Gli Appunti Del Fango- song for an open mind
- Milky
- 19 giu 2022
- Tempo di lettura: 40 min
Aggiornamento: 21 giu 2022
Quando i due raggi conici dei fanali fendettero in tagli dritti e rapidissimi le brume del buio, reso tremante come gelatina dalla ritmica incessante degli altoparlanti, c’era seduto al posto di guida, da solo in mezzo a tutta la campagna, Punch che aveva deciso di andare a scopare dopo Torre del Padiglione. A tal scopo andava così veloce. Un’area oscura, con strane ombre tra filari di pini e casali abbandonati, traballava in bilico sul confine tra le due e le tre di notte, e stranamente nessun’altra macchina andava a caccia in quella sera di quei giorni d’incontenibile fame notturna. Punch lo sapeva, Punch conosceva la fame dei suoi simili e la sete cronica, fame e sete chimica, un tripudio di stimoli di quei giorni che in molti chiamavano di gloria. Ma era solo: coi finestrini abbassati, le guance agitate dalle sue stesse grida di selvaggia gioia, che si facevano sorde incontrando il flusso controvento delle correnti notturne penetranti nel veicolo, si sentì un re indiscusso del buio, seduto a precipizio sul motore caldo e l’incedere di una Techno multicolore, gravida di luci e momenti portati con sé come pastiglie d’adrenalina da rave e serate che non finivano mai veramente.
Lui era Punch, sveglio alle ore in cui meglio era attivo, il sangue impazzito, quasi desideroso d’uscire. Le puttane, le aveva viste, vivevano come animali randagi dall’altra parte di un cancello sul lato sinistro. Un ampio cancello, un palazzo alto, turrito di silos e magazzini dislocati negli ettari. Castello morto di campagna. Ratti chiamati zoccole e donne notturne sedute in attesa, un intera famigliola di quelle. Peggio dei funghi crescevano e si moltiplicavano abbarbicandosi alle sporgenze, alle linee di confine tra la campagna e le costruzioni. Ma erano abbandonate: per questo venivano loro ad abitarle, avendo dentro un istinto per queste cose, più efficace di quello degli uccelli che nidificano nei ruderi. Ma tutto questo Punch non lo pensava.
Punch pensava a poche cose. Una cosa la pensava con lucidità estrema, terrificante se paragonata a tutto il resto. Una filosofia si annidava sotto gli strati di gel, che libidinoso si squagliava in riflessi argentei rinsecchiti tra le crepitanti ciocche rialzate dei capelli, un pensiero complesso era custodito dal massiccio capoccione sporgente e leggermente abbronzato: cercare i luoghi immondi; sfrecciare attraverso le strade, per bucare il suono fievole preesistente in questi anfratti desolati vicinissimi alla città; penetrare, irrompere, immettere se stessi in questo mondo diverso, inseminarlo; scoprire un luogo sempre più putrido, sempre più in disfacimento a ogni esito della propria caccia notturna, e qui contrapporre allo squallore un massimo godimento. Punch credeva, in termini molto semplici e poco verbali, che la sua missione su questa terra fosse quella di raggiungere un apice di piacere, ottenibile più intenso e fulgido di un rarissimo tesoro soltanto dove il mondo si manifestava marcio, noioso, abbandonato. Non era il degrado a eccitarlo, ma solo la sua giustapposizione col momento del piacere. In questo, Punch era contento di stare al mondo, di essere nato proprio in questo mondo, dove torme di puttane si riproducevano a spore o mitosi o chissà quale altra merdata in tutti i peggio postacci dello schifo di città, di campagna immonda ai margini. I fanali, quasi amplificassero le grida dentro di lui e i palpiti del torace robusto, qua e là occhieggiante tra i bottoni della camicia gialla, si frangevano sporadicamente in striature su una fluttuante nebbiolina d’umidità, e l’attraversavano profondendosi in tigrature lungo i fossati pieni di immondizia sparpagliata, erba alta, rami aguzzi tentacolari, animali investiti, cartelli stradali trespoli di civette.
Fuori, s’udì stridere dai finestrini in movimento e trafiggere il buio tranquillo un richiamo inconfondibile. La macchina smetteva d’accelerare solo all’ultimo, doveva frenare, annunciarsi. Spaccare il suono preesistente, chiamato silenzio o chiamato quiete, chiamato grilli e lontanissimi irrigatori sulle linee sinistre dell’orizzonte, con quegli alberi d’ombre stampate su altre ombre che sporgevano come spettrali e vive dita. Su quelle linee distanti, respirava piano l’erba impaurita. L’acqua accarezzava quei fiati, profumandoli di frescura piena di piccoli anfibi, mischiandosi a tratti con un odore di concime da campi ancor più lontani.
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Videro i fanali ruggire. Videro l’avvicinamento di una bestia notturna e si alzarono, quelle di loro che erano sedute. Lei, in piedi per prima, irrigidì i muscoli. Ma non c’era ansia in lei. Preparazione, studio. Amazing Grace sapeva fare la leader, meglio delle altre, quando ad avvicinarsi erano animali che lei meglio comprendeva grazie all’affinamento dell’esperienza, grazie allo sguardo verde quasi trasparente, bello e indecifrabile come due pianeti -decifrava e basta. Tempo, quanto? Dieci o quindici secondi. Una frenata raccapricciante, senza possibilità d’errore, stridula con digrignare di cigolii uno più acuto dell’altro, da far scappare via i pipistrelli dalle finestre bucate dietro di loro. Ma non dovevano scomporsi, dovevano rimanere tutte lì, all’ampio cancello, per accoglierlo. Quelle di loro che avrebbero dovuto, almeno. Lei già sapeva… un rapido sguardo alle schiere che aspettavano di poter comprendere, tutte all’erta, tutte pronte a ricevere. Una, due, tre, quattro -le ricorda tutte, Great Big Clipper Ship, Stella Neigra, Provincia Denuclearizzata, Unborn Chicken Voices, Ghost I Love The Most, Found Them All In The Blackfield… ma no, ne bastano tre, tre lei compresa. Deciso già. Loro sarebbero rimaste nei paraggi. E studiò, sotto gli strati del buio e del trucco, le espressioni, i bagliori degli occhi che ogni giorno di più, da infiniti giorni, si abituavano all’oscurità. Ancora troppi timori, troppe novizie, troppe insicure. Ma lei le perdonava. Di Amazing Grace dovevano fidarsi. Sarebbe andato tutto bene.
A un cenno della mano un folto gruppo di prostitute retrocedette nell’ombra oltre la soglia, tra i rovi e gli scalini, tra le porte e i corridoi del casale, si trasformarono in ombre dentro l’ombra e con frettoloso rumore di tacchi infine furono assorbite dal silenzio, dall’uniformità della tenebra. Occhi e orecchie e organi captanti presagi avrebbero ancora potuto avvertire le loro numerose presenze. Come gli stormi su ogni davanzale e ramo dei pini durante il giorno, come i ratti sotto ogni cunicolo. C’erano loro, in ascolto con l’attenzione guardiana degli spiriti, lì a osservare, percepire. Ma lui, quello che in uno, due secondi, sarebbe sceso dalla macchina, non se ne sarebbe curato. Per la maggior parte della notte e ancora per poco nella sua vita.
Punch scese. Vide solo loro tre, loro tre del gruppo delle prostitute speciali che popolava quella terra di confine, dopo Torre del Padiglione, custodi di quello che, tra i numerosi casali abbandonati, era il re e il castello. Già viste dalla macchina, di passaggio. Viaggi spericolati plurimultati con altri, gente conosciuta, mai sentita, gente senza nome in fondo, ma di facile intesa. Stereo assordante che univa tutti in un unico sentimento collettivo, purissimo: questa era l’immagine che Punch aveva di quei giorni. Tornato lì con obiettivo preciso, dove le aveva viste, senza conoscere altro che la loro essenziale, insuperabile superficie. Cosce e pance mezze scoperte, bronzee pelli scintillanti di squame sotto i raggi obliqui del sole estivo. Ogni buco della biancheria reticolata risalta il proprio rombo di carne, ingigantendolo, facendolo brillare d’eternità come se in ciascuno d’essi si riproducesse, microcosmica, la figura intera di tutta la carne che lì viveva e respirava e attendeva tocchi, denaro, altri tocchi, secrezioni -così la vedeva lui. Il richiamo era inarrestabile, per il corpo e anche per la singolare filosofia che portava. Scese e si scoprì per bene dalla camicia smanicata il tatuaggio sulla spalla. I bracciali ticchettarono contro i polsi, le nocche, mentre si avvicinava rumorosamente, facendo crepitare gli aghi di pino sotto le scarpe semifosforescenti. Così si presentò alle tre che avevano il compito di accoglierlo, e solo una prenderlo, avvolgerlo sui sedili in un momentaneo, febbrile sogno di squallore e controsquallore, di goduria eiaculata in un buio di macerie e brividi e animali ctoni. Fornitrici di personali inferni alla periferia della città, squisite dannazioni. E si presentarono reciprocamente.
Una cosa Amazing Grace, nel suo interlocutore, non riuscì a studiarla. Per il resto era semplice, per il resto rispondeva alle previsioni dell’istinto e dell’esperienza. Lo guardava, inclinava le labbra e la lingua, socchiudeva gli occhi. E lui certamente si eccitava pensando che quello sguardo e quello studio significassero altro, un significato prefabbricato, privo di dubbi e timori.
-ma come fate a vedè qua?? Meno male che ho lasciato i fari accesi.
Infatti aveva lasciato i fari accesi. E gli sportelli aperti, e la musica accesa. Nella vegetazione oscura le orecchie degli animali si drizzavano, o si ritraevano come timide erbe intirizzite per non distruggersi. Il volto di lei fluttuava perlaceo, ora giallo ora bianco per il passaggio d’una nebbia quasi tropicaleggiante nella notte estiva umida e calda. Quello che non riusciva a capire era se la sua scelta di recarsi proprio lì, tra tutti i posti, fosse dovuta alla loro fama. Prostitute speciali. Si possono incontrare solo lì. Ci sono dimore speciali, con dentro un’anima speciale. Servono mani particolari, gambe particolari per interpretare, con devozione di sacerdotesse, il volere di quest’anima che attende, riposa per lunghe ore, dai pomeriggi trafficati di macchine che ignorano e non si fermano mai, al fondo più fondo delle notti d’intensa caccia e proficua clientela -cioè quando le macchine che smettono d’ignorare. Loro erano quelle speciali, presso cui si recavano coloro che ne avevano sentito parlare. A sentire la musica nascosta nei loro nomi, a godere dentro l’ombra che tutto assorbiva il mondo dei casali abbandonati. A diventare essi stessi la periferia degradata.
-io sono Punch!
-io sono Amazing Grace.
Punch annuì. Non smetteva mai di sorridere, denti ora scoperti ora frementi sotto una grassa linea di labbra e baffi radi, congiunti a una barba geometricamente intagliata sul contorno degli zigomi, in probabile conformità a una moda di allora -di certi ambienti, pensò la prostituta.
-tu sei Amazing Grace.-, ripeté, annuì, sbagliò pronuncia. Le altre due che erano state chiamate, destra e sinistra, si avvicinarono. Il loro compito era quello di restare a guardare la strada, il nero fondo della strada, ferme ai pali estremi del cancello, mentre loro due nella macchina si lasciavano assorbire dalla canzone nera della campagna -perché era chiaro, lui avrebbe scelto Amazing Grace. Chiaro a tutti e quattro i presenti nella scena. I quattro visibili. Vibrisse e orecchie fremevano intanto ricettivamente nei contorni nel mondo. Dentro i buchi, dentro ogni cavità delle case fatiscenti e dei tronchi caduti. Dita di prostitute e animali loro protetti aggrappate a pareti e nascondigli.
Salutò comunque le due scartate, le due belle che avevano compito di sentinella, o di qualcosa di misterioso e diverso. Non l’avrebbero detto, erano ragazzine, devote alla privacy.
-siete giovani voi!
Annuirono. Si avvicinarono, entrambe al lato sinistro di Amazing Grace. Sigarette rapidamente afferrate tra dita lunghe, esposte al fascio di un fanale al cui interno polvere e nebbia vorticavano simili a biancastra effervescenza medicinale. Impassibili, ma non fredde. Materne, o sorelle, famigliari insomma. Quella mora e bassa, con la testa un po’ quadrata e le gambe più grosse, s’appoggiò teneramente al gomito piegato dell’altra, che rispose con un semplice mezzo abbraccio al fianco scoperto, biancheggiante nel buio e carnoso sporgente dal corpetto in lattice nero.
-forse ci conosci e sai chi siamo e cosa facciamo, allora saprai che tutti i nostri nomi provengono da frasi, pezzetti di canzoni. Loro sono…
-ah, lo so sì che fate! Secondo voi perché sto qua?
Anche Amazing Grace fece per accendersi una sigaretta. Attendeva che l’altro smettesse di non ascoltare.
-fumi?
Punch prese un bastoncino, non gli piaceva farsi pregare. Ma sì, conversiamo, fumiamo. Le allungò dal taschino giallo il proprio accendino decorato di fiamme e foglie a cinque punte.
-loro sono Microchip Emozionale e We Like Birdland.
-eh?? Microche?
-Microchip Emozionale.-, rispose Microchip Emozionale, magra e bionda, forse slava. Sguardo senza palpebre e tono imperturbabile di chi stia descrivendo il sistema respiratorio degli insetti, la morte cellulare, collisioni cosmiche. -non conosci? Anche il disco si chiama così, mi pare. Anche se io per intero sarei ‘Nuovi Attributi E Un Microchip Emozionale’. È già da qualche anno che è uscita la canzone.
-ah, ecco perché! Dalle parti mie, le canzoni muoiono subito. Conosco quelle nuove.
-è forse addirittura del secolo scorso.-, disse Microchip Emozionale, continuando a guardarlo con occhi sporgenti senza stupore, senza interesse, solo di conversazione, di momento galleggiante al cancello della dimora. Ma se avesse aperto più il suo cuore, avrebbe inserito uno stupore artefatto in quell’espressione, il secolo scorso, in cui erano nate, che era stato sigillato.
-ah, il secolo scorso.
Disse Punch inconsapevole dell’indifferenza con cui l’aveva detto, come guardasse dall’alto un pozzo quasi prosciugato e nel cui fondo, tra la polvere, non rimaneva che una sciupata polla stagnante d’acqua scura piena di larve di zanzara, patine oleose, grumi senza nome simili a guano di pipistrelli. Poi espirò il fumo, volutamente perso tra tunnel suoi personali, carnosi corridoi di proprie reminiscenze. Degne conclusioni aveva nominato certe cose, vissute intensamente, procacciate. I soldi non gli mancavano e nemmeno i capitoli nel suo personale archivio. Ma erano chiusi, e il passato e il futuro presto marcivano in lui, come canzoni fuori moda, drum machine ormai spente prima della prossima danza, prima di una diversa drum machine che attende di nascere.
-e da dov’è che vieni, Punch?-, chiese la voce rauca e adulta di Amazing Grace.
-Aprilia centro.
-ci avrei giurato.
-hahah! Se sente dall’odore, vero? O è perché so così bello che ce l’ho in faccia…
L’odore di Punch disturbava. Troppo profumo concentrato su un solo punto del collo. Collo troppo rotondo, gli spruzzi camuffanti del copioso sudore non riescono a circondarlo del tutto. Il corpo è gonfio, il corpo desidera. È un desiderio che Amazing Grace ama leggere, penetrare. Ama le persone o forse solo le cose che portano dentro. Non sorride né alle une né alle altre -e forse non ama davvero. Lascia che siano parole e gesti a far sentire accolte le anime che si fermano presso quella grande del covo, del castello. Gufi e piccioni sospirano nei sottotetti, i passi si avvicinano all’interno, oltre la soglia del cancello, crepitano gli aghi caduti lì dai pini, guardiani sulle teste guardiane delle ragazze. E l’individuo che si fa chiamare Punch è ormai dentro. È in un mondo che presto conoscerà.
Microchip Emozionale e We Like Birdland rimanevano lì. Davanti, pini speculari ai propri, e c’era un gorgoglio di ruscello tornato a luccicare per brevissimi istanti quando Punch era tornato indietro per salire in macchina, rimettere in moto arrestando così la musica. Ma era bastato un giro di chiave perché il ritmo frastornato subito ritornasse, a sconquassare, infrangere l’acqua che passa sotto la strada a un vicino ponticello.
La macchina oltrepassò il cancello, fece salire la loro amica e leader -non lo era sempre, ma nei momenti incerti lasciavano fare a lei. Non è facile, per tante ragazze senza esperienza, in quella casa. Lontana da tutto. Equidistante da tutto. Roma Latina Aprilia e Il Nulla vengono lì a fare la spesa, a rifornirsi. C’è molto liquame, molta sostanza nera della notte da dare loro, in lirici idrotecnici orgasmi. Dovevano in fondo sentirsi orgogliose, le due al cancello. E davanti a loro, oltre il lato opposto della filare di pini, gli stessi campi, osservati con aria di sentinelle quello stesso pomeriggio, e altri incalcolabili pomeriggi, quando erano gialli e splendidi, campi di sole e macchie nere a becchettare nel fieno. L’estate all’inizio e le cicale poche.
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Le prostitute speciali del casale erano sveglie il pomeriggio, sveglie forse a tutte le ore. Si diceva però che non erano state mai viste di mattina. E di mattina tutto di quei posti perdeva l’influenza che cominciava a risvegliarsi soltanto dal tardo sole, dal crepuscolo, e cantava infine nella notte. Non c’era nulla, nemmeno i gridi schioccanti delle taccole, al mattino quando dalla terra si sollevava uniforme un odore di stalla, persistente come fumo di bovini evaporati. Dov’erano le abitanti? A dormire dentro gli edifici di quella villa, casale, ripostiglio abbandonato? Non era possibile sapere cosa fosse stato, per nessuno, per le macchine che sfrecciavano e per quelli che ammantati di tenebra si recavano lì proprio per veder loro, e farsi dire i loro nomi musicali e incantevoli. Ma forse in fondo si trattava d’una chiesa, d’un tempio.
C’erano anche tutte le altre quel pomeriggio. E le prostitute speciali del casale -no, del tempio- nel tardo pomeriggio di scarse cicale e bei bagliori arroventati tra i rami dei pini rossicci discutevano di certe sensazioni del loro vissuto quotidiano, in una maniera che faceva pensare stessero deliberando sul destino stesso di quell’intero mondo di provincia, di tutte le strade e di tutti i campi. Dicevano che quell’anno era forse stato raggiunto il picco storico quanto a odore di sapone e detersivo e lattice e croste di pizza che intensissimo annuvolava i margini delle strade, ammonticchiandosi sulle pile già fatte d’immondizia, impregnando ogni filo di paglia in un soffio che diventava genitore adottivo e signore del preesistente odore d’erba. E tutto questo insieme diventava nuovo odore d’estate nel nuovo ancor giovane millennio. Nascita della nuova estate, del suo nuovo odore. Oppure, si chiedevano, sembrava un picco ma si sarebbe innalzato ancora? Odori della massima importanza, odore di tutti i loro giorni. Dove c’era poco altro da fare che osservare, assorbire con gli occhi la campagna. Lasciarla galleggiare dentro sé, dove si ricomponeva in un imprevedibile significato. Prostitute osservatrici. Signore e guardiane delle taccole e delle zoccole e delle macerie. Una aveva uno stereo, ma era una un po’ elusiva. Lo lasciava per poco sulla sedia da scuola elementare lasciata là fuori, quella più vicina al confine dell’asfalto dove si andava a sedere chi voleva farsi vedere per bene, in quei momenti in cui serviva che qualcuna lo facesse. Invece quando non passava nessuno era la sedia della musica, per poco. La puttana osservatrice elusiva, You Won’t See Me, eccola che riprende lo stereo quando si è stufata e sparisce. Una borsetta nera di plastica e ingranaggi da cui escono lavorii meccanici e Rubber Soul. Amazing Grace, com’è dolce il suono, equanime e pensosa con lo sguardo di folte sopracciglia sui campi e gli aironi, trovava che il disco non si sposasse molto bene con la campagna a quell’ora, ma non diceva niente. Saggezza che misura parole dandole un’importanza e un potere che potrebbero anche non avere, non qui in questa quiete e assenza. Ma lei sceglieva di conferirglielo. Sentì rantolare la casa dietro la schiena, dal profondo di una sua stanza tutta nera, perennemente nera, in quella lingua nascosta, sia timida che imperiosa. Rantoli dicevano che si fidavano di lei, dicevano di accettarla e capirla nelle sue decisioni.
Quella notte si sarebbe presentato uno strano tipo. Una notte molto solitaria, una notte unica all’interno di un ventre ancora invisibile, squarciato di anno in anno. I primi dieci anni del nuovo secolo avevano poche notti così. Lei, Amazing Grace, tra le molte che percorrevano quel suolo ed entravano lì, diventando prostitute speciali, l’avrebbe visto, avrebbe vissuto. Avrebbe tenuto i ricettori ben aperti, per carpire l’essenza di qualcosa che già da qualche giorno sentiva nuotare sotto un’enorme superficie di tutto quanto si vedeva nel mondo. Sotto i campi una presenza, una cosa complicata perfino per lei. Una cosa che nuotava uscendo anche dai confini del fiumiciattolo, nuotava sotto la strada. E solo gli sbuffi, riduzione della riduzione della riduzione della sua profonda essenza, potevano arrivare in superficie, e qui devastare, o risparmiare, o decidere il tutto dei vivi e dei morti. Questa la sua sensazione. Questa la tensione, totalmente controllata e asceticamente accettata, così simile a quella di quando i suoi tacchi arruffavano l’erbetta di campagna. A un’ora sconosciuta che nessuno vedeva, da sola si recava alla postazione, attraversando i campi vicini, e svoltando un angolo vedeva levarsi in volo tra le gazze disturbate dai passi un enorme airone, presagio a sua volta di qualcos’altro. Della sua stessa ombra che si avvicinava o di qualcosa che sarebbe uscito dai cespugli di rovi, nascondenti parte di ciò che stava oltre la svolta da prendere per recarsi al cancello, raggiungendolo dal terreno e non dalla strada. L’asfalto nero si profilava. Presagi, ombre sue o del mondo intero. Cosa c’era oltre gli angoli? Clienti, demoni di questo languore che investe gli uomini; un assassino magari, un pericoloso predatore a ogni svolta d’angolo e cespuglio; una nuova ragazza, una nuova canzone da aggiungersi alla playlist del loro essere speciali, della loro osservazione, nuova inquilina di quel bordello senza civico e senza porte; o forse nulla di tutto questo riusciva davvero a incarnare del tutto il messaggio che da là sotto proveniva, e che lei, giurava, avrebbe almeno provato a scoprire. Conscia dei suoi limiti, superiori alla media dei vivi e dei morti. Amazing Grace schiacciò una sigaretta sotto il tacco nero, la spinse fino a farla assorbire dal suolo di paglia. Il tabacco decomposto entrò nel flusso di sapone e farina e liquame, il flusso odoroso che aveva raggiunto il picco dei suoi tempi, forse. Un pomeriggio dell’estate 200x, tormentoni danzano sinusoidalmente da altoparlanti che diventano eco nella distanza, diventano mare, diventano silenzio e infine piagnucolio acquoso di vicini gruccioni e insetti campestri, abbarbicati a innumerevoli steli. Si sentì per pochi minuti aria di fieno.
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Quella notte. Punch aveva le gambe piegate fuori dallo sportello. Sdraiato male sul sedile, la testa sulle gambe di lei. Una forza lo risucchiava laggiù in basso, una ventosa che voleva avviluppare la sua testa. Un mal di testa strano ed euforico, come non reggesse l’ebbrezza, gli tirava la pelle della fronte, un soffio gli attraversava verticalmente la testa e con gli occhi più spalancati del solito riusciva a vedere le stelle, di là dal parabrezza, e qualcuna sotto l’arcata dello sportello aperto, incastonate tra sagome frastagliate d’alberi e scheletri d’edifici. Altri edifici in abbandono che diventavano sagome spettrali, un vicinato di ruderi rurali, svuotati, cimitero che sembra nato così. Le stelle, per la prima volta da che ricordava, erano numerose. O forse non aveva mai guardato in su, dove non poteva trovare, dove non c’erano giustapposizioni di sporco e goduria.
Amazing Grace lo accarezzava senza trasporto, lo ascoltava. Parte del lavoro. Parte di qualcos’altro, che non sapeva bene nemmeno lei. Che lei non lo sapesse, però, le altre ragazze non lo sapevano. Non l’avrebbero sospettato mai e non l’avrebbero chiesto. Amazing Grace carezzava le conformazioni cheratinose e rigide, vitree nel frantumarsi, dei capelli imbrattati di Punch. Che pareva guardare le stelle tra un respiro affaticato e l’altro, che si riposava, la camicia aperta per opporre al cielo e al tetto dell’auto un gonfiore intermittente di pancia patinata da un sudore sottilissimo e uniforme. Quasi secernesse un liquido speciale con cui avvolgere il corpo prima di esplorare i corpi altrui, sintetizzato da cellule di collaudata capacità d’adattamento. Le dita lunghe di Amazing Grace raccoglievano un po’ di quella sostanza rara, vischiosa ma soffice come pelle di neonato.
-che guardi?
-niente.
-che c’è là?
-ma niente. Mi chiedo se le ragazze stiano bene.
-parono brave. Siete tutte amiche qua, ve’?
-sì.
-mejo così. Se non siete amiche non lavorate bene.
-ne sai molto.
Punch rise, rotolando la testa sulla gonna. Senza esitazione inspirò a fondo l’aria che cambiava odore attorno a quelle parti basse, ne risucchiò come nettare la fragranza in un concerto di mucose deliberatamente esagerato proprio per sottolineare la ghiottoneria.
-com’erano? I nomi. Matrix…?
-Microchip Emozionale, We Like Birdland.
-e tu… scusa, eh…
-niente. Io Amazing Grace.
-aaah, scusa ma coi nomi inglesi… c’avevo tre a inglese!
-mh.
-te invece me sa che eri brava. Perché fai la puttana?
-e questo che significa?
-non ho mai visto una puttana così intelligente!
Amazing Grace smise di accarezzarlo. Nessuna offesa. Rifletteva attentamente, la mano ferma su una tempia, a esaminarla a fondo: Punch era uno che quando diceva “intelligente” intendeva “colta”. Questo riusciva a capirlo bene. Ma aveva l’impressione che ogni volta che riusciva a capire qualcosa, qualcos’altro sfuggiva. E il cervello le vorticava dentro le orecchie, sollevando un ronzio esasperato, tanto più che le sembrava il tipo più semplice, l’animale più artificiale e prodotto in serie che potesse emergere dalle ombre di una notte languente di desiderio, incontenibile e incontentabile desiderio di tanti disperati sotto luna e stelle. Sotto ciascuna di quelle stelle che si vedevano, si accendevano quando le macchine sfrecciavano soltanto nella lontananza, di altre campagne limitrofe…
-perché dici che sono colta?
-parli strano pe esse na zoccola.
-parlo strano, eh…
-te andavi bene a scuola? Hai studiato?
Tacquero per un po’ entrambi. Grilli e un assiolo, presto spento. Pareva di vederlo spegnersi come una lucina. Due fiamme puntiformi, occhi di sigaretta, presso un cancello vicino. Due ragazze brave custodi.
-sì, mi piace studiare.
-e infatti. So bravo a legge la gente.
-e a scopartela.
Punch ride forte, incoraggiato, aizzato. Risponde a impulsi semplici. Ma lo fa in maniera… complessa? Punch è indemoniato, Punch corre quaggiù spinto da una sete tale, una brama così profonda e fondamentalmente triste da condurlo nel covo delle prostitute speciali a sua stessa insaputa. Punch sarà forse un bravo ragazzo? Dietro strati di animale. Amazing Grace non ragionava in questi termini, di solito. I bravi ragazzi, i cattivi ragazzi, qualcosa di lontano dal suo mondo quotidiano. Dove nuovi odori si accumulano ai margini delle strade. Dove all’orizzonte spuntano nuove luci. Città spuntano come da un micelio sulle superfici dei colli e al mare, nella campagna, dentro le città stesse. Dei ragazzi esistono solo i corpi, che lei tocca, fanno uscire soldi che servono per vivere, raccogliere con la mano lunga le confezioni, cioè entrare alla Crai, assorbire l’illuminazione candida di paradisi disinfettati di scaffali, stracciare scontrini appena usciti, sentir tintinnare carrelli, trascinare una spesa al covo, ricominciare. I corpi che si toccano non hanno morale, i corpi che si toccano sono solo di passaggio, fame e sete di passaggio che sfrecciano per arrivare e poi sfrecciano di nuovo per cercare il mare e le spiagge di notte piene di fumi e bottiglie e canzoni, discoteche all’aperto di sabbia e acqua. Flussi sfreccianti non sono altro che effimere perturbazioni sulla strada che rimane la sola, unica e importantissima cosa da osservare. Tutto s’ammucchia attorno a lei. C’è un amplesso di sterpi e pini e cicale e superstrada vicina, e fiumiciattolo avvelenato che gorgoglia alla prima svolta, ed edifici graffitati e fotografati dagli artisti selvatici, e palazzi dai mille lucenti occhi fluttuanti oltre miglia di poderi e boscaglie.
-le femmine so brave a filosofia, vero?
-scusa, ma non capisco cosa vuoi dire…
Punch non retrocedeva, lui non percepiva nessuna forma d’astio dalle risposte e gli atteggiamenti di Amazing Grace, fraintendibili come freddi. Forse era davvero capace a leggere gli altri, o forse era tutto casuale. Forse era questo il punto: tutto casuale. La corporatura grassoccia, la camicia, i jeans corti strappati, la polvere di barba, gli occhiali da sole arancioni, i capelli, la loro somma, la somma con le parole e gli atteggiamenti e con tutte le macerie di nondetto che, così pareva a lei, come una massa senziente di polvere calcava contro le porte di uno sgabuzzino barricato con sforzo perfino irrazionale. Non le sue parti, era l’insieme a essere casuale. E le sue domande, che anche casualmente sembravano dirigersi da qualche parte.
-dimme una cosa filosofica.
-mah, tutto lo è…
-vedi che sei brava! Ma te ce paghi gli studi?
-forse.
Punch sorrise senza chiedere altro, tornando alle sue attività là sotto. Punch lo scrive come “pugno”, lo scrive nell’inglese che non conosce sul suo tatuaggio che ritrae un pugno, ma afferma che il suo è il nome di una bevanda. Parola sanscrita. Panch, in numero cinque gli ingredienti. Come le dita. Lo accarezza con le cinque dita, cerca le cinque dita di lui. Lo accontenta con qualcosa che le viene in mente.
-i preta sono trapassati, questo è il loro nome, ma in realtà sono spiriti che soffrono perché non vengono mai saziati. È la condizione in cui il karma precipita un’anima, quando l’esistenza umana è stata un vicolo cieco, permeato soltanto dall’avarizia.
Punch accontentato nella precedente richiesta inalò dalle mutande l’odore, senza chiedere permessi. Ogni richiesta, esplicitata o meno, compresa nel pagamento. Anche guardare le stelle della periferia per la prima volta.
-visto che sai tutto, sai che ho sentito?
-no.
-te conosci bene Aprilia?
-fammi una domanda alla volta.
-no aspè, guarda che c’entra. Aprilia, ho saputo che era na palude!
-in realtà solo qualche zona era parte delle paludi pontine. Ma questo lo sanno tutti…
-io no! C’avevo tre a geografia.
-si fa ancora geografia a scuola?-, chiese Amazing Grace, insolitamente sorpresa. Punch si stiracchiò per tirarsi su, voltarsi, guardarla con aria dubbiosa. Contò i denti che imprimevano la forma sotto le labbra chiuse, pareva quasi di vedere la fessura abbastanza notevole tra gli incisivi. Nella notte riflessi rossi sui capelli neri e squadrati in tende lisce e perfette. Amazing Grace era bella, il suo volto era la sintesi di tutte le puttane, pensò Punch, scoprendo in sé questo brivido religioso, panteistico. Si guardarono così, il volto di lei sopra il suo, un lato del cielo che non aveva ancora visto. Sostituiva la luna.
-mah, forse no. Tanto c’avevo tre a tutto.
Punch ebbe quasi l’impressione di sentirla ridere, un singhiozzo di ironia pudica concesso alla sua affermazione. Si accorse che la musica era spenta. Scricchiolarono ossa e grinze di pelle sintetica del sedile, lasciò che il battito ricominciasse a vivere dalle casse, così forte da smuovere i peli e anche la paglia fuori. Perché no, musica con lo sportello aperto, parcheggiati nel cuore del buio. Battito che si profonde tra scie luminose di elettronica acida, sempre più minimale, note singole e gutturali sempre più sostituite dal puro ritmo, il puro movimento. Radio senza interruzione del buio prima dell’alba. Dissolse un groppo in gola. Lei aveva riso, e lui aveva avuto un fastidio. Rispondeva ai fastidi inguinali intensificando insieme il dolore e il godimento, metteva dolore su dolore, infiammazione su infiammazione finché non spariva, spargendosi sull’intera rete dei suoi nervi sottocutanei e tramutandosi in inebriante calore. Conosceva i rimedi. Ma non a certe cose.
Aveva riacceso la musica per coprire un lamento strano, della campagna là fuori. Rimase seduto, le mani incrociate al petto, gli occhi semichiusi sul muro di tenebra, acceso solo in due minuscoli tizzoni. Giovani ragazze fumatrici sorelle di un patto inaccessibile ad altri. Steli lunghi e premurosi, imbevuti di una frescura umida della notte estiva, carezzano loro le gambe scoperte. Insetti vivono lì, vegetazione che non sta mai immobile e creature evanescenti vivono lì. Punch aveva alzato il volume per sovrastare un verso stridulo, acquatico e polmonare, che si era levato dalla direzione del corso d’acqua, verso la SS ai confini del mondo. Suono maledetto che l’aveva fatto respirare, per brevi istanti, in un mantice d’affanno e un sudore che cambiava la sua composizione, raggelandosi. La patina sulla superficie del corpo vinceva il calore dentro il nucleo del corpo. Seduto, fece una richiesta -compresa nel prezzo- tenendo il collo inclinato sullo schienale. Non ricordava come mai la musica fosse spenta, perché avessero parlato per molti minuti senza ritmo, senza rimbombo che addomesticava il cervello e le sue stranezze. Doveva aver urtato nella foga un pulsante, con almeno dieci sue parti del corpo, che amava ritenere molto grandi ed efficaci agli sforzi cui ambivano. O magari era stata lei. Sì, forse aveva allungato una mano sotto il caos dei corpi, per far tacere tutto, mentre lui era attraversato da furie e infiammazioni e non sentiva altro che sangue bollente, assenza d’ansia. La musica uccise i rumori spaventosi. Punch, pugno e intruglio notturno, non aveva mai avuto paura della notte. Mai. Solo in campagna, in quella campagna, poteva succedere.
-però è strano!
Urlò, per farsi sentire sotto il caos che lui stesso aveva portato per non sentire.
-cosa?-, chiese lei, concentrata.
È strano, sì, era strano. Punch pensava alla palude. Lo spiegò anche a lei, lo spiegò facendosi capire a tratti, messaggi confusi che strisciavano sotto le onde sonore. Qualcuno in una radio nel nucleo del mondo sintetizzava con mani e tentacoli le musiche del millennio, così felice di essere nato sottoforma di un anno con tanti zeri, e allora celebravano, lo facevano incarnare in quelle vibrazioni, il 2000 sarebbe stato un’eterna notte di luci viola e rosse e gialle della zona litoranea, di quella che -Punch lo apprendeva adesso come uno scolaretto-, era stata una sconfinata pozzanghera ribollente, rigogliosa degli stessi canneti che sopravvivevano ancora ai margini delle barriere di ferro reticolato attorno ai parcheggi dei supermercati. I vaghi deformi pensieri da cui si generavano quei messaggi, urlati verso le inafferrabili orecchie di lei schermite dai capelli geometrici, venivano sintetizzati in una simile cantina, i pensieri di Punch erano software per Hardcore e Minimal, in cui forse s’intrudeva virulento un fantasma. Le disse che non sapeva della palude, o che forse l’aveva dimenticata, e riappresa di recente. E si era sentito -non lo disse, ma Amazing Grace si sentiva presuntuosa e lo disse lei a se stessa- quasi rimpicciolito, incapace di continuare la sua vita attuale. Perché uno piccolo non può andare in certi posti, non sa cosa sia il piacere di avere venti o trenta o perché no anche quarant’anni in quel periodo, uscito con rumorosa gloria dalle fogne di un secolo. Liquami e saponi da quelle fogne scivolavano schiumando fino ai tacchi delle scarpe di lei, quand’era seduta su una sedia scolare, affacciata alla strada con una gamba mossa come un’esca per i banchi di volti anonimi, opacizzati dal vetro e la fretta che ne deformava i tratti, le individualità -tutte trasformate in velocità e clacson, a perforare barriere sonore. Lei credeva di capire e completare le frasi di lui, anche non sentendolo, anche divenendo sorda a ogni colpo di cassa. Stava lavorando, e intanto lo ascoltava, lo completava. Parte del lavoro, no anzi, del ruolo. Le due cose erano separate, per questo erano prostitute speciali. E perché gli aveva risposto “mah, sarà”, quando lui le aveva forse detto che era meglio così, era meglio che la palude fosse stata cancellata completamente. Ma che voleva dire, quella cerebrale di una troia? Non era vero che era meglio, o non era vero che era stata cancellata?
-non ci capisco un cazzo io, di puttane intellettuali!-, questo lo gridò chiaramente, lo cantò, gemette, salmodiò, tutto insieme. Un coro di se stesso, un tifo. Mai stato allo stadio e mai votato, nemmeno per chi simpatizzava, ma una vittoria ai mondiali o alle elezioni sarebbe stata bella, perché no. Bastava celebrare qualcosa.
Era meglio che ci fosse sviluppo, che le zanzare finissero ammazzate. Costruzioni, edifici. Margini. Qua finiva la SS, qua cominciava la campagna, qua la civiltà, qua finiva il giorno e c’era la notte, mondo della veglia, delle prede adatte. I bassifondi e le discariche, le campagne inquinate sotto gli sguardi fumiganti delle industrie. Discoteche e casali, e casali abbandonati e ristoranti aperti di notte con putrefazione di molluschi che fermenta dai cassonetti, tutto ciò una sola catena fino alla costa e gli stabilimenti, l’estate non finiva, la notte non finiva, quell’anno non finiva e non sarebbe finito mai, ci avrebbero pensato Punch e mille altri come lui a prolungarlo nei suoi secondi più intensi, negli orgasmi e nelle infiammazioni genitali, nel crescendo ritmico e la pausa prima della danza finale, di piedi a percussione sul suolo di un’apocalisse imminente e salutata con vigore, i pensieri tramortiti dal frastuono. Tutto, l’inizio e la fine, tutto compreso in queste cose, lampi nella mente e suturati alla carne, sempre con sé. Un mondo così galleggiava sulla città, sullo sviluppo. Costruire, approntare rete di illuminazioni che s’estendono per tutto l’Agro Pontino, percorrendolo ondulate anche nel costeggiare i boschi di querce che protendono sinistri rami sopra i fossati ai lati della carreggiata. Ma lì e nei posti simili, dove non c’era l’elettricità c’erano i fanali e le casse, una vita che non s’arrestava mai attraversando l’asfalto. Serviva costruire. Tu costruisci, vero, aveva chiesto lei. Un anno d’ingegneria, un esame dato, lasciata stare. Perché aveva tre a tutto, scommetteva lei. O forse perché c’era poco da ingegnare e costruire? C’era molto più da cercare nella periferia della vita, la periferia del giorno. Soldi ne aveva abbastanza. Tutti ne avevano abbastanza. Sarà, aveva detto lei. Sotto i tacchi e sotto le ruote, sotto la paglia e sotto il suolo, qualcosa s’agitava, minacciava esondazione.
Raggi di luna strisciarono da chissà dove, riuscendo infine a infiltrarsi dentro la macchina di Punch. E il suo corpo grassoccio con le mani incrociate alla bocca dello stomaco divenne perlaceo, e Amazing Grace per la prima volta, da chissà quanto, sentì risalirle dal ventre alla testa la calda e obnubilante fanghiglia dell’incanto, addormentata in un fondo nascosto per lunghi mesi, forse anni di attesa. Quasi ricordò una scena lontana: lei sola, ragazza, un casale abbandonato -abbandonato da sempre, nato abbandonato- dietro la schiena. Mandata da qualcuno, senza potere, senza esperienza, senza nemmeno scarpe di ricambio. In piedi su una radura di paglia, a guardare i campi, come quelli che aveva visto dai vetri decorati di sagome di rondini della sopraelevata. Aveva tanto camminato. Teste d’uccelli, come uccelli di sogno o di un quadro metafisico, si levano dal colore omogeno dell’erba secca, e l’accoglievano, e le dicevano: guarda la palude che vive ancora nelle ombre nostre. E quell’incanto, lo stesso incanto del suo primo giorno che ebbe destino di consumarsi sempre più giorno dopo giorno fino a sopravvivere ridimensionato soltanto nel suo sapere freddo e segreto, le veniva adesso resuscitato da un certo Punch, quell’ammasso di libidine e malessere, quella camicia aderente alla ciccia di forma gasteropode. Esisteva la luna, allora, esisteva un mistero, allora. Affiorò nel mare scuro della coscienza di lei quel grosso viscido continente di non detto che aveva intuito, un presagio indefinibile per tutta la notte che lo faceva profilare sul mare scuro di lui in rotta di collisione. Ed eccolo: questo individuo si bagna di luna e diventa una visione, bella e innocua. Galleggia nel latte lunare: un bambino grosso che è stato condotto qua dal suo corpo per cercare una sicurezza in cui rannicchiarsi. Punch non sta bene e questa notte se ne accorgerà. Lui che pensava di essere tra gli ultimi a doversene accorgere.
Amazing Grace comprese il suo ruolo.
-vuoi una birra?
-che, c’avete pure un frigorifero dentro la casa scassata?
-forse.
Un’ombra di sorriso su Amazing Grace. Punch sfarfallò la luce interna dell’abitacolo, per guardarla meglio, per giocare. Le sopracciglia di Amazing Grace, how sweet her sound, erano folte, peli sparsi le raggiungevano circospetti la fronte. Un neo vicino alla base del naso era un’autentica medaglia di cellule morte al suo valore di soldatessa del piacere. E il valore aumentò quando con la punta della lingua, per scacciare un prurito, si leccò quel neo come a cancellare con la saliva il concetto stesso di valore e di medaglia, bellissima troia di cervello che viene a completare lui, svuotandosi d’ogni intenzione o emozione leggibile, formica regina delle altre troiette più giovani e coi nomi robotici. Punch le accarezzò un braccio come s’accarezza con la punta d’un dito il display verdino di un MP3 su cui scorrono le lettere digitali di un titolo. Gradiva la birra, certo.
-ti ci metto dentro qualcosa. Va bene?
Amazing Grace era onesta. Punch avrebbe potuto andarsene, se avesse scelto così. Ma sapeva che non l’avrebbe fatto: la notte prendeva forma, una forma che doveva prendere (come una scena che si anticipa di là da una svolta, un presagio che si alza in volo da un campo…). E Punch, onestamente, rispose con un verso tribale, ancora un’altra celebrazione. Erano onesti entrambi. Lui l’aveva informata, a tentoni, della sua filosofia. Goduria squallida, squallore religioso.
Amazing Grace si sgranchiva le gambe. Punch sul sedile di guida, piedi sul cruscotto come due palette segnalatrici biancheggianti nella luce lunare (da dove veniva la luna?). Allontanandosi da lui si voltò e lo guardò, si voltò e vide la luna. Ecco dov’era, sopra il casale, emblema circolare. Aveva visto abbastanza. Si voltò di nuovo, tornò al lato delle stelle. Verso il cancello. Tocchi d’amore a Microchip Emozionale, a We Like Birdland, sentono freddo. Sono piccole, sentono ancora freddo, anche in estate. Stanno facendo amicizia con questa umidità.
-hey, hey…-, sussurrò, avvicinando con premura la testa tozza e capelluta di We Like Birdland ai suoi seni conici. L’accarezzò. Avvicinò l’altra con l’altro braccio, in tre per qualche secondo tra i grilli, tra le luci stellari e lunari in conflitto sulla notte.
-senti? Si sente una rana.
Ascoltarono per un po’ la rana.
-grazie.-, disse Microchip Emozionale. -sei tanto buona.
Amazing Grace non era lì per i complimenti, e loro lo sapevano. Da una tasca trassero una pasticca a testa, strane pasticche. Questa sostanza era sintetizzata, in gran segreto, in un laboratorio sotterraneo, protetto da gelatinose pareti di Fango primordiale. Un laboratorio che esiste solo nel profondo della notte, che riceve i rimbombi dei rave party in superficie. I suoi prodotti e liquami emergono fino in superficie e lì vengono raccolti, la festa è in perenne contatto e flusso con gli inferi suoi nascosti. Le città e il loro sottomondo. Questo pensò Amazing Grace ricevendo quei farmaci dalle mani delle ragazze giovani che li ricevevano da uomini orrendi, dotati più che d’ogni altra cosa di denti regolari e scoperti, affabili, dilaniatori d’ostriche. I denti della loro amica erano diversi. Guardarono quella compassionevole e immensamente fredda genitrice con un misto di gratitudine e vergogna, quasi lacrime negli occhi consumati. Lei sottraeva loro, soltanto un po’ e senza la prepotenza di farlo ogni volta, il peso di quella dipendenza. Lei conosceva quella dipendenza, conosceva le loro difficoltà. Per questa sera non si sarebbero procurate capogiri, con miscugli sospetti raggrumati in forme ovoidali, d’un bianco fin troppo sospetto. Erano sostanze destinate a qualcun altro. Trasse le birre da un cespuglio, refrigeratore del casale. I rovi gliele cedettero benevoli, prendendosi solo una goccia di sangue come pegno. E come spine sui loro arti, tentacolari e lunghi e inghirlandati, i secondi si susseguirono, le scene al loro interno ---------
------ Le uova si scioglievano bene sulla lingua avvezza di Punch, effervescenti Brioschi dell’ombra. E la sua curiosità, effervescente per la strana forma delle pastiglie, e il sapore, ah ma la conosco bene questa, aveva detto, solo la forma è diversa, le cose oggi si fanno in tante forme diverse e stessa sostanza. Era vero, annuì lei, era perspicace il suo Punch -che veniva dalla città, che veniva da dove si costruivano e sintetizzavano le cose. Punch un giorno emerge da Aprilia, nota palude, per incontrarla in un’altra palude d’abbandono adiacente la SS, emerge come un fossile, una conchiglia antica ritrovata nel presente, camuffata di presente perfetto. Viene dalla città costruita, da dove si sintetizzano le musiche, le droghe, l’andamento del presente. Il sapone e il detergente e il liquame e il sapone che ribollono facendosi respiro ai margini delle strade. Il presente che conduce al futuro. Quest’anno il picco del benessere e dei suoi scarti, più ci sono scarti nel mondo nostro più c’è benessere nel mondo altro, nel centro nevralgico della creazione -così dicevano le brave e sensibili puttane del casale fatiscente, quando in termini sensoriali, densi d’un profondo rispetto per il quotidiano, dibattevano sulle sorti della provincia centritaliana, della provincia del ventunesimo secolo. Punch nasce laggiù, Punch sfreccia quaggiù -perché solo sfrecciare sanno- per aggiungere altro benessere al suo benessere. Sarà che questo benessere non basta mai? Sarà che Punch non sta bene. Non prima di aver ingoiato due uova effervescenti, sostanza che conosce bene. Non stasera, no, stasera la stessa identica sostanza, banalissimo immunizzato farmaco da rave, diventa qualcos’altro, perché è nella palude appena scoperta che lo sconvolto Punch si è recato, perché è nel cuore dell’incubo che si addormenta. E Punch si addormenta sul sedile, per il resto della notte, ultima spina del rovo.
Punch cadde addormentato, cadde rumorosamente. Il petto palpitava in maniera allarmante. Il ragazzo avrebbe avuto problemi cardiovascolari in vecchiaia, la pelle del suo tondo ventre era sottile, fremeva, membranosa e fragile. E il respiro s’era fratturato in terzine di profondi e sofferenti gemiti, mentre la paura si raggrumava bianchiccia ai lati degli occhi dilatati, offuscati da un sonno impercettibile, e generava sporche lacrime liberate da una lunga clausura. Punch viveva d’alterazioni chimiche, manipolava i loro corsi dentro il cranio. Ma lì c’era qualcosa di strano, lì in quello squallore solenne e diverso dagli altri. Perdeva controllo, perdeva velocità. Il sonno era la cosa meno adatta al suo corpo, il sonno era il principio più opposto all’accelerazione.
Un suono: prima di tonfare con tutto il corpaccione in un Fango nero, senza nemmeno accorgersi del confine tra veglia e sonno, aveva udito ancora una volta il verso di un uccello, di un rettile, di un presagio.
…
Non capiva se fosse caldo o freddo. Respirava dalla pelle. Era importante capire questo, prima di tutto, prima di cominciare a muoversi: cos’era quella sensazione, in cosa era entrato il suo tatto? Gambe in qualcosa come acqua, forse. Ma il resto era un’aria troppo densa, troppo fluida e onnipresente in maniera omogenea come un’ossessione dell’atmosfera, per poter essere decifrata. Caldo o freddo, entrambi. Le ossa già uccise per un assideramento intracorporeo, la febbre e le vampate perché una melma pervasiva soffocava, abbracciava e restituiva il tepore del proprio stesso disperato respiro. Almeno c’era ossigeno.
Non si vedevano le forme. Tendendo le mani avanti, nella cecità insormontabile, non le vedeva illuminarsi: nella notte sempre aveva visto qualcosa illuminarsi, in verità tutti gli oggetti aventi una sagoma, così che migliaia di piccole lune fremevano sempre sulla crosta terrestre in tante frementi appendici, tante esche che a vicenda s’attiravano i propri possessori, profondendo il gioco eterno di contatto e distacco, il gioco eterno della solitudine e d’essere al mondo.
No, nemmeno questo. Un mondo prima della solitudine, prima della fame, prima della nettezza del caldo o del freddo. Le sue mani non le vedeva, il suo corpo non lo vedeva, nulla era più bianco e meno nero del resto. Nel mondo attorno le cose non si vedevano, il mondo attorno diceva di non esistere. I suoi occhi erano cuciti, o non esistevano affatto? In vita sua mai aveva conosciuto notti che non fossero luminosissime. E in cui l’aria, per quanto umida, non si cristallizzasse e tintinnasse per effetto dell’eccitazione, degli odori feromonali sparsi come un richiamo presente in tutte le cose, cavalcante i flussi di musiche e rumore. No, l’aria troppo densa. Gli odori s’invischiavano, quando lo raggiungevano erano la stessa bruma, odore bianco, odore nero, né caldo né freddo. Per sentire rumori, invece, doveva provare a procedere.
Mosse i muscoli, fossili di carne incancrenita e maledetta, con uno sforzo che sembrava esser lo stesso che aveva sollevato masse di roccia dalle acque limacciose in un acquitrino di brodo primordiale, per erigere i colli limitrofi. Il suo grido s’ammutolì, e nella gola spalancata che così scopriva se stessa -con sollievo troppo effimero confermandosi d’esistere-, s’infiltrarono galloni dell’atmosfera composta di tonnellate di nerezza. Il grido muto echeggiò nel mondo muto. Il dolore echeggiò nelle vene, distrutte al passaggio dell’impatto, echeggiò nelle gambe che non riuscirono poi a fermarsi nei loro lenti faticosi passi, nella strascicata dentro il suolo sprofondante.
Rinacquero i rumori.
Tonfi, sciaguattare. La luce non esisteva in un acquitrino sconfinato, un pianeta acquitrino si raccoglieva attorno a lui riflettendo soltanto il vuoto cosmico in cui galleggiava. Non conosceva i pianeti, non conosceva le orbite, non aveva mai guardato lo spazio e le stelle luccicanti sulla campagna. Ma allora perché ci si era trovato dentro? I passi affondavano e tonfavano. Un verso terrificante, intermittenti ibridi di rintocchi e fischi striduli, volò sbattendo frettolose ali al lato di un orecchio, per lanciare allarmi, spaventare i canneti. Canneti crepitavano rompendosi al passaggio del grosso corpo. Caviglie graffiate senza sosta da qualcosa che spuntava dal suolo. Tutto questo si ricomponeva, quando veniva toccato: esisteva un corpo, che non vedeva. Esistevano dei dolori fisici, cari affidabili dolori fisici e benedette cicatrici da cui usciva vero sangue, in questo posto. Nel vuoto cosmico. E quando ebbe ricomposto i rumori e gli odori, di nauseante Fango e gas che in una situazione normale sarebbe stato irrespirabile, e quando ebbe camminato nella palude per riconoscerla e chiamarla così, apparvero le stelle del vuoto cosmico: lucciole filtrarono tra le trame del nero, incantevoli disintegrarono nell’ondulatorio volo i loro addomi palpitanti di innocui batteri bioluminescenti. Il neon giallo di infinite lucciole, da ogni lato, cantò, per pochi istanti. Una musica tranquillissima che mostrava la vegetazione. Poi esplose. Tutte le lucciole diventarono luci, diventarono occhi spalancati. Dei soli erano apparsi nel buio, e divennero un singolo lampo che cancellò tutto, cambiò la scena.
Tutto era visibile. Non c’era notte. Era un campo, un immenso campo con gli steli gialli immersi in una bassa guazza, similmente a una risaia. Un campo immerso in una luce mattiniera.
Si vedeva: nudo, cosparso di bubboni. Questo era il singolo individuo esistente, sul mondo ch’era un campo acquitrinoso. E all’orizzonte, quelli erano i colli viola e trasparenti, i colli limitrofi. Simili a lui, grassi e frastagliati simili a lui. Si guardava, la nudità fragile striata infinitamente da ferite d’arbusti e fibre taglienti che il suolo spargeva trasformandosi in un’interminabile trappola, cova d’insetti capaci di mordere. Bubboni di pestilenze e morsi lo ricoprivano, non occorrevano vestiti. Strato sottile di limo incollato alla pelle, non occorrevano vestiti, o sudore, o sostanze da secernere per attrarre qualcuno, qualcosa. Le caviglie affioravano. Sulle gambe s’arrampicavano vermi marroni, semi marroni capaci di muoversi. A forma d’uova sporche. Ricordò d’aver ingoiato uova, all’improvviso. Ma quando? Questa era una punizione per averle rubate a un nido? Uccelli minacciavano.
Vide uccelli: taccole. Il fantasma, addirittura, di una casa. Questi uccelli neri popolavano solo ciò che una volta era stato abbandonato. Il mondo antico forniva ologrammi di futuro, solo perché loro potessero accorrere da ciò che li aveva attratti: i bracciali che un tempo aveva portato, tintinnanti e luccicanti a tratti sulle braccia. Li reclamavano in protesta, non vedendoli. Spiacente, non ne aveva, non aveva niente. Le taccole, una alla volta e tutte insieme, crearono una musica di schiocchi lamentosi, assordanti. Sparirono, sparì la sagoma incorporea della casa. Vennero altre cose. Una volpe: ferma a guardarlo nel mezzo del campo. Abitatrice dei campi, scatta rubescente in balzi discontinui, timorosi, perché così afferma d’esser lei stessa il campo. Sempre, dovunque ci sia in periferia un campo cinto da cespugli e boscaglie in cui può tuffarsi, sparire, diventare ombra. Ebbe l’impressione di averne viste, come lei, infinite. Tizzoni accesi in coppie nella notte, come teste di sigaretta inverdite, scattanti vicino ai segnali stradali. Impressione di averne viste, come lei, infinite, addormentate in un sonno putrescente lungo la carreggiata, su letti di ricci schiacciati. Le aveva viste… come le taccole avevano avuto una casa di nulla, per la volpe rossa e grigia apparvero, in quel mondo di campo eternamente esteso e immutato, dei contorni sfumati di boscaglia. Dopo averlo osservato, fissamente, per un’eternità, al muoversi d’un suo passo in particolare, capace di spargere il suo intollerabile odore e spedirlo tramite il vento al suo umido naso, infine scattò e sparì nella boscaglia, che sparì dopo di lei. Questi animali volevano dirgli qualcosa? Questi animali nascevano sul momento. Non erano mai esistiti prima. Nulla, era mai esistito prima: era solo un mondo d’infinita acqua e terra, che presto si sarebbe riempito di zanzare, precludendo la sopravvivenza. Succhiavano il sangue del nulla, nulla si muoveva in cerca di qualcosa. In quel momento sentì che, a ogni passo, le caviglie rischiavano di affondare. Le caviglie cosparse di grumi marroni e vermi marroni, e semi che cominciavano a infilzare vive e viscide radici nella carne, a ogni passo venivano trascinate giù da un Fango famelico… gridò, come prima. Nel giorno, nel visibile, si udì come nulla mai prima s’era udito in quella specie di preistoria senza tempo. Gli uccelli scapparono, nuvole sollevate qua e là nella distanza.
Vide mostri magri e sottili che si sollevavano qua e là.
Canne strane, grasse e simili a grossi funghi o ortaggi, spuntavano dal terreno, ci andava a sbattere. Non camminava più bene, barcollava, procedeva in curve casuali. E intorno, mostri strani. Erano colli, colli lunghi, alti. Sulle cime, portavano come escrescenze tumorali delle teste capellute, indistinguibili nella distanza. Una, la vide bene. Sbalzato dalle canne grasse e gli ostacoli nascosti dalla vegetazione, era finito tra uno sbandamento e l’altro nel cerchio in cui campeggiava uno di questi, nel raggio di una ventina di metri. Vide la testa di donna levarsi dal collo, attraversato da groppi gorgoglianti. Il collo suggeva direttamente il suolo fatto d’acqua e sporcizia, il collo suggeva il suolo che possedeva lo stesso dna di lui che guardava -succhiava lui-, perché lì sarebbe nato: lo capì, la comprensione lo squarciò visceralmente in quel momento. E lo guardò la faccia di donna che attraverso la bocca aveva introdotto la sostanza in quel collo che costituiva la maggior parte del corpo.
Per la prima volta fu visto. Per la prima volta qualcosa fu visibile nella palude. E un gelo invase in marea le dritte superfici del mare di steli, conducendo l’inverno sul pianeta Terra, il pianeta palude.
Nel volto del mostro pupille incolori, con qualche riflesso di verde e vivo, incisero l’aria. Enormi galleggiavano nella pelle bruna, tra i capelli bruni, come una superstiziosa madre meridionale. Trasformata in un collo alto che cresce e beve, né animale né pianta. Quegli occhi di sola superficie, quegli occhi senza fondale, in una bidimensionalità autosufficiente penetravano tutto quello che c’era da penetrare.
Il sudore e l’inverno scivolarono raccapriccianti sulla pancia e le gambe. Si guardò: dov’erano stati i bubboni, vedeva buchi. Sempre più buchi vuoti che s’aprivano nella carne, privi di sangue o d’organi interni, buchi affacciati sul vuoto o riempiti d’ambiente circostante, come fori di proiettili su una statua.
Gridò per la terza volta.
Gridò anche lei.
Il collo spalancò da chissà dove due enormi ali, nere in controluce. Sbattendole goffamente, più volte nella flessione di selvaggi muscoli e piume fruscianti, riuscì infine a librarsi l’arpia di sola gola, che orribilmente continuava a singhiozzare un frastornante richiamo che faceva sentir male. Lo scherniva, lo imitava, imitava il suono di una creatura aliena? Volava via, sballottando nel vento il collo a ogni battito d’ali, e lo guardava, continuava a guardarlo. Il primo sorriso comparso laggiù, invernale, orribile come il morto neo sopra il labbro, terribile come gli occhi e il verso. Diceva, in quel modo, questa è la palude, questa è la palude.
Questa è la palude, questa è la palude.
S’inginocchiò e continuò a urlare, come sentisse un’intollerabile emicrania localizzata sull’intero corpo a ogni buco che vedeva aprirglisi dentro, ogni vuoto che scopriva in se stesso. Eppure ancora continuava a sentire il corpo, in tutta la sua invisibilità. La paglia era aguzza sulla carne. Nell’acqua e nel limo che guardava in basso si rifletteva il cielo, nuvole passeggere, velocissime, notti e giorni, notti e giorni accelerati. Epoche scorrevano con l’acqua scura e residui di conchiglie e legname morto attorno alle sue ginocchia arrese, e intanto, credeva di scendere sempre più giù, sempre più giù…
E a un certo punto divenne un cinghiale, balzò fuori dallo sprofondo. Dove c’era stato lui, sparita l’ultima cellula nell’espansione dei buchi, apparve per un istante nel centro esatto un uovo bianco, si schiuse. Ne uscì un cinghiale, fradicio e pelliccia muschiata, che trasse il suo primo respiro e aprì gli occhietti e si spaventò del mondo: galoppò folle attraverso il campo. Una sostanza amniotica lo ammantava e grumi bavosi ondeggiavano ai respiri, agli strattoni disperati della svelta muscolatura mentre in una frenesia mai vista batteva e devastava il campo. Palpitava la gola nera per far passare in lei le grida.
…
Punch soffrì l’arrivo del giorno. Schermi di luce tagliati dai vetri rettangolari della macchina lo schiaffeggiarono, gli tormentarono la pelle. Erano già le dieci del mattino, di un giorno caldo e giallo che già fermentava, nuvole di mosche risvegliate dai giacigli di paglia per il bestiame invisibile. Non c’era stata alba. Non era chiaro, non per lui, cosa ci fosse stato. Mentre Amazing Grace, in piedi e un po’ discosta dall’auto attraverso i cui vetri aveva visto trascorrere fluente e lenta la notte come un mare vischioso, fumava una sigaretta. Mute nuvolette che salendo odoravano di menta, quando fluttuavano davanti ai suoi occhi verdemarrone e così la custodivano tra barriere incorporee. E il suo sguardo in cambio custodiva qualcosa, qualcosa che apparteneva a quel posto.
Punch si risvegliò in un sussulto, come stesse correndo. Il fiatone distruggeva la forma del fisico a ogni espirazione, deformandolo ogni volta, contraendolo ed espandendolo in una grassa e impotente gomma. Si affacciò. La vide. Gridò, si torse le mani, le usò per cercare di afferrare la testa, di influire sui dolori interni -ma si trattava di dolori? Era un’assenza di qualcosa, o la presenza di corpi estranei, a rodergli il cervello? Mai stato così agonizzante, così vero. Il clacson risuonò nella campagna, spargendosi in tutte le direzioni come un muggito preistorico. Il pugno di Punch lo colpiva per caso, perché era un arto senza controllo sbattuto nell’aria, contro le cose, in un mondo ch’era solo urti e contusioni.
O c’era qualcos’altro nel mondo? Qualcosa che non è urti e contusioni, e non è figlio di squallore e goduria. Punch urlò di nuovo, non potendo vedere, non potendo toccare, non potendo sfrecciare.
No, falso: poteva andarsene. La macchina. Non aveva nemmeno pagato. Ma lei… no, lei non era una puttana qualsiasi. Nemmeno si paga, una del genere, per farla funzionare. Non c’entra niente con le puttane di questo mondo, è una maga o una cosa così, è una fumatrice nel campo, al centro del finestrino come in un quadro. Quando era stato chiuso? Punch non sapeva di essersi addormentato. Punch non sapeva di aver lasciato che una metà della notte affondasse, e che lui affondasse dentro lei simile a un sasso in acqua di fiume, o di un canale putrido. Se ne rese conto, e insieme morì l’idea di scappare in macchina, la macchina l’aveva tradito, la macchina aveva lasciato che si addormentasse lui dentro di lei. E delle uova s’agitarono nel cervello, per generare larve parassite. Un’assenza o dei corpi estranei. Punch era sfinito, o forse si era calmato.
Amazing Grace lo vedeva, diagonalmente, senza doversi girare. Le altre non c’erano ancora. Sentiva i loro movimenti nascosti, pura ombra tra le vicine pareti. Brave ragazze, lei sa che loro sanno che quanto accade in quella mattina non è ordinario. Amazing Grace pensò di volerle salutare. Ed era straordinario che nemmeno lei sapesse l’origine di quell’istinto. Era straordinario che un cliente l’avesse cambiata, secernendo dentro lei senza alcuna protezione un’indicibile mistura di malinconia e terrore. Si dispiacque perché non andava ad aiutarlo, perché osservava e basta.
Prostituta osservatrice osserva che Punch è rifugiato al sicuro dentro quei pochi minuti in cui la disperazione ha prosciugato i muscoli. C’è solo il respiro diventato irregolare, pesante, profondo. Punch che rimane a bocca aperta. Ma ha durata breve.
Punch di nuovo imbestialito lancia dischi qua e là. È la musica, la musica che deve provare a resuscitare! Ecco che mancava dal suo cervello. La musica aveva taciuto per buona parte della notte e per tutta l’altra metà precipitata nel sonno e nell’assenza, e in quella quiete solo i nomi delle puttane e i cori dei grilli erano rimasti a recare nel nome ritmo, note, e il proposito di inseminare il vuoto muto per farci nascere qualcosa. Punch non ci credeva veramente, ma comunque provava i dischi uno dopo l’altro, li estraeva dall’astuccio, li strappava, li lanciava. Medaglioni d’argento con scritte di indelebile nero, volavano accartocciati e caldi di mangianastri Gigi Dag e Greatest Hits e Festivalbar e sigle… la musica era sparita, la musica non funzionava. La musica impattava senza che nulla lo impedisse la paglia calda intrecciata al suolo, e lì rimaneva a scintillare tra altri rifiuti. Probabile che le taccole più tardi si sarebbero agitate, avrebbero festeggiato affogando l’intera campagna in una profusione di schiocchi indistinguibili dalla sordità -questa la considerazione sensoriale che Amazing Grace lasciò su quel territorio, lì dove stava in piedi a finirsi la sigaretta, come testimonianza del suo esserci stata.
Come prevedeva. Come aveva capito, come aveva visto vorticare sotto la superficie della notte quando era stata a guardarla. Punch accanto a lei, il suo fiato d’anidride e uova velenose. Un bambino gigante sul sedile accanto a lei, che non dormiva, che ormai non dormiva da quelli che le sembravano secoli. E dire che si era trovata un ruolo. E dire che se lo trovavano tutte… lui, venuto dalla città, l’aveva forse disarcionata dall’ultimo legame? Prima d’incontrarlo aveva creduto d’esser libera e senza papponi, una Grande Madre di brave ragazze speciali, tutte future osservatrici. Ma forse -così le suggeriva il nero flusso della notte e delle stelle e di quella luna spettrale nascosta-, forse non capivano davvero nulla, forse il mondo non finiva nel suo picco già ai primi del 2000 e avrebbe invece continuato a esistere, a mangiarsi da solo. E avrebbero sempre trovato nuove cose nei mondi bianchi e disinfettati della Crai, per nutrirle e far sì che si trascinassero ancora, giorno dopo giorno estate dopo estate. Turno in campagna dopo turno in campagna. Casali sarebbero stati costruiti, e poi abbandonati, e vissuti per intero solo dalle taccole e da quelle come loro, e dalle volpi girovaghe opportuniste, con i musi lunghi a vibrare nell’immondizia densa di nuovissimi odori di nuovi scarti di nuovi prodotti… come prevedeva, adesso Punch scappava.
La forma che le cose dovevano avere: Punch doveva svegliarsi nel dolore, odiare la luce; doveva acquietarsi, diventare per pochi istanti un’altra persona, completamente diversa, una persona di puro e rassegnato silenzio, l’uomo che sarebbe stato se fosse tornato in città dopo aver visto la palude, dopo essersi addormentato nel ventre degli spettri del casale abbandonato. Ma ce l’avrebbe fatta? Prima c’era altro. Prima doveva urlare per il sole, per il colore e l’odore dei pini sulle due sponde della strada. Poi, correre. Con quel nuovo se stesso ricacciato dentro, in una prigione del cuore, e il vecchio se stesso imprigionato da tutt’altra parte, irrecuperabile. Hai voglia a cercalo, a forza di correre. Ma vedendolo correre come previsto, Amazing Grace capiva che non era questo che Punch cercava. Nulla che ci fosse prima, nulla che promettesse un “dopo”, uno sviluppo, un costruire. Forse non c’era proprio niente da cercare. Perso il suo corpo e la sua capacità di godere, cioè lasciare che invischianti liquidi portatori di godimento affogassero tutto il resto, di Punch restava uno spettro, più ingombrante di qualsiasi corpo, uno spirito pesante come un suino. Libero e folle, libero di contundere in giro senza meta, e gridare.
Punch correva, lontano dalla macchina. Lontano dal cancello, in un campo circondato da pini. Pini rossicci, orribile colore, orribile la paglia, le cicale, uccelli mostruosi. Punch correva, forse si sarebbe stancato, forse sarebbe un giorno ritornato coi suoi piedi nella sua città. Bella città, dove sei? Nell’orizzonte, lì, non la vedeva. Nell’orizzonte Punch sparì, un punto rotondo confuso in un mare d’altri punti inquieti, passati dall’altra parte del giovane decennio che spavaldo s’affilava come il filo d’una lama a congiungere le estati rumorose. Punti le cui grida erano ammutolite nella distanza. Grida per l’assenza di droghe, nessuna droga avrebbe più fatto effetto.
Amazing Grace aveva visto. Tutto quello che doveva vedere, e non c’era altro. Una prostituta che può fare quando non ha più altro da osservare? Verrebbe uccisa dal tedio e dal vuoto nelle lunghe attese. Quando non c’è nemmeno niente più da pensare.
-forse,- parlò, da sola o forse alle invisibili orecchie delle compagne, con un tono da studentessa inquisitiva che si rivolgesse al cielo come a un immenso professore -riuscivo a sopportare questo lavoro solo grazie all’attesa e ai pensieri. Al prima e al dopo.
Si tolse le scarpe. Davanti al cancello le scarpe nere coi tacchi s’accasciarono come tante altre prima di loro, morbidamente sulla paglia che formava uno zerbino macchiettato di pacchetti, profilattici, cicche, tappi, vetri, un rametto, un ossicino, ricci morti, tessuti strappati. E frammenti taglienti di CD spezzettati.
A piedi nudi Amazing Grace attraversò il campo guardando apparentemente con meraviglia le cose. Passeggeri scintilli solari per poco indugiavano sullo smalto bianco degli incisivi distanziati e appena sporgenti dal labbro semiaperto, mentre il sonnambulismo a occhi aperti la conduceva barcollante tra gli smottamenti dell’irregolare suolo campestre, e le canne le frusciavano sui fianchi, e i pruriti le si arrampicavano sulla pelle scoperta attraverso gli occhielli della rete, e gli insetti le abitavano buoni buoni il dorso. Semi fangosi, simili a lenticchie spolpate, annerivano di succhi colanti le caviglie che avevano cominciato a risalire, vivi e senzienti. Parve ridere Amazing Grace nel guardarsi quelle caviglie che riemergevano dall’erba, dall’erba secca dell’estate che pure riusciva a sporcare tutto di melma come in una giovane primavera, come fosse tutto un’enorme piscina terrosa. Il campo diventava una pozza. Amazing Grace, al suo centro, si fermò per spalancare le braccia e trarre un interminabile respiro, la luce solare che le entrava nelle narici.
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