Gli Appunti Del Fango- varco a Via del Commercio, fuga dal veleno
- Milky
- 16 giu 2021
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Nella terra chiamata Cavallo Morto c’è un Signore di tutto il Giorno e di tutta la Notte, che sta in piedi, invisibile, alto, e sta al centro di uno di quei campi che pezzano innumerevoli i bordi della strada lunga. Le sue spalle incorporee sono il lato che si rivolge alle distese d’erba secca dei poderi d’un tempo. Sparano negli aghi fitti, corali, un color arancio pungente all’unisono, oppure il giallo, il paglierino acceso, e talvolta tra le balle di fieno s’alza da un falò estivo un fumo che imprigiona in nembi cinerei fittissimi aromi da tutte le erbe e le spighe. Al di là di ogni cancello affacciato sull’asfalto, tra immondizie che dimorano nei fossati adiacenti alla carreggiata, tra copertoni abbandonati a bruciare al sole svaporando all’aria tossine dall’acido sapore di gomma; al di là di ogni ingresso scrostato dalla desertificante brezza corsa dal mare, stanno queste praterie di paglia e begli alberi, placidi nel farsi spazzare da un vento calmo al tramonto, o coprirsi delle ombre dei gruccioni che se ne vanno col piagnucolio acquoso. Invece, l’altro lato, quello dove non stanno le spalle, si rivolge alla selva di querce lunga e vasta attraverso tutta la località di Cavallo Morto e in altri luoghi, che chiamano Bosco della Principessa, e stando rivolto a questo bosco apprezza le ombre che sembrano gocciare come sciroppo dalle cime un po’ piegate e pendule degli alberi più alti, che non reggono il peso di uccelli pasciuti nella frescura selvatica. Il Signore che se ne sta così fermo è padrone, quasi creatore, di quella terra, perché lungo queste coste tirreniche abitano moltissimi numi, ninfe, guardiani di macchia mediterranea, esseri segreti anche nelle giornate di stridenti raggi di sole acceso, che si precipitano obliqui e insistenti su ogni superficie.
Io ammetto di non averlo mai incontrato, e non sono certo di sentire la sua presenza. Però conosco una di queste terre di Cavallo Morto, e la conoscono i miei organi che dalla distanza separata da altri asfalti e rotatorie e binari e fango si sono macerati nel corso degli anni sentendo le sue trasformazioni. Non so del Signore che sta invisibile in piedi, ma conosco qualche nume, come quello di un gigante verde che dorme rannicchiato sotto terra in un punto dove c’era un gelso (ce ne sono molti di questo tipo); e poi ancora, a me avevano detto che il costruttore di questa terra era giunto da altrove, un nume colono. In quella guerra avvelenata il Fango si eccitò, tremò di risveglio e cupidigia, affamato. Vennero i coloni dal meridione e dal settentrione dell’Italia graffiata da uomini che parevano dei, diavoli enormi. Dall’eccitazione del Fango, pronto a riversarsi fuor della terra, avviluppare i corpi ammassati sotto piogge d’acqua e proiettili, si eressero delle città, e il Fango fagocitò cadaveri ed elmetti. Vomita talvolta vecchi proiettili, bombe inesplose. La guerra è rimasta là sotto. Anche quando parve cessare, continuava purulenta a infettare le cicatrici della memoria, quando vennero altri coloni, quando vennero le famiglie di Aprilia e delle zone vicine. Era così il nume che ebbe visione e creazione di questo luogo di Anzio.
Non posso sentire nemmeno la sua presenza, perché sono stato vicino a delle persone che lo hanno visto vivere e che lo ricordavano, vedevano nella mente ancora le braccia instancabili a operare la crescita di un albero, a disporre i campi in saluto al bosco là a un’attraversata di strada. Potevano altri mentre io non posso. Chiunque sia il Signore di questa terra, nonostante il nome del luogo, sento tuttavia che questo non è il Fango che signoreggia nella mia città. Questa campagna non è parte di Aprilia per qualcosa come, quant’era, trecento metri? Questo è ridicolo, in ogni caso: l’estensione del mondo che appartiene al Fango non è qualcosa che le amministrazioni umane possano rilevare, decidere, tagliuzzare in metratura. Un altro principio è in atto, è una presenza che si rivolge a chi soccombe alla logica carnefice sotto le strade pontine. Lenisce, ammorbidisce. Pur sempre muoiono le cose, che sia il nome d’un cavallo, o un serpente strozzato nell’erba tagliata; o un frutto marcio sotto il gelso, il gelso stesso, una mimosa; un teschio bianco e piccolo ottenebrato di nuvoloni di nere formiche inarrestabili, circolari, nevrotiche. Muoiono nella terra gentile, per una volta, così la sente l’osservatore che viene qui da Aprilia. Scrivo in questi appunti rispetto alla distanza, questa percepibile a prescindere dal problema di territori ufficiali o quelli veri del Fango. Un rifugio? Nacque come un rifugio, dalla guerra e il dolore, prosegue come un rifugio, dal veleno evaporato dal Fango, dalle nubi tossiche.
Dovevamo andarcene.
I grilli cantavano e io non volevo andarmene. Oltre il cerchio di luce, un piccolo faretto appeso su di una singola colonna bianca al centro del piccolo porticato; entro il cerchio erano forti e chiare le voci di chi conversava sulle sedie messe all’esterno, quella famiglia estiva. Camminando oltre l’alone, allontanandosi dalla casa al centro della prateria, sopra la paglia bluastra di luna e stelle, si affievolivano i discorsi, venivano le parole innumerevoli di insetti campestri e odori opachi di erbe sveglie di notte.
Eppure, dicevano, forse andarsene presto sarebbe stato saggio. Lasciare questa terra figlia di selva e numi, anche di quel nume che era vissuto e che ora è solo ologramma, un ricordo d’alcuni? E tutti quegli spiriti arborei, così affezionati, quei due pini centrali che ci sono consanguinei, il gelso e l’eucalipto, la mimosa… oh, si fosse trattato solo di Aprilia, non avrei avuto inquietudini in quella serata -allora nulla di eccessivamente viscerale mi teneva attaccato alla mia città. Campagna era ed è il mio interno. Siamo rimasti, non ce ne siamo separati, ma ho dovuto separarmi dalle sue parti, dagli alberi e le piante e le situazioni, roba morta una appresso all’altra, insieme a parti di me. L’alternativa, perché non cambiasse mai, era di fuggire in quel momento, abbandonare per sempre il rifugio, dimenticare anche la città infetta di sporcizie e ideologie che aveva portato ad averne bisogno.
-il problema è che questo tipo di polveri sottili ti entra nei polmoni senza che si possa rilevare.
-sì, le hanno chiamate pure polveri sottilissime.
-sono microscopiche e ti uccidono da dentro.
Incombeva spaventosa, in una paura d’un grado rimasto confinato in quegli anni, la costruzione della turbogas osteggiata da proteste passeggere in decadimento, slogan senza effetto. Di nuovo scattava all’erta il Fango sulla superficie quando sentiva un richiamo di distruzione. Non tornava la guerra su quei territori nei primi anni del ventunesimo secolo, ma come un fumo s’addensava un senso di disintegrazione d’ogni senso, d’ogni respiro, che è il suo propellente sanguigno. Chissà cosa avrebbero detto gli uccelli di palude e le zanzare, che reputavano buono quel bioma, sapendo in che modo si sarebbe ridotta l’aria, veleni allora sconosciuti anche tra i gas naturali sull’acqua impestata. Ma al Fango più vero e profondo è sostanzialmente indifferente l’aspetto dell’habitat che fa da appendice alle sue pulsioni. Lo cambia a seconda dell’umore. E in quel momento reputava appropriato che sul territorio di Aprilia s’incrostasse un’escrescenza, un tumore, messo a buttar fuori tossicità sconosciute in nubi invisibili, in nuovi fumi dalla palude. Epidemica, penetrava in chiacchiera di vacanza, inquietava chi temeva il futuro, chi teme che le cose cambiano. Chi ha un posto da proteggere, mantenere immutabile. Chi conserva il ricordo di presenze ormai scomparse.
-ma guarda che qua non ci arriva, per il vento dal mare!
-mbè? L’avevo sentito infatti, me lo diceva zio quando l’ho incontrato in spiaggia l’altro giorno.
Parlavano di andarsene da un’altra parte, un’esistenza completamente diversa. Già mi chiedevo se i campi della Toscana assomigliassero a questi. Perché necessariamente in campagna sarebbe dovuto essere. Vidi un campo di girasoli di un giallo lacerante come un lampo in una mente suggestionabile. Era bellissimo, ero in grado di accettarlo. Ma entrando in una fantasia momentanea, varcando soglie inviolabili di sogno, per sempre sarebbe stato cancellato il presente e il ricordo si sarebbe mutato in dolore. Ora il sogno è un ricordo, il ricordo è perfetto, e il presente è dolore.
-ohi N., io mi sto cacando sotto…
Ebbi l’idea di confessarmi in questo modo, piano e vicino all’orecchio, a mio cugino che prendeva parte ai discorsi degli adulti. Lui capirà, mi ero detto, del resto è un ragazzo come potrei esserlo io ma che sta in condizione di dire delle cose talvolta ritenute pregne di una certa rilevanza. È nella posizione di poter capire meglio di me, può capire certamente.
-e va in bagno-, disse lui non capendo, con un’alzata di spalle come a dire che dopo tutto non si sentiva un’autorità in materia al punto tale da dover essere interrogato in proposito, ritenendo d’altro canto che quella soluzione fosse preziosa in molteplici occasioni. Avvampai di vergogna nell’essere stato esposto al significato delle parole usate, in imbarazzo come se in effetti fosse proprio quello che volevo dire. Mi appartiene una difficoltà nell’accettare di possedere un corpo, fatto tra le altre numerosissimamente spiacevoli cose anche di scorie. Come una città.
-no, no, intendevo… questo discorso qua, come facciamo?
-ah, quello!-, fa, mi pare, sempre un po’ interdetto -non ti preoccupare, vedrai che in qualche modo facciamo-, annuì cercando di rimediare con un tono un po’ più rassicurante messo insieme lì per lì. C’era un po’ di imbarazzo anche da parte sua. Non si aspettava che dicessi una cosa del genere, e non si capiva perché proprio a lui, ero strano. Fu uno scambio strano. E pensai, ma sì, in fondo la soluzione potrebbe davvero essere quella di andare in bagno. E perché no? Chiudere la porta a chiave. Accendere la luce, lavarmi anche i piedi nel bidet, attizzare i profumi di quei saponi che arrivano puntuali dopo il tramonto, dopo corse incessanti nei campi. Sentire le voci attraverso le grate della finestra sempre aperta, loro discutono o ridono di cose che non capisco e si sente tutto per la casa stretta, si mettono in ascolto i gechi e le cianfrusaglie. Sono con gli asciugamani che odorano ancora di sabbia, guardo un ragno ballerino fermo sopra lo scarico della doccia poco usata. Tutto questo mi protegge: in questo posto anche quei mal di pancia, fin troppo frequenti perché questo non mi umili, sono sopportabili, hanno qualche punto di pregio. Potrei mai andarmene da dove accade una cosa incredibile?
L’osservatore originario di Aprilia e fuggito per l’estate procedeva come altre innumerevoli volte sul viale centrale buio, i lampioni ai lati spenti, la selva una macchia frastagliata oltre il cancello incorniciato da canneti. Non c’erano molte paure. Non c’era timore del buio, di creature che saltassero fuori dai buchi e le sterpaglie. Non c’era timore dei rumori improvvisi, destinati all’ignoto. Non c’era timore dell’immensità in quelle sere di cieli osservati fino a notte fonda, con racconti d’infinito e vuoto cosmico da chi conosceva le stelle e le indicava, sciogliendone la vicenda all’aria che cominciava a farsi fresca. C’è certamente altra vita nell’universo, diceva, e noi fratello e sorella attendevamo gli alieni -era un luogo perfetto per atterrare quella campagna, in uno dei campi laterali rigorosamente di notte e da soli. C’erano brividi, fantasticherie che smuovevano tutto il corpo, lo sballottavano come a dirgli quanto insignificante fosse, a mettergli in circolo coscienze nuove e strane. Ma non erano brutte paure. Erano paure necessarie, per raccontarsi storie e viverle, nella casa vicino al bosco dove durante le estati viene a esistere un altro tempo. L’unica paura forte, che diventava una tristezza senza speranza, era quella di separarsene. Su quello stesso viale era già fin troppo doloroso l’ultimo giorno, sempre di tardo pomeriggio, l’ultimo pino sulla destra stanco sotto i raggi infiochiti. E quel giorno si avvicinava; perciò l’osservatore si allontanava, lontano dal porticato dove stavano tutti, ma non troppo lontano, quella luce sempre alle spalle, come una faccia che fa attenzione ed è pronta a proteggere. Si allontanava verso il cancello. È strano: guardando i pali di legno sul ciglio del bosco, seguendo con gli occhi le curve dei fili che li collegano, si odono insieme ai grilli due cicale tardive. Sopra le cime nebulose, in una striscia distante dai pianeti, c’è una sporca scia di luci accese in lontananza, la cui eco abbarbica il litorale. Chissà quale parte di questa patina residua ai bordi del cielo appartiene ad Aprilia con i suoi angoli che dormono in silenzio e quelli svegli tra rumore ed elettricità, quale invece appartiene agli stabilimenti balneari dall’altro lato. E sopra i pali, sopra i grilli e le cicale, sopra la pace, arrivano i ronzii di cose lasciate in città, e le onde del mare, e da macchine in movimento le percussioni sempliciotte di brutte e tenere canzoni dei primi anni duemila, e il frullare dell’aria sul ciglio di finestrini semiaperti, e altri grilli in altri arbusti di macchia mediterranea in spiazzetti di quiete erbosa ai bordi dell’asfalto.
Nel viaggio di andata la sensazione netta per la quale si percepiva l’allontanamento d’Aprilia non giungeva mai prima della rotatoria di Via del Commercio, un portale, un varco. Prima l’istinto percepiva una trappola, una possibilità del ritorno a ritroso su quel ponte. Sarà per qualcosa di triste che aleggia sulle sue ringhiere, qualcosa che l’osservatore non sa spiegare nemmeno passando giornate a contemplare in un mantra paesaggistico il fazzoletto verde che si estende fino a certe industrie, uno sporadico circo, vari immensi desolati parcheggi, una chiesa. Oltre la rotatoria sapevamo di star andando in campagna, lì per passare attraverso il lungo tratto di Nettunense bagnato d’ombre rilucenti di verde dai platani in righe infinite. Scorrono uno dopo l’altro ampi spazi di prato aperto, con pelurie di boschetti su sponde irraggiungibili al di là delle sparute collinette di Campodicarne. Volatili palustri si sollevano dalle spighe, piante di colori strani rossicci, binari con sassi sporgenti dello stesso colore dei tronchi dei platani, escrementi seccati d’uccelli. Delle ciminiere affusolate, perennemente spente, perennemente deserte di movimento le scalette nere uncinanti i cornicioni del complesso abbandonato. Fabbrica di vetro la chiamano, mentre sull’altro lato l’edificio vuoto con la corazza di vetro e la palma che signoreggia la balconata anteriore sembra non aver nome. Esce dalla radio il jingle di Infissi Nettunense e all’improvviso tutto sembra incredibilmente dotato di senso, indifferentemente ai nomi. C’è un organismo sotto i piedi e le ruote che avanzano, un’essenza in quell’aria sporca. Se questo posto sembra morto è perché è proprio un essere organico. Affianco alla fabbrica di vetro non ha ancora preso forma la massa cancrenosa, non contribuisce ancora a quel prurito che gratta con leggera incandescenza quando si inspirano smog e plastiche apriliane. Si aggiungerà alla foschia di tossicità e luci invasive della notte una turbogas con l’addome perennemente spoglio, mostruoso accrocco di impalcature e telai sbuffanti con gli occhi rossi in un terreno di Campodicarne.
…
Ci sono molti e vari movimenti paralleli ai binari morti del treno. Per ore si arroventano sotto il sole, e i bambini che si sporgevano al di là delle rotaie in cerca dell’orizzonte lontano come fosse un tunnel dal cui fondo giungesse il volto del treno, sempre trovavano una quiete, un’assenza. Ma i binari rimanevano là. La terra che appartiene soltanto alle nuvole di palude e alle canne, secche o vive, alle conchiglie fossili sotto i mucchi di sassi e le fabbriche, è una terra tagliata da un flusso. Si decise di costruire su questi luoghi selvaggi, sempre più sudati d’aria marina verso ovest, si stabilì che era un’area adatta per l’imposizione di un collegamento. C’era da fare un filo tra la capitale e i territori fangosi, passando per Pomezia con i suoi altri fumi di fabbriche, un coro di posti che sbuffavano veleno, di campi senza confine e baracche da sostituire con la civiltà. I coloni salivano in gruppi sul treno, vedevano i recessi di Aprilia sferzare fuori dai finestrini, irsuti d’erbe selvatiche, maculati d’acque stagnanti, pomeriggi torridi zanzarosi e notti con poche luci. E dietro ciascuna di quelle poche lontane luci c’erano genti che speravano in un futuro che per un po’ si dimenticasse del sangue, delle nazioni, della povertà; era un futuro in cui dovevano esserci molte costruzioni e gli occhi degli uomini, ignari del Fango che da nerborute radici sotterrate s’avvinghiava attorno a caviglie d’uomo o pianta, vedevano vaghi futuri edifici o muretti e famiglie e lavori dell’uomo in ogni spazio libero. Dovevano dimenticarsi del Fango dopo esserne stati eccessivamente esposti in anni di logoramento. Ci sono riusciti, hanno costruito, hanno figliato, il futuro è qui: è il Fango che non si è dimenticato di loro, perché non dimentica nessun essere che gli cammina sopra, sotto la sua legge. Scoppia una bolla melmosa in superficie suonando come uno sfiatatoio tra gracidii di rane e rospi, o emette borbottii inudibili. Un gatto balza apparentemente senza motivo, spicca da un platano il volo sordo di un rapace notturno, perché gli sguardi circolari di questi esseri avvezzi al buio hanno percepito ciò che incombe coperto dallo sferragliare di ingranaggi e ruote, frustate di fili elettrici nell’aria, incessante chiacchiericcio d’auto e passanti. La turbogas tossisce una tossetta insulsa, nuvolette da avanzo di temporale, e chi la vede dai finestrini delle macchine in corsa pensa che si è fatto tanto baccano per niente, con tutte quelle proteste e un’eccessiva paura di tossicità in arrivo. Ci si abitua presto ai mali impercettibili.
..
Non era questo il futuro che immaginavano. Potevano immaginarlo loro stessi, nei momenti di sogno, lancinanti per le ferite ricevute, più facevano male più vividi apparivano i futuri; oppure potevano appoggiarsi a un’immaginazione collettiva, che per le persone -esseri di una certa altezza, ma non così alti- appariva nell’atto di cominciare, sempre più spedita, a muovere dei passetti lontano dalla parentesi del conflitto, con una nuova identità. Passetti, appunto, di umanità, che riportava tutto al proprio ordine di grandezza. Ed ecco che in quegli anni, sotto una coltre grigia che pare galleggiare su una lunghissima strada a campodicarne per molti giorni afosi, ci sono uomini giunti lì per costruire per volere dei giganteschi passi di una volontà multiforme, per metà visibile e per metà troppo addentro ai corpi, nel circolo di piccoli sangui. Faceva sognare al posto loro, spesso, diceva cosa si sarebbe dovuto fare in questo o quel posto, e diceva anche sussurrando pianissimo, guardate che si colmeranno del potente orgoglio della storia questi numerosi proiettili sparpagliati per la terra dove farete gli orti, dove sorgeranno le industrie in cui le vostre mani daranno forma ai prodotti sparsi per il mondo, e ci saranno anche industrie di paesi mutevolmente amici o nemici, quelli ci hanno salvato dal male, quelli erano il male ma ora sono il bene, stessa cosa per quegli altri, ah, la complessità del mondo nuovo, il mondo nuovo! La complessità scoperta tutta d’un tratto, troppo repentinamente, nessuno era pronto, tanto meno i coloni provenienti da tutta Italia, dal meridione o dalle periferie, che la complessità non potevano nemmeno figurarsela come una paura remota. L’importante è costruire, non chiedete per chi o per cosa, anzi, per cosa sì, per il vostro paese, che è libero, o che entra in una nuova guerra, a voi il giudizio, ma sarà una guerra senza armi, questo è promesso: le vostre armi della quotidianità sono la volontà, il vostro desiderio di pace dal tempismo perfetto. E dunque costruite, case e un futuro, famiglie e una ferrovia, imprese, attività, cavalcavia, altre rotatorie, passaggi a livello; stabilimenti balneari, docce all’aperto tra assi di legno in un parcheggio, pini trapiantati per nuove assordanti cicale, file interminabili di case estive a più piani. Esperienze, tutte vostre esperienze, la possibilità di averle. Anche il Fango generoso signore, che vuole i falsi movimenti della superficie, vi leva la guerra, vi dona tutto questo, che aspettate a sciuparvi la mente e i muscoli per i vostri obiettivi? Non chiedetevi quale sia il senso della vita, ci pensano altre forze a darvelo, che la vostra deve adoperarsi per bene su ciò che le spetta. Il senso della vita è lo sforzo.
Il passaggio di un treno o di una camionetta stipata di corpi ramati di braccianti e lavoratori fendeva il portale non ancora visibile e si addentrava per una lunga via attraverso le erbe palustri, forse non c’erano ancora i platani. Laggiù non era arrivata molta bonifica, c’era da lavorare anche su questo. Alcuni ritornavano dopo aver già lavorato quelle zone. Quelli che ce le avevano portavano le famiglie, perché lì c’era un’opportunità, sarebbero stati parte di nuovi nuclei abitati. Dimenticavano le campagne d’origine lì lasciate a deperirsi: non erano parse interessanti al mondo nuovo, diversamente da questi occhi di palude tra strisce d’erba e strada sterrata. Così in molti avevano varcato la soglia delle proprie case tra i campi acquitrinosi, mai troppo vicine né distanti, quasi nulle nella solitudine selvaggia di quel paesaggio umido, di ombre e inquietudini familiari. In guerra ne avevano conosciuto le trappole, gli intrichi inaccessibili, i rari nascondigli. Sapevano le presenze ineffabili delle notti di palude, gli incubi che coglievano il sonno di chi era intruso in un posto così, e avrebbero potuto indicare dove stavano conficcati i proiettili che avevano visto sfrecciargli in faccia. Sentire di conoscere molte cose, come si fosse in casa, nel luogo alieno: era questo che significava, uscire da un mondo per entrarne in un altro? È questo il passaggio per un portale? Calava la notte e c’erano in angoli ciechi degli occhi e del cervello sagome scure tra il timore d’ignoto e il timore di passato dolore, ecco le ombre di spettri già sentiti. Si moltiplicano, informano il cielo scuro, riconoscibile anche per la loro presenza, per l’umidità incessante. Ci si abitua presto ai mali impercettibili.
Si diffonde l'aria notturna notte e quelle poche case diventano le stesse poche lontane luci traballanti dai finestrini del treno. I sogni accesi dei costruttori come tante lucciole. E quella notte ebbero un sogno, tutti lo stesso, un sogno cupo e strano -non avevano tardato ad accoglierli, quegli incubi selvatici di qua, quelle ombre nei punti ciechi. Era l’atmosfera dopo il crepuscolo sulla palude.
Imbracciavano tutti il fucile. Il sogno scomponeva le identità, le mostrava attraverso coltri d’un fluido ipnotico, e tutti quanti apparivano nei tratti essenziali di sagome vaghissime, eppure riconoscibili: si intercettavano le anime, nel sogno si riconoscevano tutti, schierati spalla a spalla come in una riga, come era già capitato -molti di loro avevano combattuto insieme, per poi rincontrarsi nella ricostruzione. Ah, ci siete anche voi, pensava qualcuno, ah, ma ci siete proprio tutti, pensava qualcun altro, anche i morti. Dunque siamo di nuovo qui, eh? Non cessa mai, questa guerra. Era lo stesso pensiero che avevano allora, quando addormentandosi in rari momenti sapevano già che al risveglio avrebbero avuto il fucile in mano, così ogni giorno. Tutto normale, era un’esperienza già vissuta. E allora, chi veniva incontro loro dal buio in quella notte, gli americani o forse i tedeschi, o gli inglesi del deserto libico, della savana etiope? Erano, in riga e con la canna a sondare il nero, tutti come immersi in una macchia scura. Solo il nero senza forme circondava e si estendeva fino all’orizzonte. I corpi nebulosi, dove avrebbero dovuto esserci gli stivali, poggiavano su un terreno granuloso ma indistinguibile. Che fosse possibile toccare altre cose, vegetazione o muretti, strisce di trincea o di ruote, tutto reso soltanto invisibile dal nero uniforme, ma non inesistente? Non potevano avanzare e orientarsi, erano come inchiodati sulle proprie impronte, ognuno in posizione, fucile puntato. Fermi, in attesa, ne erano capaci. Che fossero a terra nascosti o in piedi. Non ricordavano come fossero giunti lì, non ricordavano di dover costruire, non ricordavano il procedere della guerra. Combattere perché è impresso negli impulsi. Ecco, avanzano delle figure, si scontornano dal buio, come illuminate, vengono verso di loro, pertanto sono nemici.
Arrancano, il movimento del torso immenso, che è la maggior parte del corpo deforme, è fatto di cerchi irregolari, nervosi. Le gambe sorreggono per finta, atrofizzate e striscianti, colate melmose che scorrono dopo un temporale. Alti come due o tre uomini in piedi, i mostri di fango in corsa morbosa si muovevano come golem, per un’anima infusa da un male senziente. Erano una riga opposta, per ciascun piccolo uomo un mostro gigante. Sempre più vicina l’altra pelle. Era fango tremante, fiottava sulla superficie da bolle d’aria scoppiate. Quando il puzzo rancido fu vicino e insostenibile, le dita autonomamente cercarono il grilletto, e in quel momento apparvero lame o artigli in fondo alle braccia dei nemici, e lumicini sinistri per mimare un volto con degli occhi. Gli uomini fanno fuoco, i proiettili trapassano i corpi di fango scomparendo in infiniti fori immediatamente rimarginati, sembrano rallentare la corsa, ma lo scontro non si conclude così. Con gli spari cercano di arrestare le zampate, è questa la natura del combattimento. Soldati di carne contro soldati di fango. Gli uomini non possono voltarsi, guardano solo avanti dove stanno i nemici. Non possono guardare da dove vengono. Nel nero onnipresente si annebbia vagamente un bagliore lontanissimo, dall’altro lato, quello da cui sono giunti i nemici. Sembra un vapore luminescente di grigio, un movimento come un’ondata… la volontà dei soldati di fango è mossa da un’ondata. Sono i bordi di un’enorme fanghiglia, sobbalza animalesca, forse soddisfatta della violenza. È un ruggito nella profondità. Contro cosa stanno combattendo? Stanno ancora combattendo? Una fila di uomini armati all’unisono sente la fatica degli scontri logoranti sotto la pioggia e le zanzare, una fila di soldati di fango sibila come belve ancora una volta per ghermire e strappare, divellere, soffocare. Dall’onda infinita alle loro spalle proviene l’ordine: dominare, sempre, dalla preistoria fino al mondo nuovo, questo è il nostro habitat.
Si svegliano tutti di soprassalto, ognuno nella propria casa. Notte fonda, i grilli sono assordanti da sotto i davanzali esterni, il caldo umido come sempre e pesantissimo, avvolge le camere e le pareti in asfissiante condensa sudata. Entrano le cimici da finestre e balconi lasciati aperti. Nella penombra bluastra, stesa a velo su comodini, orologi, un corpo che respira, pian piano si ricompongono frammenti, memoria, in uscita dall’incubo. La guerra è finita ormai da un po’ di anni. Sono lì per costruire. Sono svegli nel pieno della notte, abitano e lavorano una terra paludosa popolata di spiriti primitivi. È un orario sbagliato per star svegli, non l’orario adatto per costruire, che è tutto ciò a cui devono pensare. Un qualcosa li infilza dentro: devono ancora essere scossi dal sogno, sono molto sudati. Qualcuno si siede a bordo letto, lentamente, per non far cigolare le molle -ci sono famiglie che dormono. Uno, strascicando per il corridoio verso un ingresso imperlato dalla luna, gira la manopola del volume ancor prima di accendere una radiolina, preziosissima, lo rende il più ricco di tutti i coloni. Per istinto l’ha accesa, per sentire il riverbero delle trasmissioni addormentate come le persone a quell’ora. Nel ronzio si intrufolano, sembra, parole di canzoni. La radio serve a sentire le canzoni, a fine giornata dopo aver lavorato, dopo aver costruito. Un altro ha perfino un frigorifero: la luce giallo elettrico è l’unica che si accende nella casa, candore di latte in vetro diventa un faro, la frescura sul palmo che lo afferra un sollievo alla fatica del sonno torrido. Dal bicchiere i grassi gelidi colano nelle viscere, con un braccio si pulisce i grumi cremosi dai lati delle labbra. Uno esce in veranda, e un altro pure. Il primo si mette a pisciare direttamente sul prato dal gradino del porticato, un altro fa qualche passo e va fino ai bambù che fanno da staccionata all’orto per sentire la pisciata picchiettare sulla scorza legnosa delle canne. Facendolo sente senza accorgersene di credere che l’altro che è uscito a pisciare senta anche lui il rumore e che si riconoscono compagni in quell’atto, fratelli per sincronia di bisogno. Intanto guardano intorno, uno il cielo con poche stelle quella sera, è un’aria densa e impenetrabile, legge, esperto del tempo, che con il mattino verrà nell’aria un ammasso caldo da far stramazzare i lavoratori; l’altro osserva il suo orticello, il primo progetto attorno alla nuova casa, e immagina un ulivo come quelli della sua terra, là affianco al nespolo. Finiscono, senza pulirsi -non li vede nessuno, i saponi e i profumi così fitti nei giorni di ripresa economica appartengono solo al giorno, quel buio invece è solitario e privo d’eleganza come lo erano i giorni sull’orlo della morte. Ritornano a sedersi, ormai non si riaddormentano più. Uno si mette su una sdraio messa a guardare un lontano contorno scuro di boschi, nuova nuova, inspira pesantemente, trema un po’. Il tremito si trasmette a tutti, che nel sogno si erano riconosciuti, rimangono inquieti non solo per opera d’ombre, in piedi nelle case o nei giardini. C’è un treno notturno lontanissimo che non vede le loro luci e i loro sogni (chissà se come un lampo il lume di frigo aperto è passato attraverso la finestra, fino a un passeggero insonne…). Non sono abituati a quella parte di sé che sa che sono tutti svegli nello stesso momento, che hanno vissuto la stessa cosa. Un brivido scuote la sdraio, proviene da chi come corpo inerte ne affonda la tela e continua a prendere boccate d’aria, in un modo che non si concede mai sotto la luce diurna, sotto gli occhi degli altri e della nazione, nel corso del lavoro che non ammette mollezze. Il brivido dice, quasi quasi è il caso che scriva un bigliettino. Da lasciare sul tavolo, perché lo legga la moglie che non ha mai saputo niente di ciò che lui ha vissuto, esperienze richiuse dentro l’infrangibile barriera che in quegli anni incatena irreversibilmente le parole e il dolore di un uomo, che non può comunicarlo, che lo ricorda solo o lo affronta negli incubi di palude. È solo una stupida fantasia. Scriverebbe : “stiamo bene, c’è una casa, ci sarà il nostro nome scritto da qualche parte all’ingresso. Solo pochi anni fa non avevo un nome né un cognome. Così erano tutti gli altri che vedi lavorare con me, le tue amiche, le loro mogli e madri, è tutta una sola esperienza che viviamo. Siamo tutti lo stesso uomo perché lo eravamo prima, per pochi anni interminabili, e non c’è più rimedio. In guerra eravamo tutti una cosa sola, terrorizzata e rassegnata. Stanotte, ancora, ci siamo sentiti tutti così. Una cosa sola, contro un’altra cosa sola.”
Quella notte nelle campagne tra Campodicarne, Padiglione e Cavallo Morto i coloni ebbero paura, come l’avevano avuta sotto le bombe, del futuro che stavano costruendo. C’erano i mostri di fango su quel territorio. Li guidava un’ondata scura con un cervello d’animale assassino: somigliava tremendamente alla guerra, quel veleno che animava il territorio, la sua superficie dove ci si muoveva e si costruiva. Si costruiva in nome di questa cosa? Non poteva importare: gli era stato imposto di non farsi domande sul senso della vita. Costruire, faticare, essere felici di tanto in tanto. Ci sono canzoni, Sanremo, la radio, c’è il latte freddo, la notte bellissima dei grilli con la sdraio nuova e comodissima, nuove piantagioni nell’orticello e nei poderi che portano l’odore del sud, delle altre campagne dei ricordi. Anche se per la maggior parte la vita è paura, è imbracciare un fucile stando in riga contro un nero senza variazioni. Ma non parlarono a nessuno dell’incubo, non ne parlarono tra di loro. Tacquero, lavorarono, costruirono. Ora c’è un percorso lungo a Campodicarne che costeggia un treno dai cui finestrini si vedono molte luci in battaglia con la selvatichezza della notte sui campi acquitrinosi, non ci sono più sogni dietro quei lumi, le lucciole sono quasi tutte morte. Ci sono cavalcavia con le pareti impiastricciate di manifesti del circo Orfei rimasti là dai primi anni del nuovo secolo, ci sono graffiti sulle aziende e fabbriche abbandonate, c’è una strisciolina di passaggio transitabile dai pedoni radente le file di platani in cui i braccianti indiani si stringono per evitare di farsi tranciare dall’aria smossa da camion in corsa. Uno spiazzo per fruttivendoli senza licenza, un bar, una stazione. Il richiamo di un uccello notturno, una sedia vuota su una traversa sassosa di fianco a un prato d’erbacce dove c’era una puttana, occhi rossi di una turbogas, foschia nel cielo addensata nell’equidistanza dall’insonnia di Aprilia e quella dei posti sul mare. Il buio ha un odore. Industriale e rurale. Aloni granulosi cinerei su fili d’erba, grilli ed eco di frenate lontane.
…
Torno a visitare la campagna, a cercare i numi. Cercare l’assenza di veleno. È invisibile, so che le pestilenze del fango raggiungono tutto il mondo, ci si abitua ai mali. Ma qui sento di potermi permettere di non pensarlo. È un’illusione legittima, eretta sulle macerie di illusioni passate. Anche qui c’era un colono, un nume buono che costruì perché non poteva far altro. Mi piace pensare che per creare questa terra di fronte al bosco, dove anche la ferocia delle regole del Fango sembra farsi più lieve, sia riuscito a convogliare un’energia fuori da ogni dolore, che almeno per questo sia servito a qualcosa tutto quel sognare il futuro, nel tempo uscito dallo squarcio di una ferita nella terra e nella storia. Tutto per un’oasi nel caos, terra di pace per osservatori attraverso le generazioni.
Cammino e gettandosi dal bosco il vento tra pioppi e pini accoglie il mio ritorno e saluto, si attorciglia alle mie braccia e spiraleggia per schizzare lontano, sparpagliandosi. Si sprigiona un potere arioso dai contorni del mio corpo in marcia sul viale, per volere e benevolenza di numi silvestri ho il privilegio d’essere un signore del vento, un signore d’aria pulita. Sempre qui per scappare dal veleno.
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