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Gli Appunti Del Fango- torre orologio

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 16 feb 2022
  • Tempo di lettura: 20 min

A entrambi piace guardare le case. Quando durante una passeggiata ci passiamo davanti, cerchiamo di rubare loro l’anima. Ci piacciono in particolare le luci che si accendono o spengono, nella distanza o a pochi passi separati da muri, recinzioni, confini di cortili dove la quiete gironzola come un animale domestico. Il colore delle pareti dice molte cose ed è uguale a un odore. Sentiamo la presenza di vite, ma non sono quasi mai presenti, sono lontane. Lasciano dietro le case con tutto quello che “significano”, qualunque cosa sia. E noi rimaniamo in giro a sentire qualcosa molto vagamente. Mah, non è di questo che…..


.

Io e il mio amico restammo per molti minuti, forse tre quarti d’ora, a guardare il terreno incolto al di là della recinzione. Dall’altra parte della strada, senza un marciapiede sufficientemente alto da permettere di sedersi e continuare a vedere. La vegetazione secca era il nostro schienale, diciamo. La via ci aveva chiamato dentro, informi malloppi il cui solo ruolo nel mondo è di farsi trascinare dalle correnti del fiumiciattolo, ed eccoci là. All’inizio si era incurvata, per farsi notare rispetto a Via Carroceto. Poi ritornava dritta, ed eccoci là. Certe vie hanno una propria volontà. Coordinata attraverso l’uso che fanno dello spazio e del tempo. Non che tutte le vie di questo tipo siano speciali, anzi. Che quella lo fosse o meno, non importa. Importa che ci aveva condotto in un punto sufficientemente distanziato dal suo ingresso, nel pieno del greto rettilineo.


Davanti il campo, il terreno in lavorazione perenne. A sinistra cominciava una nuova via, inaugurata da una casa grigia dall’aspetto futuristico, parzialmente celata da una bassa muraglia e strani bagliori simili a inconcepibili sistemi di sicurezza. Alla nostra destra, lontana e come incorniciata dal tondo finale di un tunnel, una di quelle multicolori impalcature tumorali del Rosselli; sotto, la carcassa di questo, addormentata e scurita dal crepuscolo incombente sulla terra. Pensai a un certo punto che un orco avrebbe un mattino potuto facilmente acquattarsi e rimanere nascosto, più mimetizzato e silente di una roccia scura, nello stesso punto dove eravamo noi e osservare l’incessante scorrere degli scolari, piccole lontane macchie di colore e ansietà d’essere osservati senza capire da cosa. Comunque il Rosselli era proprio il fondo. Prima, cioè vicino all’imboccatura leggermente ricurva, spuntavano ancora un poco visibili le fronde di certi alberi alti del giardinetto, con le panchine appartate dove gli studenti facevano sega. Dopo, cominciavano i condomini moderni impilati in fila sul tappeto erboso. Sembravano tubi di patatine, o capsule conficcate nel suolo. In entrambi i casi il loro contenuto, di freddo e penombra, doveva costituire la dimora di aggregati farinosi destinati a disfarsi da qualche parte. Mah, non aveva importanza. Il sole era una palla incazzata di fuoco, un occhio arrossato che gridava vendetta prima di gettarsi in un pantano gorgogliante come famelica gola, celato dalla skyline. Una fossa che noi non potevamo vedere. Ma ci sforzavamo di vedere molte cose.


Guglie di S.Pietro e Paolo frastagliavano le ultime luci e accoglievano le ombre, avviluppanti in motivi geometrici l’architettura, ben distinguibile nel caos di edifici e cipressi. Cose fatte per farsi riconoscere dagli occhi umani, e noi scopriamo e ricordiamo di essere umani, anche mentre stiamo lasciando sprofondare le ore del giorno in un’acquitrinosa indolenza senza direzione. Tenebre d’oleosa densità e acquerugiola sporca si sprigionano dalla pressione che viene applicata sulla melma dai nostri corpi nello sprofondo di tutti i giorni, ma in che direzione scorrono, dove si riversano? Mah, non importa, non importa neanche questo, mah. Stavo dicendo altro.


Guglie. Campane rintoccano dalla chiesa. Odore appena percettibile di gomma bruciata e di un canale ribollente di scarti. Formazione a V di uno stormo di gabbiani, stridono nuvolosi. In un cantiere da qualche parte una gru col muso e la carrucola cigolanti a mezz’aria, il cigolio arriva immancabilmente all’orecchio che si rintana in certi squarci d’Aprilia dove non rimbomba il trambusto. Pali elettrici del Quinto Ricci, le corone robotiche torreggianti in scure nubi serali. A est, colli velletrani terrosi che riflettono, quasi con il potere accecante d’uno schermo di neve, il fulgore rosso finale del tramonto, e sembrano fare da faro fino alla penombra sottostante. Probabilmente è un’ora già addentrata nella sera, ma il giorno sembra allungato soltanto per la loro azione riflettente. Condomini giovani di qualche anno che li vedono a ogni alba, condomini a righe marroni e gialle. Poi da un’altra parte il bianco fungo palustre dell’acquedotto, le carni a raggiera sonnecchiano da sempre vegliando da una buca. E da un’altra parte ancora, su una lunga via, luci lontane di un flusso di traffico, baluginano quasi invisibili sottoforma di vapore sbuffato dal reticolo delle vie che si imprime nelle nostre retine senza farsi vedere. Deve esserci una leggera elevazione rispetto a noi, e il reticolo scende da solo, versandosi inconsciamente nelle pupille. Una macchia scura nella distanza già assorbita dal primo buio potrebbe essere il grattacielo. In ordine sparso, palazzi rossi e molto alti, palazzi chiari meno alti, un edificio nuovo fatto di riflessi metallici e spigoli irradianti diffidenza verso gli osservatori. Ha la forma di un tronco di piramide rovesciato e ci minaccia vagamente. Nessuno ci si avvicina mai, e solo erbacce abitano il campo. Né io né il mio amico sappiamo cosa sia, qualcosa di sportivo, immaginiamo. È vicino, dalla nostra prospettiva parti di lui affondano negli occhielli più alti della rete che ci guarda dall’altra sponda, appena sopra i cartelli “PERICOLO”, “NON ENTRARE”, “MANO GIGANTE SBARRATA”. Subito a sinistra dei cartelli la recinzione ha un lato completamente inesistente che permette il facile accesso nel campo dove risiede il presunto pericolo, dove i lavori sono “in corso”, pare, dall’alba dei tempi. Lì c’è una cuccia abbandonata, ricordo di averci visto un cane pastore bianco accasciato in un coma tedioso. Un albero secco. Uno meno secco. I rami striminziti di entrambi. Due cornacchie che vegliano, immobili. Di solito quella è l’ora in cui se ne vanno nei nidi nascosti all’orizzonte, formazioni che gracchiano saluti al suolo dal cielo aranciante. No, quelle due stanno ferme, dev’esserci un ghiotto effluvio cadaverico che affonda le loro zampette nere in una prolungata stasi, da avvinghiarsi saldamente a un flessuoso rametto palustre. O magari vogliono stare là e basta, che ne so, io, osservatore umanoide, in fondo, dei sapori e gli odori che sente una cornacchia? Non puoi sapere tutto, no, non puoi. E infatti stai qua con il tuo amico perché non potete fare altro. Perché non sapete cosa fare, non sapete perché farlo. Appunti scritti sul Fango giacciono senza dir niente, senza risolvere niente.


Passeggiando senza meta avevamo osservato diverse cose. Osservatori a piede libero, si sentono osservati. Com’è che nessuno si affaccia mai da questi palazzi moderni-capsule giganti? Avranno occhi che percepiscono di là dai muri l’intrusione di sguardi non benvenuti. I palazzi hanno lo stesso color terracotta dei mattoni del Rosselli, e labbra bianche lungo i loro spigoli. Hanno illuminazioni lattiginose da parcheggio di centro commerciale nei loro parcheggi simili a giardini. Rotatorie simili a giardini. Hanno mormorii di leggende localizzate: uno strano cane randagio che si aggira lanciando lugubri sguardi ai passanti, un bastardone girovago dallo scuro manto macchiato e la folta peluria sul volto -è circospetto, non si fa studiare; gente forestiera che senza aver nulla da fare da quelle parti si mette a passeggiare proprio in quella zona d’Aprilia, figuri molto sospetti, osservatori da cacciar via; strani fruscii nei cespugli di un parchetto per bambini -composto da un singolo scivolo giallo malaticcio- che sinistramente si dileguano non appena si allertano i sensi. E poi orchi, chissà, acquattati a spiare in un’immobilità e concentrazione spaventose, proprie della stirpe di mostri e spettri.


Andasseroaffanculo. Non facciamo niente. Osserviamo. Non siamo il cane del malocchio (o forse sì?). Alla sinistra c’era la cosiddetta torre dell’orologio. Concordammo sulla stranezza del suo trovarsi lì, e concordammo anche nell’incapacità di saper spiegare perché. Visibile solo entrando nella via. In qualche modo disarmante. Non scaturiva dal suolo trascinando di esso il grigiore normalmente assorbito dall’aria di Aprilia, in tutti i suoi possibili mondi, indipendentemente dalle forme fisiche (è un discorso complesso…). Mattoncini rossi.


-oh…


-eh.


-sembra di un altro quartiere, vero?


-decisamente.


-sembra che non è nemmeno di Aprilia, vero?


-esatto.


-e al tempo stesso…


-al tempo stesso…


-è come se…


-…ci stesse benissimo.


L’effetto comunque era straniante. Vicino, come se niente fosse, “Bar della torre dell’orologio”. Ma sì, normalizziamo. Chissà se certe cose derivavano dalla volontà della via. Sotto l’asfalto cantilenava in un linguaggio estinto l’antico torrente temporalesco. Impartiva comandi. Diceva: accogliete le mie deformazioni del mio tempo e del mio spazio, rendetele tangibili. Chiedetevi, come vecchi che osservano le modifiche del paesaggio urbano e rurale fino alla fine dei giorni, che ci fa una torre dell’orologio qui, in questa città, in questo punto.


Altroché se ci eravamo cascati, proprio due vecchi. Ma durò poco. Camminammo oltre. Notammo stesse impressioni nei palazzi. Riflettevano il Rosselli, dall’altra parte del traffico, ma rimaneva qualcosa di strano in quel colore. E ancora più strano era l’ambiente circostante, che lo accoglieva, lo faceva proprio. Possedeva tutto. Terreno bruciaticcio in certe chiazze strappate tra i compatti montarozzi fangosi, apparentemente innocue spighe e nelle ombre apparentemente innocui eucalipti che rappresentano il gigantismo delle prime -sotto tutta questa roba, nel buio dove fluttuano scarmigliate radici, quale liquame illegalmente scaricato, quale fanghiglia figlia di imperscrutabili voleri naturali informa tutto ciò che si erge? Noi procediamo e gli alberi frusciano, carezzevoli.


Petizione: cambiare la forma delle lancette dell’orologio della torre dell’orologio di Aprilia. Quella lunga dei minuti e quella corta delle ore. In sostituzione, inserire nella circonferenza bianca e oculare, dura come osso, delle nuove lancette che abbiano la forma delle seguenti icone:

? !

In questo modo gli osservatori perdigiorno, sprofondanti equivalentemente nella gioventù senza direzione o nella vecchiaia congelata nelle ossa, avranno maggior percezione del passaggio di queste cosiddette “ore” sulla terra. Sapranno riconoscere il meccanismo nella forma stessa dei suoi simboli, perfettamente esplicativi della confusione di sentimenti che provoca. E il linguaggio e il visibile si plasmeranno armonicamente tra loro, formando una fresca univoca fanghiglia.


Al di là di certe tristi sciocchezze, erano possibili quelle che chiamano “spiegazioni”. Narrazioni.


-una volta ho sentito una leggenda, riguardo la nascita di orologi del genere.


-ah sì…?


Scalciavamo ciottoli e sospiravamo toni che sembravano annoiati, ma era solo la serenità del tramonto. Finiva il giorno della nostra città, il loop di pensieri in ricircolo che si incrociavano tra loro dicendosi, “ma a te non ti ho già visto?”, e diavolo se avevano ragione, e cose così. Gli eucalipti ci piacevano. La loro onnipresenza era una delle poche cose uniformi. Erano stati introdotti nella palude, migrati dall’emisfero australe. Ma ci stavano così bene da sembrare esserci stati sempre. Certe cose creavano un’altra dimensione, in cui riposava gelida e solenne un’enorme palude atemporale, distaccata dai caos della storicità e del mutamento. Un conglomerato puntiforme in cui coesistevano tutte le cose che erano state in lei, tutte quelle che noi vedevamo disposte secondo un illusorio ordine lineare, artefatto cronologico. Alcune avevano rango maggiore delle altre: tra fosse risucchianti e inestricabili canneti intrisi di pianti d’insetti e scattosi singhiozzi d’uccelli acquatici, si vedevano, ergersi ora austeri ora lievi dal Fango, biancastri tronchi d’eucalipti in antichi viali vergati dai fiumiciattoli impetuosi. La palude e le sue effigi. Era possibile accedervi da qualsiasi punto della città, ma solo in certe circostanze specifiche di luce e temperatura e altri fattori. Questa cosa la sapevamo entrambi, ma non la pronunciavamo assolutamente. Lui, il mio amico, una volta al liceo aveva scritto una bella poesia sugli eucalipti che vedevamo dalla finestra, oltre il campetto e una desolata rete da pallavolo piegata su se stessa. Chissà che ne aveva fatto, di quella poesia.


-secondo questa leggenda, una torre dell’orologio fatta in questo modo era un tempo un uomo.


-un essere umano? Come me e te?


-proprio così. Al punto che potremmo anche noi diventare orologi. Si potrebbe addirittura parlare di un caso di metamorfosi spontanea che avviene per influenza dell’ambiente.


-uno degli incantesimi del Fango, quindi. Percepibili in certi suoi luoghi.


-sì, esatto.


Mi sembrò di vedere una palpebra muoversi lontanissimo. Su uno dei palazzi rossicci, poteva essere una luce che si spegneva, o accendeva, dentro una finestra, oppure una serranda bianca che si abbassava. Capsule con un contenuto in ascolto. Forse da lì ci vedevano, o sentivano il nostro odore. Le nostre distinte masse, una scura, di pelle scura e occhiaie scure, grigiastra con quella luce, l’altra bianca e occhialuta, l’occhiale che fa vedere più lontano. Insieme le nostre ombre mescolate, per i loro occhi, forse formavano la sagoma di un cane dagli occhi truci, cerchiati di nero e scintillanti nella notte soltanto per pochi secondi, come il balzo di un fantasma.


(per gli osservatori senza meta, senza direzione, prigionieri arrendevoli dei flutti, è normale percepire la persecuzione. L’ambiente circostante è spietato, non vuole che noi proseguiamo le nostre attività sul suo territorio. Le ombre che popolano gli angoli non vogliono le nostre ombre nei loro angoli, e le scacceranno, manderanno indietro con soffi e ombre d’artigli, e turpiloquio e aure ostili. Figurandoci l’attacco e il sospetto intorno a noi, anticipiamo e gestiamo il dolore che inevitabilmente giungerà per noi, scontrandocisi contro a una velocità repentina. Prima o poi arriverà, fracasserà il disorientamento in cui indugiamo, la pigra bonaccia del nostro galleggiare, e abuserà violentemente dei nostri resti. È un bel casino, ma siamo figli della palude, figli dell’immersione. La parola destino ha senso, per noi, solo se il punto a e il punto b sono, rispettivamente, uno al di sopra di una superficie, e uno che continua a sprofondare, sprofondare, sparendo sempre più e per sempre, depositandosi tra strati indigesti di altre forme fluttuanti come fossili in un fondo scuro dove non giunge nessuna luce, nessuna continuità, nessuna linea…)


-certo però che, chiunque fosse, ha scelto proprio un luogo sbagliato per trasformarsi in orologio.


-è vero. Da quel punto, vede quasi solo i palazzi davanti. Se si fosse messo un po’ più in dentro, avrebbe conficcato se stesso in un punto da cui si ha una vista molto più suggestiva. Con quel campo recintato pieno d’erbe selvagge, e i colli a est. Nemmeno vede bene i movimenti del sole, probabilmente.


-sì, ma pensa se un giorno dovessero costruire degli altri cazzo di palazzi merdosi su quel terreno. Tutti i quadrati di terreno spoglio e malconcio di questa città, con dentro semi pestilenti di essenza di supermercato o edilizia senza controllo.


-mmh, c’è questo rischio. Ma quel terreno mi sa che rimane così. Hanno già fatto quello strano edificio, un po’ in dentro. Nell’entroterra di quel terreno.


-so che intendi. È molto vasto. E forse come dici non ci faranno altro.


-andiamo a capire se è proprio così. Lo senti con l’anima quando sta per succedere qualcosa, sulla terra spoglia.


Era per questo che eravamo andati a metterci in quel punto. Davanti alla recinzione che ci diceva PERICOLO. Qualcuno, una voce incorporea o un gracchio di cornacchia magari, avrebbero potuto rispondergli “grazie tante, non hai forse visto in che mondo siamo nati?”, ma noi ce ne stavamo in silenzio e con le mani nelle tasche dei giacchetti, a scavare in cerca di non so che. Certi lampioni accendevano una dopo l’altra luci bianche da parcheggio. Un vento invernale spirava a tratti iracondo quasi ad avvertire che di lì a poco avrebbe graffiato le orecchie, proveniva da sinistra, Via Fellini. Nome ironico: in mie passeggiate costeggianti un ennesimo terreno incolto, dove un’inquietante volontà s’adoperava in segreto per tirar su altri mortiferi edifici, non avevo ancora mai incontrato tra nebbie oniriche il fantasma di una bufala pontina, equivalente di una vacca romagnola, di altri fantasmi preindustriali di bestiame, e di un amarcord assunto giornalmente a sostituire una droga. Il palazzo all’ingresso della via accendeva occhi di telecamere e luci guardiane, inibendo viaggi mentali. Meglio tornare all’erba e le sue striature. Secchezze e rossori, eczemi di torbiera. Notai quasi subito le silhouette piene di nero inchiostro delle due cornacchie su un albero spoglio, dentro l’intricata massa di rami a forma di cuneo pugnalante il cielo. Notai poche altre cose.


Forse volevamo diventare orologi, chissà. A forza di star fermi in quel punto, sprofondando con le ginocchia nel melmoso asfalto del marciapiede, nel Fango sottostante. Con quel singolo tramonto davanti. Allora saremmo stati un tipo nuovo d’orologio, capace di congelare per sempre una singola ora con tutto il suo contenuto. Così come lo spazio diventa una palude singola che comprende tutto. Sarebbe bello, se fosse facile risolvere in questo modo il fottuto problema del tempo. Ma l’incantesimo e la leggenda non agivano secondo il volere nostro o di nessuno. Il Fango ci avrebbe presi, fatti sprofondare, in modi suoi imperscrutabili e imprevedibili. Prevedibili in una certa misura solo dai nostri sudori freddi, rabbrividenti come presagi nella pelle membranosa degli anfibi. Ma per quanto mi riguarda comincio a sentirli dappertutto al punto tale che non possono più costituire per me un criterio discernente di qualcosa.


Due orologi. Tre, con quello della prima torre, immobilizzata un po’ più in là alla nostra destra, nella piazzola che si avvicina all’imboccatura della via-fiumiciattolo. Un orologio occhialuto, uno nevrotico. Cielo bluastro e rosa, sole palla di fuoco occhio incazzato. Ci fanno ombra degli eucalipti cinti da una rete intelaiata alle nostre spalle. Uno di quei veli sfilacciati e neri come sacchi di immondizia, fruscia cheratinoso per l’azione degli affluenti del vento. Ma ci sono in nostra compagnia i tronchi amichevoli, le foglie tossiche, rudi arbusti ai nostri piedi. Le macchine che passano ci guardano con fanali inquisitori -che cazzo vi guardate?!- e meccanicamente brontolano, incuriosite, disturbate da due pedoni/oggetti in metamorfosi, si tuffano nelle vie della palude a perseguire i propri scopi, a fare la spesa, magari riferendo che c’è gente strana in giro, cani strani in giro. Passa un aereo nel cielo soprastante, ma vediamo soltanto la scia poco dopo, è carina. Si accendono altre luci nella distanza, chissà se le vedremo spegnersi, o se le immobilizzeremo così. Passa anche una gatta grigia e bianca, gli schiocchi ritmici della nostra lingua si fanno sordi e lei non si gira, continua a camminare con la coda all’insù sotto le pozzanghere dei lampioni facendo ondeggiare mammelle rigonfie per gattini appartati tra vicini intrichi di rovi. Nella quiete di cui ci siamo circondati le vibrazioni si attutiscono. Soltanto in un paio di occasioni si accende lo schermo di una riproduzione casuale e risuonano da scadenti altoparlanti poche tracce della playlist del mio amico. Un mellotron. Lo stesso che ascoltano certi spiriti rimasti in giro di padri coetanei in un’Aprilia di anni plumbei, quando secondo i miti era davvero un singolo terreno incolto senza confini, con una piazza al centro. Citizens of hope and glory, time goes by/has life again destroyed life,…/son of sheba I saw you down/I’m on a roll this time -poi si ammutolisce la riproduzione dei brani e sparisce pure la continuità tra i mondi verdi e quelli asfaltati, imperlati soltanto dal tramonto. Di nuovo quiete e i nostri richiami ai gatti che diventano ticchettii. Tre orologi, di cui due davanti al terreno recintato, e il tramonto fluttuante immobilizzato sopra di esso e sulla skyline, “?” e “!” sono gli unici fonemi esistenti nell’unico linguaggio sopravvissuto.


Mah, fu solo un tentativo. Ce ne andammo poco dopo ancora in grado di camminare, ognuno a casa propria. Eravamo solo venuti a far passare il tempo davanti al tramonto.


Nella leggenda c’è un uomo. Quest’uomo vaga, per tutto il giorno, non sapendo che fare. Per via incontra degli uccelli su rami sporti sopra i marciapiedi, alcuni di questi sono silenziosi e li osserva contento, altri parlano, gli dicono che saprebbe meglio cosa fare, se per prima cosa capisse come mai deve fare qualcosa. Ma lui, anche sentendo questo, si sente uguale a prima. Così continua a fare l’unica cosa che sente di saper fare: camminare. In questo è il migliore in tutto il mondo, e “tutto il mondo” -come tutti gli uccelli e i camminatori sanno- è un reticolo di vie vicendevolmente intersecantesi compreso tra umidi campi, una specie di grigio cervello a bagno nel Fango, in provincia di Latina. Lui lo percorre da un capo all’altro, e così trascorrono le sue giornate.


Sosta per grattarsi una caviglia vicino a un benzinaio. Se attraversasse la strada, si troverebbe su un pezzo senza marciapiede, con camion indifferenti agli autovelox a sfrecciargli accanto alle braccia. Una volta è caduto nel fossato adiacente la fila di ulivi che arriva alla rotatoria di Carano. Grattarsi lì sarebbe scomodo. Piegato, tiene lo sguardo fisso su un punto indefinito nel vuoto, ma due inservienti pakistani credono che li stia fissando. Allora lo fissano di rimando. Sembrano stanchi, sembravano avere qualche malattia agli occhi, o una passeggera forma di congiuntivite. Che vi guardate? Che ti guardi? Non si dicono niente in realtà. E quando lui finisce di grattarsi la caviglia passa oltre. Una macchina entra con una sgommata stridente per andare a fare il pieno in pochi secondi, e rigettarsi sull’asfalto surriscaldato.


L’uomo che sa solo camminare procede con l’andatura claudicante di una strana scimmia storta. Evoluta su una curva linneana deviata. Non sembra farci molto caso, comunque. Sa che con quella camminata così com’è riesce a farsi ogni giorno da Carano alla Nettunense.


Da quelle parti, cioè Via Carroceto, conosce diversi punti d’ombra dove sostare. Una volta si è intrufolato tra gli arbusti abbarbicati a una recinzione del centro sportivo e lì si è raggomitolato tra le paglie sparse nella fitta oscurità proiettata da un vicino boschetto. Si era accoccolato tra le tracce lasciate da una colonia di gatti e lì aveva passato il pomeriggio. Se l’avessero visto, lì con lo sguardo fisso ora al cielo ora al fogliame, l’avrebbero di certo cacciato. Potevano credere che osservasse le ragazze, le loro gambe scoperte su cui sbattevano ritmicamente borsoni rigonfi e impregnati di sudore. Ma a lui non interessavano gambe incapaci di camminare, e capacissime invece di fare tutta una serie di altre cose di cui non avrebbe mai compreso il senso. L’incomprensione gli impediva di essere altro da quello che era. Così guardando il cielo individuava le specie volatili che potevano guardare dall’alto, secondo un disegno diverso e forse migliore, la palude dove quelli come lui affondavano. Gabbiani, cornacchie, aironi guardabuoi, due gheppi che nidificano tra le impalcature tubolari della palestra del Meucci, li conosce tutti.


Quando emerge dalle ombre trovate vaga un po’, prima o poi si riposa di nuovo sotto altre chiome. Ma da quelle parti forse lo riconoscono. Apriliani gente sospettosa, forse anche superstiziosa, chissà. Forse fabbricano inconsapevolmente delle leggende popolate di personaggi che claudicano nel paesaggio, spariscono e ricompaiano rendendosi spettri. Lui, che cammina da quelle parti, rannicchiato e ingobbito dentro la tuta acetata dell’Adidas, è riconoscibile. Perfino dalla forma della sua ombra, con i capelli un po’ scompigliati e la curvatura vertebrale di chi è pronto ad appallottolarsi in uno scatto. I piedi sono grandi, come di chi ha marciato esodi nella sabbia. Il pelo ricopre mani e volto in quantità. Una volta sola ha visto chiaramente di esser stato osservato da un corpo tangibile. Stava sulla panchina degli studenti a riflettere, e a un certo punto aveva calciato una pigna, irritato dal fatto che “Località Carroceto” e “Via Carroceto” si trovano in zone diverse. Si era cullato un po’ nel tonfo propagato dal vicino fogliame, poi voltandosi aveva visto a una finestra di un piano terra una vecchia in parte pelata, con pochi capelli lunghi e argentei che la avvolgevano in una canottiera bianca. Espirando fumo e aggrottando occhi argentei, si era ritirata dentro con un’irritata percossa di imposte.


Proseguendo per la via che incurva prima di due bar consecutivi, sente degli sguardi. Chi è che lo osserva? Nessuno, non c’è nessuno. Ci sono finestre da palazzi rossicci che guardano con sospetto anche i cani, anche i fruscii tra le fronde degli eucalipti. Vedono scintillare come squame di pesce la patinosa superficie della tuta. Cerca di ignorare. Ha due occhi incastonati nella faccia, la quale ondeggia al di sopra del corpo cui è attaccata, e il corpo cammina: insomma, suo malgrado vede le cose. Camminare e guardare e fermarsi a guardare sono l’unica difesa che possiede, altrimenti teme che l’asfalto e le macchine e le altre scimmie della palude possano assalirlo e dilaniarlo all’improvviso.


Sente gli odori delle case. Tuttuno coi colori e l’illuminazione. Giardini sul retro. Possibile che i palazzi monolitici intorno alle panchine e gli alberi dei giardini, non siano abitati da nessuno tranne quella vecchia che ha visto una volta? Una città di indaffarati. Dove diavolo sono, tutti, perché sono nelle auto e non nelle case? E perché nelle case lasciano un’impressione, come uno spettro sostitutivo dei loro truci sguardi da guardia? Staranno tutti a costruire, comprare terreni incolti per edificarci, forse. Sfrecciano follemente su quella strada, attraversare è molto difficile. Immancabilmente, per quanto aspetti con pazienza i momenti più opportuni della corrente, c’è qualcuno che si innervosisce e suona il clacson contro di lui. Non dimenticherà mai una notte d’inverno in cui vide sulla strada deserta una volpe, fuoriuscita come un fluido rosso dagli ulivi, attraversare veloce. Sembrava allarmata, probabilmente anche in assenza di macchine sentiva riecheggiare furibondo il loro passaggio. Ma non riusciva a immaginare cosa avesse da fare sull’altro lato sprofondato nel cemento. Forse si andava a suicidare con una craniata.


Gli sono alle calcagna.


Di nascosto si addentra tra certe siepi. Non sa se ci siano delle abitazioni nelle vicinanze, se stia pisciando su dei giardini sul retro. C’è un grosso terreno in Via Fellini, pensa mentre restringe l’elastico dei pantaloni, dove farebbe proprio comodo un bel bosco urbano. Comunque nessuno dovrebbe averlo visto. Ci tiene però a precisare attraverso precisi ormoni sparsi dal getto che il suo intento non è quello di marcare il territorio. Territorio? Per lui è un concetto ridicolo. A meno che non trovi un posto che…….


Gli sono alle calcagna e lui non ha più tempo per fuggire.


Per questa ragione l’uomo orologio a un certo punto ha deciso di fermarsi. Perché non poteva più fare quello che aveva sempre fatto. Da quanti anni? Non aveva nessuna importanza. Avrebbe segnato il tempo soltanto per il sole e le macilente frazioni di campo che l’avevano sempre circondato nel suo girovagare, solo per loro. Dentro se stesso, non l’avrebbe contato. Avrebbe visto soltanto una scena ripetuta all’infinito. Lasciando fuori di sé, in un mondo ormai già concluso, il se stesso che, soggetto al tempo, era stato infine raggiunto da quella cosa, al tempo stesso indefinibile e dogmatica, che lo inseguiva, spingendolo all’ininterrotto vagabondaggio per le strade. Lasciato fuori con i suoi dolori e paure. Contava il tempo per altri e non dentro di sé, nessuno giunto a prenderlo. Non sembrava male come finale.


Il processo avviene in questo modo: un uomo, in una tuta bianca e nera dell’Adidas, si ferma in un punto dove ancora non c’è niente. Non può sapere che attorno ai suoi piedi i posteri ammasseranno altro cemento squagliato, che cristallizzerà, imprigionandolo ancor più di quanto non abbia fatto da solo. Comunque, lì non c’è ancora niente. Un marciapiede scarno, dentro ha una trama grigia che si ripete infinita, è il suolo di una grammatica strutturale del mondo, il concetto di linea di terra visto da sopra. Bene. Con i piedi, comincia a scavare. Proprio con i piedi. E scopre che sono più adatti allo scopo di quanto uno non li giudichi. L’asfalto, o quello che è, si sgretola con facilità sotto le prese e il verminoso ondeggiare delle dita. Con i talloni ricompatta i grumi sparpagliati. E intanto scende, scende. Si dice che, al di sopra del torace, sia conficcata per mezzo di un collo una testa barbuta e capelluta, che in disperati singulti da albero pazzo che parla agli uccelli, lancia sporadiche esclamazioni, come, “e se tanto il Fango mi deve affondare!”, e poi tace, per lunghe ore, a intermittenza con sgradevoli rimescolii della saliva che gli si deposita in perline bianche e spumose agli angoli delle labbra screpolate dal vento. Gli occhi gli si dilatano in quei momenti, si arrossano di follia. O almeno questo è quello che pensano alcuni degli uccelli e delle ombre che passano lì vicino, e lo osservano con sospetto. Ma il sospetto diminuisce man mano che la struttura corporea si irrigidisce in blocchi, mimetizzandosi con elementi plastici e vegetali del paesaggio. Nessuno ha mai conosciuto un simile arbusto, ma è già abbastanza raccolto nell’ombra appartata dell’angolo che ha scelto da non farsi intercettare dai sensi e dai giudizi degli autoctoni, sempre ostili agli elementi intrusi. Prosegue la sua metamorfosi, e intanto, davanti a lui, tra i terreni da cui svettano colossali palazzi e tra le erbe in cui si acquattavano occhi randagi, vede cangiare di continuo nuvole di luce e di ombra. Scopre le gradazioni del buio e del chiarore. Passa così molto tempo, tempo, tempo, comincia a boccheggiarlo in un mantra delirante. La terra s’ammucchia attorno alle sue gambe già immerse a metà. Ma la sua altezza cresce invece di diminuire. Sembra allungarsi il torso, portare la testa in alto. Sul volto si riflette un cambiamento interno. Piove. L’acqua impregna l’asfalto e il terriccio divelti, si propaga più velocemente nella sostanza così rivelata per come era là sotto. Viene assorbita, dunque, dalle sue vene collegate ormai al buco, in simbiosi floreale con la terra. La pioggia gli scorre dentro facendolo crescere, catalizzando la trasformazione. I denti cominciano a crescergli fuori dalle labbra, come germogli. Le labbra poco a poco spariscono, non servono più. Lo smalto bianco si allarga occupando tumoralmente l’interezza del volto, lo assorbono tutto. Ne escono altri neri, che sulla superficie ossea così creata cominciano a girare, girare, girare. Qualche giorno minaccia nevischio e solo il suolo ghiaccia. Un giorno di grandine non ha quasi sentito dolore. Lui aveva passato molti giorni dolorosi sotto la grandine che cadeva spietata sul suo cammino, e la pioggia gli aveva fatto sentire, a quel tempo, il freddo dentro le ossa. Ora non faceva più male. C’era una gatta che gironzolava da quelle parti. Era normale che passasse davanti a lui, qualche volta. Ma era la stessa gatta o erano diverse? File di micetti al seguito, di striature ogni volta diverse. Chissà, forse ne erano passate tante, di figliate così. Sempre negli stessi cespugli si andavano a rotolare, vicino a uno scivolo. Un nonno con una nipote che hanno l’abitudine di scendere la sera quando non c’è nessuno fischiano, scacciano i gatti. Sarà che non devono starci, l’odore d’ammoniaca, mah, chissà. Comunque non ha mai visto passare un cane da quelle parti, neanche uno. Sa che vicino a una casa minacciosa, troppo perfettamente geometrica, c’è una canfora verde chiaro. E vicino a questo una cuccia messa là così, a separare il tronco da un terreno incolto. L’occupa un cane bianco, ma non si è fatto vedere. Poi dovrebbe esserci un cane d’ombra che s’aggira circospetto, ma non si è fatto vedere. La gente che passa, invece, comincia a guardarlo in faccia, e dietro i volti annebbiati (non li vede bene, solo sagome incolori) non riesce a cogliere il cigolio digrignante dei loro pensieri ostili, come se non ricordassero la figura di uno strano individuo in tuta che gira vicino alle scuole, scaltro come uno spettro e almeno altrettanto sfaccendato e senza dimora. Servono dimore, alla gente. Che comincia a guardarlo in volto così da leggervi l’ora. Lui ogni tanto prova a rispondere solo ai gatti, ma quelli non lo sentono, e nemmeno leggono l’ora. Gli capita di vedere bei tramonti su una buona parte di Aprilia. Non ha brutti tramonti questa città, io li conosco bene, pensa tra sé per l’ultima volta. O senza più smettere. Non fa più differenza.


E questo è il modo in cui un uomo può trasformarsi in una torre dell’orologio. Diventa un pezzo di paesaggio estraniante eppure armonico con il tutto. Impossibile capire in quali parti sia una cosa e in quali sia l’altra. Possibile invece leggervi un orario segnato da due lancette. Zanne nere che camminano sui bordi di un cerchio.


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