Gli Appunti Del Fango- vasche fluttuanti
- Milky
- 24 feb 2022
- Tempo di lettura: 19 min
Quando pensi che gli alberi e le ombre tra gli arbusti ti guardino con occhi strani, e che gli aghi infiniti della pioggia siano tutti gelide dita di spettro provenienti da un cielo limaccioso come i pantani in cui si riflette, ricordati che sono soltanto brutti sogni. A volte. Qualche volta.
Ci siamo generati tra queste rive indefinite, lungo acque senza forma che non possono chiamarsi stagni o fiumi o mari, ed evolvendoci nell’intrico di piante avide di sporcizia abbiamo vissuto con i rumori improvvisi del folto e del pantano, con la sensazione d’essere osservati, da qualcosa che sta in un punto per sempre cieco. Cecità nera che ci ricorda un tipo di melma che si sprigiona premendo con gli arti sulla terra fradicia, fuoriesce come un grido liquido in lacrime scure che sembrano avvilupparsi in una morsa di liane attorno alla mano. Per questo, una minaccia sfuggente, abbiamo costante paura. Per questo, per pronunciare parole pericolose, ma facenti parti di una formula che devo applicare, come esorcismo e scaramanzia della vita quotidiana, devo appartarmi in un luogo specifico. Non è sempre lo stesso. Non è mai del tutto sicuro. Abitanti del Fango che sanno che tutti i timori possibili nel bioma della palude e di tutto ciò che è seguito a questo sono emissari di una sola ineffabile minaccia: per nominarla e illudersi di combatterla devono recarsi dove, per il momento, credono che non li stia inseguendo o che il suo potere sia ridotto. Corro in un riparo momentaneo dove i canneti appaiono gentili, carezzevoli soffi d’erba dall’aspetto placido sotto il cielo, nell’idillio di periferia. Sembrano questo e non escrescenze indifferenti, invischiate nella competizione mortale della sopravvivenza esattamente come tutto il resto. Serve l’illusione per combatterne altre, gli incubi che potrebbero avermi inseguito qui. Mi guardo intorno, non c’è niente. Insetti simili a piccole locuste che si arrampicano lungo gli steli, inclinandoli; sassi o corteccia che producono tonfi cadendo nelle vicinanze, piedi palmati che corrono sul pelo dell’acqua e decollano; poi, la quiete. Disseppellisco un appunto in cui sta scritto ciò che temo possa essere udito dalla minaccia. Non si può stare tranquilli neanche con stupide, effimere parole. Non puoi dire il Fango cos’è, non quando le sue facoltà d’ascolto, insite nelle vibrazioni della sua gelatinosa carne, sono al massimo potere.
Ecco perché ci si allontana per raccontare di aver capito i suoi intenti e la sua natura. Pure se è un’illusione, pure se non può risolvere nulla e non può spaventarlo. Sfugge alla definizione, per definizione. E rimanderà i suoi incubi selvatici a perseguitare, a ricordare che siamo ancora immersi in quel gioco perverso dell’evoluzione.
Ma ricorda che sono solo brutti sogni, ricordi che diventeranno effimera schiuma. Vieni in campagna e verso gli acquitrini lungo la statale, e cerca di guardare i rami contorti e gli uccelli non come corpi che bramano la vita propria e la morte altrui. Guardali come macchie del paesaggio. Guarda quelle macchie come la forma che assumono rielaborandosi dentro di te. Non sono tutte carezze? Non sono lievi colori e medicamenti dall’aria incredibilmente serena, in profonda accettazione del tutto? Questo -il tutto- non scorre più come un fiume impetuoso e spietato e travolgente per l’impeto d’inarrestabili temporali, ma come un ruscello tranquillo. Voli e lo vedi dall’alto, trascorre insieme ai campi rattoppati sulla terra su cui si proietta l’ombra delle tue ali di piumaggio impermeabile. Scintilla quasi al riverbero del cielo, si getta incessante ma senza fretta, finché il movimento regolare è talmente regolare da sembrare quasi fermo.
Scaccia i brutti sogni, vieni a fare una pausa. Non durerà molto, perciò acquattati bene tra le canne, fatti un temporaneo nido d’anatra e assicurati di non esser stato seguito da cacciatori e tormenti.
…
Non ricordo cosa mi aspettassi. Forse di ritrovare tutto come era prima, ma anche in quel caso, che sarebbe cambiato? Non erano cose che potessero toccarmi, ormai, erano ricordi invecchiati e basta, già rivelate le loro mancanze. Lo ricordavo bene quel posto, le sue estati e primavere, e anche l’umidità penetrante di qualche autunno e inverno che disegnava folte nebbie sui finestrini. Le piogge, la luna piena sopra le acque calme. Un odore di pizza che si introduceva nei vestiti, le croste abbandonate da chi non le mangiava, pane proibito per i pesci d’acqua dolce. La pineta prima del parcheggio, la zona illuminata dei tavoli, giunchi in vaso, un parcogiochi liminale prima della massa scura delle acque e degli alberi dentro la tenebra che rimaneva fuori a guardare placida verso i gazebi e le finestre della sala. Levando un canto uniforme.
No, invece, una cosa mi aspettavo di trovarcela: le rane, il canto che giunge uniforme. In una sera di un’estate solitaria ho preso la macchina per andare alle Sorgenti di Carano. Non era ammissibile un’estate conclusa senza aver ascoltato le rane di notte. Non era ammissibile un’estate conclusa, punto. Ma c’erano e sempre ci saranno in moto cose più grandi, inarrestabili. Nessuno ha capito, i loro movimenti, quante cose determinino, quante vite scelgano. In una sera così, senza libero arbitrio, liberamente mi recai a passeggiare lungo gli stagni quadrilateri della zona di pesca, per prendermi almeno il gracidio. Un ladro egoista. Sulla riva immersa in un buio blu profondo, impregnato di una calda umidità, trovai una sedia abbandonata. Una qualsiasi sedia scolastica, con schienale e sedile di legno giallastro rugoso e scalfito sui contorni, ricurve tubature nere. Erano così le sedie lì buttate per i pescatori. E da qualche parte doveva esserci una scuola che dormiva con le aule rimaste senza sedie, al posto loro un vago sentore di scarponi fradici d’acqua limacciosa. Mi sedetti e guardai l’acqua e altre cose per un tempo sospeso, fluttuante in una zona d’incontro. Mentale e del territorio apriliano. Aspettavo di sentire i gracidii.
Vedevo distanti le luci di torce elettriche sulle altre rive che avevo costeggiato per raggiungere la mia, l’ultima all’estrema sinistra, l’unica che non fosse occupata. Non avevo mai visto così tanti umani in questo posto. Erano anni che non venivo. Dalla pineta, qualche centinaio di metri alla mia sinistra, proveniva un bagliore, gente che continuava ad attraversarla per arrivare al parcheggio. Facevano sembrare con i fanali che gli alberi celassero una segreta anima incendiaria, secondaria e tenuta segreta, minacciante scintille. I laghetti erano aumentati di numero, alcuni avevano cambiato posizione. Si erano sdoppiati, frammentati, inclinati rispetto agli altri. Solo quella riva rimaneva simile a quello che ricordavo e mi ci ero recato senza osservare i dintorni, automaticamente, come se sapessi già, o lei mi chiamasse. Non credo che ai laghetti o agli eucalipti circostanti importasse molto, in realtà. Ero solo una presenza passeggera, cercavo di non fare rumore e di non ingombrare. Niente si era messo in allarme al mio passaggio, umani e orecchie dell’erba non sembravano avermi notato. Indisturbato ero arrivato dove dovevo arrivare.
La riva era simile perché le cose sul suo orizzonte si disegnavano allo stesso modo. Gli alberi palustri contorti dall’altra parte, il lato opposto dove finiva l’estremo del terreno appartenente al locale. Segnavano il confine con lunghi campi e boschetti intorno. Le loro sagome si rannicchiavano simili a grinfie irrigidite in spasmi, e le foglie frusciavano sui contorni dei rami addolcendone la spigolosità. Poi, era simile la presenza dell’oscurità, corpuscolare e in onde. Ammantava le immediate vicinanze riuscendo a rimanere indifferente all’eccesso di luci invasive che si accendevano dalle altre parti, sparate dal locale come una musica ripetitiva, dalle torce dei troppi pescatori che spaventavano i pesci. Erano uguali i pesci, supponevo. Perlomeno lo erano i loro tonfi improvvisi che punteggiavano il silenzio. Giusto, il silenzio: anche questo si rifugiava accanto a me, rimanendo indifferente al chiasso. Una strana posizione. Capivo che elettricità e voci esistevano ancora, più di quanto le avessi mai percepite in quel luogo, rimanevano nei dintorni e si mantenevano osservabili. Ma si poteva scegliere che fossero intangibili. Lo erano, non mi turbavano. Qualcosa di invisibile e al contempo incredibilmente concreto proteggeva quella riva sonnecchiante nell’oscurità, come alti schermi di vetro spettrale eretti verticalmente dalle delicate increspature di insetti sull’acqua calma.
(perché ci sono venuto? A rivedere l’ingenua serenità dell’infanzia? Non era altro che ignoranza, una forma di cecità. Un tempo in cui la palude non si mostrava nella sua interezza, mostrava solo le rane. Non le mostrava nell’atto di catturare gli insetti, gli insetti non annuvolavano le carcasse. Non ricoprivano ronzanti e voraci la palpitante viscida agonia di una trota lasciata a boccheggiare su una sedia in un pomeriggio, giallo sole e verde lacustre e bianco di infinite larve contorcentesi. Si mostravano solo gli eucalipti e gli insetti campestri e i gracidii e l’odore del forno a legna e giochi di ruolo nelle feste delle elementari nel parcogiochi. Di stagni ce n’erano di meno, erano pochi e preziosi, ed era prezioso il buio che veniva ad avvolgerli, raccontando la profondità delle acque e dei campi attorno. Restavo ore incantato a fissare la forma dei giunchi, vedendoli solo a volte, sentendoli più dentro, a farmi crescere qualcosa nelle viscere. Nelle teste di torba marrone, sembravano serbare qualcosa, aver visto qualcosa nella notte fragrante d’alghe e girini. Mi incantavano i segreti e i mormorii del lago, gli artificiali stagni diventavano nella mia mente un lago unico, spalancato come occhio spontaneo nella natura di queste campagne. Perché ci sono venuto? Vengono macchine con chiasso di fanali accecanti, macchine enormi a pescare, sono acque che esistono solo per riempirsi di pesci che vengono fatti nascere forzatamente per essere portati via. Nascono dalle uova con le branchie già squarciate e rosseggianti, e tonfano la superficie perché sanno, mandano le bollicine in superficie da respiri mozzati e insanguinati perché sanno. Chi è che vuole questo destino? Proprietari, esseri umani, o una roba che vuole che questi agenti agiscano così? La stessa roba che ci ha collocati ad Aprilia, magari, in attesa che qualcuno ci peschi dalle nostre pozzanghere. I clienti, al ristorante o a pesca, pullulano, sembravano riprodursi per mitosi davanti a me quando anch’io, come loro, ero entrato con la macchina nel parcheggio. Sono passato accanto alle luci e le ombre in forma di fantasma, venendone tuttavia rintronato come un essere corporeo mentre quelli davvero corporei non mostravano patimenti. Ero però diretto al palliativo che si offriva nella vegetazione discosta per i sintomi del mio animo già avviato tra contorti cunicoli di turbamenti interiori. Ci sono venuto per questo? Sono rimasto in un’estate di sprofondo, guardo da lontano gli altri che come me sprofondano tra ghiacciai di melma e credono invece di muoversi e stare in libertà, e non sembrano capire il mio grido, che parla di Fango, non sembrano capire la paura che fa. Allora vengo a cercare le rane, perché anche dalla melma si levi qualcosa di piacevole: non mi importa se è solo una parte, se è cecità e illusione di pace. Anche le rane sono in guerra. Ma di loro, non è la guerra che vengo a sentire. Allora vengo qua, in un luogo che ricordo, una nicchia di oscurità placida e priva d’inquietudine nelle notti d’infanzia e di ricordo, ecco che ci sono venuto a fare. Solo che passo per la pineta all’ingresso, arrivo, e dal reale si sprigionano fenomeni che accelerano lo sprofondo, perché sono infiniti altri sprofondi in cui rispecchiarsi, l’acqua torbida diventa limpida e mostra se stessi. Praticamente vengo per un medicamento e trovo altri motivi di medicarmi. Mi medico, convalescente sulla sedia, una leggera tachicardia sfuggita alla folla che rallenta, rallenta, si sincronizza a respiri di pesci e come questi palpiterà un’ultima volta, prima o poi. Non c’è molto vento, ma nella vegetazione palustre le foglie frusciano lo stesso. Mi curo da un male autoinflitto, io sapevo che i ricordi non erano più reali e sono venuto lo stesso. Lo stridio di un uccello notturno annuncia tra fronde di pioppi che il mondo è fuori sesto, poi esce a caccia battendo le ali mute. Mi dico d’accordo solo a metà, e questo separa per sempre le nostre esistenze. Non possiamo comunicare. Sono solo, sulla riva di uno stagno artificiale, in una campagna naturale. Questa è l’unica cosa che si possa dire una verità, in questo momento, nei limiti del mio campo d’osservazione coi suoi punti ciechi.)
-ah, ecco cos’era.
Dissi tra me, boccheggiando. Sentivo nell’umidità circostante che cominciava ad addensarsi una nube temporanea di un certo tipo. Non un fenomeno atmosferico. L’importante è ricordare che sono sogni, a volte brutti. Non in quel caso, no, gli spiriti dei canneti attorno agli stagni non sono nocivi. Di conseguenza non lo sono nemmeno le nubi che proiettano. Nessun osservatore ha capacità o interesse di dire in cosa consistono con precisione, del resto si dovrebbe appartenere alla loro dimensione per poterle raccontare. Gli spiriti possono manifestarsi ma solitamente comunicano in modi che rimangono isolati agli estranei, come incastonati tra i reticoli di un labirinto d’ultrasuoni e infrasuoni. Se non altro, nominarne gli effetti non fa venire la paura che qualcuno stia ascoltando, come in altri casi... o semplicemente non avevo paura io in quel momento, in quell’estate. Era una delle ultime sere d’estate. Mi ero ridotto agli ultimi giorni per poter sentire le rane, e ancora non ero riuscito ad ascoltarle. Non come volevo: in quelle notti lontane erano assordanti. Avevo sentito echi singoli, di rane lasciate sole per l’estate, una vicina all’erba ai miei piedi, che si era chetata subito. Addormentata o sepolta nel limo. Altre troppo lontane, troppo stanche.
Si erano annunciati con dei fruscii alle mie spalle. Non mi voltai. Non perché avessi proprio paura. Ma non avevo nemmeno curiosità di vedere gli spiriti in volto, nel volto che potevano assumere temporaneamente nelle loro manifestazioni. Dissi, va bene, mostratemi un po’. Tanto intuisco cosa volete farmi vedere. E tanto sapevo che c’eravate. Eravate scritti nel fogliame, negli eucalipti vicini, negli arbusti là dietro, gli steli intrecciati tra loro e la penombra che è rimasta lì acquattata e paziente dal pomeriggio, per infittirsi a quest’ora.
Non mi volto ma cerco la luna. Getto il collo all’indietro sullo schienale della sedia scolastica, comincio a dondolarmi piano, automaticamente. Trovo la luna nel primo quarto, alone lattiginoso un po’ spento. Perlomeno è presente.
Sotto i suoi raggi diagonali, reclinanti al di sopra del laghetto, comincia a disegnarsi un secondo laghetto, d’aria bluastra. La nube proiettata dagli spiriti che vivevano nella vegetazione di Carano era stata sollecitata da una riflessione che stavo facendo. Dunque mi leggevano dentro… pazienza. Sono qua principalmente per sentire qualche rana, e poi tornarmene in città a dormire, chiudere gli occhi a tutto il resto.
Cominciavano a comparire delle forme nel secondo lago incorporeo, galleggiante sopra quello scuro davanti ai miei piedi. Riverberi lunari si discioglievano attraverso le linee quasi fosforescenti. Gli spiriti, nel loro mondo, usavano una sostanza simile a bava filamentosa, la stessa che appallottolata in gomitoli forma i fuochi fatui di palude. Ovviamente però non potevo toccarla, non era che un’eco della sua materia. Riconoscevo tuttavia le forme. Sopra il quadrilatero d’acqua c’era una figura tridimensionale, perché a fluttuare, in dimensioni ridotte, era una riproduzione di tutta l’acqua racchiusa nel fosso, come se una mano l’avesse fatto uscire dalla terra scavata ma mantenendo la forma della buca. Immaginai un passato scurito ai lati, come una vecchia fotografia, la pellicola del reale graffiata: nella scena, certi uomini con le gambe nel fango avevano scavato delle buche poligonali e calavano al loro interno dei blocchi d’acqua, raccolta altrove nella palude. L’acqua selvatica veniva recintata e nascevano i laghetti. Per qualche motivo, solo guardare la scena immaginata mi faceva sentire lo sfinimento nelle ginocchia infangate, e un gelo mortale, come fossi un uovo o una cellula circondata da quei blocchi d’acqua, una fauna destinata a nuotare e morire trafitta dall’alto. La visione svanì, scacciata da quella che prendeva forma concreta e cercava di destarmi.
Vedevo una specie di prisma schiacciato. Delle ombre lo attraversavano, si facevano sempre più nitide. Erano forme massimamente generiche di pesci. Non trote, non carpe. Pesci. Nuotavano nell’aria con andatura letargica.
-buonasera.-, dissi in un timido mugolio misto di deferenza e impreparazione.
-buonasera.-, rispose qualche forma, altre si voltarono limitandosi a un cenno. Fin qui tutto bene.
-scusate, ma voi chi diavolo siete?
-siamo le trote dello stagno.
-e scusate, ma non è… atroce?
-in che senso.-, dissero le trote. Sembravano parlare mediante un singolo portavoce. Non c’era un coro e la voce sembrava giungere filtrata da uno schermo d’acqua, sebbene, chiaramente, non ci fosse vera acqua. Sotto le loro pance scivolanti, lo stagno continuava ogni tanto a tonfare in autonomia da quello astratto in cui vivevano loro.
-atroce, non conosciamo.-, ribadirono le trote.
-intendo… la vostra situazione. Lì sotto, in attesa che.. insomma, qua. È terribile, è qualcosa che mi farebbe impazzire. Mi fa impazzire anche adesso.
Le trote tacquero ma colsi tutto ciò che volevano dire in quel silenzio. Cioè niente. Ma è un niente molto significativo, per quello che capisco con pochi rudimenti della lingua e visione del mondo delle trote. Non ci possiamo intendere con questo genere di domande.
-quanti di voi sono morti, oggi?- l’ultima domanda che volli far loro. Per qualche motivo non ho resistito. Pronto ad ascoltare, mentre una parte delle orecchie continuava a cercare i gracidii. Ce n’è uno, eccolo, ma è troppo flebile.
-un milione.
-un milione?! Ci sono così tante trote in un laghetto di Aprilia?
-sicuro. Ma ricorda che il milione delle trote è un po’ diverso.
Anche questo era vero.
-ma il significato, se proprio ci deve essere, è lo stesso.-, aggiunsero le trote.
Soffiai colpito.
-non capiamo lo stupore.
-però sapete che significa…
-beh, siamo pur sempre immagini proiettate dagli spiriti. Quelli là sanno tante cose e parlano molte lingue.
Rimasi per un po’ a dondolare, senza aggiungere altro. Le trote, da parte loro, continuavano a gironzolare pigramente nella fioca luce lunare. Stavo ascoltando i grilli e provavo una strana sensazione fresca in gola, come se mi dissetassi del suono. Aveva anche una specie di sapore dolciastro. Speravo che se avessi sentito i gracidii non avrebbero avuto un sapore, era una cosa che si addiceva soltanto a certi animali. Comunque, non si sentivano. Qualche zanzara scivolava attorno alle mie orecchie, mordeva i lobi e se ne andava delusa. Mi scambiavano per un corpo inerte, poco sangue.
A un certo punto passò un tizio in bicicletta, dietro di me sulla ghiaia. Mi spaventai vedendo sfarfallare il suo irritante fanale intermittente, una luce bianca dai contorni freddi. Non gli interessava la mia sedia. Faceva il giro del quadrato, andava a raggiungere certi altri su una riva dello stagno di fronte al mio affacciata sulla staccionata dei campi arati, un gruppetto di adolescenti raccolto attorno a una canna da pesca verde infilata rudimentalmente in un bitorzolo fangoso del terreno. Mi passò dietro, mi vide, non ci scambiammo un solo cenno. Il laghetto fluttuante, che nel frattempo s’era retratto in un movimento simile a corolle di fiorellini chiuse da un improvvisa gelata, tornava a far capolino nei suoi contorni fumosi, riemergevano da incerti fischi di luce lunare.
(quelle trote, non c’erano sempre state. Anche loro erano un’aggiunta all’ambiente palustre della città. Non nate spontaneamente nell’acqua e nella melma originali. Per quanto mi piacessero quegli stagni e il loro odore, non sapevo riportarli a una continuità tale da riempirli del mistero naturalmente derivante dalle cose ancestrali. Respiravano a una cadenza diversa dal respiro del territorio. Io ascolto il Fango, il suo male ma anche il suo bene, quando si manifesta attraverso le cose che sempre l’hanno conosciuto, oppure attraverso le cose moderne che comunque rispecchiano la sua volontà. Non so se questo posto è così. Di sicuro scavare in un terreno così riporta in vita un’umidità antica di millenni, che accoglie presto le acque dolci e salmastre. I pesci si accomodano, ma io non so se sentono di vivere davvero qui, e le trote non possono rispondere a certi quesiti grossi e inopportuni. Vorrei solo che un gracidare assordante, di cento estati sommate, travolgesse tutto e sotterrasse quella specie di risata cavernosa e deforme, che sento avvinarsi dall’aria lontana simile al viaggio inesorabile di un temporale. Viene qua, mi insegue, continuerà a farlo e a schernire ogni cosa, ogni desiderio di quiete su questa terra. I grilli cantano ipnotici, ma non abbastanza forte. Non distolgo lo sguardo da questi pesci che forse sono meno apriliani di me. O forse siamo uguali, e per questo un minimo ci intendiamo. Aspettiamo che una mano o una lenza ci colgano, strappino dall’acqua, come a portarci via dallo sprofondo, solo per collocarci in un altro. Su una sedia scolastica abbandonata nell’erba di una riva, sotto il sole cocente o la luna impassibile, ad ansimare tra gli insetti e fuori dalla propria dimensione.)
Gli adolescenti facevano un gran casino. A ogni tonfo dell’acqua gridavano, credendo ci fossero pesci facili da prendere. Non capivano che certi tonfi, più che di pesci in sé, erano… mah, chissenefrega. Me ne sarei andato a breve. Alle trote non potevo fare altre domande. Eppure non se ne andavano. Non mi andava di voltarmi e incontrare spiriti palustri malconci, stanchi, rimpiccioliti dalla vita in un’area per la pesca sempre più frequentata. Era solo una possibilità, una mia limitata interpretazione, ma non mi andava di vederla verificarsi. Quindi, non mi restava che attendere che finisse la scena che mi facevano galleggiare davanti. Mi inducevano a dire qualcos’altro alle trote. Anche se non potevamo capirci, per la maggior parte delle cose. Umani e pesci non partecipavano nell’angoscia che questa città, e anche queste campagne, mi iniettavano dentro.
Mi misi a raccontare cose che non c’entravano niente.
-una volta, qui, facemmo una festa di fine anno. Alle elementari era una specie di tradizione. Però succedeva sempre qualcosa di, mah, di problematico e sciocco. Da non crederci, certi drammi già alle elementari. Genitori con reciproche antipatie, imbrogli nei giochi, menzogne e rancori. Nonostante tutto ciò, non mancavano mai, all’inizio dell’estate, queste festicciole.
Le trote ascoltavano in silenzio. Non sembravano capire proprio tutto, ma perlomeno, a differenza di quanto accadeva con le domande di prima, non parevano inalberarsi. Semplicemente ascoltavano e procedevano flemmatiche, pochi colpi della pinna caudale stilizzata, un vago alone scuro sui volti senz’occhi.
-proprio in quel parcogiochi laggiù, sotto gli eucalipti, si scatenò un inseguimento di qualche tipo. Non ricordo bene cosa, in certe fasi, facesse scattare la corsa perché in questo gioco, che qualche simpaticone aveva importato da qualche maledetta colonia, erano previste forme di penitenza e umiliazione, e io quando facevano questi giochi me ne andavo sempre per campi. Però quella volta ero finito per caso dentro un inseguimento, dentro una corsa di quelle. Uno di loro mi chiese perché stessi correndo, visto che non giocavo. Io, impreparato, risposi che era per Il Barbagianni. Quando me n’ero andato a passeggiare, avevo visto un uccello notturno dal piumaggio chiaro che si allontanava da una boscaglia di salici. In quel periodo ero ossessionato da un documentario, in cui il narratore diceva che i barbagianni erano in passato considerati degli spettri. Allora, quando quel mio compagno di classe mi aveva chiesto il motivo della mia corsa, spiegai che quell’uccello che avevo visto proprio lì era Il Barbagianni, un fantasma. Parve molto impressionato, mi chiese altri dettagli. Ascoltava annuiva e andava dicendo che anche lui l’aveva visto sul terrazzo di casa sua. Ne parlò agli altri e la cosa si trasformò in una fuga generale dal Barbagianni. Certo, non mancarono gli scettici, e c’erano diversi gradi nella paura manifestata dalla corsa dei miei compagni di classe. Ma in ogni caso quella volta, paradossalmente, diversi credettero a quella faccenda di fantasmi.
Le trote sembravano molto interessate e il loro silenzio era carico di rispetto.
-comunque, il barbagianni non era un fantasma pericoloso. Però quella specie di bugia divenne il pretesto per un gioco, suppongo. Cose da elementari, c’è poco da fare. Se avessi detto loro degli spettri da cui conveniva scappare per davvero, non mi avrebbero mai creduto. Quella stessa sera, dopo le corse e qualche infortunio, e qualcuno che veniva spogliato in pubblico da una madre troppo sollecita con i vestiti di ricambio, qualcun altro fece come me e se ne andò per i campi e lungo le rive ad ascoltare le rane. Ce n’erano tantissime allora. Stasera, invece, quasi niente.
Le trote, pazienti, forse in qualche modo capivano e annuivano.
(trote, perché giocavamo a scappare, se non vedevamo niente da cui scappare? Adesso che dovremmo farlo siamo impantanati. E che ci sono venuto a fare qua? Credo forse di scappare, qua?)
Dissi poche altre cose, finché il laghetto mentale e gli spiriti non se ne andarono. Non che fosse stato spiacevole, ma era giusto che mi lasciassero anche un po’ in pace. Smisi di dondolare, osservavo la mezza faccia della luna. Respiravo l’aria umida che cominciava a farsi fredda nella notte inoltrata.
Non gli avevo raccontato di quando in quel posto, una volta soltanto, avevo visto una lucciola. Mio padre era a sparcheggiare, io giravo assorto, la videro mia madre e mia sorella tra i gazebi. Era apparsa, all’improvviso, tra alti fusti di piante coltivate. Ci affrettammo con passi attutiti verso quella parte di staccionata di cui si vedevano solo vaghissimi contorni, rifulgenti per pochi istanti quando la lucciola volava disegnando pesciolini di luminose spirali. In una sciocca euforia ci avvicinavamo quasi saltellando, ma facevamo attenzione a procedere sulle parti molli del terreno, come per non spaventarla facendo rumore, per non spegnere la sua luce. Ci sembrava un essere estremamente delicato. Fatto d’equilibri e cedevole al minimo tocco. Avevamo raggiunto il perimetro del terreno, odore di concime e pollame si levava dalle radici fresche ai nostri piedi mentre mi sporgevo sulle assi della staccionata, frugando con le mani tra le lunghe torrenziali foglie in cerca della lucciola. Non era più lì, era riapparsa alla stessa distanza di prima in un punto più addentrato nel buio. La seguimmo, e poi sparì dietro un salice. Anni più tardi seppi che ce n’erano altre, poche, certe estati sui fossati e gli acquitrini della zona.
(una lucciola passa e scambia un cenno con un osservatore, entrambi spariscono dietro salici e se ne tornano a casa a dormire.)
Tornando al parcheggio costeggiai certi nuovi chioschi di legno dove si vendevano attrezzature per la pesca, snack e bevande. Mi avevano disorientato all’inizio, e tutto sommato mi disorientavano ancora, ma me ne stavo solo tornando a casa. Verso un parcheggio di ghiaia e pneumatici abnormi, fare poche frettolose manovre e sparire. Vicino a questi invadenti capanni c’erano delle vasche. Ricordai che anche allora, oltre ai laghetti, c’erano delle fosse di cemento in cui le trote erano tenute al chiuso. Tendevo a distogliere lo sguardo, l’angolo cieco si manteneva in quella direzione e l’osservazione limitata del piccolo osservatore scivolava magneticamente solo verso le acque dischiuse, sotto il cielo serale. Ma le vasche rimanevano. Da lì, echeggianti come in una trincea sotterranea attraverso la pareti simili a scolorita pietra, venivano guizzi di trote ammassate senza spazio tra i loro sguscianti muscoli, gli interstizi d’acqua lì stretti resi irrespirabili. Ero dietro a dei pescatori che gridavano verso la superficie al centro di uno stagno. Mi appoggiai alla vasca sepolcrale. Sporto, guardai quello che era stato lasciato sul loro coperchio: un cesto pieno di vermicelli grigi usati come esca. Frenetiche larve contorcentesi sui reciproci corpi ed escrementi, dentro bacinelle lasciate in bella vista sui pianerottoli di prigioni di trote. Vidi che ce n’erano ovunque, depositati sulle superfici dure. Si facevano osservare con ipnosi e nevrastenia, diventavano linee impazzite che fuoriuscivano dalla propria molle carne e venivano a imprimersi nelle mie pupille. Qualcosa si ruppe dentro il mio timpano e cominciai a sentire nei vasi sanguigni scricchiolii che minacciavano di portare un esaurimento nervoso. Immaginai che da ciascuna di quelle ceste e bacinelle, vermi grigi ed esili e larve bianche e carnose insorgessero infinite, simili a ondate da bocche di piccoli vulcani, come se sotto ciascun recipiente la loro fossa in realtà non avesse un fondo. Sommergevano tutto.
No: rimanevano dentro le circonferenze, non affiorando mai al di sopra della linea del brulicante lago costituito dai loro stessi corpi.
Percorsi velocemente le buie curve del ritorno. Guardavo nel retrovisore, mi riguardavano solo tenebre e lugubri sagome di alberi appena distinguibili. CD, diceva, everybody leaves if they get the chance. Guardavo avanti, verso i fossati e le boscaglie ai lati dell’asfalto, cercando chissà quale luce. Occhi notturni o insetti quasi estinti. Acceleravo verso la città e verso il sonno.
…
Di questa circostanza ho scritto su un pezzo di carta che vengo a disseppellire, in un luogo della palude che, mi pare, conosco solo io, al sicuro dai predatori. C’è un buon odore serotino che si mescola ai fiati delle canne e i giunchi. Sento delle cicale affievolirsi, si stanno addormentando. Mi guardo intorno, rileggo la carta imbrattata e fradicia. Trovo la risposta che sono venuto a cercare, al sicuro. Per il momento.
Il Fango manda se stesso attraverso fumi inquinanti, aria tossica, attraverso brevi ritorni dell’ecosistema antico, con la sua seduzione senza pietà, o una ferocia talvolta mostrata apertamente ripugnante e senza inganni. Puzza di decomposizione, profumo di cortecce palustri ed erbe selvatiche, combustione nelle campagne, liquami nocivi. Ma ciò che non cambia, malleabile ma soffocante, è la sua natura. Il Fango è la realtà, lo rimane sempre.
In risposta al pensiero, appartato tra gli alti steli, giunge un gorgoglio irato. Echeggiano sussulti nel mio petto, un cuore rimpicciolito che non può sottoporsi a sforzi eccessivi, desidera un corpo che concluda rapidamente la sua fuga attraverso acqua o cielo. Alzo il collo oltre le teste delle canne, guardo una distesa smossa da un lieve venticello: sì, c’è qualcosa. Non si vede, è come un residuo pluviale che, sotterraneo, già impregna ogni particella del suolo. Ruggisce scontentezza, come in risveglio forzato da un sonno rude. E si avvicina, scrollandosi ancora di dosso a intimidenti strattoni il torpore del letargo. Accelererà e giungerà in questo posto.
Non so che ore siano, né se il crepuscolo si sia fermato, impigliato in questo canneto. Ma è ora di andar via.
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