Gli Appunti Del Fango- storia d'orrore
- Milky
- 2 gen 2021
- Tempo di lettura: 22 min
-e così, sei arrivato anche tu alla fine.
-sì.
Ride, se una cosa del genere è capace di ridere. Oppure è proprio come ha detto: proietto su di esso delle cose mie, cose che non appartengono alla sua forma o quelle che a questa assomigliano. Dunque sono io che rido di me stesso. Di cosa rido? Di aver risposto freddamente “sì”, senza profonda ragione, o di essere arrivato qua? Rido per dare un ritmo a uno scambio di opinioni che non è veramente tale perché non avviene tra esseri che possano comunicare e capirsi normalmente senza coinvolgere forme insolite di incantesimi e magie. Qui ci sono solo magie di palude. Sulla palude ancora e sempre mi ritrovo a parlare da solo. Questa tana, questa nuova e abbandonata caverna di pareti ed erbacce, è un ventricolo particolare di una mente irrorata di cloache convergenti e defluenti su una trama di rivoli. Rimbalza una debole eco, di nuovo l’odore chiuso e putrido e il rantolo della voce mi giungono come un’unica cosa.
..
Quando arrivo alle villette mi sembra che non facciano parte di Aprilia. Sono certo che questa non sia un’impressione particolare, l’avrebbero in molti giungendo da queste parti per la prima volta, per recarsi in qualche posto o ritrovandosi per caso come me a vedere zone mai viste di questa città, che mi sembra così enorme. È infatti un piccolo paesaggio urbano piuttosto atipico. Si respira un’aria d’intimità condivisa esclusivamente tra le file parallele di queste case, un’essenza bella e autosufficiente circostanziata in maniera uguale a come si presentano fisicamente in un quadrilatero lungo, un piazzale in mezzo a un verde nulla. Da un marciapiede lungo il quale come isole o groppe di balena strabordano a metri di distanza i tetti in riga, si apre per un breve tratto una siepe per lasciare spazio a degli scalini, lo spazio sufficiente a una persona per mettercisi in piedi e osservare ciò che si apre innanzi: così vuole presentarsi il quartiere, con lo sguardo a tranciarlo nella metà, vuole essere geometrico e perfetto per le creature che credono di accomodarsi nel rigore delle forme. Due file, giardinetti giusti -né angusti né eccessivi- cinti da muretti mattonati amorevoli e solidi, comignoli attivi in vispe discussioni nell’aria invernale fatta di lame; un vibrare caldo di altro fumo invisibile, più adiacente al terreno (barbecue o brace in accensione da qualche parte nelle vicinanze). Un coriandolo di cenere qua e là si fa trasportare dalle ondate di calura che fanno lacrimare. E il sole del mattino investe e fa brillare tutto come un prezioso gioiello di ordine e ricca normalità. Proseguo sul marciapiede, svolto a sinistra, costeggio la fortezza su un suo lato esterno; arrivo a ciò che sta al di là del suo fondo, il margine opposto allo scalino che lo presenta al visitatore. Entro in una zona diversa per quanto medesima. Osservo ciò che trovo qui e mi inebrio del contrasto.
Una cosa che faccio come osservatore è quella di percepire nei luoghi in cui mi trovo la natura originaria del territorio; per qualche motivo, per fissazione maniacale e insensata, voglio che gli occhi penetrino il tempo e mi svelino se nel posto in cui sono c’era palude o altro tipo di bioma, quali zone di Aprilia fossero pozza gorgogliante o boschetto, o ancora pianura erbosa o terrosa che costituisce l’ideale nulla solido su cui edificare -dunque un legame consequenziale con case palazzi e varie costruzioni, ripetitive o diverse, che sorgono ora. Ma si droga il mio interesse laddove sento che dietro una casa c’è una melma irrazionale che sibila esalazioni e nella notte si imbeve di nero degli abissi, oppure una fitta vegetazione al centro della quale sospira un irascibile nume fangoso. Ebbene, la zona che dal lato di fronte alle villette di Via Madrid sembra appartenere a un’altra realtà, a un pulito paesino di benessere e costante tempo sereno, rivela se stessa sul retro, nelle canne che cominciano a crescere più frementi quanto più ci si avvicina a un certo culmine che sta dall’altra parte, che si affaccia su un altrove. Il verde che cresce alla base dell’edificio abbandonato rivela che qui la pioggia cadeva grigia e incessante esattamente come in tutta l’area apriliana, nutriva questo stesso terreno ingordo. Ho generato la mia impressione su questa nuova area che ho esplorato, godo dell’immagine che si presenta dietro alla luce e l’ordine, ascolto con trasporto di musica il bramito strozzato del vento rallentato dalla densità dell’atmosfera grassa di umori salmastri, pestilenze d’insetti -ne assorbo la traccia lasciata dietro la scorza di ambiente che attraverso. Eppure, sebbene io veda sempre lo stesso misterioso carattere in tutta la città, questa ossessione di un fango avaro, sento che qui si racconta una storia che non si lega solo a questo. È una storia che accade ovunque, ogni giorno. E che qui ha solo fatto una delle sue numerose tane.
…
Queste villette vogliono essere una città a parte, nella loro complicità e apparenza a cui non manca nulla, nei loro mattoni diversi, nei loro comignoli sempre canterini. Il frastuono proveniente dalla scuola calcio di fianco si annulla una volta sorvolati i tetti più esterni. Dentro, nel cortiletto, cadono solo i raggi solari e le ombre delle case che abbracciano solo i suoi abitanti. Da una finestra un programma di cucina, da un’altra una chitarra elettrica tenta uno sweep picking su un pezzo Death Metal. Luccicano attrezzi su mensole da esterni davanti ogni portone. La “città” possiede anche un parco, dopo le ultime case. Il prato è vasto e pieno d’alberi e arbusti, ci sono i giochi per i bambini -gli abitanti futuri, in quanto città si ripopola e rinnova. Di fronte al parco la tana. Dallo scivolo e dall’altalena, dal balzo adrenalinico dell’entusiasmo infantile, da una febbrile gioia del movimento si osserva un improvviso mistero, le sue grinfie scure. Necessaria iniziazione. E gli occhi colmi di meraviglia vedranno quella meraviglia rivolgersi altrove, indirizzarsi a ciò che vuole al tempo stesso rimanere nascosto per ammantarsi di fascino inquieto e mostrarsi perché è necessario che lo si veda, che si comprenda questo: dall’euforia del gioco al gioco dell’euforia del timore, del buio -dell’essere persi- c’è un istante. È la mancanza di contraddizione nel fatto che, proprio di fronte ai sedili di questi giochi da parchetto, si stagliano in imponente e lugubre vicinanza gli occhi vuoti e le torreggianti ombre dell’edificio abbandonato. Oggetto al limite ultimo della piccola isolata città, oltre il quale c’è l’altro. Dentro le pareti, all’interno chiuso e buio, si rifugia l’ultimo abitante, il caos.
Macchine che non esauriscono mai e sfrecciano sull’argenteggiante asfalto della strada statale, ferraglia che si fa carico del desiderio dell’uomo di una corsa all’impazzata attraverso la campagna, di un urlo rombante che sovrasti i silenzi del vasto e incontrollato ibrido di cielo e canneti e rocce ed eucalipti e colli all’orizzonte. Sento da qua le innumerevoli carcasse, irriconoscibili e divelte in grumi purulenti di rosea volontà annientata: piccoli animali sfracellati dalle ruote roventi inarrestabili, ormai più polpa che ossa frantumate ammassata in mucchi lungo i bordi, sotto i roveti. Spariranno, affonderanno nella terra che ne accoglierà altri ogni giorno. Il loro anonimato straziato nutre gli steli che si agitano quando sta per arrivare il temporale dell’agro pontino, nella cui ombra violacea di nuvole tonanti si ergono ai bordi della SS Pontina riconoscibili gruppi d’alberi o un singolo casale, un abbandonato sgabuzzino al centro di un campo, un capannone, la Fox Alarm. Poi i due decrepiti silos dal morente colore rosato che come torri sul mare d’erba e asfalto accolgono il passaggio definitivo e inequivocabile per le periferie di Aprilia. Risalta la sagoma dalla lontananza, da un rettilineo attraverso l’ignoto di una campagna che sembra non mutare mai; si intrasente un qualcosa di incomunicabile ma così certo, un piccolo presagio come una fitta al petto, nei suoi occhi neri affacciati alla strada. Pare di udire un cigolio pericolante di macerie e si passa oltre, per salire su un ponte solo pochi minuti dopo e tuffarsi dentro Aprilia, con una chiesa di bianco maestoso e aguzzo a punzecchiare il cielo di uno sfondo in avvicinamento. Ma l’edificio riconoscibile di prima, quello con le torrette cilindriche, è sia questo che un confine per quell’isola nascosta di villette e parco, dove finisce la luce del sole.
Quando arrivo di fronte alla saracinesca perennemente abbassata della sezione centrale, dal soffitto ricurvo a carapace di insetto panciuto, sono ancora nel pieno della percezione di contrasto che mi investe, sto metabolizzando -osservatore lento, come al solito. Ho ancora il parco alla sinistra, mi arriva una ventata affumicata di brace ma avanzo un passo verso l’ombra sottostante la parete fatiscente, le scarpe vanno a infradicirsi nel verde gonfio di pioggia che ne lambisce la base; leggo la scritta, “pericolo caduta, non entrare”, non specificando se è la struttura a cadere e seppellire per sempre chi la invade o se è l’intruso a precipitare inesorabilmente in un interno senza fondo, in un buio che ingombra e circonda, fa dimenticare il senso della vista che era così familiare e certo prima di entrare e farsi assorbire.
Giro un po’ intorno, lo guardo da più posizioni, galleggio nei paraggi come il corpo macilento di un randagio che vaga, io che non sono di questo quartiere e calpesto i suoi prati, che struscio sull’ultima striscia di parco con alle spalle lo scivolo giallo e di fronte il rudere. Sui tetti vedo i piccioni neri col collo arcuato verso la strada, la legione che conosco del vento di Aprilia, ma immediatamente noto che non sono certo gli stessi piccioni della piazza. Hanno i nidi nelle rientranze lungo le pareti cilindriche delle strutture a torre centrali, solo in alto si rifugiano; e quando escono fuori e vanno ad appollaiarsi così come li vidi in quel momento, non danno idea di volersi avventurare lontano da lì; ma se non si allontanano, neanche ingombrano con una presenza così intensa da caratterizzare il rifugio come un gigantesco nido: per quanto numerosi non tubano ripetitivamente né spargono resti della propria esistenza in maniera da rendere quella una tana dei piccioni, un importante avamposto del loro vivere sulla città. No, si fanno da parte, eppure palesemente esistono e osservano immobili là sopra- un’immobilità impressionante. Quasi come ombre che rimangono sempre attaccate al bordo d’un corpo, quasi come piccioni solo immaginati. Proviene uno zero del rumore da quella moltitudine di una specie normalmente fracassona, nessun battito né tubare. L’occhio laterale è fermo, i becchi a uncino senza eccezione rivolti alla Pontina che scorre là sotto e al di là, come fossero organi ricettori di gargoyle saprofagi di un destino che sentono prossimo a compiersi proprio là, lo sentono con misteriose percezioni oscure. Questo fanno e io che li osservo credo di capire: sono quegli stormi che talvolta si vedono sorvolare questa strada nelle giornate serene, come sciami scoordinati che puntellano il cielo azzurro fluttuano sulla campagna in macchie scure, con sparuti elementi bianchi nel mezzo; si alzano e abbassano come un’onda, o si levano come una nuvola da un campo e riprendono il volo, ora so che fanno sempre ritorno qui a spadroneggiare su queste guglie. Un lungo filo di paglia spesso e sghembo come un ramaccio, componente d’un nido lasciato a se stesso, precipita dall’alto e frangendosi picchia un suono secco sulla tettoia bucherellata. L’eco sfuma tra i cespugli che abbarbicano il perimetro incolto, poi silenzio. Bello, penso. Getto uno sguardo alle spalle perché non si sa mai. Non so cosa mi aspetto, se un abitante del quartiere intento a potare le siepi in posizione d’attacco con le cesoie rivolte all’intruso, oppure qualcosa di molto diverso uscito da una fantasia di rudere e maceria, una suggestione più dovuta a quello che ho di fronte che a una vera possibilità d’allarme dai paraggi, da dietro. Mi riavvicino e sbircio dove è rimasto da sbirciare, nelle finestrelle scoperte, dritto negli occhi vuoti. Dietro sbarre rossastre un’ombra fitta d’intrecci, d’altre ombre minori e di flebili raggi luminosi imprigionati dentro che rimbalzano qua e là, un pavimento accidentato di smottamenti causati da intemperie e mancata cura, mancata presenza, polvere si deposita su foratini e travi gettate stortamente; crepe che tracciano venature in prossimità di radici che crescono e si ingrossano fuori dal suolo, indifferenti al cemento, infine una porticina di ferro sul lato opposto, una soglia completamente avviluppata da erbacce. Serpeggiano come liane le rigogliose dita da sotto la fessura e i cardini, un’enorme mano verde sembra spingere la porta contro la parete che la contiene come a mantenerla chiusa o a introdurre i verdi figli della sua pelle cadente all’interno, “andate, abitate, sancite un abbandono e una rivendicazione della flora aliena!”… è lì, nella stanzetta d’ingresso davanti a quella porta, che vedo (o sento?) per la prima volta muoversi un’ombra enorme e irsuta. Per il momento mi volto, raffronto questa alle altre finestre. Una più in alto a cui non posso arrivare è la più nera di tutte, in maniera paradossale rispetto alla luce di questo giorno e al modo in cui ci si aspetta che quest’ultima cada anche lì, aggirando le pareti e la chiusura. Il buio non è un fenomeno fisico, ma si riproduce dove vuole in determinate zone, prolifera dove si procaccia il godimento. Così la finestra si manifesta agli occhi del bimbo sull’altalena come una cosa ancor più profonda e potente della notte, così il suo nero si riflette e luccica sulla sua piccola pupilla stregandola per sempre, facendo passare attraverso essa fino al cervello le ombre di deformi essenze più strane e intriganti che già la popolavano attendendo di uscire allo scoperto, farsi scoprire e mai più lasciare.
C’erano Matteo, Greta, Samuel, Gianmarco, Anna, due Cristian, Roberta, Arianna…
…
-che facevano gli altri?
-gli altri? Non ci sono altri.
-quelli che sono venuti prima.
-ah, ma non ci sono più.
-infatti ho chiesto che facevano.
-che facevano? Giocavano, è ovvio. Perdevano.
Si muove nello spazio soffocante come in uno sgabuzzino, questa creatura troppo grossa, despota del rudere. Si rigira qua dentro facendo gran confusione di cianfrusaglie, sollevando infinita polvere ruvida, tra confini limitati perché costretto, come se il mio ingresso l’avesse disturbato e gli inducesse movimenti dispendiosi che normalmente eviterebbe. Eppure per il resto non sembra infastidito. Non mi parla davvero: mi sembra di vedere, come spicchi d’unghia nel buio del chiuso, le vibrazioni prodotte dai suoi variegati rumori; e di vedere in queste vibrazioni, leggervi, delle parole che mi recito forse ad alta voce forse dentro la testa a mo’ di copione che scorre. Un copione vivo che sta davanti a me. Perché è vivo: non lo vedrà mai nessuno, oh no, non le avranno, le loro famose “prove”. Ma se solo tutti gli esseri umani potessero provare questa lancinante -eppur completa in se stessa e per questo armonica- sensazione, la certezza nel fatto che questa cosa in qualche modo esiste ed esistendo si rende causa di qualcos’altro… la si ritrova dentro, in un dentro sempre presente ma silenzioso. Un ripostiglio fondamentale dove anche questo essere è finito. E ora vedo che è finito con parvenza fisica anche qua. Un altro ripostiglio, un altro contenitore di abbandono dei tanti disseminati su questa angosciata pianura sotto le piogge grigie. Attento, piccolo osservatore, attento, apriliano che vai in macchina e ritorni a casa e sfrecci proprio di fianco a quei silos che ben ricordi, attento a quella piccola morsa al fegato, non è uno sguardo quello che senti a inseguirti ma una cosa conosciuta. Perché sai che c’è una cosa grossa, un’ombra più grossa delle altre, dietro le finestre vuote come gusci relitti. Si mimetizza bene nel buio, si fa assorbire. Accelera, corri più che puoi verso la città e fatti assorbire invece da essa perché ti pare più rassicurante.
Quella robaccia senza nome e ormai senza forma che infesta tutti i pavimenti dell’abbandono (spazzatura. Detriti. Calcinacci. Robaccia.) si ammassa di qua, di là, elegge a direttore d’orchestra un corpaccione sporco e oscuro. Cellule di una tana viva, come tutte le estensioni di esistenze sedentarie. Noto che si è fatta una curva lasciata dalla coda grassa e spessa e lunga, chissà a seguirla dove finirebbe, se negli angoli bui là dietro che non raggiungo va a incrociarsi con altri segni di codate precedenti. Irrequieto, sempre qui dentro, ad avere tutto ciò di cui necessita. Di che necessita? Sonno, poter aprire gli occhi quando la notte è su tutto, cibo, aria adornata di muffe. E di proiettare o lasciar passare sprazzi della sua ombra sporadicamente al mondo di là fuori, quello di quando c’è il sole. E nel momento in cui lo penso vedo disegnarsi su un lembo di porta schiarito dalla luce che passa per la fessura una zampa protesa e una mezza luna di schiena e collo ricurvi, l’ombra più rapace e ladra ed enorme. L’ho visto, l’ho capito, questo perfetto incubo. Lo avevano pensato tutti quelli che stavano al parco giochi avendo di fronte un posto al quale non avvicinarsi.
Perché?
Perché è pericoloso, lo dice pure il cartello.
Perché ci si fa male se cade qualcosa o se si cade, poi si dicono tante altre cose ma è questa quella più importante.
Perché lì dentro ci vanno i drogati e i barboni e quelli che fanno cose strane ai piccoli.
Perché non voglio che mio figlio frequenti posti strani.
Perché non sta bene.
Perché potreste mettervi una gran paura là dentro.
Perché topirattipiccionivermi portano malattie.
Nessuno ha detto “perché là c’è un mostro che assomiglia vagamente a un ratto gigante”. Ma è quello che tutti, senza saperlo, hanno pensato. E qualche bambino seppe anche di averlo pensato. Ora quelli “non sono più”. Facevano, giocavano, ma qua ora ci sono solo io e non altri.
Uscirono un giorno, non importa quale, non importa se tutti nello stesso o in giorni diversi, attraversarono la passeggiata di fronte casa, di fronte alle finestre belle sbircianti da sopra al giardinetto, tuffati nella luce e verso il parchetto là dietro, perla verde della cittadella. Giocarono, parlarono tra di loro, pensarono a quando il gioco sarebbe finito, presto come sempre, e subito cercarono di pensare a non pensarci; ma presto, dopo la luce, riconobbero che c’era anche una cosa chiamata “buio”, perché era proprio lì vicino. Un ricordo di parole simili alle ore, eccessivamente rumorose ma tutte passate lasciando solo un silenzio di nulla. Dicevano: attenzione che in quei posti là ci stanno i ratti! E si sa, portano malattie. Ma appena nella mente il buio e il ratto si apparentano, appena la malattia che striscia su pelame scuro e coda nuda verminosa si fa figlia di un signore tutto nero e immateriale che domina grotte e foreste e incubi e battaglie, un’altra ombra si proietta. Un’aspettativa: l’occhio sgranato guarderà, esplorerà tra gli angoli più minuti del posto abbandonato nella trepidazione di veder saltare fuori all’improvviso l’animale di cui si è sentito parlare ma che non si è ancora mai visto (eppure dentro di sé pare così nitido! No, non è vero che non si è mai visto, lo si è visto là dentro, dietro le palpebre, ogni volta. Insieme a un bestiario infinito). E sia che appaia sia che non lo faccia l’ombra del mostro si espande. Nel primo caso quella forma darà adito all’eccitazione, l’attrazione morbosa mascherata da terrore perché così si è imparato ad ammantarla per riflesso di emozioni raccontate, da genitori, da fiabe, dal bisogno d’un piccolo male più controllabile figlio del male grosso che deve esistere da qualche parte. Il ricordo d’infanzia simile a un disegno inciso nella propria molle carne diverrà grosso e importante. Nel secondo caso la perenne assenza, accompagnata dalla consapevolezza del “da un momento all’altro, da un momento all’altro, questa volta potrebbe comparire davvero”… sarà quella a nutrire ciò che il buio potrebbe celare. E lo cela, perché sta qua, palesemente: non ci vuole niente, sono entrato nel capannone vuoto e l’ho trovato. Perché sta sempre qua, a due passi da tutti.
La madre di Matteo si ricordò vagamente, quando disse a lui di star lontano da dove stavano i ratti, della prima volta in cui vide un topo di campagna al casale dai nonni. Distintamente aveva reputato eccessive le urla della cameriera adolescente, il mucchio spesso di lenzuola piegate tra avambracci e morbido petto tonfò sul pavimento e le lenzuola tornarono sfoglie sottili; ancor più distintamente aveva deciso in maniera repentina che quella era la reazione giusta, la prossima volta avrebbe gridato anche lei, anche lei avrebbe fatto cadere qualcosa, e mani tra orecchie e nuca. Ma in ogni caso, quando alla madre di Matteo sovvenne questo, fu solo un pensiero di pochi secondi, perché reputava di avere cose più importanti e che comunque era così che si educava e insegnava.
Il Signor Polidori che aveva quel bel giardino pieno di cespugli notevoli, che passava molte delle sue ore là fuori all’ombra della città-isola, un giorno aveva incontrato davvero dei drogati e scapestrati, che a vederli da fuori erano come una sorta di società pluricefala formatasi fuori da quella grossa. Un insieme di grinfie sporche e dalle strane intenzioni ammucchiatesi insieme nei posti loro, quasi in cerca di sudiciume tra interstizi vera ghiottoneria. Ma quando passeggiando per una traversa di Toscanini apparvero tra pareti bucate e vetri rotti di una carcassa di fabbrica non sembrarono affatto così. Nei volti e gli occhi un quasi vuoto, briciole amare. Nelle sclere rivolte al basso troppo bianche o troppo poco galleggiavano assenze. Anche di un pensiero che potessero avere l’uno nei confronti nell’altro. Sentivano bene di essere solo corpi che la sfortuna aveva condotto su uno stesso pavimento e nient’altro. Sentivano fame e freddo e brividi e nient’altro. Nel ricordo del Signor Polidori, i drogati non avevano detto nemmeno una parola e quasi non avevano alzato la testa. Quelli che stavano in piedi rimanevano in piedi, quelli seduti rimanevano seduti, quello in terra a maggior ragione sarebbe rimasto in terra. Ma era meglio comunque che nessuno andasse là dentro, in quel capannone abbandonato, e, si diceva, che nemmeno lui stesso lo guardasse (“e in fondo perché dovrei guardarlo?”). Perciò continuò chino a interrare l’orchidea in un punto dove avrebbe preso più sole.
Altri ancora pensarono altre cose, come è normale. Qualcuno volle entrare per avventura, qualcuno desistere da questo proposito ritenendolo sciocco immaturo fallace, “non vero”. Qualcuno entrò, qualcun altro no, ma nelle menti di tutti l’edificio abbandonato aveva trovato un posto che era occupato in quella maniera solo da chi conosceva questo lato nascosto dietro la Pontina, dietro il suo incessante scorrere.
È grosso, non saprei dire quanto. L’ombra addensata su ogni lato della stanza impedisce i paragoni, sembra estendere il suo corpo o che questo si generi dalla sua massa di corpuscoli neri. Ad annullare la similitudine con altre creature comuni o insolite è anche il modo in cui la sagoma si rannicchia, si protende, estende gli arti o manovra la testa a ispezionare la cavità. Per primo fende parte del buio il muso lungo e affilato che vibra e grufola, si contrae e comprime in lunghezza come una proboscide di gomma. Si avvicina, mi esamina mentre sto in piedi là di fronte: è il primo modo istintivo di interagire col mondo e a me giunge l’alito denso di bava di germi in fermento. Qualche zanna scheggiata spunta dai lati, non per lacerare o combattere o intimidire. Mostra solo lo smalto di una dentatura marcia, soprattutto da essa cola la saliva purulenta di cui si presente l’odore. Per il resto il corpo emana un odore come quello che si respirava entrando nell’edificio abbandonato, solo più intenso. Un odore di parete sgretolata per mezzo di vari agenti, umidità di germi e muffe e pioggia stagnata, tempo che scorre polveroso che prude le narici. A questo si mischiano odori di piccole cose decomposte che si sono susseguite in sua vicinanza, un tempo pungenti e in parte rimaste appiccicate. A ogni movimento (è frenetico, si sposta come una cosa improvvisamente accecata) mi arriva una ventata nuova. Ora sembra assestarsi un po’, far raspare gli artigli rovinati tra ciottoli e intonaco, ora si rialza da un’altra parte e la coda grassa e rosea sbatacchia appresso sbuffando pulviscolo irosamente. Dalla superficie lunga e nuda frusciano sfibrati e contorti peli neri come aculei, piuttosto lunghi. Il pelo per il resto ricopre uniformemente una massa che sembra sempre ingobbirsi, a incombere su qualcosa o magari proteggere un tesoro sudicio posato in grembo. Forse è l’evoluzione in questo buio di luoghi abbandonati, fa rannicchiare per adattamento così come sbiadiscono le creature del profondo di caverne labirintiche. E in questa forma non distinguo orecchie, non distinguo la forma di una testa apparentemente dura, di teschio coriaceo sotto pelle spugnosa da peletti taglienti. Il bagliore di occhi è raro, sono posizionati in alto nella parte del cranio che tende a rimanere sempre in ombra. Mi giunge, ancora, solo l’alito che accompagna come strascico il rantolo, il respiro latrante e strozzato che ritmicamente scandisce, lo fa sembrare affannato. È un coro catarroso, in cui si moltiplicano, più piccoli, centinaia di squittii impercettibili e potenziali ruggiti. Inoltre grugnisce a ogni ritmico strattone del rostro. Così ascolto quello che immagino abbia da dire. Il che, mi sembra, non è molto. È un fascio di istinti poco avvezzi alla spiegazione.
Comincio io: “perché sei proprio qui?”, perché qui e non negli altri innumerevoli luoghi abbandonati? Ma è una domanda superflua, capisco subito che quello non è un re dei ratti di Aprilia o qualcosa del genere, come in ogni città questi vivranno tra fognature e cunicoli di sottosuolo e campi in un’anarchia raramente organizzata, con sporadici capi di gang locali, magari alcuni grossi quasi quanto questo; ma non è uno di loro, è d’altra specie, d’altra specie rispetto a tutti gli altri animali del territorio. E questo non è un covo d’un sovrano materiale. Il suo regno se c’è è d’altro genere.
-sono qui perché tu mi vuoi qui.
La domanda non ha senso ma lui risponde lo stesso e la risposta non ha senso.
-e così sono io a volerti?
-chiaramente.
-e gli altri, che dici che sono arrivati qui prima, immagino insomma i bambini del parchetto qui vicino tra quelli che hanno deciso di tentare l’esplorazione qua dentro, anche loro ti volevano?
-non volevano sopravvivere abbastanza da raccontarlo, a differenza tua.
-cosa gli hai fatto?-, all’improvviso sembro un investigatore. Uno che ha scoperto un crimine. Ma non sarà mai vera notizia, le mie domande non aiutano altri che me stesso. Non miglioreranno vite, non scongiureranno pericoli. Ho l’inutile dovere e vocazione di osservare e capire.
-cosa gli ho fatto? Ma che importa?
Il demone semplice, di soli istinto e ricerca olfattiva tra macerie, non è capace di veri giudizi; ma io che lo leggo e gli do voce inserisco nel suo conversare certe espressioni che farebbero pensare il contrario, come “ma che importa?”, e io rispondo al gioco.
-mi sembra sia importante, è di vite che si parla, vite scomparse, forse perdute per sempre. Ci sono ossa da qualche parte?
Ossa innocenti. Voglio sapere se ci sono ossa innocenti. Non sono forse un assassino io stesso solo per aver immaginato che da qualche parte ci siano? In posti scuri e desolati, in gallerie e sottopassaggi, in torbiere dove si annuvolano canti di grilli e gracidii… Uno che qui si aggira spettrale e massacra e crea quella cosa chiamata “cronaca nera” è solo uno che mette in pratica certe domande.
-no che non è importante. Non capisci (di nuovo giudizi che non gli appartengono davvero…) che non conta ciò che di loro è avvenuto “dopo”? Posso aver spolpato qualcuno con le mie stesse zanne e avergli succhiato il sangue, posso averlo gettato in una depressione senza fondo nel pavimento crepato o rinchiuso in una buca insieme ad altri tesori rapiti, posso anche averlo lasciato andare e tornare a casetta con dietro un brutto trauma. Non cambia niente: io esisto solo perché esiste nella mente di voi tutti l’immagine di quel momento in cui il rapimento avviene. Io non sono altro che l’ombra alta e incombente della cosa ignobile e reietta che allunga la grinfia e afferra l’ombra piccola e indifesa, e se la porta con sé; sono la zampa che pare una mano, la cosa con gli artigli ma capace di presa, che sbocciando da un braccio peloso ripugnante si allunga e arraffa, si attacca con violenza a un corpo che divincola le gambe corte sollevandosi nell’aria per una volontà non sua, una volontà terribile; sono il “chissà di quali cose tremende questa volontà è capace!”, e non le cose che effettivamente essa fa; sono il semplice inevitabile pensiero che esista al mondo qualcosa che rapisce e compie prigionia nel buio più gramo. Sono il rapimento, la scomparsa di un’innocenza o la sua possibilità, non le conseguenze.
..
Greta faceva ad acchiapparella è immaginò che alcuni fossero gatti e alcuni altri topi. Chi avesse perso sarebbe entrato per primo dove faceva paura, oppure chi avesse vinto sarebbe stato di quelli naturalmente intraprendenti e coraggiosi per cui farsi pionieri più che penitenza era ostentazione. Gianmarco e Samuel dissero di aver sentito un rumore. Arianna che qualcosa si era mosso, giurava di averlo visto lei, e anche se non era successo davvero aveva finito per provare vera paura per le sue stesse parole. Anna non credeva mai a lei che era più bella e che tutti dicevano avere un nome più bello del suo, però taceva cupamente perché lei aveva visto davvero qualcosa muoversi. Uno dei Cristian a un certo punto aveva gridato, “l’ho visto, l’ho visto, dalla finestra nera in alto, era la sua ombra, il ratto!”, e l’altro Cristian se ne sarebbe ricordato quando fosse stato troppo tardi per mettersi a precisare che a muoversi nascosto là dentro c’era altro che il solo e semplice “ratto”. Roberta era rimasta a casa perché, pareva, girava un brutto virus del mal di pancia, ma seppe poi da altri che quel giorno era accaduto qualcosa di molto strano e spaventoso. È imperscrutabile, nessuno può sapere per mezzo di parole e fatti umani se davvero tutti quei bambini della cittadella isoletta scomparvero, presi uno dopo l’altro da una zampa di bestia. Ma Roberta ripensò sempre a quella storia con un misto di paura ed eccitazione, e con l’idea che un giorno avrebbe forse voluto raccontarla. Ogni volta che succedeva sentiva una fitta al ventre.
-e io allora? Io perché sono qui? Vedendoti, interagendo con te, non dovrei avere la sensazione che tutto questo si condensi in quel solo istante che descrivi? Al mondo esisterebbe solo il rapimento, quel disegno della tua ombra che cattura la mia, tutto sarebbe solo quello.
-no, perché tu sei sopravvissuto. Hai “vinto”.
(Vinto? Ma io non voglio vincere, sono arrivato qui per caso.)
-odi vincere, non è vero? Detesti la colpa di dover vivere sconfiggendo e annientando altre cose. Eppure vivi e ogni nuovo giorno ti svegli per continuare a osservare, continuare a vincere su mille altri pur comportandoti da vittima e perdente. Non serve altro per definirsi vincitori a questo mondo: sopravvivere. Perde solo chi non è più.
(ma a cosa avrei vinto? Nulla di tutto questo mi sembra un gioco.)
-hai vinto all’acchiapparella. Tu prima e meglio di me hai afferrato con il braccio la maglietta di quelli che scappavano. Credevi di scappare, di fare sempre quello che fugge perché ti piace vederti preda e non predatore. Ma alla fine sei prevalso nell’altro dei due ruoli. Perché qui ora ci sei solo tu e gli altri non ci sono. L’ultimo in piedi è quello che più desiderava sopravvivere, il più egoista. Gli altri alla fine hanno tutti perso.
(perché non posso semplicemente descriverti? Sei una mia suggestione e voglio comunicarti in forma di appunti. Che male faccio?)
-nessun male, sei tu a vederlo così. La tua osservazione si sta nutrendo di tragedie e morti, immaginarie o forse no. Ma io sono te e tu sei me. Ti piace che nel buio mi annidi io, si annidi questa storia. Vuoi che al mondo ci siano zampe che afferrano, ci sia quel terrore della creatura condannata. Il mondo è nato brutto, pieno di violenze e morte. Ma in parte vuoi che sia esattamente come è. Non nascerei altrimenti nella tua mente, nel buio che visiti.
(io sono te e tu sei me. Forse per questo, in mattinata prima di arrivare laggiù al confine con la Pontina, mentre passeggiavo per strade di campagna sconosciute gli animali si erano agitati a causa mia. Un volpino in carica parallela alle sbarre di un cancello, inseguiva e strepitava. Su un davanzale vicino il gatto nero irretito squadrava cupo tutto l’esistente, tacendo con la più caparbia intenzione del più ineffabile silenzio vuoto e perfetto, desolato. Neanche un cavallo e un asino di un terreno cinto da siepi alte e fitte come un giardino segreto avevano emesso alcun suono, ma si voltarono dall’altra parte e tornarono verso le stalle. Trovai inaspettata la loro presenza in quella zona. Più tardi invece un altro cane, scuro e affilato nella pelliccia e nelle orecchie, ringhiò e gridò feroce. Dietro un cancello ma di parvenza selvatica, montanara, i suoi ululati denotano una fitta conoscenza di spiriti e demoni e del loro odore.)
…
Prima di decidermi a uscire dal rudere non mi riusciva più di leggere parole nelle vibrazioni dello strano demone. Mi arrivavano solo i grugniti-squittii sotto il rantolo ruvido. E un odore di fogna e porcile, spazzatura e muffa. Raspava tranquillo, la frenesia era solo apparenza. Semplicemente si muoveva così, raspando per qualcosa. Uscii fuori e detti un ultimo sguardo indietro per vederlo retrocedere nella penombra in fondo alla stanza ancora visibile dalla finestrella con le sbarre. Rimaneva una porta invasa d’erbacce e nient’altro, tutto buio incastonato per sempre qui dentro. Torno a casa anch’io, sono stato lasciato andare senza nessun trauma e a quanto pare “ho vinto”.
Per le strade di Aprilia quel giorno scrosciava acceso il sole, sembrava un impero di luce. A volte succede, ma mi dà sempre la sensazione che ci sia qualcosa che non va.
Ricordo che una volta un ratto si tuffò per strada davanti a me in Via Marconi, in pieno giorno. Non c’era molta gente e nessuno gridò. Mi parve in quel momento la creatura più indifesa e spaventata, negli occhietti arcuati e supplichevoli la confusione di inimmaginabile infinità di stimoli conturbanti, troppa luce e troppo frastuono fuori dalla fogna dalla quale usciva chissà per quale motivo. Poca gente era sul marciapiede in quel momento. Nessuno gridò per il terrore, era il solo essere a provarne. Ma qualcuno si indignò come se la sua città fosse diventata improvvisamente sporca, qualcosa di cui vergognarsi. Ma sarebbe bastato spegnere la luce per vederla popolare da una moltitudine di passetti veloci o strascicate lente, ombre striscianti o brulicanti. Anche quel giorno c’era quel tipo di luce solare eccessiva e strana per cui si era reso necessario il palesarsi di un emissario del sottosuolo, sfinito dalla diversità dei due mondi.
(Tornando a casa penso una cantilena stupida, un’acchiapparella nella vecchia fattoria. La annoto per gioco.
“ia-ia-oh, il cane volpino abbaia
è cane ma è volpino,
ha nome di saetta rossiccia nella campagna di notte,
ladruncola veloce del buio con le orecchie in su
ruba galline ma le difende;
il gatto nero è il silenzio
e non la sfortuna:
è l’unico che non si è allontanato, forse ha coraggio,
questo silenzio nero con occhi gialli,
forse ha indifferenza, forse ha interesse per le cose paurose,
è principesco malinconico,
ia-ia-oh;
asini e cavalli
lavorano per l’uomo
e non vogliono sapere di demoni
fermi su zoccoli
ia-ia-oh;
il cane da pastore
bastardo di montagna in campi di periferia a una città scura
è fratello del brigante ululante che aggredisce le pecore
e perciò di demoni ne conosce assai,
ia-ia-oh.
Il ratto invece è sudicio
e striscia nei cunicoli e sotto terra,
esce fuori e si rintana avanti e indietro dentro e fuori le ombre.
Ia-ia-oh.
E ci sono altre cose nel buio
Con le zampe e con la coda
Ia-ia-oh.”)
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