Gli Appunti Del Fango- ragazzo pipistrello guarda la Pontina
- Milky
- 13 nov 2021
- Tempo di lettura: 18 min
Aggiornamento: 14 nov 2021
Comincia a fare buio presto e batboy, a cui piace “sorvegliare” (così si dice da solo) la città dove abita, ha più tempo per le sue passeggiate. Mette un cappotto, un mantello, le sue ali scure; infila per bene il collo nel tronco, comincia a passeggiare sul marciapiede con le spalle rigide e la testa abbassata, proteggendosi dal freddo e da innumerevoli minacce. Continua a camminare come se fosse ancora nel calore della propria tana, portandosela dietro. Ma un ragazzo pipistrello non è un ragazzo chiocciola e allora deve andare consapevole di avere delle ali. Un giorno potrebbe doverle usare per fuggire da qualcosa di improvviso. Sapendo questo, batboy non riesce mai ad arrestare un costante tremito che caratterizza tutto il suo addome, e sembra provenirgli fin da dentro l’esile scheletro.
La figura scura prosegue sotto i viali alberati in quell’ultima via che è, in maniera implicita per gli abitanti, un po’ come l’ultima via dove si separa la città vera e propria e comincia quel poco di periferia moderata. Qualche altro quartiere più scuro degli altri, supermercato a basso costo, lampioni di tipo diverso, terreni separatori, e cominciano le prime campagne. Ma intanto il rombare cupo della statale sferraglia contro le pareti adiacenti, trasmettendosi tremebondo per quei vicinati. Batboy si dirige verso qualcosa che si trova lì, e il suo addome suscettibile alle impressioni già si lamenta stridulamente, come se fosse indolenzito da una nausea o una colica, per i troppi stimoli sia sensori che del tutto ipotetici avvicendati tra i normali passi sul marciapiede, particella per particella della fitta granula grigio metallico che compone il suolo, cancello per cancello, e alla fine di ciascun bagliore sparso fin sotto ai tronchi dei platani come a sostituire l’ombra che appena un’ora prima era proiettata dal passaggio finale del sole.
Batboy non è che esca in quelle sue passeggiate dove si mette a controllare cosa succede perché creda di poter fare qualcosa. Non ha modo di contenere i pericoli, sa che la sua passeggiata non serve a rendere meno spaventose le prossime; si sente in contraddizione quando riflette sul suo atteggiamento, il ritrarsi in quell’ombra dall’odore familiare costituita dalle sue membranose ali, credendo di potersi sempre portare con sé la grotta e godendo del conforto che alberga in questa, anche nel mondo dove a ogni spostamento il conforto scompare e sopraggiunge al suo posto un tonfo profondo. L’udito fine di batboy gli suggerisce che si tratti di un’eco fatta da qualcosa che ruzzola in maniera rettilinea, senza rimbalzi, per un burrone di buio omogeneo, sul cui fondo attende un nulla austero che attutisce gli impatti, li cancella. Lì deve essere solo incubo e smarrimento, perché non è il buio della notte e nemmeno quello della caverna, ma di un mondo in cui non giungono luna, sole o altre stelle. Batboy teme di sprofondarci. Non necessita di provare da cosa si origini un simile timore, lui sa e percepisce come questo si celi nei fenomeni che lo accompagnano anche ora, mentre sta costeggiando un canale putrido, un capannone di un piccolo complesso industriale di quella zona liminale, un edificio prismatico simile a una scuola. Il tanfo simile a gomma carbonizzata si intrude nelle narici strappando al passaggio i vasi sanguigni, molestando i neuroni a cui giunge velenoso, pieno di presagi di malattia. Il ventre di batboy sobbalza ancora sotto il maglione, come una palla gelatinosa.
Nonostante tutto batboy può avvertire una certa sicurezza, come se comportarsi in quel modo lo tranquillizzasse. Non affronta le minacce che riempiono l’area dove ha la sua dimora, ma le osserva, distanti, anche quando sono sul punto di raggiungerlo senza mai farlo, rischiando di farlo crollare per gli incontenibili battiti del cuore: dopo il mancato svenimento il sollievo è grande e questi pericoli si mutano in oggetti plastici del mondo, in concetti, in nozioni. Compongono il suo quotidiano rendendosi inoffensivi, pur continuando lui ad averne paura e così inducendolo periodicamente a ripetere lo sforzo: questo ciclo gli sembra l’unica maniera logica di vivere.
C’è una specie di vialone con ai due lati delle villette che si susseguono, lungo i bordi di similmarmo dei marciapiedi, dietro cancelli lucidi dagli stipiti di finte colonne. Trascorrono ai lati della testa solitaria per via, l’unico passeggiatore, i leoni bianchi seduti sopra riccioli di capitelli ionici. Poche luci attraverso poche serrande. Forse non c’è mai nessuno in quelle case, le pochi luci sono accese per frivolezza o perché accolgano il ritorno prossimo di un qualcuno che teme di trovare nella propria casa il buio e il silenzio, falsi in realtà: si alleano, nella distorcente stanza paranoide della mente, ai ladri, agli intrusi, agli uomini volpe delle ombre urbane. Batboy soffre per quell’elettricità sfanalata senza giudizio e quasi vorrebbe entrare da una finestra per spegnerla, sbattendo magari qua e là tra i muri, andando a tentoni con l’ecolocazione; poi però prova subito un moto di immisurabile tenerezza nei confronti di quelle forme sconosciute e senza nome, che teoricamente dovrebbero condurre un’esistenza in ciascuna di quelle case, che al loro ritorno sono sempre stanche, gioiose della tana, timorose del freddo e il buio che discendono sulla terra là fuori. Anche chi non conosce la fatica, anche i fantasmi incorporei che si associano alle dimore che, tra quelle, davvero rimangono disabitate… batboy decide che chiunque venga accolto da una di quelle luci è necessariamente stanco, perché è stanco chiunque abbia vissuto il suo tempo in giro per un mondo del genere, avvertendo il passaggio tanto agognato attraverso un interno sicuro e caldo. Fuori imperversano a velocità vertiginosa le cose molteplici e senza forma, così nulla è più netto della sensazione di mettersi in salvo.
All’improvviso dopo una siepe si allarga un campo, dove altre volte ha visto razzolare delle galline, dove una volta ha visto una vecchia dalla faccia fuligginosa infilare due lunghe e rugose braccia nelle frattaglie tubolari e contorte di un camioncino sventrato sotto il cielo. Ella aveva alzato il volto contrito con gli inespressivi occhi a fessura e li aveva rivolti al passante, chiedendosi cosa ci facesse uno così da quelle parti, dove chi c’era se ne stava solitamente rintanato. Batboy, subito in soggezione, accelerava sudaticcio e si diceva che avrebbe potuto benissimo farsi da solo quella stessa domanda -sebbene la vecchia non l’avesse pronunciata ma solo irradiata con la sua presenza. Lei però non sapeva che anche lui, pur deambulando, se ne stava rintanato: controllava le cose del mondo, come chi ha una casa può contare uno per uno i propri soprammobili. C’erano una serie di cose che richiedevano d’esser ribadite, concetti che costituivano fondamenta, per quanto spaventose. In questo senso era esattamente uno del posto, condivideva l’animo degli abitanti che non avrebbe mai avvicinato, in cui sperava di non imbattersi. Anche uno sguardo scatenava angoscia. I potenziali incontri potevano spaventare ancor più dei clacson, tra i suoni più infernali delle vie.
In quella zona i cani si avventano con ruggiti senza eguali contro le sbarre e le murate. Non ce n’è nemmeno uno che non appartenga, da queste parti, a quelle razze temute da tutti, intimidenti per muscolatura e scintillio di zanne, ma soprattutto per la cavernosità dei ringhi. Come se la sola vista fosse scorticante, batboy ancora sconvolto e perforato nei timpani per un brusco latrato inclina il corpo nella direzione opposta ai collari borchiati, aderenti con pieghe cuoiose alle spesse scapole sotto il pelo corto e la pelle nerboruta. Un giorno alcuni di quei cani potrebbero saltare fin sopra ai puntali delle inferriate, trovarsi dall’altra parte. Ogni giorno, nello stesso identico modo, deve temere che sia proprio quel giorno, e sentirsi in salvo dopo aver superato ciascuno di quegli ingressi coi citofoni intagliati in lastre eburnee, quando ancora i rimproveri di quegli irascibili guardiani risuonano dietro scombussolando le orecchie. Pare che il rimbombo insegua, incarnando nelle onde che flettono l’aria l’antica corsa predatoria, reclusa dietro le sbarre e le siepi.
La statale si staglia col suo movimento in fondo alla via, dopo tutti i capannoni industriali, dopo le ultimissime sparute attività commerciali. Batboy però si trattiene ancora un po’ dal guardarla direttamente, perché non è quello che vuole fare, ha un altro piano. Sembra camminare con lo sguardo ritto avanti a sé. Dovrebbero avvicendarsi riflesse anche nelle sue pupille le luci dei fanali e i riflessi del metallo nella sera elettrica, ma lui lo distoglie, lo azzera. Si rende selettivamente cieco e intanto raccoglie gli spostamenti dell’aria, i presagi dell’ultimissima camminata prima della periferia, un passo successivo sui gradini del caos.
Su un lato c’è un disturbo dell’aria, un rumore cognitivo: movimento di gente in cima alla salita di un parcheggio, non sa cosa facciano. Alcuni masticano, sembrano fare un buffet all’esterno. Spariscono dietro un’autocisterna parcheggiata, batboy camminando svelto si rannicchia per non essere visto da quegli sconosciuti, forse cauti quanto lui e diffidenti per chi si avventura nella loro via. Potrebbero addirittura cacciarlo con grida e slanci dei corpi possenti, tutti massicci a confronto con la sua figura fragile nutrita nella chiusura. Oppure potrebbero essere tutte sciocche paranoie, lui lo sa. Ma d’altronde crede che vivere in quella città significhi proprio questo. Perfino un palazzo, e la volontà di costruirlo, e un parco, e il frenetico viavai, sotto gli occhi della segnaletica e le orecchie degli altoparlanti, sono tutte a modo proprio delle sciocche paranoie. Delle manifestazioni vagamente fisiche, inganni sensoriali, evaporate da questa comune sorgente sotterranea. È convinto di questo. Chissà, allora, cosa dimora nella fogna, sopra i fossili, sopra le rovine di insediamenti antichi, sopra altri strati di roccia e terriccio, nella tenebra nauseabonda dei torridi cunicoli intestinali del titanico organismo urbano. I ricettori di un ragazzo pipistrello sanno cogliere cose nascoste. Sembra esserci un gorgoglio di bolle fermentanti che non cessano mai di affiorare sulla superficie delle acque putrescenti della principale cloaca. All’improvviso, qualcosa d’enorme, una sconfinata macchia scura come un banco di pesci compatto e senziente, sembra sopraggiungere dalle profondità e annunciarsi con un getto di geyser. Ma l’impressione scompare subito e le orecchie non possono più vedere la scena delle fogne. I rumori dei sotterranei sono ancora una volta soppressi dal traffico, dai passi, dalle voci che imperversano sulla superficie di asfalto e cemento.
Un’altra aura si espande dalle fabbriche abbandonate. Comincia a vederle, su un lato recondito dell’apertura, come in fondo a un tunnel, dove sfrecciano i camion, e da cui ancora distoglie lo sguardo. Quindi vede di là dagli ultimi sinistri alberi con le dita malaticce, oltre il cavalcavia suo obiettivo, gli edifici dalle finestre rotte, le scorze grigie di pareti impolverate dal tempo, da una modernità morta sul nascere. Quelle architetture, che si prefiggevano ariose e luminose, sembrano esser nate morte da tempo immemore, in una peculiare impressione nascosta che le rende quasi indipendenti dalle epoche. Il buio, forse per un semplice caso di collocazione geografica, o per un’altra ragione, giunge laggiù con più anticipo e più fitto che nelle altre parti. Batboy prima di uscire attende sempre il crepuscolo e ormai la sera quasi invernale è uniforme sui palazzi e le strade, ma riesce ancora a distinguere la coltre più profonda tra quelle sagome. Gli edifici si ingozzano di tenebra come inchiostro nelle figure compatte, sonnolenti mostri d’abisso. Nell’orecchio gli spiraleggiano gli ultimi lembi di vibrazioni spanse da movimenti minuscoli (per la distanza o per appartenere a ratti e blatte) che popolano quegli intrichi di corridoi spettrali. Un piccolo fuoco si accende sotto un balcone, qualcuno che dorme lì tenterà di riscaldarsi in quel modo. Lampeggia nella mente una pavimentazione cosparsa di vetri e siringhe, sporcizia d’umani, macchie oleose. Sembra un luogo molto oscuro adatto a ospitare alcune delle paure più folli, le cose inspiegabili, ma laggiù vivono tutti i giorni delle persone. Il loro aspetto spaventa i cittadini che accelerano il passo, lasciandosi dietro il contorno delle defunte fabbriche senza mai più voltarsi. I corpi ammantati d’abiti stracciati, le braccia lacerate, l’ombra che sfruscia all’improvviso da un angolo cieco, tutto ciò si eguaglia agli occhi della mente, bramosi di sicurezza, ai presentimenti che laggiù dirigevano una curiosità morbosa e incontenibile, subito mutata in istinto alla fuga. Batboy fa rimbalzare gli ultrasuoni, emessi insieme al respiro e all’esistere, e gli ritornano delineando il contorno di una mano. È tagliata in più punti, è sudicia, è in cerca di qualcosa. Il sangue pulsa sotto la pelle.
Un ultimo rintocco d’acqua là sotto i tubi nauseabondi, dove i liquami si riversano nel canale in un rigetto fumigante: qualcosa si è mosso tra quella schiuma di bolle biancastra e la guazza bassa e stretta tra la rada vegetazione palustre. Batboy si preoccupa. C’è un’ansia nel pensare che qualcosa riesca a sopravvivere in quelle condizioni, o nel pensarla ignara e ormai spacciata. L’uccello acquatico è ormai scappato lasciandosi increspature dietro il passaggio palmato e sgraziato, è scomparso tra i rivoli inaccessibili attraverso la palude residua che si getta verso i campi costeggianti la Pontina. Non avrebbe potuto fermarlo, essendo qualcosa che accade centinaia di metri dietro l’ombra di chi la ode accadere (batboy è una nottola che esce alla scoperto solo quando le cose reali sono già date). Sente però ancora al di sopra d’una riva l’ondeggiare di un albero, rachitico e tutto nudo simile a un corno. Il volo di una cornacchia troppo pesante si è posato su una sua estremità. Se ne va subito, sulle tracce di una decomposizione diversa, qualcosa che sappia digerire. L’albero invece rimane a sorvegliare, consumandosi in questa sua vedetta, le esalazioni che scrosciano nebbiose dalle fauci degli scarichi.
Le scarpe di batboy scivolano sulla terra limacciosa d’una spiaggia d’erba morente, asfissiata nell’asfalto tra la fine di Via Cagliari e una piazzola di sosta della Pontina. Il vento prodotto dai veicoli saettanti agita i fili scoloriti. Batboy struscia le suole dove il suolo è compatto, duro, ruvido, per liberarsi della fanghiglia disagevole. Si incammina lungo il bordo: ora è come quell’erba e vacilla sentendosi sfrecciare ai fianchi le bocche di metallo e fiamma e gas, la luce che lo stordisce più di ogni cosa, quando è vista da vicino. Ma lì batboy diventa forte: pur di vedere altre luci dal ponte, distanti e innocue, come nuvole di lucciole su stagni primigeni, è disposto a serrare la visione e la sensibilità che morirebbero per l’eccesso, per le cose che non smettono mai di fermarsi sulla statale. Si fa coraggio e inghiotte saliva, profonda ancor più le mani nelle tasche, quei suoi artigli al culmine delle ali; la testa ancor più china, si ripara dai fischi assordanti. Dietro i vetri esistono forse, oppure no, sguardi di volti senza volto, di automobilisti del tutto astratti. Si eguagliano tutti sulla strada nelle lunghe file che scorrono rapide prima del prossimo incidente, non conoscono stasi. Non è certo che vedano l’individuo che prosegue coi suoi passi in direzione opposta, deciso a salire le scale del ponte pedonale. Ma pur non vedendolo, potrebbero comunque viverlo: potrebbero colpirlo, smembrarlo nell’impatto. Sanno comprendere tutto in questo modo, scomponendo, così come la loro aerodinamica costituzione e ragion d’essere fende l’aria, fende tutto, costantemente cancella e sostituisce il visibile -un campo, un cavalcavia, un cartellone pubblicitario, una chiesa, un ponte, un tornello, una rotatoria, una città, un centro. Non si volta sulle sue tracce: grasse strisce di gomma bruciata, poi si aggiunge forse ai cadaveri di ricci e volpi sul ciglio della carreggiata quello di un pipistrello. Prima che ciò possa accadere, batboy si volta ancora verso la via percorsa: è immersa nel silenzio, i lampioni fanno luce per nessuno, per le fronde di platani e marciapiedi che non ne necessitano. È una scena tranquilla, a guardarla così non la si vede sfociare nel suo opposto.
Batboy è salito sull’impalcatura di metallo blu. Sente sconquassarsi i passi in una serpentina che percorre tutta la lunghezza del ponte -qualsiasi tocco su qualsiasi parte della struttura sembra prodursi con uguale intensità in tutti gli altri punti, la struttura è piena di intelaiature flessibili, cedevolezze mai crollate. Si pone al centro del ponte pedonale, al centro sopraelevato della statale. Ha incontrato una bottiglia di birra vuota su uno scalino, l’eco inesauribile d’una goccia d’acqua residua da una ringhiera alla pavimentazione, e anche le superfici hanno assorbito dal temporale un alone scuro. Il radar delinea un’altra mano, un’impronta lasciata sul vetro, intrisa dei germi dalle maniglie di un Cotral che si ferma là sotto, indolenzita dal freddo novembrino. Il radar poi intercetta per un istante qualcos’altro, quasi per interferenza da un segnale troppo forte e insopprimibile. Forse era la stessa cosa di prima, era una piccola angoscia quando l’uccello aveva sguazzato tra i flutti pestilenti, era il lampo di quell’enorme forma che emergeva dai flutti della fogna. Sono lampi troppo veloci e prima che ricompongano qualcosa deve averne molti altri. La velocità sfugge alla comprensione di batboy che viene quassù a tenersela distante, inoffensiva, cercando di vederne il bello sotto gli inganni. Quassù sopporta la luce.
Le luci rosse dei fanali sul retro appaiono bellissime e sfracellandosi si confondono con le particelle di quelle bianche della corrente opposta. Batboy scatta una foto da un lato e dall’altro, le guarda, ammira nello schermo una sua estetica Shoegaze dove per brevi ed effimeri godimenti può immergersi e sentire che il suono è un fenomeno sia corpuscolare che ondulatorio, e che si sparge da fari, lampioni, dalla città che pulsa ancora sotto la notte imminente. Allora gli si inumidiscono gli occhi e negli enormi padiglioni a sventola si rimescono vibrazioni di canzoni ascoltate altrove.
Da un lato chitarre distorte e sirene si sparpagliano in direzione di un silos, di un campo sconfinato, di eucalipti o altre dita frondose di tenebra pontina, di un’industria dalla quale si leva un tanfo di solventi e sterco di pollame, di un fast food. Dall’altro lato trovano una parte di città attraversata più spesso, reame di semafori e autovelox. L’Enea Hotel torreggia isolato sulla sinistra, mentre vicino sulla destra c’è un supermercato illuminato a giorno, ostruisce la vista di una viuzza che si infiltra tra le fabbriche abbandonate. Continua però imperterrita a stillare, come pulviscolo d’una materia del colore del cosmo, la stessa aura conosciuta per appartenere a questi luoghi. Obnubila ciò contro cui l’illuminazione elettrica non può nulla. Qualcosa accade laggiù, costantemente, senza testimonianza. Ancora un lampo, ancora una sagoma, che si contorce incontenibile, che vuole uscire. Batboy si terrorizza, come sempre.
(bravo, Fango, devi essere la cosa più forte che esiste. Ti sei trasformato per sopravvivere.) -pensa più o meno inconsapevolmente, non soffermandosi sul pensiero che sembrava avere una voce sconosciuta.
La vista del cielo, placido e buio, e della terra frenetica e lucente lo distoglie; si appoggia alla ringhiera, preme il muso porcino contro la maglia metallica. Dice a se stesso che non è giusto che quella vista lo calmi, non è giusto che soltanto sopraelevandosi rispetto alle cose, soltanto recuperando l’elemento dell’aria che appartiene alla sua natura ibrida, egli possa perdere il timore che ha di solito nel vedere apparire le cose, nell’affrontarne il movimento e la mutevolezza che procedono troppo in fretta. Il suo timore è giusto, bisogna diffidare di tutto, si dice. A non esser giusto è invece quel senso di pace, quel senso che le cose sappiano equilibrarsi… eppure ci sono dei punti in cui ciò accade. (Osserva,), -dice a se stesso-, (osserva la strada sempre sveglia che penetra nelle strade che si accingono al sonno, osserva l’infinità del ritorno a casa. Le vite si avvicendano là fuori e prima o poi sfrecciano per ritornare, perché sempre si è fatto ritorno, loro hanno ad attenderli quelle case davanti alle quali hai passeggiato. Del ritorno si narrava nelle storie antiche. Il giorno in cui si cesserà di ritornare, sarà un problema… e puoi sentire irradiare da ogni particella la stanchezza, una sublime stanchezza, puoi sentire che ogni singola luce viene da qualche parte e si dirige da qualche altra parte, sperando un giorno di completarsi, di riempire i suoi vuoti; e puoi sentire che per la strada si collega tutto, la notte e il giorno e le piccole cose morte abbandonate e le grandi cose vive. Questo è giusto, ma perché sono così veloci? Non dovrebbero esserlo, eppure è bello in quanto il ritorno mi commuove, e allora non posso non guardarlo, ma chiedo di nuovo, perché è così, perché è così?) -Così pensando batboy cerca di scorgere al posto della carreggiata, facendo uno sforzo comparativo, un’antica strada sabbiosa, di un’ipotetica civiltà premoderna. Anche nei momenti più trafficati i carri non sono trainati con la stessa rapidità. Anche allora la quiete si alternava alla frenesia, ma la prima non si confondeva così tanto con la seconda e la seconda non conosceva il parossismo, la città di oggi è la nascita di questo. Lì non c’era una strada, forse, ci poteva essere al massimo un torrente impetuoso, gorgogliante nel cuore della palude, e la sua corrente doveva essere la cosa più spaventosa di quei giorni lontani. Straripano le luci e il sibilo tempestoso dello sfrecciare: è quell’antico torrente a straripare, oggi, a distanza di secoli? È in queste cose che si è mutato il suo fango disciolto nell’acqua tumultuosa? Batboy, sopra le fiumane che scorrono opposte e parallele, sopra il ponte, annaspa nello sforzo di trovare una continuità con una scena antica, con dei ricordi che porta con sé dalla grotta, immagini mai vissute. Scomparirebbe tutta l’ansia che prova ogni giorno soltanto vivendo il mondo, se all’interno di questo egli riuscisse a trovare un’identità, una linea? Quello straripare gli sembra un’aberrazione in un corso regolare.
Senza fiato batboy, uscito al crepuscolo, si riposa nella sera inoltrata. Trascorre una mezz’ora quasi immobile, solo l’addome palpita, sempre lancinante. Ha incrociato le braccia sulla ringhiera e ci ha poggiato la testa. Al di sotto i lembi del cappotto-patagio strusciano fino ai piedi, sono lasciati a riposo. Sta sorvegliando, non interverrà, non è certo un supereroe. Ci sarà qualcun altro che nella città provvede a regolarizzare gli avvenimenti, lui ha solo il compito di regolarizzarli in astratto. È una creatura notturna ma fragile, la sua non è la notte dei predatori e dei crimini, il suo non è il giorno della tranquillità. Raccoglie impressioni, non sarà l’unico in questo, ci saranno altri che osservano. Salgono nei luoghi sopraelevati o si appartano in quelli sotterranei. Hanno sempre una musica in testa e la mescolano al silenzio, e si recano in quei luoghi, “to be free of all the evils of this town, and themselves and those around”, in attesa che un vigilante li combatta, questi mali, qualcuno che sappia azzerare tutto ciò che è straniante e pericoloso e spaventoso. Nel radar giungono impercettibili sfrigolii di svanimento, laddove altre vite azzerano invece se stesse, avvelenandosi le vene, laddove sono i vagabondi che inquietano i sogni dentro le case, dove sono le azioni immorali, dov’è quell’oscurità che si fa sentire oltre il supermercato. Batboy può sentire tutto questo. Può vederlo che si riassembla in immagini dopo averlo immagazzinato in sé. Ha paura ma si sente a casa, sente i cani furibondi e le mani indefinite, ma tutto accade nelle stesse vie di sempre, ancora non è tutto distrutto da una pressione sotterranea (bravo, Fango, sopravvivrai anche alla catastrofe, e ti riprenderai tutto, rovesciando ciò che è sopra di te come navi prese dalla tempesta…)…
È a riposo, non può lasciarsi vincere dalla paura in questo momento. Se altrove qualcuno combatte lui può invece osservare un trittico di falene circolanti attorno a un lumicino fioco che penzola da un filo, bassi balconi di case bianche affacciate su Toscanini. Una colonia di gatti attraversa la strada, quasi invisibili, felpati nell’ombra che si rafforza in opposizione all’eccesso di luce del parcheggio del supermercato, si infilano tutti nelle sbarre all’ingresso d’uno di quei luoghi abbandonati, dove si avventurano intrepidi una ragazza e un ragazzo che trasportano pesanti sacchi di croccantini. Batboy manda loro un saluto inudibile. Un manifesto accartocciato rotola su una brezza insignificante e si scontra su un divieto di sosta. Viene superato da una signora tozza concentrata solo sul trolley trascinato con fatica e dedizione. Insopportabilmente, auto che superano il dosso si lanciano i clacson, risuona come uno sparo il sobbalzo delle sospensioni. Il semaforo cangia istrionico, si fa traballante nella distanza, un miraggio. Incontra i raggi lanciati dagli altri semafori. Un giovane che brandisce una fiocina sbuca da un incrocio e percorre il marciapiede dove la signora ha trascinato il trolley, svolta dopo il parcheggio e si avventura anche lui come la coppia di prima in un’altra delle anguste traverse che conducono alle fabbriche abbandonate.
Una fiocina?
Batboy si allarma, poi si eccita, poi si allarma di nuovo, nel giro di pochi secondi, forse plagiato dall’influenza corruttrice di quel traffico troppo veloce. A volte spuntano nella città cose che sembrano scollegarsi dal resto e non lo sopporta. Ripensa tutte insieme varie cose che gli era capitato di vedere e ritenere stravaganti, chiedendosi per quali casi si manifestassero proprio a lui in quei dati giorni, a lui che voleva veder manifestarsi solo elementi di un disegno armonioso. Ci mancavano solo altri elementi di caos. Non può negare a se stesso però un certo brio, quasi una speranza che gli appare dentro.
Forse, con quella fiocina… batboy elegge a vigilante quel giovane, quel paladino sperato. La sua assurda fiocina può avere un’utilità, il suo passo insieme determinato e schivo possono vincere… contro cosa? Il giovane si tuffa nella tenebra: non c’è dubbio che stia proseguendo nei luoghi in cui si infittisce e brulica, quel movimento particellare che batboy comincia a sentire già da quando imbocca l’inizio di Via Cagliari, molto prima di sbucare al cavalcavia. Per un poco lo ha studiato, come fosse una figura di un suo sogno, degna di fascinazione, e sulla maglia metallica del ponte si era segretamente profuso in incitazioni sommesse, ammutolite nel silenzio tombale del passaggio sopraelevato.
Era un giovane dal volto scavato e l’andatura rachitica, lo sguardo monomaniaco conscio di qualcosa che lo attendeva, ma c’erano anche le occhiaie del dubbio e le palpebre tremule di un’eterna incertezza. Un enorme zaino sulla schiena curva. Le gambe magre molto svelte, a ogni passo pareva di sentir macinare pensieri allarmati. Era un osservatore, come lui! Forse non poteva essere un vigilante, perché era tormentato dagli stessi timori… oppure era un simbolo -avrebbe potuto scegliere qualcosa di meglio di una fiocina!-, voleva significare che sarebbe giunto un giorno in cui, anche per chi percepiva quanto davvero fossero temibili la città e il futuro, quella paura si sarebbe mutata in uno sprone, per andare a guardarla dritta nel titanico e misterioso volto (un muso allungato, con uno sfiatatoio, una sagoma nera di grosso banco senziente che emerge da acque sotterranee…). Allora vai, osservatore-vigilante, è un ragazzo pipistrello a dirtelo, osservatore come te che hai smesso di esserlo: affronta ciò che attende oltre le fabbriche, tra i vetri e i muri coi graffiti, anzi, ancor più in là, dov’è il nucleo di questa materia oscura!
…
Batboy sta tornando a casa, si sente la testa piena di emicranie multiformi, un sovraccarico sensoriale e di problemi. I quartieri, gli edifici che li compongono, lo rinchiudono nelle vie, lo rendono un corpo che attraversa solo quelle: se si sollevasse in volo, spaventato all’improvviso, potrebbe guardarle dall’alto e vedere che la distanza è breve, tra la strada che percorre e tutte le altre, i posti ostruiti da quelle pareti e giardini e balconi e tetti. Ma non si alza in volo e invece guarda il suolo. L’ecolocazione non risponde, gli ultrasuoni non penetrano i muri e batboy sente di non poter più pensare, ormai che sta tornando a casa per la stanchezza, la battaglia epica che si sta consumando altrove, vicina in linea d’aria, distantissima per volere della città. Soltanto, coglie un disturbo, un’interferenza: c’è qualcosa, da qualche parte, che ha colto i suoi ultrasuoni. Batboy ha l’ultimo brivido della giornata, prima di chiudere del tutto i suoi pensieri -forse è il freddo umido della sera, forse è l’enormità di quella cosa che l’ha udito, è l’esser stato percepito e pensato da essa. Non può capirne la reazione, non sa leggere gli infrasuoni. Vede se stesso minuscolo davanti a un’ombra sconfinata dalla forma di un cetaceo, che nuota nella sotterraneità della città, nelle acque ctonie. È tutto il giorno che si intromette, varcando la soglia dell’appena percettibile, nelle sue trasmissioni, nelle vibrazioni che possono giungergli. Si presentava con lampi e presentimenti. Sonnecchiava là sotto e forse si è svegliata.
Un giovane con una fiocina sta andando magari a combatterla, magari quella stessa ombra incorporea può nuotare fuori dall’acqua, agitando la coda piatta anche nel cielo della notte, nella penombra delle rovine urbane. Emergerà in quel nucleo dove si è diretto l’eroe. Magari lui non la chiama cetaceo, magari la chiama “Fango”. Magari non vede nella sua mano una fiocina, ma un altro tipo di strumento che può aiutarlo a combattere la forma che assumerà per lui. Ma è sempre la stessa, è una verità singola e sempre enorme. Batboy ha visto lei e ha visto lui per darsi modo di credere che in uno scontro, in una leggenda urbana che si consuma nascosta e incessante, possano azzerarsi i mali che imperversano per le strade. Si arresterebbe anche la fiumana dei fanali, dei colori della sera apriliana?
Trasalisce per un clacson. Allora trafelato tira fuori da una tasca delle ali le cuffiette, e con un EP Shoegaze si dirige a casa. Pensa per la prima volta che forse è il caso di fare qualcosa per la sua insofferenza ai rumori.
Comments