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Gli Appunti Del Fango- scena di caccia al Mille

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 3 apr 2021
  • Tempo di lettura: 11 min

Aggiornamento: 19 apr 2021

Appartamento in Piazza Sturzo. La mia mente ha preso ad abitarci, il corpo sta da un’altra parte. senza questo si accorge meno di certe cose, o le sente in maniera differente. Per esempio il freddo di notte, il caldo lucente chiassoso del giorno, i raggi che schiaffeggiano questa fiancata del palazzo. Il tempo che passa, la differenza tra passato e futuro così prepotentemente inscritta negli organi a orologio dell’umano. Ticchettano, col sangue dentro a scandire, sono ingranaggi, siamo di ingranaggi. Disponiamo le cose lungo una linea. Lascio dietro le barre metalliche unte d’oro falso, varco varie soglie settantine. L’ascensore, la cella minuscola, sale brontolando cupamente. La linea si screpola.


Eccomi qua. Non so più il “quando” in cui mi trovo. Non vedo indizi. L’appartamento è quasi svuotato d’ogni mobilio -almeno di quello invasivo che sovrappopola le case dei vivi-, svuotato quasi d’ogni esplicita passata presenza, visitato sporadicamente da altre presenze -più precisamente, non sempre manifeste ma che qui hanno fissa dimora. Pochissimi ragni, pochissima polvere, si mantiene costantemente pulito. Non si sporca ciò che è senza corpi mobili, senza forme che solidifichino il minuto, l’ora, gli inizi, le crescite, le decomposizioni. La finestrella del bagno in fondo al corridoio s’affaccia perennemente sull’angusto parallelepipedo del mezzo cortile interno, congelato in un tempo grigio senza secondi o scorrimento. Su quella parte di condominio chiusa sulla sua stessa faccia, nascosta, spuntano qua e là da occhielli d’altri appartamenti colori intrusi sull’incarnato nuvoloso: pezze muschiose da bagno impregnate di puzzo chimico lasciate ad asciugarsi dai davanzali, una fucsia, una gialla, una viola e così via. Tutto ciò che interrompe l’uniformità sublime, la sua bellissima angoscia. Portano nomi di gente che sta dietro quei muri, si muove. Salutano, senza farsi vedere, soltanto con il risucchio delle tubature quando vengono azionati gli scarichi. I colori fanno bandiera, ci sono pensieri ed emozioni che scivolano su ombre in flusso al di là di queste funeree mura solide. Ma anche a vivere un’esistenza affacciata, a riempirsi infinitamente le narici di muffa fermentante, di polvere, sembrerebbe che nessun altro si affacci mai veramente. Nemmeno a ritirare le pezze. Mi pare che stiano sempre là, sempre le stesse.


Ma ho già scritto di cosa si vede da quella finestra. E anche di come in questa casa zoroastriana un lato s’acchiappi tutta la luce e un altro tutta l’ombra, fino all’arrivo della notte che svela sintesi in seno all’esistere, tutto un gelo omogeneo in ogni stanza e corridoio. E a parte me, che pure sono una mente scappata alla presa del padrone, e a parte i fantasmi, che pur sempre fantasmi rimangono, la casa rimane vuota. Il silenzio è sinfonia. I rumori fuori, traffico e uccelli, centro d’Aprilia che si anima e acquieta, cani che non stanno buoni di notte, radio in Doppler: sono un’aurea armonia di lievissimi accordi in sequenza appena accennati, nascosti sotto al tema principale, sotto la trapunta del vuoto. E i rumori della casa, della chiusura, del grembo, non sono altro che pilastri su cui si regge ogni cosa del mondo. Standoci in mezzo ho la strana idea che il cosmo possa dirsi veramente finito soltanto in un caso, quello in cui cessino definitivamente tutti quei rumori orfani di causa che schioccano sollecitati dal nulla in tutte le case. A volte, se i pensieri rallentano e si ammansisce il loro cigoloso digrignarsi, si sente lontano pure un ticchettio. Una sveglia rotta su qualche comò, probabilmente.


Se mi affaccio fuori vedo le macchine parcheggiate al centro Sana, o messe in riga sulle sponde del parco, dormienti. Se mi chiedessi quale epoca è questa, gli unici insufficienti indizi sarebbero l’invenzione dell’automobile, la fondazione di Aprilia, gli anni di piombo di queste case. In casa ci sono due televisori rotti, costruiti e vissuti non so quando. Non posso interrogarli nel sonno. Sono spoglie, hanno pure una specie di faccia spenta, fanno compagnia stando là, buoni buoni. Oggetti piccoli a caso su credenze, una puntina abbandonata, un quadrettino di carta bastardo. Calendari sulle pareti che qualcuno dimenticò di sfogliare, dimentichi a loro volta di cosa sia un tocco. Pendono solo. La stagione quale sarà? Torno al balcone della sala grande. Le chiome dei pini sono sempre di un verde acceso. Riflessi solari lo chiazzano scuro o chiaro, poliedrica vegetazione che è trasformista ma che è immobile.


Che faccio qua? O che ci fa la mia mente? Niente, forse se ne sta in esilio. Forse ha ricevuto un qualche colpo, una qualche stanchezza che non può sfogarsi. Qua non infastidisco nessuno, finché non ne scrivo come sto facendo. Chi se ne frega. Vivo in questa città, il Fango mi ha ossessionato la testa. Mi riservo il diritto di tuffarmi a capofitto nella paranoia che si autogenera e si cura da sola. Si considerino questi appunti uguali all’aria che c’è qua dentro: se non ci sono un prima e un dopo, se un orecchio umano non può trovare inizio e fine nelle onde sonore che si propagano, allora nemmeno saranno fastidiose quelle delle parole sui miei appunti.


Così sto qua per i giorni senza nome. Mi guardo mentre fluttuo a caso per questi corridoi conosciuti. Mentre dedico a ciascun balcone lunghe osservazioni -il quadrato d’aiuola giunglosa, i pini giganti, i piccioni che scappano dal nido nella caldaia. Mentre consumo ipotetici pasti solitari, quando traballa uggioso il cielo serale e si accende la luce bianca della cucina di quel lampadario annaspante. Zagaglia per illuminarsi, parla a strappi che paiono ronzii interrotti come quelli delle zanzare che ci sono morte dentro. Unti mucchietti neri che maculano il bulbo perlaceo. Anche le luci delle altre stanze si accendono: di notte è troppo sinistro. Non credo sia per via dei fantasmi: quelli abitano normalmente le case dei nonni. Sono invogliati a moltiplicarsi, farsi più solidi, da certi fardelli portati dagli abitanti. Ricordi accumulati, silenzi trascorsi uno dopo l’altro, segreti, pesantezze. Sono più pesante di loro. Perché la mente scappata farà prima o poi ritorno al corpo che ha un peso. E perché già di per sé è pesante. Ogni volta che entro qua dentro, porgo il mio rispetto a cotanto dolore, saluto sorridente gli spettri: “sono io!” -non mi vengono incontro, ma sento il cenno che fanno in un’alcova, in un corridoio. Questi invisibili si fanno ricettivi quando la chiave entra e gira, a volte uno zio o un padre che vengono a controllare lo stato delle infiltrazioni, a volte io che li ammorbo mettendo i pensieri in circolo nella quiete. In entrambi i casi sono abituati, e mi chiedo il perché di quell’allertarsi (lo sento, ne sono convinto), che cosa mai potrebbe allarmare esseri così?


Così è notte e mi vedo andare a coricarmi su uno qualsiasi dei letti. Portano sul materasso, sull’odore lievissimamente polveroso delle trapunte, il segno di spettri di tutt’altro genere che ci stavano un tempo. Perciò non fanno differenza. Due sono sul lato della luce, uno sul lato di tenebra e stretto in una camera che è uno sgabuzzino -immagazzina tra le altre cose gli appunti di un osservatore del passato, la sua scrivania di studio e testi di canzoni. Letti di morti o di vivi, mi ci avvolgo e ho la stessa sensazione. È un abbraccio, ma ho anche paura, e freddo. Fanno paura le strisce di nero che aumentano, la cecità che evapora dai resti del giorno. Mi sento osservato. Ribadisco che non si tratta di quegli altri spettri, che non hanno occhi. Rammento che prima o poi avrò voglia di andarmene da qui.


Faccio un sogno. Sono una specie di scienziato, a volte sono io, a volte mi guardo da fuori (è un sogno…). A volte c’è uno che vive qua con me, in questi giorni in cui uso l’abitazione a studio. Studia anche lui. A volte è un tizio che conosco, a volte un personaggio diverso. Non importa: porta caos nella mia preziosa solitudine. Non importa: la scena più importante è quando vado fuori in balcone, esattamente come faccio di continuo da sveglio. Solo che è notte. Che strano, sembra come se il sogno si collochi nella stessa frangia spaziotemporale del momento in cui viene sognato. Magari se andassi di là nella camera vedrei me stesso dormire, ma in questo momento non mi interessa. È il balcone della cucina. Accanto riposa la caldaia, al suo interno magari sonnecchia un piccione diurno, un inquilino fisso del centro città. Legionario del patrono. Di notte non ha da fare, invece potrei udire a momenti l’allocco che ha il nido in un pino. Guardo all’orizzonte cinto di palazzi e strada e sul bel marciapiede color carbone c’è ancora qualche apriliano in giro, notte fonda, passeggia aprilianamente (cadenza di passo come di parola, concitata, inciampa e fa finta di niente, riaccelera) con al fianco l’aiuola giunglosa recintata, qualche lampione rauco piagnucola fasciolini arancioni, caldi. L’apriliano per pochi passi sotto la volta elettrica si allevia nel tepore, si rischiara, poi torna a essere un’ombra nera e ingobbita che procede nervosa a mani in tasca. Parcheggio del Conad accecante, a falene saltanti grosse così, pare di sentire da qua gli urti friccicanti coi faretti. Due ciotole di plastica con avanzi di croccantini per gatti. Da questa posizione vedo solo un limite del parco, ma basta ad accorgermi che qualcosa sta succedendo. Ci sono lampi, e persone, e cani a passeggio. No, alcuni scattano, partono all’inseguimento, spariscono dietro agli alberi e ne escono fulminei, come nel fitto di una foresta. Rientro, voglio andare all’altro balcone per vedere meglio. Un rimbombo forte si scandisce dal parco, come un grido, e con la coda dell’occhio vedo spuntare dei fumi bianchi.

Dal balcone della sala vedo gli uomini e i cani a caccia: proprio là davanti, come se chilometri e secoli separassero il parcheggio di Sana dal bordo del parco, marciano tra i pini cacciatori armati di fucili con la bocca larga a tromba; gente che si illumina gli immediati paraggi con la circonferenza d’un fanale a carburo legato alla fronte. Distanti l’uno dall’altro, ma comunque numerosi. Il parco dei Mille è più rigoglioso del solito, il prato rugoso di felci.

Haah!


Un urlo insensato e poi sparano. Dalle canne sbuffano nuvole, appannano l’aria, si dissolvono andandosene sparpagliate per ogni direzione, e intanto sembra aumentare la nebbia. Come in una mattina presto sulla palude. A ogni boato i cani scattano, bianchi e neri, bianchi e nocciola, muscolosi slanciati spaniel. E, fiammanti per azione delle luci da miniera, sfrecciano per fuggire dagli inseguitori enormi bestie selvatiche, agili in ombra a immense infinite conifere. Sembrano lontane forme di tigri siberiane -molto più grandi e pelose dell’unica tigre che conosco ad Aprilia, vicino al cimitero-, vaghe, astratte, rari avvistamenti dalla corsa silente striata dai tronchi innumerevoli del paesaggio. I pini si sono fatti più saggi, la loro ombra più selvaggia: davanti a me, il Mille è una foresta boreale, i cacciatori palustri dell’Aprilia dei primordi sparano con armi d’un fuoco defunto, portandosi dietro del pontino solo la nebbia in volo acquitrinoso, solo la luce sotterranea e familiare per fendere un’oscurità che è invece ignota, è diversa da quella delle altre selve laziali. Sembra una foresta fantasma che compare solo in certe notti, chiamando e facendo uscir fuori questi cacciatori. Che cosa cercano? Sarà la distanza, ma non sembrano avere un volto, solo grida prive di linguaggio… negli abiti marroni, color canneto secco, nella muscolatura tesa, sono solo mimesi e inseguimento, solo spasmodica ricerca. Indubbiamente figli del Fango anche in un mondo straniero.


Haah!


Un urlo insensato sparano, seguono il cane. Carezzano la corteccia dove c’è segno di artigli, territorio marcato. Marciano e spariscono in una foresta che ha ricoperto il mondo sulla superficie. Ritorna nell’ombra il parco che mi guarda dall’altra parte della strada; si rimpiccioliscono i lumicini in testa a quegli uomini muti e senza nome che si allontanano. Rimangono minuscoli ultimi guizzi di girini di luce. Si allontana il latrato dei cani che sempre sorvola le città addormentate come quotidiani banchi di nubi da pioggia. Sparito l’ultimo raggio, solo eco dei frastuoni, frammenti di una scena spostata altrove. Il parco, tornato al buio, è quello di sempre. L’altra faccia del Mille, quella strana foresta boreale, è un grosso miraggio d’animale quadrupede, si sposta. Poi scompare.

Rientro in casa. Di nuovo guardo me stesso o il personaggio del sogno da fuori. Rinchiuso in questa casa per studio, con la testa piena d’una scena, nuove informazioni. Sono qui, in questa casa d’anni di piombo, per studiare, per scoprire, e non penetrano all’interno dalla strada dai giornali o dalle scale i frastuoni di rivoluzioni ansie repressioni stragi, proteste speranze affanni. Sento i rumori dell’appartamento, la concentrazione che studia e indaga. Vedo me stesso leggere degli appunti insieme ad Einstein, mio ospite in casa, nell’ingresso trasformato in una stanza chiusa adibita agli studi. Einstein? Alla porta origlia l’altro inquilino, animato di rabbia e gelosia, vuol scoprire i segreti che escono a sussurri dalla bocca mia e quella del celebre fisico tedesco, il celebre cervello, giunto ad Aprilia Grande Metropoli Del Fango che attira a sé ogni domanda. E vedo tornare in cucina, dove l’altro sta studiando, quel personaggio del sogno, che è me stesso, che è uno studente di matematica che abitava in questa casa, o che è solo un personaggio o un’esuvia vuota d’osservatore riempibile con la carne vera e viva d’ogni osservatore in piedi attento sul territorio e la storia sconfinati. L’anticamera della cucina, dove c’è solitamente il ripostiglio e stanno appoggiate scopa e paletta, è diventata più lunga, più a corridoio, ha quadri appesi. Vedo io, vedo quello, che guarda, che guardo, soffermandosi sulle pareti prima di andare avanti e passare all’altra stanza. Da dentro le cornici, sovrapposti a fondali di generica foschia umida, puntano lo sguardo in basso, stanno composti una mano sopra l’altra un Einstein in un frac mai indossato, un Franco Basaglia in giacca e cravatta con un’enorme siringa accoccolata a ermellino nell’incavo delle braccia, e poi tutti gli altri, volti secchi occhialuti da demone capriccioso che non riconosco -nemmeno uno, volti che non esistono-, ma capisco che sono tutti alti funzionari legati alla DC. È uno stupido sogno, ma sembra proprio che siano sempre stati appesi là, visti ogni domenica a pranzo da nonna, salutati frettolosamente ogni volta che me ne sgattaiolavo da sotto il tavolo per andare a giocare da solo nel salotto mentre gli altri finivano di mangiare. Pazienza, li lascio di nuovo. Entro in cucina, entra in cucina, si è accorto che l’altro spiava, fa finta di niente. Tornano ai propri fogli stesi sul tavolo sotto il lampadario balbuziente. Sa che l’altro ha rubato appunti importanti ma tace, vuole capire perché. Sembra che l’estraneo, l’intruso nella solitudine di Piazza Sturzo, avesse qualche tipo di invidia, qualche odio nella scoperta dello scienziato. È buffo come certi miei sogni posseggano molta più trama di qualsiasi cosa io abbia scritto. Lo penso scientemente nel sogno, entrando e uscendo da quella testa, dove si intricano teoremi frondosi, dove lampeggia una foresta miraggio. Torno a esplorare enigmi nello studio, dentro e fuori dal sogno, alla cieca per le risposte che, mi sembra, in questa città non appaiono. Ristagnano e mi ci affeziono così. Il parco qua fuori che mi si imprime a lungo negli occhi è stato una pozzanghera enorme, un avello da sprofondo a torcia accesa contro la claustrofobia. Cresciuti gli alberi là sopra, sbuffata la nebbia, crea apparizioni.


Mattina, chiassose ramate campane di San Michele si lanciano al cielo e nella sinfonia muta senza alterarne la quiete, come tutti gli altri chiassi lontani. I piccioni tubano, rumoreggiano d’amore impulsivo , incontenibile. Lasciano piume disordinate, sporcano; e sono la cosa più assordante nel tutto, dopo la luce gialla così violenta. Tutta la casa si è già riempita di giorno acceso. Esco, e so, passata la notte, che il Mille ha alberi resistenti, indifferenti agli strani scherzi dello spaziotempo. Affiora il passato dalle gorgheggianti fosse sotto la terra cava, placenta di provenienza. Si riempie ancora d’alberi nel futuro, quel futuro che ho visto altre volte, la metropoli delle zanzare enormi -eppure il parco è ancora là, costeggiato dalla Nettunense; lungo la strada delle solite carcasse, il solito puzzo, tra un rudere di spazio autogestito e pezzi di vetro in fila sull’erba, fa ombra ancora sull’asfalto umettato di un gasolio pericolante a striature dallo sfrecciare di un autocarro bucato, fa a botte con lo smog e poi ci si mette d’accordo. Nel torace cittadino c’è una degna forestucola, il Mille è il polmone di Aprilia. Tale è rimasto, un’esistenza sospesa nella sporcizia, aria terra acque pesanti, piogge fuligginose.


Riemergere dal sogno di caccia fa riguadagnar la carne e lo scheletro al corpo. Ricordo il tempo, prima di andarmene cincischio vicino all’intonaco rosa della vasca da bagno, ai mandala sulle pareti, in quegli anni era tutto così, scommetto, ma l’ho già scritto. Prendo le scale nere e viola. Penso, mentre me ne scendo magari assieme al fantasma di Einstein, che forse avrei dovuto chiedere scusa ai fantasmi della casa per il disturbo arrecato (davvero eccessivo stavolta: ho sognato una foresta e una scienza assai ingombranti), ma forse mi preoccupo troppo per le cose indifferenti. Gli altri fantasmi, quelli non indifferenti, verranno a cercarmi in altri luoghi, con o senza il tempo che passa e sedimenta gli anni.

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