tumuli, cavando da un frugare tra sassi un altro ramo di quella pianta misteriosa. Anche gli altri, per un momento, sono sorpresi da questo suo parlare. Trilla all’improvviso un uccello solitario sopra le nuvole, gli amanti sorpresi neanche lo sentono.
“Volete” è una parola ancora comune a entrambe le lingue. Il tremore freddo che scuote i due della coppia è generato anche dalla bizzarria di aver capito, di aver riconosciuto un significato in un insieme di suoni usciti proprio da quella bocca. Come trovarsi all’improvviso di fronte a una serpe che comincia a parlare la propria lingua.
Peggio ancora che se gli avessero rivolto uno di quei grugniti che solo i paria capiscono, forse. Hanno questa sensazione. Potrebbe comunque non essere così, potrebbe essere una delle tantissime loro sinistre parole prive di senso che solo per caso assomigliava al “volete?” che riconoscono, o che così era stata trasformata dall’orecchio abituato ai suoi suoni quotidiani. Ma se davvero fosse “volete?”, nella stessa loro lingua, allora, dice questa impressione nefasta, il peccato è per chissà quale ragione triplicato, quadruplicato, dodici volte. Difficilmente, se dovessero tornare, non si accorgeranno gli altri di questo brivido viscoso che ormai ha macchiato i corpi giovani, così stupidamente temerari, inesperti, puniti.
Scappano. L’offerta del selvatico generoso ha riinnescato la volontà della tribù, soppressi gli slanci spavaldi dell’adolescenza. E quanto a lui il suo offrire come gesto di saluto, un avvicinarsi, ha ottenuto solo un allontanamento più aspro. Vedono una coppia, un vortice confuso e ansioso di debolezze immature, allontanarsi concitata attraverso la landa, sparire nell’orizzonte di polvere, nel confine con altre terre selvagge. E così fuggendo si portano dietro milioni e miliardi di miniature di avatar di Shakti e di Shiva, che galoppano, nuotano, volano, evaporano avanti e indietro, destra e sinistra, senza aver più una direzione o la presunzione di fingere di averne una. Ma non è solo l’età, l’identità da scovare: è che non capiscono più niente, i vivi, di fronte alla paura di una comunicazione polimorfa, lingua nota in corpo ignoto.
Sopra le nuvole, l’uccello solitario, dalle penne blu e nere, scrolla il collo nudo: è una scena che ha visto, che già sapeva. Uccello deja-vu trilla di nuovo sorvolando il falò quasi spento e l’uomo dei tumuli col braccio teso e il ramoscello pendulo tra le dita, con le punte fumanti per la vicinanza al calore, con i batuffoli pollinosi pronti a bruciare. Che c’era da aspettarsi? Anche altri la pensano così.
-dì un po’, cosa credevi che sarebbe successo?
-sì, e poi, “volete”, ma che significa? Che ci devono fare quelli con un rametto che fa puzza di incenso?
-che ne so, magari una torcia, quando fa buio, o, boh, ci si scaldano…
-ci si scaldano!
-ma se nemmeno ci scaldiamo noi, oggi non è una giornata da fuoco.
-ah, sì? E chi te l’ha detto?
-un corvo, un corvo dell’acqua.
-quindi è giornata d’acqua? Ma se non viene a piovere!
-forse era un corvo di terra, ma chi se ne importa? Tutto è uno e uno è tutto.
-sì, tutto tranne il fuoco.
-può darsi.
E mentre così continuavano a discutere degli elementi e di visioni, dimenticando l’accaduto, quello col braccio teso e il rametto riposante in mano, quasi afflosciato a terra, pensava a certe cose strane. Una cosa che non sentiva da tempo: per un momento, in fondo gli dispiacque che quei due nel viaggio avrebbero trovato le difficoltà e forse la morte. Un grumo amaro del tempo del dispiacere per la fine delle cose, vista ancora come separazione e non come seguito lineare. Ora, non c’era più da dispiacersi, ora ritrovava tutto, anche quei due tristi amanti, li avrebbe rivisti, si sarebbero tutti rivisti forse in altra forma e altra epoca; eppure, c’era qualcosa di molto malinconico, nei due, giovane “uomo” e giovane “donna”, insieme e così soli nel mondo feroce, la loro paura di scomparire e lasciare il modo in cui esistono, senza accorgersi del mutamento che li investe ogni istante nel corpo e nell’anima. Morti e rinati in continuazione, spaventati proprio dell’unica cosa che perennemente gli accade. Una lacrima vuota, di quelle cavate fuori dalle energie spettrali, dal pentagramma ululante nel ventre della terra, cadde invisibile anche in onore di quella storia. Trilla pure, uccello deja-vu; mormora e rimpiange, conosco le mie debolezze, dice, so che a volte ritorna quella nostalgia e inquietudine del gran mistero del mondo. Passerà, ora ritorniamo, noi reietti, ai nostri riti; ai nostri morti e le tombe, scaviamo e raspiamo come saprofagi. Preghiamo, cantiamo, danziamo, ce n’è da fare, la giornata non è ancora finita.
Più tardi, in meditazione e con lava di loti nelle vene, ribolliva di sogni e nubifragi interiori, vi si muoveva esperto come un predatore quadrupede a caccia balzante tra una bruma neurale e l’altra. Negli anni di comunitario isolamento quelli della gente dei tumuli avevano imparato a introdurre la scelta dentro la spontaneità delle visioni, potevano riuscire se volevano a incontrare un buddha specifico o una determinata allegoria, che servisse in quel momento. Pensava, in quel momento, di voler incontrare un buddha a due teste, con un buon equilibrio di Shakti e Shiva, fiero, principesco come un bodhisattva -se principesco può esistere per un povero paria. Due teste forse cieche, che necessitano la guida di un “cane da cimiteri”, una bestia raminga e contenta della miseria. Un solo canto nel loro riquadro, nel cuore morbido del mandala: una nota eterna, un sitar sembrerebbe, in cui ogni elemento trova armonia. Lo cerca, seduto su una roccia piatta, a occhi chiusi. Qualcuno degli altri, oggi un po’ distratto (o troppo abituato ai filtri magici per sentirne ancora l’effetto), tra un tentativo di assorbimento estatico e l’altro gli getta occhiate, lo vedono che quasi fuma, manda vapore nella sua solitaria ricerca intensa. Poi tornano a badare alle visioni proprie mentre lui cerca le sue lì seduto o quasi rannicchiato. Qualche gracchio lontano o un rotolare di sassi cercano di mandar via la concentrazione.
Gli appare invece un bodhisattva a una sola testa, di minuta statura, un giovinetto. Non lo vede bene: è una vaga ombra sul fondale d’una nebbia nera, una coltre di anime errabonde attraverso secoli o forse millenni, troppo fitte anche per la vista penetrante di occhi felini smeraldo. È coperto il bagliore della pelle aurea, di eventuali gioielli e corone. Solo il corpo gracile e soave ha contorni. Una seconda pelle indosso a vestaglia: color arancio, striata, forzuta e di bellezza altezzosa. E in mano membra di pianta, un tralcio di vite. Sembra porgerglieli, sia l’appendice vegetale, verde e viva, sia la pelle morta della bestia striata: oggi sono questi i tuoi simboli, il tuo spettro floreale e il tuo spettro animale. Li accetta, e la visione è chiusa.
…
Questo accadeva in un territorio non lontano da dove sorge una vigna. Nella mia città, Aprilia, c’è una vigna dove io e degli amici ci recavamo a passare pomeriggi un po’ campestri, un po’ rilassati sotto il sole. A piedi con le cuffie nelle orecchie, faccio la strada, aggiro il cimitero per prendere il lato nascosto dalle alte mura, cinto di vegetazione; oggi un sitar e una chitarra elettrica hanno lo stesso suono.
all that you suffer is all that you are.
Qui, nei paraggi, si aggira una tigre. Lo so, guardando le piante e la terra, il campo al di là. Se passa qua qualche coppia di amanti, sono guardati male dagli amici -e anche da qualcun altro, da altri frequentatori di cimiteri. Non so perché, forse invidia, forse risentimento d’altro tipo, ma spesso si è ostili agli amori in pubblico. Vedo allontanarsi due amanti, scomparire oltre la via che porta alla Grazia Deledda, rasenti il grande campo incolto. Chissà che fine faranno.
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