Gli Appunti Del Fango- Via Tiziano And The Infinite Sadness
- Milky
- 17 lug 2020
- Tempo di lettura: 24 min
“cosa potrò mai dire di questo posto?”, chiesi all’ombra. Già allora mi proiettavo nel destino di compositore di appunti sparsi, quelli che avrebbero formato la cosa più simile al libro mistico apriliano che attendeva in silenzio di essere scritto. Perché mai io? C’è chi ha più talento, senza dubbio, chi renderebbe maggiore giustizia a questo ideale invisibile che annaspa nel fango sotterraneo; però incontrai quell’ombra, quella sera, e da quel momento lei seppe scrutare nel fondo del mio animo, rivelare tutte le pieghe che avrebbe preso in futuro e le scelte o diramazioni del sé da esse derivate; vi trovò il desiderio di essere quell’osservatore con sempre appresso i suoi fogliacci famelici d’inchiostro: e scrutandolo lo mise allo scoperto, rendendomene consapevole, e avendolo fatto era ormai troppo tardi. Se avessi tentennato, o cercato di reprimere questa ambizione, lei lo avrebbe indovinato, avrebbe messo in risalto le mie ipocrisie. Nessuno vuole che un’ombra del genere lo faccia, fidatevi di me, per quanto benevola e compassionevole si mostri -lei lo era. Perciò dovetti assecondare ciò che lei andava a farmi scoprire.
Dovrò scrivere di queste cose, dunque, mi dissi. Anche di questa via? È assurdo -poiché non c’è niente- eppure non lo è: è come se avessi sempre voluto farlo, ogni volta che mi si chiedeva dove fosse la mia casa. Come se sentissi, ciascuna delle volte che pronunciavo il suo nome, che c’era qualcos’altro da aggiungere al silenzio privato d’ogni interesse che sempre seguiva alla risposta, in coro con tutti gli altri vuoti generati da tutti i più miserabili vicoli o gli anonimi quartieri che non si imprimono nella memoria dei cittadini. Vorrei tanto dir loro, “una volta ho visto una cicogna!”, perché mi sembra evidente che la cosa non può essere trascurata, ma qualcosa mi blocca, e nessun altro comprende. È facile capire come mai urgesse la questione, e sebbene si possa pensarla come un’occasione sprecata, di chiedere all’ombra cose più importanti, si è rivelata cruciale.
“cosa potrò mai dire di questo posto?”- insomma, avrò pure il patriottico diritto di preoccuparmi un po’ di un posto in cui ho trascorso una buona parte della mia vita, e in cui ho vissuto cose anche abbastanza importanti? Indipendentemente dalla natura del posto e da quanto mi sia piaciuto viverci: quelli sono altri giudizi. Cosa potrò mai dire, di questo posto, ombra mia?
E rispose esattamente quello che rispondevano tutti, e fui in grado di ascoltarlo per la prima volta:
“la cosa più importante da dire per prima è che è piuttosto insignificante”.
D’accordo, sembra un buon inizio. Questo è, in fondo, un posto abbastanza insignificante. Una via breve, linearissima, pochi condomini, pochi servizi sfruttati da chi ci abita vicino, nessun tratto rinomato. E anche le cose che colpivano, forse, appartengono quasi tutte a ciò che vi si può osservare intorno, non alla strada in sé. Quindi? Perché devo scrivere dal suo punto di vista? Tanto varrebbe prendere un’altra via a caso. Neanche gli altri abitanti della palude potrebbero giovarne, non saprebbero che farsene di questo testo. Forse è proprio questo che devo scrivere?
Un fruscio, spettrale ma calmo, interrompe i miei pensieri. Ricorda una voce pacata e saggia, come un placido propagarsi caldo di increspature sulla superficie di un’acqua riscaldata in bacinella, tra mille vapori, al riparo in una stanza o forse una grotta. Non parla, ma ricostruisco i frammenti del suo discorso: come fosse una comunicazione telepatica (ma è diverso, non saprei), riesco a discernere, a ripescare le parole direttamente dal movimento che mi ha instaurato al centro del petto, richiamandomi nel mio corpo. Una spirale nera, morbida e friabile come cenere ma stabile e frastagliata come il granito, vortica lentamente carezzandomi le pareti interne. Si dirige forse dalla cassa toracica verso l’addome, scende, continuando a propagare una rassicurante sensazione di tepore. Respira. È viva, uno strano serpente. E la sua è una piacevole ipnosi. Alzo lo sguardo: non sono passati che pochi secondi, e vedo gli occhi dell’ombra fissi su di me. Non cambiano mai espressione, sempre uguali, ma sento che non trasmettono mai minaccia, e attraverso ciò che mi immettono in corpo posso leggervi una strana forma di compassione. Dunque, questa strana sensazione non era altro che una suggestione proveniente dal suo sguardo? Ecco cosa mi diceva l’ombra parlando per mezzo della spirale, in quei brevi istanti di quieto consiglio in cui, pur essendo priva di un corpo tangibile, era come se ella mi abbracciasse:
“perché devi scrivere dal punto di vista di questa strada, dici? Potresti prendere un posto qualsiasi, dici, un posto anonimo, perché anche io te l’ho detto: piuttosto insignificante. Ma ti sei fatto avanti, senza saperlo, qualcosa in te ha sentito la necessità di impersonare un osservatore che si dà un determinato compito. Si fosse trattato di un altro che non ha mai vissuto qui, costui avrebbe potuto lasciar perdere di parlarne; e anche tu avresti potuto lasciar perdere, se la tua casa dei primi anni e principale punto d’osservazione fosse stata da un’altra parte. Ora, osservatore, tu sei la tua via, questa fa ancora parte della tua identità. Forse non dirai cose molto interessanti, ma le dirai per lei, o le direte insieme. Scrivi a proposito del Fango, dici. E parla allora anche del fango dal quale per ora emergi a ogni sorgere del sole.”
Un po’ intontito, faticai a rimettere a fuoco l’ambiente circostante, e a starci con la testa. L’osservatore è un personaggio piuttosto lento. Ho finito di ascoltare quello che la spirale ha voluto dirmi forse già da un paio di secondi, molto più tempo di quello che ha impiegato per farlo, e ancora non mi sono reso ben conto dell’ombra che sollecita la mia attenzione su di lei, che vuole continuare la nostra conversazione di prima. Che, cosa? Faccio nella mia scarsa reattività, come confuso dal mio stesso singhiozzo. Quindi che è successo, eri te che mi parlavi o… era una parte di me che hai sbloccato per farmici comunicare, o… fatico a capire, mi guardo intorno, l’ombra non risponde alle domande taciute (ma di cui è certamente a conoscenza). Stai tranquillo, mi dice con un breve cenno. In sua compagnia non vengo sbeffeggiato per il tempo che mi occorre per comprendere. Confermo la sensazione di tepore, moderato, carezzevole. Gradisco la sua compagnia.
“allora, ho risolto almeno un po’ i tuoi dubbi?”, chiede con un filo di voce, appena udibile ma autorevole, come una creatura invecchiata per millenni nella forma di un esserino implume che ha appena imparato ad articolare dei suoni, immutato.
“sì!”, mando io un gridolino da un limbo di corde vocali lontane dalla pubertà. Troppo concitato perché colto alla sprovvista, voglio sembrare deciso pur non essendolo.
“allora, sì, ecco, scriverò così, per avvisare: ‘per tutti coloro che leggono Gli Appunti Del Fango poiché interessati ad apprendere i segreti più importanti tra quelli insoliti che riguardano questa città, sappiate che potete anche saltare questa parte’. Questo perché ha in fondo a che fare più con me che con le altre cose che potrebbero interessare ad altri. Ehm, che dici, va bene?”
Mi sembra di intravedere una luce in un angolo periferico del campo visivo. Breve bagliore festoso. Deve essere una tv accesa all’improvviso (a quest’ora?) in quella stanza che dà su quel cortiletto quadrato, tra le case basse di fronte al giardino del piano terra. Lo capisco perché si è sentito un irrompere di schiamazzi prontamente arrestato, qualcuno che si affretta a schiacciare con violenza il tasto del telecomando per abbassare il volume. Poco dopo, ho l’impressione di udire un grillo. Strano, in questo periodo, e poi da queste parti purtroppo non se ne sentono mai più di tanti. Bevo un sorso di latte e menta. Questo mi ricorda che dovrò passare lo scottex per terra, come al solito non ho saputo impedirmi di farne cadere un po’. Nessuno vuole che le belle mattonelle rosse diventino un formicaio. Un altro sorso distratto, per sicurezza. L’ombra, ferma in piedi accanto a me, mi guarda e intorno a sé l’aria si raggruma in contorni un po’ smossi, evanescenti creste sinusoidali che sembrano quasi fare le fusa. L’espressione immobile che mi rivolge (e che mi rivolse per gran parte del tempo) ha un connotato curioso. Forse per quelli come lei il mio modo di parlare risulta inconsueto. Sorride, addirittura? Un’ombra può perfino sorridere, al me di allora, mollusca massa marrone di insicurezza grassoccia e dai capelli perennemente unti.
“sì, ma…”, l’ombra comincia, il tono continua a sembrarmi vagamente divertito, anche quando apre la porta a un dubbio.
“cosa?”, incoraggio, eccitato perché per la prima volta ho modo di misurarmi da pari a pari con un tipo di essere che ho sempre voluto incontrare, come un giovane appena diventato adulto che si inorgoglisce per l’esito della propria iniziazione. Nessun conseguimento materiale eguaglierà questo, la crescita di un osservatore.
“ecco, forse è un po’ ambigua la prima domanda che mi hai fatto”, dice l’ombra pensierosa, “e se uno volesse tornare a considerarla, potrebbe cambiare tutto il resto di conseguenza.”
“che domanda?”
“mi hai chiesto: ‘cosa potrò mai dire di questo posto?’, e io ti ho risposto in una maniera che a me pare tuttora adeguata. Ma io sono un’ombra, e tu un… non so cosa sei, uno strano essere, e…”
(ammazza, grazie eh…), mi immagino di dirle con un tono scherzoso che si usa tra vecchi amici, ma taccio e mi accontento della fantasia.
“…e per le ombre come me, non c’è molta differenza. Darei forse la stessa risposta indipendentemente da come interpreti la domanda. Ma per te è determinante: tu, inconsapevolmente autoidentificato osservatore e scrittore di Aprilia, dovresti capire se questo posto è, insomma, proprio qui, il balcone su cui stiamo e la strada sotto, che chiami “Via Tiziano”; o magari tutta la zona, o tutta la città. Fino forse alle strade di campagna. I grilli sui canneti, i bagliori di occhi notturni che riflettono fanali all’impazzata sull’asfalto pieno di buche, le industrie circondate da sterpi come isole in mezzo ai campi.”
La questione mi sorprese in una maniera che non mi aspettavo, e non potei far altro che annuire sbalordito, i denti un po’ sporgenti e gli occhi più aperti del solito, recisa ogni possibilità di replica pendente dalle labbra allentate e ammutolite. Come chi non può ancora comprendere una saggezza incommensurabile elargita da qualcuno di più alto -e stranamente non prepotente-, ma ne intuisce la profondità, e tra sé e sé commenta: “sicuramente, prima o poi, con questa roba dovrò raccapezzarmici, sì, sarà proprio il caso.”, tra l’autodenigrazione e la gratitudine. Grato per quel momento, per l’essermi alzato nel cuore della notte, grato per l’oscurità, per tutte le ombre e soprattutto per l’esistenza dei balconi. In cielo c’è una bella falce di luna, qualche stella malaticcia. Addirittura un grillo solitario conversa con loro. Una risata registrata, flebile, proviene dalla veranda aperta laddove c’è un altro che come me ha deciso, furtivo in punta di piedi, di godere del momento in cui tutto tace e si ammanta di una frescura di benevole tenebre. Mi affianca un’ombra che, lo sento, se potesse mi darebbe in questo momento qualche paternalistica pacca sulla spalla, perché non capisco ancora tutto ma va bene così. Questo è il fantastico posto insignificante dove in un giorno lontano apparve una cicogna, xilografia incisa nel cervello. Dov’è andata dopo? In quel momento, dal trespolo lasciato vuoto in cima al palo del Quinto Ricci, si affacciava una soffusa luce arancione, delicata per non squarciare la sacralità della notte.
È passato un bel po’ di tempo da quell’incontro. Forse, col passare degli anni sono andato via via assomigliando sempre più a un’ombra, o forse no; ma quale che sia il motivo, penso che avesse ragione: Via Tiziano, Aprilia, uguali, stessa cosa. Una strada insignificante, una città che sorge sul territorio del Fango nascosto, che grida di umidi e ribollenti ruggiti nelle profondità e sotto le pozze che forano i campi nella fredda primavera. Tutto uguale. Forse Via Tiziano è tutta la città. E se non è così, voglio dire che le somiglia molto.
…
Mi affacciai alla finestra che dava sulla strada, la finestra della vecchia cameretta. Niente male davvero, eppure non era uno dei miei posti abituali, appigli da dove praticare una lunga contemplazione assorta sul nulla o su tutte le cianfrusaglie che sparpaglia per schermarsi. I balconi non erano in quel momento accessibili. “La signora delle pulizie” si stava occupando della cucina, e poco prima aveva rovesciato sul parquet della sala un tremendo intruglio dal quale erano sorte numerose esalazioni cloridriche; come a costituire una parete invalicabile, riempivano l’ambiente del loro chiacchiericcio odoroso di corridoi eccessivamente igienizzati, di sacchi di plastica blu in cui avvolgere le ciabatte in piscina. Mio malgrado, le mie riflessioni assenti vengono precipitate dall’irruenza delle molte cose che vengono a mescolarsi nel mio naso. Il cloro, e penso che questa settimana non ho poi tanta voglia di andare in piscina, la pioggia, incantevole odore di pioggia sull’asfalto, era una pioggerella leggera ma si è imposta decisa su questa piccola strada, ha riempito il suo limitato mondo. L’asfalto è scurissimo, impregnato come non mai, e un grigio opaco maestoso funge da sottile membrana per l’esistenza lasciando spazio soltanto a uno spicchio di cielo discosto, piccolo ma brillante bagliore rosato nell’orizzonte che vede le prime incursioni del crepuscolo autunnale. La gente lavora, si stanca, la giornata sta finendo, avverto la presenza dei loro sospiri libratisi in aria nella sinfonia sinestetica a cui ho il piacere di assistere. Vorrei uscire di casa e attraversarla, e allo stesso tempo non vorrei mai più dovermi muovere da qui. Perciò faccio entrambe le cose. Corpo affacciato alla finestra, mente fa un giretto fuori. La leggera pioggerella è uguale all’acqua che cadeva sull’antica palude e dignitosamente si mescolava al contenuto delle sue pozzanghere, irrobustendo l’ecosistema idrico, irrorandolo di nuova vita. Posso nuotarvi come avrei potuto nelle cloache limacciose di tanti anni fa. Nuoto nel grigiore, nell’arietta fresca di ottobre, attraverso i sospiri della gente affaticata che fluttuano sereni, e lontano fino ad arrivare alla piscina -che oggi ho saltato. Non servono macchine, ci posso arrivare a nuoto. Ma l’acqua che trovo laggiù è un’acqua strana, un’acqua molto diversa da questa, e tra le due esiste una netta linea di confine. Dalle vasche si spande ovunque un odore di cloro così intenso da sfiorare la pericolosità, provoca prurito alle narici e rimane nella mente più a lungo del modo corretto di eseguire i vari stili di nuoto. È padrone dell’acqua e dell’intero edificio, tutto azzurro. Come un drago marino lo sorveglia, cingendo con le sue spire qualsiasi concetto che qui si muova o stia fermo, e da tali spire si levano di continuo i suoi fumi corrosivi. Possiede l’acqua azzurra come collutorio, quel colore che ci viene insegnato in stretta associazione proprio con l’acqua. Eppure, solo là si trova un’acqua che abbia in effetti proprio quel colore, così omogeneo, così esatto, eppure… no, la piscina è uno spazio della mente.
“Vedi questa?”, mi dicono tutte le persone che vedo, a bordovasca, sugli spalti, negli spogliatoi, al baretto vicino alla reception; parlano con una voce sola, un unico organismo, un enorme banco senziente. -“questa è L’Acqua. L’abbiamo creata, e messa a vostra disposizione. Essa bagna, essa avvolge i corpi calandoli in un mondo differente, con altrettante regole che quello dove stai in piedi e deambuli. Non va bevuta, non qua. E questo è il suo colore. Blu, azzurro, sì, è di questo che è fatta. E se le cose sono regolari nel mondo, allora tu dovresti nuotarci dentro.”
No, la piscina è una realtà diversa da questa. Fa parte del territorio, ma le sue acque non si riallacciano a quelle che lo lambivano originariamente. Perciò è netto il confine rispetto alla pioggia che viene chiamata quaggiù dalla terra assetata. Scroscia d’argento, assume le tinte dell’atmosfera ingombra di nuvole. Guizza nell’aria aperta, formando poderose correnti in cui gettarsi e lasciarsi trascinare come legname morto sguazzante nel pantano. Invece nella stanza chiusa l’acqua dentro le vasche si trasforma, conosce solo riflessi dell’azzurro, dell’ideale di se stessa. Si dice che assuma la forma del recipiente che lo contiene, e forse assume anche i connotati dell’ambiente al quale obbedisce. Questo grigio conquistatore che vedo dalla finestra deve essere uno dei possibili effetti dei principi alla base della palude, e di tutto ciò che qui è stato e sarà.
Il primo giorno in cui andai a nuoto, un tizio che era in vasca con me sosteneva convinto che a volte i più grandi facevano un allenamento speciale consistente nel gareggiare con un coccodrillo. Lo sapeva da suo fratello maggiore, che pare fosse riuscito a seminare il rettile di “centinaia di chilometri”. Se un coccodrillo ha mai nuotato in questa città -probabile, secondo i miei appunti-, lo ha fatto in un’acqua totalmente diversa. Più simile a quella che vedo al di là del vetro, che potrebbe crescere ancora nel corso della serata, generando canaletti e mulinelli lungo il marciapiede, Via Tiziano come un impetuoso estuario. Se anche in questa visione penetra il cloro, è solo a causa di quel prodotto per la pulizia che irrompe fino in camera. Finché permane, non c’è speranza che in zona ritorni un uccello amante degli acquitrini -che si manifesti un presagio, un messaggero della primordiale umidità. C’è solo da aspettare, come ogni tardo pomeriggio, il che non costituisce per me un problema. Sarò stato un’ora alla finestra.
…
Balcone della sala, rivolto verso la parte finale della strada. Devo procedere prendendo in esame quelli che erano i miei punti di osservazione dall’alto, poiché sono i principali ricordi che ho di là; non scendevo, non camminavo né da solo né con altri. Ma il mondo che si parava agli occhi di chi puntualmente si recava alle proprie usitate sporgenze, come guglie a picco sulla valle, presentava una sua varietà statica e caratteristica che rendeva l’esperienza dell’osservarlo assai immersiva: con soddisfazione si riconoscevano tutti gli elementi di un microcosmo abbastanza multicolore, si trovava tutto al proprio posto e si cercavano nuovi movimenti sullo sfondo fisso, un nuovo dramma sulla vecchia scenografia. Pur affacciandomi dal lato opposto, sapevo che andando al balcone della cucina mi sarei ritrovato davanti la signora che sembrava avere come unica ragione di vita quella di stendere i panni. La si vedeva lì pressoché a qualsiasi ora del giorno. Anche dandole le spalle di molti metri, con la faccia in giù sulla discesetta del garage, si avvertiva comunque la sua indiscutibile presenza, altra ardita abitatrice di esterni. E al contrario, andando nel balcone della cucina, avrei percepito dietro di me, in quello della sala, il brulicare di gechi o lucertole nei suoi angoli bui stipati di cianfrusaglie, come il primo geco che vidi -enorme a occhi infantili- e che sempre associai a quel balcone, la sua tana. Rettili leopardati e letargici, immaginai la casa come un covo di vita strisciante che procedeva fredda e indisturbata dietro ogni parete, ogni angolo cieco. Vidi un giorno una testa di serpe o di anguilla uscire dalla cassapanca. Lo seppi identificare in seguito in una sorta di scinco. Negli occhi bianchi, grandi e rotondi raggiava la nera pupilla come una macchia di inchiostro sbattuta con violenza sul foglio, e lo sguardo laterale mi allarmò. Divenni irrequieto e contento al tempo stesso, la mia scoperta aveva molto peso. Da una parte voleva dire che quella casa era già abitata, che in qualsiasi cantuccio o tubatura si rintanavano numerosi occhi senza palpebre; dall’altra, questa convivenza della quale ero il solo al corrente, era un orgoglio della tana in cui vivevo. Crebbi con una spiccata consapevolezza del sottosuolo e delle grotte.
Vidi un geco in balcone, scappò subito a rintanarsi nell’oscurità. Ogni ombra si riempì di scatti goffi e squame, di zampette infestanti e membranosa pelle sottile quasi trasparente da cui trapelano i battiti frenetici di un cuore inquieto. Tutte le oscurità della casa erano collegate e vidi uscire da un altro contenitore d’ombra una testa oblunga, color ruggine con macchie giallastre, dalla pelle simile a pongo. Aprì la bocca, una lingua rossa scintillava stando rintanata (forse, se fosse uscita, l’avrei vista biforcuta).
In quei momenti comparve nel mio petto un essere a spirale che vorticò in giù per pochi secondi, poi sparì. Lasciò una traccia netta, un ricordo: una vecchia e fumosa pelle abbandonata, inconfutabile segno del suo passaggio. Molte sono le cose che strisciano a Via Tiziano, lo sa l’osservatore che nella solitudine sceglie di prendersi il balcone della sala: soleggiato, solare tra pareti gialle e quelle arancioni del palazzo di fronte, con gli alberi lussureggianti del giardino che si intravedono sul lato sinistro; ma allo stesso tempo pieno d’ombre, impercettibili ma onnipresenti, che si possono seguire fin giù, giù, arrivando alla discesa e i garage sottostanti: quando nessuno osserva, comincia in quelle oscurità cavernose un’altra vita.
…
Nel balcone della cucina non c’è traccia di lucertole. Ma lì affacciato seppi di una leggenda, forse una delle poche che si potessero apprendere soltanto in questa zona, che riguardava le rane. Non ne avevo mai viste, ma si diceva che al Quinto Ricci, lo stadio di calcio lì vicinissimo che sempre ci scrutava, le rane abbondassero nelle sere fresche di umidità e irrigatori, svuotate di presenza umana; o che si nascondessero in pozzi nascosti ovunque, avvistate soltanto sporadicamente nel campetto dell’oratorio di S. Pietro e Paolo. Ebbene, queste rane, al sopraggiungere della sera in un giorno molto particolare -una sorta di apocalisse forse, o una trionfale vendetta dell’umidità sul mondo- si sarebbero riversate in incommensurabili masse gracidone e arrancanti sull’erba del prato, accalcandosi, spintonandosi, cantando vittoriose il loro arrivo -finalmente! E la gente lì ritrovata per la festa di quartiere (sarebbe stata infatti una sera d’estate, intorno a quel periodo) sarebbe stata travolta da una fitta invasione anfibia, dal corso incessante e rapido come un torrente, fino all’altezza delle ginocchia, un viscido contatto pieno di continui brividi freddi e acquosi. Bella storia, non vedo l’ora, mi dico. Ma ultimamente né si è vista la cicogna, predatrice di batraci che certo inibisce l’azione radicale delle rane sorvegliando tutto dall’alto nido, né ho mai udito alcun gracidare. La cicogna non tornerà a breve, è ormai palese (altrimenti perché, perché non si è fatta mai più vedere da me, che attendo religioso il suo manifestarsi più di chiunque altro? Solo la signora che stende i panni eguaglia o surclassa il mio tempo trascorso qui fuori, ma i suoi occhi sono costantemente rivolti soltanto alle sue grosse mani cuoiose), e si direbbe che questo sia proprio il momento giusto per gli anfibi di riprendersi la terra. Come mai non escono fuori? O mi trascino dietro una doppia sfortuna, non potendo entrare in contatto né con la cicogna né con la rana, i due rivali dell’ecosistema preesistente? La convivenza con gli umani e le cose che hanno costruito in questo territorio rende sordi alle esistenze primigenie. Posso ritenermi privilegiato per aver potuto incontrare le lucertole che abitano le ombre della casa, quanto a tutto il resto si vedrà. Posso solo starmene qui, a far trascorrere le stagioni qua fuori, tra grandinate e piogge, api sulle fioriture e calare di tende a righe rosse e gialle. Lontano si ergono sempre gli stessi pali dello stadio, la solita signora continua imperterrita a stendere non sentendosi per nulla osservata. Io d’altra parte mi sento spesso osservato, da un tipo di presenza che non è né rettile che striscia né uccello che sorveglia. Una spirale mi viene sollecitata dentro anche in questi casi. Occorre salire più in alto.
…
Lastre di sole solido, cornicioni di nuvole incastonate in cemento. Una piattaforma al di sopra del tutto, non la più alta ma la migliore per me, abitante di quella tana, quel condominio giallo. Il terrazzo era il vero vanto del piccolo osservatore. Quasi sempre conquistato in solitudine, infrequentemente altri inquilini si recavano lassù, così trascorrevo molte insostituibili ore nel privilegio di una visione d’insieme di cui non potevo rendermi conto altrimenti e di cui ero il solo orgoglioso stregone possessore. Tutto tornava, combaciavano tutti i momenti di cui ho già scritto, apparentemente caotici, tutto era chiaro: il panorama comprendeva sorprendentemente bene tutto ciò che c’era in quell’area della città, fino addirittura alla strada che si dirige verso i colli lontani. Non lo si sarebbe detto, a vedere il palazzo dal basso, non lo si sarebbe giudicato sufficientemente alto per costituire un’ottimale torre di vedetta. Ma il suo posto nel mondo si rivelava in tutta la sua certezza proprio lì, alla sua sommità. Tutto era una cosa sola: la signora (per una volta osservata non di fronte, ma dall’alto), gli esseri striscianti tra le pareti della casa, tutti quanti sotto il pavimento come inscatolati, li sento sotto i miei piedi; uccelli, rondini saettanti, o nidi lasciati vuoti su pali che dallo stadio mi osservano di rimando, venti sferzanti; la pioggia e il suo odore; le stesse solite quattro case e lo scarso traffico, il giardino rettangolare presente su un solo lato della casa, chiuso gelosamente, chiusa la sua rigogliosa vegetazione subtropicale, ora un insieme di chiome su cui ogni tanto andava a posarsi verticalmente la mia attenzione; la sensazione di poter distendere il braccio e raggiungere gli edifici dipinti sul fondale, toccare lo stadio, sollevarne un lembo verde come fosse plastica di un giocattolo: scoprire i calciatori oppure le rane, entrambi minuscoli, tanto uguali e indistinguibili quanto più sale il punto d’osservazione. Il liceo ben visibile in lontananza, insieme alla vegetazione delle campagne circostanti. Percepivo che era un luogo di strani flussi energetici, ma al tempo non sapevo leggerlo bene e le mie fantasie vertevano su illusioni innocenti. Fantasticavo, osservandolo a lungo, le numerose vite che lo avevano attraversato, ora disperse nel mondo, forse scomparse, tutte unite da un ricordo indelebile. Distinguevo le impalcature rosse della palestra, e altrettanto nitidamente le vedevano quelli che in quel momento non ce l'avevano nel paesaggio davanti, dovunque fossero, udivano le note incerte e mal accordate dei concerti di fine anno che avevano rimbalzato tra una parete e l’altra, le autogestioni e i tornei di calcetto. Anche io sarei andato là, nel luogo che vedevo da lontano, effettivamente l’avrei raggiunto anche senza distendere il braccio. E una volta là dentro, tornato a casa avrei continuato a osservarlo dal terrazzo, ancora fantasticando, sempre di un’altra vita che avrei potuto farvi ma diversa dalla mia corrente, evidentemente insoddisfacente. Sciocco, non riportavo alla mente le parole dell’ombra! Lassù, in terrazzo, prendevano forma così chiaramente, così splendenti, eppure rimaneva inconscia la loro veridicità. Questa era l’importanza di quel punto di vista, del “parlare insieme a Via Tiziano”, dell’essere la via stessa. Da quel terrazzo vedevo che tutto quanto sgorgava dallo stesso incredibile e incomunicabile principio. Il terrazzo di Via Tiziano, custode dei cieli, e i balconi suoi figli sotto di lui: grazie a essi l’osservatore comprese il fango.
“Vedi questa?” Mi diceva una spirale donatami da un’ombra. “questa è un’enorme palude. Anfibi nascosti che attendono il diluvio, uccelli acquatici che testimoniano l’importanza di un’alta vedetta. Pioggia attraverso cui nuotare, campagne umide a perdita d’occhio, si allontanano, continuano, fino alle pendici dei colli; tutto è fresco di temporali, fino al lato opposto della città, fino a una piscina che è acqua artificiale laddove vasche più profonde e dense foravano la terra argillosa. E poi gli acquedotti, i grattacieli, una stazione, una zona industriale, le case abbandonate, i vapori spettrali sui fossi di periferia. Molti spiriti vivono qui, nella triste e sublime palude.”
Udii un grillo anche allora, quella volta in cui andai in terrazzo in piena notte. Sembra difficile da credere, ma vidi davvero la signora stendere i panni nel buio completo. E l’ombra stava accanto a me, la stessa dell’altra volta -quella delle enigmatiche parole finalmente comprese- nel balcone della cucina. Solo che in quell’occasione, quando l’oscurità era vissuta da sopra le nubi annerite, con occhi di volatore, non conversammo molto: stavamo semplicemente entrambi sul terrazzo, ogni tanto sedendoci sul pavimento a guardare il cielo. Mai troppe stelle, ma pur sempre confortevoli. Un paio di pipistrelli strepitano, un clacson lontano immediatamente inghiottito dalla quiete, nullo il suo baccano al cospetto di essa, regina dell’ora tarda. Nessuno si alza nella notte per guardare la tv. Una rampa di scale più in basso, nell’appartamento abbandonato di soppiatto, molte luci di decoder e prolunghe luccicano come numerosi occhi rossi della giungla. All’improvviso, chissà perché, mi venne in mente quella volta, l’unica, in cui menzionai la cicogna ad altri. Non capirono, risero. La maestra disse: “ah, non ho mai saputo che ci fossero le cicogne a Via Tiziano, ma se dici che ci sono vado subito a vederle”. Passavo spesso per bugiardo, e questa volta a ragione, poiché da quel lontano giorno in cui la spiammo col binocolo non lasciò altre tracce di sé. Forse un po’ di paglia sgualcita adorna ancora la sommità del palo. Ma forse, chiunque perdesse interesse -comprensibilmente- nell’udire l’anonimo e banale nome di Via Tiziano, non avrebbe saputo vedere la cicogna neanche trovandosela faccia a faccia, a stendere i panni al balcone di fronte. Né avrebbe udito leggende sullo stadio nuovamente riempito di acqua salmastra come all’inizio dei tempi, pullulante di zampe palmate, né avrebbe saputo riconoscere in un condominio la tana di numerose creature amanti dei nascondigli freddi e bui. Nessuna spirale mossa in ventre. Tristemente sarebbe andato dimenticato questo angolo di palude. Mi voltai, e tranquilla mi sedeva accanto l’ombra assorta nel cielo nero, ignara delle mie riflessioni, infittita tra le sue: la spirale aveva definito la città “triste e sublime palude”. Per questo, se dovessi dare un nome a quell’ombra, la chiamerei “Tristessa”. Come un nome rimasto elegante e letterario in un lontano futuro in cui non si parlano più le lingue del presente, che pure hanno lasciato tracce qua e là nei nomi dall’etimologia perduta. Ma qualcosa rimane dell’antico significato in quell’essere così caldo e confortevole, da incontrare in solitudine, magnificamente in sintonia con la notte.
…
Poco più alta di me intorno agli undici anni, l’essere d’ombra che chiamo Tristessa era come un elfo basso e sottile di tenebra, dalla consistenza indefinibile, priva di contorni ma non senza contenuto. Direi simile, in qualche astruso modo non comunicabile, a una fiamma, eppure diversissima da qualsiasi fuoco: non composta di merlature gassose in perenne agitazione, poiché ferma e sicura pur nel suo scorrere e decomprimersi; ma del fuoco aveva qualcos’altro che i racconti non possono tessere adeguatamente. Forse una resilienza vaporosa connaturata alla sua natura elementale, che si mantiene ovunque, trasformandosi da fauci roventi a fumo, da fumo a polveri invisibili, in un ciclo infinito che ritorna forse a un magma antico custodito in roccia che sbuffa incandescente nel vuoto cosmico. E addirittura, Tristessa possedeva qualche strana caratteristica del ghiaccio: simile alla trasparenza non priva di peso di quelle enormi lastre viscide che sul terreno si mescolano nel buio della notte, assorbendone il colore e facendosi squame dell’oscurità stessa. Per questo la individuai già non appena superato l’ingresso della cucina. Si poteva vedere oltre la vetrata del balcone, sul lato destro dove stava accartocciata la sedia da giardino, qualcosa di scuro che si interponeva tra il muretto e i vasi sistemati di fronte. Avvicinandomi al balcone dov’ero comunque diretto, tenendo a mo’ di sacro calice tra le mani a conchetta un bicchiere fosforescente di latte e menta, riconoscevo poco a poco che quella figura così simile al mondo dormiente, quasi invisibile se calata in esso, ne era in realtà una parte separata. Dotata di una propria volontà, insomma, nonostante sia parte di un tutto: nella transizione graduale tra giorno e notte, i piccoli esseri inglobati nell’atmosfera che attraversano si dimenticano che la notte stessa è un essere vivente, enorme e arrancante fin dall’istante più remoto, finché non incontrano una sua singola parte che respira, un organo vivo che pulsa. Montava l’eccitazione mentre giravo la maniglia e già mi sporgevo, maleducatamente se si pensa al mio sentirmi quasi un “discepolo” al suo cospetto, verso destra per sbirciare il mio prossimo compagno di contemplazione notturna. Subito la cercai, senza freni inibitori, niente affatto nascosta la mia volontà di studiarla. Ma lei non si offese, forse estranea a certe norme, e con aria vagamente divertita accolse bendisposta il mio indiscreto impulso a spiarla da capo a piedi. Senza che nessuno dei due ancora parlasse, ci guardammo a vicenda per un po’, io dimenticando il bicchiere tra le mani, il cui contenuto facevo ondeggiare per presa malferma; lei, se fosse stato possibile, avrebbe mostrato un’espressione accogliente. Ma una faccia vera e propria non c’era, pur non essendone propriamente priva (o comunque, chi l'ha vista ha sempre una certa titubanza ad affermarlo con decisione). Pensai dunque a un elfo, o qualcosa di ugualmente magico e cangiante nell’incamerare un’aria al contempo ieratica e capace di ingenuità fanciullesca; ma elfo -o come lo si voglia chiamare- visto nella sua sagoma, come ombra che passeggi tra gli alberi dal lato opposto di un largo sentiero in un bosco buio. Si immagini di ingrandire questa sagoma, dello stesso colore del cielo e di tutto quanto, fino a raggiungere le dimensioni che avrebbe se l’essere a cui appartiene si trovasse ad appena due passi dall’osservatore, senza tuttavia che le fattezze si delineino meglio in proporzione alla vicinanza: insomma, una silhouette lontana vista da vicino, priva di dettagli in eccesso. Si capisce come mai non potesse articolare il volto in espressioni diverse.
Dicendo che era dello stesso colore della notte, non ho trasmesso il fatto che questa caratteristica fosse legata più a un’impressione -per quanto netta- che l’ombra sembrava trasmettere in maniera quasi volontaria, come a identificarsi in questo, come a comunicare una certa cosa indossando un vestito appropriato. Di fatto però il suo colore era leggermente diverso dal blu nero e profondo che scendendo del cielo si sovrappone a ogni cosa: era più chiaro, un blu più tipico, che tuttavia non recava alcun contrasto. E come in due fiammelle subordinate e spettrali, si schiariva ancora, celestino, negli occhi balenanti appena all’interno della testa di forma ovale, posti alla stessa latitudine che avrebbero avuto in un normalissimo volto umano (in questi occhi lessi, o forse volli leggere, un minimo vivo movimento, quel comunicare quasi inesistente ma più che sufficiente, sul quale mi sono basato per dire in questo o quel punto cose come “se avesse avuto la faccia, avrebbe trasmesso questo” etc.). La sua forma era in effetti perfettamente umanoide, eccetto forse qualche proporzione anomala qua e là, braccia troppo assottigliantesi, testa forse troppo più lunga del collo, torso forse troppo magro e gambe come stecchi, ma insomma, trattandosi di un’ ombra -qualcosa che abitualmente si deforma- non reputai che ci fosse alcunché di strano. Piuttosto, era assurda l’occasione che mi si presentava, un privilegio -“finalmente!”, mi dicevo, me lo sentivo che ce n’erano diversi nascosti di quelli come voi, di questi esseri incredibili a conoscenza di questioni irraggiungibili. Pullulate nella mia città, vero? E le strane lucertole che imperversano dietro ogni parete e sotto ogni pavimento sono forse vostri guardiani o animaletti domestici. Finalmente, già. Se non le cicogne o le rane delle leggende, posso almeno cominciare a interagire con chi appartiene a un altro piano esistenziale, e darmi risposte. Queste parole di eccitazione, taciute ma palesemente rifluenti dal mio fare strabiliato e inesperto, Tristessa le recepì con chiarezza, ma non commentò. Continuava con quella sua non-espressione curiosa. Stava bene così. Nella profondissima quiete scandita soltanto da rumori timidi e rispettosi del Sonno -fruscii, starnuti del legno o cemento, miagolii, voci remote-, ci guardammo a lungo, volgendoci sporadicamente al panorama disteso davanti al balcone, apprezzandolo, come era nei nostri originari intenti. In quella lunga catatonia di sguardi, mi persi forse (anzi, voglio dire “certamente”) un paio di visite all’esterno della Dirimpettaia Perenne. Mi chiedo cosa possa aver pensato trovandoci là imbambolati, se ci vide entrambi o soltanto uno dei due.
Le restanti ore della notte passarono con noi che chiacchieravamo di varie cose, di ciò che mi sembrava appropriato chiedere (capivo che al mio grado di “iniziato” non potevo andare dove mi pareva), e se talvolta chiedevo di cose alle quali lei non poteva o non voleva rispondere, me lo faceva capire semplicemente tacendo, con tranquillità, pause educate senza alcun dilemma. E chiacchierando mi sembrava di percepire con il corpo e la mente tutti i gatti nottambuli con la coda ritta su tutti i cornicioni di tutti i balconi del mondo, e tutti i grilli solitari come quello che si udiva, tutti i pipistrelli, tutte le saracinesche calate ai bordi della strada, e tutti i nerissimi vetri di finestre a trapezio in mansarde in cui è soppressa ogni fonte di luce, come quella che sovrastava il palazzo bianco della Dirimpettaia; tutti i tacere di violini che lì dentro si esercitavano ogni giorno, per poi subire come ogni cosa l’incantesimo d’arresto del più infrangibile dei Silenzi. E di tanto in tanto sentivo sussultarmi nel torace un movimento inquieto, diverso da quello della strana spirale di tenebra. Una frescura appiccicosa sulle dita mi avvertì che avevo inclinato di troppo il bicchiere e vidi brillare sulle mattonelle piccoli stagni di latte e menta.
Dopo un po’ mi disse, come forma di congedo, che avrei potuto incontrarla altre volte, in notti particolari (ma non mi spiegò come riconoscerle), cosa che come ho già detto accadde. Forse altre due volte, entrambe in terrazza. E mi sembrava che l’averla incontrata lì, e mai più al più basso balcone della cucina, non fosse casuale. Ebbi quasi l’impressione che Tristessa volesse salire, ascendere al cielo, tornare allo spazio come un vagabondo d’altri mondi. Spesso guardava in su, sia lei che io silenziosi e confortati del reciproco silenzio. E forse la prossima volta l’avrei incontrata in un luogo ancora più alto -e più insignificante-, un’altra piattaforma di Via Tiziano ancora più elevata della terrazza, ma per ora invisibile. Un disco volante magari. Un luogo da cui vedere ancora più chiaramente la lezione che mi aveva impartito: sovrastando una maggiore area, più netto si percepiva il profondo respiro di una sola terra, e del Fango che vi riposava sotto. Non abitando più in quella via, ho dovuto ricercare la singolarità in altri modi. Rimpiango un po’ il terrazzo, il “punto di vista” di cui ho compreso l’importanza; in compenso si avvicina il tempo di profezie e leggende, di rane incontrollabili riverse su campi da calcio. Tristessa, prima di congedarsi dalla sua postazione in Via Tiziano (infatti incontrai altre volte i suoi simili e lei stessa, un po’ cambiata, solo non più in quel luogo), mi chiese, curiosamente, se avessi visto “niente di strano” ultimamente. Risposi divertito e con una convinzione che non mi sarei mai sognato di raggiungere al nostro primo impacciato incontro.
“no.”
Mi sembrò ancora di sentirla rallegrarsi.
“bene…”, disse, e poi scomparve. Capì che di cose “strane”, negli ultimi tempi, ne avevo viste eccome, ma che cominciavo a percepirle per quello che erano. La sublime e triste palude ne era piena. Sentii però che comprese anche che non mi era più ricapitato di vedere il candido uccello dal lungo becco rosso che per primo sovrastò l’insignificante zona dal suo alto palo della luce, a picco sull’arena verde e fradicia di pioggia della leggenda.
…
Vidi altre volte, molte, la Dirimpettaia Perenne alle ore più impensate che stendeva i panni, fino al giorno in cui mi trasferii.
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