Gli Appunti Del Fango- ragazzo pipistrello gratta il cielo
- Milky
- 27 feb 2022
- Tempo di lettura: 26 min
Il vagone scuote il suo corpo metallico e si riassesta sulle rotaie a tempo con la musica nelle cuffiette. Magari c’è qualcosa che preme dal sottosuolo, fa sobbalzare la mollezza superficiale e anche gli animali di grossa taglia e di ferraglia ne avvertono le vibrazioni.
Si attende di scendere dal treno in piedi. Ma prima, non è colpa di nessuno se si precipita in un sonno tumultuoso. Nemmeno del fiato greve e obnubilante che sparge odore di polvere dai condotti aeratori del vagone. Entra e compie un’azione, certo. Accentua un mal di testa. Ma questo si può dire di qualsiasi cosa che esiste. Il sonno è un’altra questione. Nel mondo quasi nero dentro le palpebre, si muovono delle cose.
(sei inquieto, è un sonno inquieto. Credevi di riposarti? Non è il buio confortevole che ti aspetti. Quello che assomiglia quasi a una zoomata su di una linea, fino a sommergersi nel nero… sono le linee che cerchi, vero? Benvenuto in un buio in cui puoi gridare qualcosa di indicibile: “sto male”. Credi di essere solo? Tutti sul treno lo gridano nel proprio buio stanco. È un sonno accidentato che si può fare solo qui dentro. Tutti sono stanchi e tutti stanno male. Perché? Vorreste tutti ricongiungere tutte le linee. Prendi il tuo dolore, le tue paure: se fossero delle linee, e tutte le altre cose fossero altrettante linee, potresti ricongiungerle, fino a non distinguere più i confini. Un punto, nero, d’annullamento. Ma guarda ancora quante cose disturbano il nero che vedi: ecco, mi squarcio! Si apre in me una sagoma dritta, imponente, un obelisco o forse un albero morto… cosa rappresenta? Nel cielo di questa oscurità si ritagliano forme d’uccelli, esseri volanti. E senti la voce di uno che come te dice di essere un osservatore, un ragazzo pipistrello. Ha paura, lui è fatto di paura, e sbatte, disorientato, non sa come cavarsela. Nessuno sa come cavarsela. Se vi schiantaste dal cielo al suolo, percorrereste quella linea che li separa. Ricongiungereste vita e morte, no? Nel nero disturbato dai continui sussulti del treno, vedi un ragazzo pipistrello che ti dice di cercarlo, e di cercare tutti quelli che hanno cercato un posto affacciato su un panorama, una visione d’insieme.)
In piedi. Il vagone ritorna, ritmicamente, a scuotersi. Scandisce il tempo di un viaggio che si ripete, lo colloca. Lo colloca in un boschetto di querce nei pressi della fermata di Campoleone, inverdisce i finestrini sul cui vetro i fori di luce nel fogliame si proiettano circolando in giochi verdi e dorati simili all’incedere scoordinato di uno sciame. Poi il treno esce anche dal verde, in meno di un secondo attraversa una galleria di mattoni fatiscenti e fradici di pioggia vecchia di giorni, supera ferraglie abbandonate e infine esce dal grigio e bruno che comincia a profilarsi, emerge il grattacielo. Poi caseggiati, un capannone bianco, villette che sembrano rimpicciolite, l’occhio turchese di una piscinetta da giardino. Una vaschetta di marmo per i passeri, collocata vicino a un cancello. Ciminiere fumiganti. No, principalmente è il grattacielo. Incombe e diventa perno rispetto a tutto il paesaggio che vortica attorno al suo nucleo, una monolitica spina dorsale nascosta dall’esoscheletro. Rimane appiccicato sul mio volto riflesso prima d’esser squarciato dall’apertura delle vetrate, e scendo dal treno. In quel momento “decido” che devo salire sul tetto. Ma come potrebbe accadere? E come posso non esserci ancora salito? Sono un membro incompleto di questo cupo destino che ha lo stesso nome della città in cui sono nato, o quello di una sostanza creata dall’unione d’acqua e terra. Non sono salito sul palazzo più alto, il primo ad avvistare ed essere avvistato quando ci sono all’orizzonte dei girovaghi. Oppure, non è un palazzo costruito perché ci si salisse. Solo un simbolo che si infila nel campo visivo come una scaglia dentro degli ingranaggi. La testa rossa mormora e getta la sua ombra da qualche parte vicino a me, mentre costeggio il Mille, diretto a casa.
Lascio che i raggi solari si inclinino e cadano invadenti nella mia camera, si precipitano contro la mia fronte dolorante mentre me ne sto seduto sul letto e cerco di dissipare dai pori della pelle l’aria viziata che, rinvigorendosi di stanchezze sommate dentro il ventre del treno, si è insinuata in me. Chiudo gli occhi, sento il pomeriggio palpitare in tiepidi corpuscoli di là dall’arrossata membrana delle palpebre. Relego queste incursioni del mondo esterno a un punto discosto della mia emicrania, diventa solo un martellio tra i tanti che insistono a scandire il tempo dentro il cervello turbato, un puntiforme nervetto dolorante. Mi avvio con più convinzione verso il buio. Tra le sue nebbie, però, riemerge il grattacielo. Emerge sempre, nei paesaggi apriliani. Forse smetterà di farlo se mi decido a salirci. Ripenso al mezzo sogno del mezzo sonno sul sedile. Lì, si è manifestato un ragazzo pipistrello.
Conservo tra i miei appunti un suo scritto. Negli appunti non entrano solo le cose che scrivo io, e lui non è me. Potrebbe essere una parte di me, ma ha esistenza autonoma -io, l’osservatore, sono guidato da un diverso animale. Ho saputo di lui quando sono salito su un ponte pedonale a guardare il traffico della Pontina, un pomeriggio rabbuiato presto, di novembre. Anche lui c’era stato. E in un’altra occasione lo vidi, passeggiava prima del tramonto di una sera di tramontana, appartato nelle ali del cappotto, ma instabile per le raffiche, come una busta sbattuta con violenza. Essendo un tipo che detesta il vento, credo che stesse correndo al riparo, oppure credo che si stesse gettando al vento per mettersi in difficoltà. Può darsi, è un tipo strano. Nei suoi appunti anche lui parla del Fango, lo vede come un’enorme creatura scura che nuota sotto una superficie. E adesso mi ha cercato, per dirmi di andare al grattacielo, o meglio, per manifestare la mia volontà di dissipare le cose che si intromettono nel sonno, nel nero delle palpebre. Ricongiungere.
Non è forse un segno? Mi ritrovo a passeggiare, come al solito, come sempre. L’osservatore ha già raccolto molti appunti, necessari per la sua sopravvivenza, in questa zona della città, ma continua a tornarci, richiamato da qualcosa -da qualcuno. Attraversa con fare spettrale il parcheggio e si acquatta tra i cespugli all’ingresso. Cosa fa? Niente, non fa niente. Indugia e basta. No, in realtà si sta preparando. Il grattacielo, incombente su qualsiasi scena della vita nel mondo (il quale stando alle cronache ha estensione di circa 178 km quadrati), è vicino e osserva. Osserva tutto e osserva sempre, ma non aveva mai avuto l’osservatore alle sue pendici. Se questi alza il collo, non può osservare la testa rossastra sospesa nel cielo. Ma la testa può vedere lui?
Può vederlo e gli dice: non hai speranza. Sei limitato. L’osservatore è un pensatore limitato. Non riesce ad agire su questa terra, a continuare a pensare, se non riesce a inserire l’esistente e le sue forme conturbanti in una mappatura interna, capaci di trasformare tutto in linee ammaestrabili, aventi senso. Non è in grado di accettare. Gli idealisti sono i primi a soccombere di fronte agli esseri alti e spogli noti come palazzi.
Ma l’osservatore, scemo e limitato, ha una risposta: i grattacieli non sono parte dell’ambiente originale della palude, è vero, sembrano refrattari a farsi simbolo della volontà del Fango. Ma in realtà, l’osservatore ha già notato in altri appunti che una parte di Aprilia, nel centro, ha compiuto una transizione verso un reame celeste. Il santo alato regge in mano la testa del rettile palustre. I piccioni dominano la piazza, e su una nuvola di grigio cemento fluttuante e provvista d’ossa cave come la scultura futurista della fontana, nidifica la loro cieca regina vestita nel suo velo bianconero di piume. I palazzi alti, il Quartiere Grattacieli, partecipano alla sua conquista. Fa cadere le sue piume su un nido splendente di luce domenicale e rintronante di campane. Ma crocifissi, processioni e un asilo di suore non sono abbastanza per agire contro la volontà del Fango. Tengono il diavolo lontano dal centrocittà, dicono. Ma c’è un’altra essenza del sottosuolo che rimane insopprimibile. Forse i cieli sulla palude partecipano dell’oppressione che proviene dal suolo, ne sono lo specchio. Il grattacielo, avamposto degli alati, osserva l’interezza della palude. E ricorda nel suo cervello cementifero lo scontro tra la creatura celeste e il rettile, che credevano di agire secondo principi contrari. Invece, qualsiasi scontro obbedisce a un solo principio. Il grattacielo, con la sua antenna, lo recepisce, e lo ritrasmette nell’aria. Vede dall’alto tutti i 178 km quadrati del mondo.
Occorre una ricerca per scacciare il significato del suo incombere fin dentro il mio interno desideroso di un posto scuro e quieto. Inquieta e turba con il suo messaggio la vita dell’osservatore, così terricolo, così irrimediabilmente invischiato nello sprofondo. Risucchiato dal basso e schiacciato dall’alto. Ma se salisse, se salisse per quelle infinite scale, uscendo dal proprio corpo per poter attraversare le pareti cui non ha libero accesso (non è che fanno entrare il primo che passa per salire al piano più alto), arriverebbe infine su quel tetto. E avrebbe la visione intera, cielo e terra e acque, la palude urbana sotto di lui riverberante del crepuscolo acquoso, simile a un mare d’alberi blu.
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1: il messaggio, gli uccelli
In un altro genere di buio, gelido nella notte, tra filamenti bluastri di schermi l’osservatore scava un mare di dati e cerca informazioni mai sapute. Chiede al web: suicidi Aprilia grattacielo. Non molti. Ma ci sono, è impossibile che non ci siano. A ogni passo sul marciapiede, chi osserva e girovaga per la città non può non sentire dei morti che picchiettano, nel sottosuolo, quello che per loro è il soffitto. Bussano e accostano l’orecchio, c’è qualcuno? Noi ricambiamo il favore, accostando l’orecchio.
Come un ponte, come una foresta di corpi appesi ai rami sotto un monte misterioso, come un fiume d’annegati. Ci sono, fuori dal mondo conosciuto, degli spiriti dei luoghi che attraggono a sé chi vuole togliersi la vita. C’è chi usa le parole “alta densità di suicidi”. E se ci sono posti così, allora ci deve essere un posto nel mondo, nella palude, in cui convergono tutte le anime prese dal Fango. E conosce molti modi di prenderle.
È così. L’osservatore comprende, posa cellulare e pc, il mare di dati limitato con le sue risposte “fattuali”. È dal grattacielo che cadono di continuo quelle anime. Per questo esso si presenta, dal treno, a coloro che tornano dentro la città, a farsi riassorbire. È il primo a ricordargli la loro appartenenza, si sente un suono di risucchio quando il treno si ferma. Sono alla stazione, sono della stazione, sono di tutto ciò che sta di là dal suo semaforo liminale. Eppure, per la maggior parte, questa massa di gente con gli zaini e le valigie e le spalle doloranti, non è salita. Nessuno ha visto dall’alto la palude. Quanti hanno un desiderio inespresso di vederla? Quanti, di ricongiungere il loro corpo alla linea del suolo, e percorrere la linea che separa il cielo dal suolo, e far sì che il proprio corpo, sede di un “sé”, diventi il vettore di questo ricongiungimento?
Un osservatore stralunato che ha percorso questa città giurerebbe che uno quando scende dal treno certe volte è talmente stanco, senza motivo, che questa è proprio la primissima cosa che vorrebbe.
Sulla via del ritorno, Mille, monumento, autoscuola, semafori, ci si abbandona a una visione. Un osservatore che è stato al grattacielo è passato di là, e si mette in contatto facendosi captare.
(tronchi affioravano dalla melma e le acque tumultuose della superficie, sconquassando con sordi tonfi e cigolii la quiete in cui riposavano, cullati da ronzii di zanzare, gli uccelli acquatici. Falli iracondi, con una corteccia già secca: nel cavo mangiucchiato da umidità e decomposizione germinava una spermatogenesi già corrotta, una fertilità di morte. Nessuno li ha visti dall’alto, se non gli uccelli di allora. L’osservatore si scuote: vede irrompere in questa visione un ricordo: si ricorda all’improvviso di qualcuno che, come lui, appartiene alla specie degli osservatori e talvolta, cessando di camminare con la testa bassa rivolta alle pavimentazioni di asfalti e marciapiedi, ha osservato da un punto sopraelevato. Un individuo di una specie amante del buio che aveva guardato scorrere un fiume impetuoso, la Pontina con la città di luci davanti. Il ragazzo pipistrello conosceva un cavalcavia blu nella notte sospeso sulla fiumana. Perfino laggiù, una sagoma alta, che non è il vicino hotel, si delinea, una specie di macchia alta che….)
In un gigantesco grattacielo convergono le anime di chi ha volontà di sprofondare. Gli esseri nati nella palude hanno molti motivi per assecondare l’azione del Fango. Forse credono, come anche un osservatore crede spesso, che nell’immersione potranno trovare qualcosa. Ovvero un mondo fermo, così lontano da non sentire i movimenti della superficie, la violenza incessante della sopravvivenza. Forse sarà freddo, ma prima o poi passerà, no? Non è forse concesso di ritornare a un raggelante liquido amniotico? Prima o poi diventerà caldo per l’abitudine, e noi staremo tutti fermi, immutabili, no? Penserà a tutto lui, no?
Così pensando alcuni sprofondando. Nel Fango o anche nell’aria. In un vento suo alleato, i cieli che sono come uno specchio della città, dell’intera cancrena dell’agro pontino. Certe nuvole sono eucalipti. Un’altra è un acquedotto. Su una si posano i piccioni della piazza, trasformati in fantasmi della megafauna da un’illusione d’alta quota. C’è poco ossigeno. Le persone salite sul tetto guardano, gettano gli occhi sul vuoto percosso dai venti. Fanno un respiro, i gas rarefatti affannano i polmoni un’ultima volta, si gettano. Attendendo qualcosa che abbracci.
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2: fuori dall’edificio
Che sta facendo?
L’osservatore passeggia e si ferma davanti alla scalinata del grattacielo. Come all’entrata d’un tempio, il bianco rovinato e opaco esce dalle forme in cui è contenuto e come un’aura o presenza del luogo va a scontrarsi con gli occhi. Sembra la voce di una statua guardiana, “cosa sei venuto a fare?”, e il viaggiatore risponde, “niente”. Non può entrare, non può salire le scale. Si aggira, si posa sul muricciolo circolare di un parco vicino.
Chiude gli occhi. Questa volta non è il grattacielo sulla piatta palude a disturbare le nebbie nere, ma il suo bianco, visto da vicino. L’osservatore attraversa a passi rimbombanti la pavimentazione del buio interiore, per andare incontro a quell’intruso, e chiedergli che cosa vuole da lui. Si allontana dalla sua carne seduta, il frusciare di fronde nelle orecchie, l’odore di gomma bruciata che comincia a levarsi come un’ondata dalla direzione del Friuli. Ci sono solo il buio e il suo intruso.
Il bianco gli dice: entra. E apre dentro di sé una porta. All’osservatore allora pare di poter entrare in un secondo grattacielo. Diverso da quello davanti al quale è rimasto senza far niente, solo a farsi schiacciare dallo sguardo proveniente dall’alto. Diverso, ma uguale in qualcosa d’indefinibile. Il bianco della scalinata d’ingresso esorta: allora, che aspetti? Così l’osservatore, o una sua ombra extracorporea, sale, libera da confini. Sono le pareti stesse a invitarlo. Larghe, vetrate, proprio come l’ingresso che ha visto. È il solo a entrare.
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3: dentro un edificio, l’ombra e Il Corsaro
La hall è ampia e silenziosa. Dà l’impressione di un piccolo mondo ermeticamente chiuso, ma in cui la distanza tra il soffitto e il pavimento e il vasto tappeto rosso scuro concorrono a imporre una sensazione ariosa e di luminosità. Come se qualcos’altro ci fosse, in questo mondo, di là da quello che appare a un incontro superficiale: l’aria e la luce passeranno in altro modo, la chiusura non è totale. L’ombra dell’osservatore, piccolo visitatore del palazzo, procede con cautela: sa che non è un luogo concreto, le astrazioni di ogni singolo suo muscolo sono allertate. Nei luoghi concreti come in quelli astratti, l’osservatore non può abbandonare l’ansia che lo difende, crea un flusso d’inchiostro dalle sue dita agli appunti. Eco di un odore d’inchiostro: qualcuno è già stato qui. Qualcuno è passato in cerca di un luogo sopraelevato, e ha scritto degli appunti. Ma non è stato più visto uscire passando per quella stessa hall.
È un posto dove tutto ha una geometria, anche i contrasti. Fa leggermente freddo, ma non a causa della temperatura. Se avesse un odore, sarebbe lo stesso degli altri palazzi della zona. La pavimentazione di marmo color ruggine, il legno degli ascensori: la loro essenza si nasconde da qualche parte, luci e polvere di qui assumono lo stesso spirito. La prima metà della hall è invasa da pendii obliqui di raggi solari, disciolti con aria gentile attraverso il vetro, giocano con la polvere fluttuante come dita incuriosite da batuffoli. L’ombra procede, e i suoi passi fumosi si attutiscono con ipnotici morbidi tonfi sul tappeto. Si avvicina al bancone dove attende la forma dell’uomo della reception. Arrivata, indugia, tamburella sui bordi dorati del legno. Lo sguardo dell’uomo è sull’ombra dell’osservatore, che guarda prima a sinistra e a destra. Ci sono rimbombi intrappolati tra il soffitto e delle cavità, conducenti al bianco e tubolare vuoto di due speculari rampe di scale. Affianco alle cavità seminascoste come condotti uditivi, i due ascensori: separati dal tappeto, si guardano i volti d’ampie porte fulve, recanti sopra le porte numeri illuminati elettricamente che sfrigolano come per rivalità. Ciascuna linea si sincronizza all’altra, sua analoga distante: potrebbe essere lo stesso ascensore traslato in uno specchio senza vetro. Nei pochi istanti d’attraversamento del raggio che li unisce, si avverte una repentina tensione. Rimane addosso, agita spalle, fa pensare che anche nella tranquillità apparente dell’ambiente quei due ascensori combattano senza sosta. Prima o poi accadrà qualcosa, scoppierà un’insurrezione che farà tremare tutto il palazzo, diffonderà tra gli inquilini invisibili inodori e afoni una paranoia di stragi e rapimenti... questa è la brutta sensazione che viene dagli ascensori.
Ai lati del bancone, due piante stilizzate si ergono come sentinelle o robot. Come efficienti geometrie. Non hanno che un tronco liscio e incolore, due foglie cadenti per ciascun lato in cima, così come loro delimitano perfettamente e senza vita i lati del mobile. Piante metalliche. La prima cosa che l’ombra vede dell’uomo seduto alla reception, di cui aveva evitato lo sguardo, sono dita grasse che azionano il quadrante rotante di un vecchio telefono. Ma l’uomo non parla, non telefona. L’ombra perlustra con gli occhi timorosi la hall, cerca di scavare. Pensa che non dovrebbe trasmettere una così intensa desolazione, c’è qualcosa di strano. Quella hall è l’interno di una asettica confezione d’un prodotto che in perfetti duplicati riempie gli scaffali di avveniristici supermercati, immaginato da una mente degli anni 70. L’odore delle case di quegli anni plumbei emana inconfondibile dal telefono e dall’ascensore là da qualche parte dentro la coda dell’occhio. L’ombra solleva lo sguardo, si rivolge all’uomo che, dapprima solo una sagoma scura, sembrava attendere il suo arrivo. Disponibile ad accogliere, secondo segrete indicazioni, la prima proiezione extracorporea d’osservatore che si fosse trovata a passare lì.
Nell’abbigliamento vagamente piratesco, una ridicola benda nera su un occhio, e la carnagione sfumante in tinte ramate, il corpulento addetto assume l’aspetto di un corsaro. Con un anello per orecchino e un panciotto marrone sopra una bianca camicia secentesca.
Non fare domande, si dice l’ombra dell’osservatore. Non importa cosa ti trovi davanti, in un posto del genere non bisogna fare domande. Non quelle più immediate, tipo, cosa ci fa un corsaro in un palazzo del centro, distrazioni di questo tipo.
Sotto il naso piccolo e gobbuto, i suoi baffi bianchi ricadono in perfetto ordine, ciascun pelo perfettamente allineato con gli altri. Quei due manubri argentei e la corolla della pappagorgia fanno pensare al volto di un anziano bianco gentiluomo coloniale incastrato forzatamente dentro il volto di un corsaro. I suoi modi sono garbati, il suo sguardo, indecifrabile, perlomeno non respinge il visitatore. Forse al contrario lo attira, ma non troppo apertamente. Nell’occhio rimasto scoperto, giallo sabbia e lentigginato di nero, emerge tra cicale assordanti e pungenti effluvi di macchia mediterranea il grido di un guardiano di vedetta a Tor Caldara, che per primo vede un’imbarcazione saracena sull’accecante linea del mare pomeridiano. Sembra quasi di poter vedere, con uno sforzo, le impronte di sabbia che collegano la hall di questo grattacielo alla spiaggia di Lavinio, cancellate con prontezza e impeccabilità di gesti non appena Il Corsaro varca la soglia e si trasforma in un receptionist, per entrare in una nuova esistenza.
-buonasera.
-ah, buonasera, buonasera.- ribatte la voce pulita del Corsaro. Annuisce, accoglie con un lieve sorriso stemperato dai baffi. L’occhio non si chiude mai.
-mi perdoni- continua, dopo un po’, prima che l’osservatore, lì giunto come ombra, abbia modo di formulare alcunché -ma, lei capirà le regole, come prima cosa dobbiamo sempre chiedere, a qualsiasi visitatore, per quale ragione entra nel palazzo.
Dice, “lei capirà le regole”. C’è qualcosa di insolito in quel modo di esprimersi. Il Corsaro è calmo. Non è con variazioni dell’animo, non con i gesti o il linguaggio, che intimidisce. L’occhio rimane fermo mentre con una mano si aggiusta il merlettato polsino dell’altra. È a quel punto che il visitatore nota che sotto una mano, la sinistra, c’è il telefono risalente al secondo dopoguerra, mentre sotto la destra, ora rilassata di fianco al bruno panciotto, c’è uno strano aggeggio. Insieme un campanello e una scultura.
-ecco, veramente.. se si può, eh…
-vuole salire sul tetto?-, intercetta i pensieri Il Corsaro. Nessun mutamento d’espressione. Dal tono non si capisce, nella maniera più assoluta e in qualche modo sconcertante, se si tratti di una richiesta comune o se al contrario stia cercando di indurre lo sprovveduto a confessare un desiderio inammissibile, contro le regole. L’ombra esita, poi risponde. Non fare domande, ma rispondi, e poi eventualmente vattene.
-sì. Esatto. Se si potesse, mi piacerebbe salire.
Il Corsaro annuisce. Lascia che i movimenti del collo si assestino, accomodino nell’aria che separa gli interlocutori, come a lasciar permeare l’eco di profonde parole. Solleva poi un indice, a dire di attendere un minuto, e solleva poi la cornetta, vi accosta l’orecchio. Ha l’aria di ascoltare. All’ombra pare di sentire solo un recondito ronzio dalla cornetta grigia. Passato un minuto, Il Corsaro riaggancia. Guarda l’ombra e sorride, stavolta più esplicitamente. Le guance gli si sollevano perfino, appena quanto basta da produrre furbe fossette ai lati dell’occhio e della benda.
-dunque. Buona giornata, non trova?
L’ombra, non sapendo che dire, alza le spalle.
-buona davvero. Come è noto, una buona giornata è una cosa fondamentale nel cuore dell’uomo. Non trova?
Di nuovo alzata di spalle. Ma Il Corsaro nemmeno ci fa caso. Guardando il volto di fronte, sembra guardare un punto al di là, o dentro. Un singolo punto simile a un nervo.
-come lei saprà, io ho viaggiato molto per mare. Ho vissuto coste lontane. E le coste di un vasto prosperoso paese, più lontano di tutti. Forse non mi crede, se le dico che là hanno degli enormi… padiglioni, dei bazar per il commercio dei più disparati beni, che sembrano fatti interamente d’oro. Giuro. Si illuminano, la luce rimane dentro di loro anche nelle notti più oscure e straziate dal vento. Non solo: la musica, come nettare, cola dalle pareti, a tutte le ore, e incanta tanto i commercianti quanto gli acquirenti, e si deposita nei prodotti lì esposti. Ah, vedrà. Quando anche sulle nostre coste giungeranno le navi a portare questi luoghi. Sapesse, al Mercato Dei Corsari, quanto è amata la merce di quel mondo lontano.
L’ombra, in un solo attimo incauto, suda profusamente dal collo, rischiando così di ricongiungersi al corpo rimasto al Parco Abruzzo e trascinarselo lì, nella hall dello straniante palazzo. Deve assolutamente scongiurare questa eventualità. Il corpo non potrebbe resistere in quel posto. Ricaccia in dentro il sudore. Al Corsaro, di nuovo, tremolano fossette di chi la sa lunga. Con le orecchie spigolose potrebbe aver avvertito il risucchio del sudore, l’ombra che per un momento aveva avuto dei pori di vera pelle.
Ma perché si era messo a parlare di quelle cose?
-dunque, se vuole salire, ha due scelte.-, riprende in tono professionale. -Quattro, per essere più precisi. Le rampe di scale, o l’ascensore.
-le scale.-, risponde l’ombra. Non si fidava affatto di quegli ascensori carichi di risentimento. E non sarebbe stata la stessa cosa senza le scale. Altrimenti, arrivato in cima, non avrebbe visto la sua palude.
-prego.
Fa un cenno con la destra aperta e composta, un invito. La ripone subito sul bizzarro artefatto, che trilla brevemente un suono cristallino, estremamente acuto. Ha la forma di uno strano essere alato, senza collo. Gli occhi circolari stanno stretti ai lati di una specie di becco semiaperto, sembra per sempre pietrificato in un gemito o moto di stupore. Da quel buchetto che è possibile immaginare, nel materiale simile a ottone, si diffonde la voce tintinnante, che subito tace. Forse invia un segnale, informazioni necessarie. A chi? All’antenna del palazzo, pronta a ricevere un visitatore? L’ombra non lo capirà mai.
Segue l’indicazione della mano accondiscendente. Avvicinata alla cavità, guarda dal basso la rampa infinita di scale. Simili a cedevoli intelaiature di ferro, in oscuri intrichi si delineano claustrofobicamente, quasi verticali nelle singole barre sistemate l’una sull’altra, all’interno di un cilindro o prisma di cui non si vede la base superiore. Non ha fine.
-se vuole andare, vada pure- avverte Il Corsaro rimasto in piedi alla sua postazione, in un paradosso di scherno e serietà -ma ci vorranno decenni, se non secoli, per arrivare in cima. Questo, però, lei lo sa benissimo. Non è così?
L’ombra si gira, incontra un luccichio penetrante nell’occhio del Corsaro. Con la mano accarezza la testa del suo “pappagallo”, senza azionarne il meccanismo. Quello risponde con la stessa espressione un po’ sofferente. All’ombra non resta che procedere, inoltrarsi nell’androne che ha scelto, quello alla sinistra rispetto all’ingresso.
-ah, prima che salga, un’ultima cosa.
Si ferma, un’altra volta. Il tono presagisce una domanda tenuta in gola, pazientemente, fin dal primo momento.
-non ha per caso visto, per strada… come si può descrivere… un’enorme balena fatta di fango? O, al limite, un mostro marino.
Ha detto, una balena fatta di fango. Sa tutto, sa tutto quanto, conosce il contenuto interno, tutta la paura e tutta l’avversione per le regole dell’esistente. Ha letto gli appunti del ragazzo pipistrello, e forse sa dov’è finito. L’ombra suda di nuovo, più improvvisamente e copiosamente di prima, da un nervetto del collo che la tiene collegata al corpo lontano.
Non devo. Non devo. Non devo coinvolgere in questa storia l’individuo che rappresento.
-no, mi spiace. Non ho visto niente del genere.-, risponde, sorride nervosamente. Ma anche Il Corsaro sorride, e fissa, un monocolo che fa tremare l’aria. Sembra sul punto di esplodere, di fare qualcosa, di… rinuncia. Fa una bonaria risatina sorda, ripete il gesto della mano, per esortare il visitatore a salire, come si era proposto. Come soddisfatto per aver preso in giro abbastanza.
-un vero peccato. Sa, per chi, come me, ha viaggiato per mare, olio e denti di simili creature sono oggetti di inestimabile valore. Presso il Mercato Dei Corsari, si possono vendere a carissimo prezzo. Non scherzo mica!
Sorride più forte, scoprendo le gengive. L’ombra dell’osservatore è già troppo lontana, e non riesce a osservare, a capire se una patina di falso oro imbratta i lunghi e stretti denti. Sotto la mano, tremola disperato l’esserino alato. L’ombra riprende il sorrisetto nervoso, e non è più intenzionata a voltarsi. Sente e sa, fin quando non sparisce verticalmente per la prima rampa di scale, che alle sue spalle lo sguardo senza palpebra del Corsaro non si è distaccato un attimo dalla sua schiena.
Si inoltra sempre più su, decenni, secoli. Le scale, lievemente, attutite fino a sembrar rinchiuse in un altro edificio diverso da quello, cigolano e sferragliano, pur essendo quasi immobili. Solo il tremolio implicito nelle cose sospese nel vuoto, e i passi. Pare di addentrarsi nel corpo freddo e metallico di un gigantesco alluminio senziente. O in un bene di consumo su uno scaffale futuro, incessantemente imbevuto di luce artificiale. In realtà, lungo le scale, la luce esterna penetra delicata e azzurrognola, da finestre che sin dal piano terra si affacciano senza apparente logica su un’uniforme tavolozza di cielo quasi grigio, senza nuvole e senza paesaggio, identico in ciascun pianerottolo.
L’ombra che sale da sola in certi momenti ricorda una musica. Quando ha l’impressione che uno spiffero sfiori le scale, che le suonino. Se quel fruscio fosse una musica, piacerebbe al corpo che è rimasto indietro. Starà ascoltando i Boards Of Canada, ecco come si chiamavano. Crede di immergersi nel mare di quell’elettronica fluttuante in un vuoto fuori dal tempo. Se non si immerge ogni momento è fottuto. Ecco perché ci si ritrova in certe situazioni assurde.
Comunque, per le scale infinite, una musica ogni tanto fa anche piacere, se poi torna il silenzio. Ci si chiede invece che razza di inferni siano quei posti abbacinanti che stanno in paesi lontani oltre il mare, che non conoscono la quiete.
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4: sul tetto, per come l’ha vissuto l’ombra
Chissà come sta, l’osservatore non incorporeo, seduto là al parco. Starà a guardare gli scivoli, o gli uccelli. O a cercare quell’altro osservatore, ancora a chiedersi se per caso non si trovi in giro per la città. Comunque, nel suo mondo, forse sono passati solo pochi istanti. Io no, l’ombra no, l’ombra dimentica tutti i decenni trascorsi per la scale. Ogni istante uguale all’altro. A suo modo era una bella fase dell’esistenza. Ma c’è dell’altro, in cima.
Il tetto di questo palazzo, insieme dissimile e uguale al grattacielo del Quartiere, è una tavola bianca. Sospesa in un cielo bianco. Senza imperfezioni, senza irregolarità. È strano, credevo che la testa fosse rossa. Ma c’è solo un pavimento bianco, sotto i piedi d’ombra, sotto il corpo seduto e rannicchiato.
C’è qui, davanti, un foglietto abbandonato. Traballa tutta la sua sottigliezza, proietta una timida ombra sul bianco su cui è abbandonato. Sembra sul punto di venir violentemente sollevato da una raffica di vento, che non arriva mai definitiva. So che quel in quel foglietto ci sono gli appunti scritti dal ragazzo pipistrello. È salito fin quassù. Cosa credeva? Di abbandonarsi a sogni romantici, come sul cavalcavia della Pontina? Lo squallido cavalcavia della Pontina. Forse una palude, concreta o mentale, non è comunque un posto adatto alla ricerca di luoghi sopraelevati. Abbiamo sbagliato entrambi?
Scruto le tenebre di biancore. Fanno sentire circondati da sguardi analitici, disdegnosi del concetto d’anima, e persuasivi in questo senso. È possibile che al loro interno appaia talvolta la figura di una regina di piccioni in volo. Oppure non appare niente, è troppo in alto.
Raccolgo il foglietto stracciato. S’accartoccia e frantuma contro la mano a ogni soffio. C’è scritto al primo rigo, in grossi caratteri, “ECCO COSA HA SCRITTO BATBOY”. Come sapesse che un altro osservatore avrebbe mandato una sua proiezione dove non poteva salire altrimenti, e avrebbe raccolto il suo lascito per inserirlo negli “Appunti Del Fango”. Chissà dov’è. Volato nel cielo incolore, o in un cielo migliore di questo che i suoi occhi sono stati in grado di vedere. O forse è stato catturato da un’enorme balena di fango. Forse si è solo perso e non lo si vedrà più.
Mi sporgo, guardo il vuoto bianco. L’unica differenza con la bianca pavimentazione del tetto, è che quest’ultimo ha dei contorni. Basterebbe avanzare di un passo, e sarei nella zona senza contorni. E forse penserei che è il tetto appena lasciato a non avere contorni.
Non ci sto capendo niente. Mi chiedo se il ragazzo pipistrello ci abbia capito qualcosa.
…
5: ECCO COSA HA SCRITTO BATBOY
Cominciavo a sbattere alle pareti come se avessi perso il radar, o l’istinto, o qualche altro genere di potere che erroneamente presupponevo fosse insito nella mia carne nera. Piumaggio nero. Pelame nero. Mah, sporcizia, come la si metta. Sono fatto di una roba vischiosa e melmosa come pece che mi si è appiccicata addosso, e ha finito col definirmi. Ma suppongo, e spero, che anche questa sia solo una sensazione momentanea, che prima o poi, insomma, sparisca. Magari il processo viene agevolato dai miei continui cozzi contro gli spigoli del muro, le travi, le rocce. Il mondo è fatto di cose che riempiono lo spazio, oggetti, cose. Ci sbatto contro e forse facendolo perdo colore, si lancia nei paraggi in gocce raminghe bastarde.
Comincio a sbattere e una voce urla, da una finestra bucata nel buio (ci sarebbe proprio da chiedersi che razza di simpaticone si dedichi a una simile impresa, recarsi quando nessuno è a guardare presso una certa zona del buio e praticarvi con un seghetto o chissà cos’altro un foro, magari con una specie di proboscide affilata). La voce dice, torna indietro, torna indietro, non perderti, non dimenticare. Ricorda, devi ricordare qualcosa che adesso possa farti riottenere l’orientamento. E capire, innanzitutto, quale forma di carne e grumi e nervi si cela sotto questa coltre liquamosa che ti ricopre e acceca, ti rallenta. I battiti delle tue ali sono talmente incerti, e il loro frullare fa venire in mente la flessione di un lembo di pelle così trascurato…
Allora ricordo, anche se so, non serve a un bel cazzo di niente. Tanto la mia situazione è questa qua, no? Come un gufo piombato in una pozzanghera, sono appesantito e condannato già fin dentro i singoli fili fibrosi delle mie fradice piume. Non mi resta che continuare a sbattermi qua e là. Ma va bene, voce di uno che urla dal buco abusivo nell’aria: ricordiamo. Ricordo di quando parlavo con un mio amico, e guardavamo la luna, con queste nostre paia di occhi a fanale che la diceria vuole ciechi, e che invece sono notturni di una notte segreta. Non che sia così speciale, questa notte, e non capisco come si possa fraintendere a tal punto una questione da credere che è proprio questo che volevamo dire, dicendoci non ciechi. Comunque sia, la luna sapeva, capiva e perdonava tutto quanto, e ci diceva pure, ma sì, continuata a guardare indisturbati, inzuppate quelle vostre microscopiche mezzelune di pupille nere nel mio mare lattiginoso, guardatele invischiarsi del plasma lunare. E guardandola lui mi disse: tu vedi tutto in forma d’uccelli. E sentendo dire quella verità, la sentii meno deficiente, più sensata. Mi sentii incoraggiato nel proseguire lungo la strada, per le vie del cielo, tra i rami degli alberi, avvalendomi del mio orientamento. Un intuito che avevo temprato in un buco di grotta pieno di neri, amichevoli ragnetti e robacce sfilacciate di polvere nerastra che si appiccicava con aria meditabonda agli angoli e alle cose che si introducevano -le mie mani rovistanti in cerca di qualcosa, per esempio. Lì mi rannicchiavo, diventavo una cosa sola con l’oscurità che s’addensava accoccolandosi a spirale, e sentivo crescere in me la visione. Ma allora, perché, se era davvero così, avevo avuto bisogno delle parole di un amico come me amante della luna, per sentirmi finalmente libero di andare? Non significava forse che era tutto una farsa, in fondo? Non ero soltanto una mimesi di quella forma -che adesso ho dimenticato- la quale dà alla mia specie un certo nome, un certo insieme di caratteristiche astratte?
Comunque, mi ero sentito libero di andare, ed ero andato, adoperando il mio bestiario a ogni occasione. Un bestiario non è una mera raccolta di immagini miniate, associate a nozioni più o meno fantasiose scaturite da ogni singolo dettaglio. È molto più di tutto questo, è una porta per simbolismi indispensabili. Come si può procedere in una foresta scura o paludosa, o in qualsiasi altro habitat il mondo possa assumere e che adesso non ricordo, senza dei forti simbolismi per districarsi tra i rami, o per cullarsi sulle loro curve e dormire? E anche se non fossero serviti, ecco, li avrei voluti comunque.
Ma adesso? Tutti gli uccelli mi pare che siano morti. Giacciono a terra con le zampe intirizzite, sembrano ciarpame sottile attaccato a dei ventri che non si voleva lasciare così, tondi e inutili, fini a se stessi. Incompleti. Molto meglio con delle zampette che possono piegarsi e così incarnare il decadimento, il freddo, la morte. Do una craniata incredibile a una superficie ottundente, ma non si scrolla la mia copertura. E fa un male atroce, e non riesco mediante il colpo a recuperare una memoria perduta. Sembra proprio che ritornare su messaggi lasciati da altri, per quanto benevoli, non mi abbia poi aiutato molto in questo pasticcio, eh, cara voce dalla finestra?
Ricordo che ci sono ancora, però, degli uccelli che posso vedere in questo mondo. Mi servono le loro piume e forme alate per orientarmi, per dare un significato a quanto accade. So, perché l’ho sentito in leggende, che a questo mondo ci sono degli individui che si arrampicano su alte scogliere, su strane solide dure conformazioni che spiccano nel paesaggio, su su fino in cima. Da questi elevatissimi davanzali osservano il vuoto che si apre al di sotto. Li separa dalla linea piatta del suolo, che sembra invisibile, sembra frapporsi tra questa e loro una densità indefinibile che si genera automaticamente, ogni istante, dall’aria. La terraferma non è in grado di percepirla e vederla, e come lei anche gli esseri suoi figli. Ma quando sono lì, in alto, la vedono. E guardando in su, vedono che il cielo non è azzurro. Ci sono già, mescolati, tutti i suoi colori, dall’alba al tramonto. E una strana aura, come elettrica o di sconosciuta energia, luccica di là dal suo ultimo velo. Parrebbe di poter, così in alto, sollevare un arto e toccare quel velo, e scostarlo, e vedere un traballante bluscuro mareggiare di cosmo lungo una costa di stelle. Sono certo che tutti, a quel punto, quali che siano le loro intenzioni e quale che sia il freddo che provano sulle spalle impregnate di condensa gelida d’alta quota, tutti senza eccezioni, provano a fare questa cosa sciocca. Anche se sanno che il velo non si solleverà.
E in queste leggende ho sentito che costoro, dopo aver osservato un po’ il vuoto sottostante, e dopo essersi persi in certi lunghi pensieri che adombrano come con una nuvola strana i loro volti chini e che nessuno conosce, si gettano nel vuoto là sotto, quello che fino a poco prima avevano guardato. E che a un certo punto avevano smesso di guardare, rimanendo solo con un luccichio assente negli occhi, incapace di captare cose fuori dai confini dei loro globi. Quel luccichio che si insinua nelle pupille è come uno schermo che impedisce le entrate, e dopo la sua comparsa, non si torna più indietro. Da cosa, non lo so, ma non si torna più indietro.
Esistono individui di questo tipo, al mondo. Loro si lanciano, e volano, come uccelli. E siccome sono come uccelli, a me, che sto qua a sbattere ovunque e sgretolarmi il corpo fino a dimenticare che è capace di avvertire urti sui muscoli e le ossa, a me viene voglia di sapere cosa provano. Hanno paura? Com’è la caduta? L’aria che sale precipitevole dal basso, venendo loro incontro, trapassa le narici come lame, oppure accarezza? E il movimento che eseguono in caduta, agitando braccia e gambe, come li fa sentire? E poi, una volta che atterrano, che tipo di dolore li devasta? Continuano a volare ancora, da qualche parte o con la mente, dopo essersi schiantati al suolo?
Io ovviamente non lo so, ma voglio essere con tutti loro, mentre sono in volo. E voglio coordinare le ali e il timone e il radar e l’istinto in modo tale da fare una virata, e infilarmi con loro in una maestosa formazione a V. Vorrei che quel loro volo, al quale io mi unisco nello spirito (o in ciò che ne rimane), diventi una malinconica migrazione verso le nuvole immerse nel tramonto lì all’orizzonte. Se questo è un mondo in cui nascono uccelli del genere, anzi, in cui questi uccelli saranno gli ultimi uccelli rimasti, allora è consentito anche fare fantasie del genere.
Non importa, in fondo, cosa c’è sotto questa pece. Potrei essere un uccello nero, o una roba che non è affatto un uccello. Uno scherzo evolutivo gravido di malattie e denti veleniferi, una deformità dotata d’arpioni e pungiglioni, e branchie che sanno respirare l’atmosfera fluttuante. Una roba di pelame e piumaggio sudicio. Non importa, posso solo continuare a sbattere, e a ogni colpo, sentire che si lenisce l’infiammazione. Si lenisce con un soffio fresco come di venticello al crepuscolo, quando alzando lo sguardo si vedono dei migratori alti tra le nubi già rifulgenti di vapori rosei.
Io sono con voi, migratori, io sono con la cosa indicibile che provate in quell’istante prima di sollevare l’ultimo passo di là dal bordo sospeso sul nulla. Anche se non la conosco, e forse non la conoscerò. Io sono con il vostro volo solitario su questo mondo che di tanto in tanto si decide a privare le cose senzienti, illuse d’avere una forma, della loro illusione. E le lascia là a sbattere intorno, senza radar e pure senza vista, tanto si infittisce il buio. Diverso da quello che conobbero in una piccola, accogliente grotta, dove non era altro da ragnetti e profonde visioni contenenti il tutto.
Sembra che grido, sembra un pianto, ma è solo un saluto che mando al vostro volo.
I say goodbyyyeeeeee to the groooouuuund
…
6: ???
-pronto?
Il Corsaro solleva la cornetta.
-soltanto uno. È salito. No, non credo abbia fatto la fine di quell’altro.
Sotto il suo orecchio aguzzo, picchiettante contro l’anello d’oro che fa da orecchino, la cornetta di plastica grigia manda solo un indistinto ronzio. Il Corsaro sembra sapere che nel ronzio ci sono delle domande.
-quando? Giorni fa. Che ne so? Ci avrà messo secoli ad arrivare su. Comunque, è tutto risolto.
Smise per poco di ascoltare, scostandosi appena dal ricevitore, per avvicinarsi al campanello che teneva sul bancone, e accarezzare come a spolverarla la testina piatta della sua strana forma alata.
-o, sì, uno strano ragazzo, certo. Sembrava un animale. Che animale? …mah, non saprei. Un animale malconcio, di sicuro. Assicuro che non hanno dato noie, né il primo né il secondo. Tutto è regolare come deve essere nel cielo di Aprilia. È tutto a posto…
Carezzava amorevolmente il piccolo oggetto che sembrava chiamare aiuto con la sua espressione, intagliata fissamente nello stupore o nel terrore.
-tutto a posto.- ripeté prima di riagganciare e sedersi, in attesa.
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