Gli Appunti Del Fango- proteggere
- Milky
- 27 dic 2022
- Tempo di lettura: 17 min
Alla palude dormiente e il bitume che rivestiva gli strati più superficiali del suo esoscheletro non occorse alcun inganno causato da fiati spettrali: l’osservatore, a passeggio in angoli vuoti della piazza galleggianti come isole nella quiete invernale del buio uniforme, uguale anche a livello del suolo al cielo senza stelle, passando come un’ombra sopra le giostre lì allestite e subito abbandonate dalla diaspora umana che si riversava in quel momento tra pareti tempestate di lumi resi densi da forti odori -luce e odore in quel momento distanti, irraggiungibili nell’isola nera-, si ritrovò in un istante che pareva senza continuità con tutti gli altri e al tempo stesso conseguenza naturale a proseguire i propri passi in una piazza diversa, lontana, un’altra piazza vuota cristallizzata sopra una palude assopita nello stesso sonno demiurgico d’un serbatoio vulcanico. Il mare ruggiva al di là di pochi marciapiedi e passaggi per i camminatori come una massa d’oscurità corrosiva e irrazionale. Un drago di plastica di durezza adamantina che faceva rifulgere in modo accecante il riflesso dei lampioni solitari lo guardava con occhi arancioni dipinti sul verde reso biancheggiante, sporcato da frammenti d’illuminazione affannata dalla vita costiera, simile a deiezioni di gabbiani sui parapetti.
Nessun portale, nessun trucco metafisico. L’osservatore si chiese, per il momento senza alcun desiderio d’annotare nulla sui propri appunti, se non si trattasse di quel fenomeno palustre che cancellava il tempo, i passi intercorsi tra un luogo e un altro come vertiginosi vuoti di memoria. Ma sapeva che simili vuoti non sono qualcosa che la palude fa piombare su tutti i suoi esseri. E la palude non ha prescelti. Ci sono esseri, ci sono osservatori, destinati a rivolgere lo sguardo alla palude e le sue isole di città calpestabile per scorgervi ciò che accade dentro, sempre tramutato in forme ostili o ammalianti.
Come ad Aprilia, nulla respirava al di sopra del suolo calpestabile, torpido d’una nebbia grigia che penetrava tutte le cose solide urbane, polvere accumulata dai giorni. Nulla respirava sulla terra desertificata dall’invisibile ghiaccio intangibile disciolto nella tenebra invernale. Questo era il mondo stretto tra guglie silenziose, rigide, gemelle a soverchianti palazzi di civiltà morte e sgretolate nel fruscio del vento di lande relegate a strati inferiori della terra. Questo il mondo che odorava di mare e di immondizia, i due fiati indistricabili sulla costa che attraverso una macchia sepolta del Fango raggruppa in una sola nazione le città affacciate sul mare e quelle dell’entroterra limaccioso, in perenne attesa della pioggia dal cielo di eterne domeniche grigie per risvegliarsi. Le strade tra il mare e i pantani, ombreggiate da roveti e querce. Immondizia in letargo, carogne dormienti. Un osservatore da solo a respirare vedeva sempre le stesse cose. Sapeva che in quel passeggiare desolato attraverso i reami gelidi dell’unico ecosistema conosciuto non faceva altro che rivivere ciò che da sempre l’aveva allattato, osservatore che osserva un mondo limitato.
(-immenso, vorrai dire.)-, disse, inconfondibile e all’improvviso nitida come non mai tra i pensieri, la voce del Fango che sotto i passi traballava gelatinoso e strisciando ed esalando percorreva ogni angolo che, germinante dalle profondità del suo cervello gelido, diventava continente, diventava sconfinato dominio. Voce più che mai nitida nella sua torbida aura, lingua nera di demoni dell’acqua e della terra. L’osservatore rabbrividì toccandosi dentro al cuore il dorso d’un rospo cadente in pezzi gommosi, rabbrividì sentendosi percorrere numerosi cuori celati all’interno delle gambe e di tutta la verticalità del corpo un tremore privo di temperatura, generabile soltanto da una morte assiderata coi piedi immersi nella melma fradicia d’una pioggia invernale che è la febbre epidemica del cielo e della terra. Dalle spalle fece capitombolare via il brivido, e le volse al drago e l’elefante e le altre giostrine che con l’invisibilità di Ganesh e Ryuujin continuavano a circondarlo, maliziosamente evitando di distinguere protezione e minaccia, tutt’attorno mentre proseguiva i suoi passi zigzaganti, tra i parcheggi e i palazzi e gli scalini che conducevano al mare. Guardando verso il lato opposto al mare quei bastioni immensi di cemento, cresciuti inverosimilmente come un cancro lasciato libero di perdere e prendere il controllo a proprio piacimento su un’intera porzione di mondo, pareva impossibile immaginare che là dentro ci fossero cose vive, no anzi, che ci fossero luci accese a significare famiglie e a significare festività di fine anno oltre i muri e le finestre, che tutte mostravano soltanto palpebre chiuse d’abbandono, come se anche in quella parte della città marina, priva di località balneari, tutto fosse stato lasciato vuoto, relegato a oblii inconsci per tutta la durata dell’assenza dell’estate. A differenza di Aprilia laggiù nemmeno le spire delle illuminazioni s’attorcigliavano alle ringhiere, nemmeno le luci più brutte e sporche e sfrigolanti adornavano di movimento la scena dominata dal rumore del vento, dal silenzio calcolato del Fango, dalla pressione laterale del mare vendicativo per mangiarsi la costa e riprendersi il maltolto, incalzante come un pensiero troppo a lungo evitato. E dietro, sui passi irreversibili che nel nulla scomparivano assieme a lingue di tempo, sorvegliavano accanto a invisibili fantasmi di statue grecoromane le statue plasticose delle giostre, che lì da Aprilia l’avevano condotto. Ricordandogli le giostre di Anzio che avevano osservato un osservatore bambino, insegnandogli nella notte incombete dei giorni spensierati che il mare poteva diventare nero e infinito, e ruggire come una bestia trafitta da miliardi di spade e fauci, e che quel ruggito sempre imperversava in brume di white noise al di sotto delle musiche festanti in eterno ricircolo tra le luci, al di sotto della fiumana umana in processione sul lungomare, sotto frivoli strati di frittura effimera, presto decomposizione, presto immondizia. Sotto incantevoli bagliori di tramonto, gabbiani, barche ormeggiate. Non poté fare a meno, l’osservatore, di vedersi affacciare nella mente ancora una volta l’espressione quasi scellerata del drago con gli occhi roventi (sarà fratello di quello ucciso dal Santo Apriliano), prima di piegare definitivamente l’andamento del proprio zigzag sperduto in direzione della spiaggia.
(in quel momento ti sembra di vedere la prima giostra, la prima statua d’una bestia di plastica guardiana posta per prima come idolatria del benessere, in un decennio lontano quando la costa sembra resuscitare da infiniti giorni di sola risacca, animarsi di nuovissimi e incalcolabili rumori. Vedi accanto al drago e accanto a fantasmi di Apolli ed Ercoli nudi in piedi sui marciapiedi di Anzio un Topolino a gettoni dotato di sella che sembra ai bambini di quel tempo la cosa più meravigliosa immaginabile. Vedi il pianto che gridano quando madri austere e inamovibili nel gesto senza pietà li portano via, lontano da quel singolo posto in tutta la città in cui riescono a essere toccati da qualcosa, vedi quel pianto che continua a echeggiare fin nei giorni totalmente dimentichi della giostrina e procedenti uno dopo l’altro come monchi inconsapevoli, con qualcosa che è stato loro strappato. Il Fango cancella le tracce della sua azione. I vuoti di memoria riempiono le paludi mentali di tanti osservatori dal dopoguerra fino alla fine del mondo.)
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Scarpe d’osservatore affondano nella spiaggia e la sabbia si arrampica in granelli di falsa neve su per le caviglie, la schiena, le ali che fantasticando finge d’avere sulle scapole. Non per volare ma per simboleggiare. Si può mai trovare un posto nel mondo a questa desolazione, così intollerabile e così sublime?, si chiede l’osservatore dicendosi che soltanto da una caduta, un precipizio da un cosmo di idee a una terra di trappole abitata da altri corpi lanciati laggiù senza spiegazione, può derivare tutto ciò che sente, tutta la sua esperienza viva e morta e catalettica. Il vento gli scompiglia i capelli e li schiaffa sopra la faccia, accecandolo temporaneamente con puzzolente cheratina. E nel fetore proteico e forforoso s’infiltra il sale delle onde.
Sulla spiaggia di notte nulla respira, nulla si illumina biancheggiando. Qui non ci sono ancora le sdraio, non ci sono gli ombrelloni. No, qualcosa biancheggia: frammenti senza nome di carta e plastica, vetri, vogliono sembrare tesori che annaspano dalla rena facendo credere che la battigia è il fondale, o che il fondale è uscito dal suo sonno di laggiù per posarsi dove camminano -no, camminavano- i bipedi, il loro singolo esemplare restio ad ammettere d’essere bipede, bramante passi senza impronte, bramante sguardo di fantasma. E vede che altre cose cominciano a biancheggiare. Forse sono meduse, lumache di mare, creature morte di gomma trasparente svuotate, ormai da un’eternità, dell’ultimo fiato strozzato d’acqua marina. Ribollente bava incrostata sulle loro cupole e gobbe viscide. La sabbia avvolge i corpi inerti, come avvolge i piedi che procedono parallelamente alla linea delle onde, ammalandosi nel freddo spaventoso dell’anno andato a morire per qualche motivo verso il mare. L’osservatore vede poi biancheggiare appena sotto la dura muraglia del parapetto che separa spiaggia e strada rialzata un cumulo di logore bandieruole, mangiate da gabbiani e intemperie, un tempo puntellanti un cerchio tracciato attorno a un nido di tartaruga. In zaffate d’immondizia ritornano all’osservatore le strade di boschi inquinati tra il mare e i campi e la città natale, a ricordargli che tutti gli animali sono già morti, hanno già quell’odore. C’è da qualche parte una carcassa di qualcosa che è nato lì. Questa è la consapevolezza di chi marcia sulla spiaggia, sotto lo sguardo della città.
(e all’improvviso vedi giungere lì, dove sono decomposte le bandieruole, dove non è lontana una piazza abbandonata di giostrine teriomorfe senza padrone e senza amici, ombre alte d’uomini che infinite volte hai avuto l’impressione d’aver conosciuto, in un’altra vita, in esistenze di altri osservatori che a te si collegano come le giostre di Aprilia si collegano a quelle che sorvegliano l’impero degli odori salmastri, delle ville romane affioranti in distese di pattume e stabilimenti rumorosi e cartelli di gelati Algida di metallo flessuoso. Sono, quelli che arrivano, uomini vestiti a righe, sono alti, sono ombre che assomigliano a te, assomigliano a tuo padre e ai padri prima di lui, assomigliano a un’idea di te e tuo padre e di tutte le linee patrilineari d’osservatori mentre le madri erano altrove a raffinare nel proprio animo la capacità di cogliere nei padri il malessere e riviverlo e continuarlo. Assomigliano ad anni che non hai vissuto, cose che non hai visto, che t’incidono però le viscere che vorresti adesso rigettare e dare in pasto agli uccelli marini -che non ci sono. C’erano allora, nel cielo di quel momento che ti sembra di veder riprodotto in proiezioni incorporee dentro le ombre che all’improvviso hai evocato, e vedi sopraggiungere, con ombrelli sottobraccio. Le generazioni passate, emergendo dalla guerra, che ha eretto pile di corpi sui prati e colate di cemento sopra gli acquitrini, e stazioni e ferrovie nei campi che ti mappano l’interno, piantano i primi ombrelloni sulla spiaggia che pochi chilometri più avanti si riempie di stabilimenti, e portano sdraio e palloni e Pop e Doo-wop e Rock n’ Roll e occhiali da sole e tutto il malloppo di quiete trafitta dal vento che segue sempre tutto ciò, accomodandosi tra le dune e le macerie dei bagnanti. E piantano altri ombrelloni e piantano bar e passerelle di legno direttamente sulla sabbia, quasi si tuffano in mare, e piantano un Topolino per primo e poi altre giostre, icone note e ignote, e c’è una festa che rimane morta e immobile per la maggior parte dell’anno davanti alle onde che non s’arrestano mai, un vento sta arrivando dal cielo grigio e per sempre continuerà ad arrivare, a crescere. E gli uomini alti d’ombra ti si fanno attorno, quando cammini quasi sfiorando le meduse a terra, chi va là, chi è, dove stai andando. Già. Dove sto andando? A destra il mare, a sinistra il cemento freddo forse più dei suoi abissi, davanti la sabbia ancora, puntellata di rifiuti e cadaveri invertebrati, che laggiù sembra cominciare a riempirsi d’oggetti, nella parte di città dove la costa diventa vacanza. Qualcosa di chiaro nel buio lontano mima lo scoramento di un cucciolo di balenottera arenato. Non è una sdraio. Non si limita a biancheggiare, respira. E riconoscendo una specie di ragazza con il corpo accasciato alla sabbia bagnata, in un istante si sentono sparire soffiando irritate le ombre delle generazioni passate che avevano fatto un cerchio attorno ai passi senza scopo. Pareva quasi che, prima di scomparire come mostri cacciati dall’alba, avessero quasi intenzione di attaccare, strappar via qualcosa, dalla carne troppo fragile di un intruso nel loro mondo.)
Non si limita a biancheggiare, respira. Sulla spiaggia c’era una specie di ragazza stanca, senza forze, per metà fradicia di schiuma raggelante, per metà secca come asfalto. Qualcosa cominciò a respirare nel mondo buio di quell’inverno senza altre luci che quelle distanti e fioche dei lampioni asettici sui marciapiedi lassù. La creatura, avvolta come in un guscio da capelli un po’ argentei, pareva così abbandonata al centro di tutto quanto, da tutte le città di bastioni silenziosi e spietati, da tutti gli oceani, rigettata, misconosciuta. Privata del volo. Si rivolse così all’osservatore, senza retrocedere, ma non per via dei suoi movimenti compromessi. Volarono in un medesimo inafferrabile istante di comunicazione inverosimile dentro i cuori di entrambi nugoli di uccelli minuti e puntuti, con becchi neri e aguzzi d’acquaioli, intenti a giocare con gli spruzzi e formare stormi senza alcun timore dell’uomo. Con voce nuova e mai sentita laggiù, di una creatura che per prima su tutta la terra credeva potesse esistere la pietà, la creatura chiamò l’osservatore, senza dirne il nome, senza dire il proprio, senza ammettere che esistesse lei o esistesse altro da lei.
-devo deporre il mio uovo, ma ho le… le ali, e le zampe anche, rotte.-, tossiva e s’affannava. -devo stare in un luogo di cova. Prima che sparisco. Prima che.. ah, fa male.
La ragazza diceva di avere le ali rotte, le zampe rotte, e facevano male, e l’osservatore credeva di poterlo vedere, di osservare nella stortura dei movimenti e della forma degli arti quella maledizione, inferta al corpo, e di vedere dentro questo, custodito, un nido d’uova piccole e candide e color maiolica che, pur conoscendo la propria prematura fine, desideravano comunque uscir fuori, posarsi. Avere un luogo di cova affianco alla mamma senza respiro. Un vago ricordo entrava dentro i gusci, memoria di meduse inerti affianco alle zampe della mamma quando gli embrioni erano ancora nel suo ventre. Un vago ricordo di ciò che lei portava in quel ventre assieme a loro, cose che, se fossero sopravvissuti, li avrebbero visitati, come spettri, come traumi di cose che non avevano mai sofferto. Se c’era davvero un uovo dentro lei, era l’uovo d’un osservatore.
Cosa avrebbe dovuto fare? Salvarla? Ma era possibile fare qualcosa del genere? Si può, forse, solo accudire, per brevi momenti, senza mai salvare. Anche se non si agisce, anche se si osserva e basta. Si può forse vegliare sullo spegnimento lento e commovente di un pulcino fradicio che non ce la fa, non ce la fa proprio a tollerare di stare al mondo, e pian piano chiude gli occhietti viola. Cosa avrebbe dovuto fare? Ovviamente, la osservava, fermo lì in piedi.
Era una donna di un’età indecifrabile. Un cuore piccolo di bambina, affannato da un volo prolungato inadatto alla muscolatura e il sangue ancora fragili, sussultava sotto il velo sporco di sabbia ruvida, e dal collo al volto salivano mappe di fitte e affascinanti rughe quasi invisibili, tracciate in arabescanti incroci d’un grigio più chiaro di quello della carnagione anche attorno agli occhi, sugli zigomi, fin sotto l’attaccatura dei lunghi capelli deprivati di linfa vitale. L’osservatore poteva capire, soffermandosi su quei particolari, come la donna appartenesse a una specie dal piumaggio bianco, macchiettata qua e là soltanto da flebili pennellate di fumo. E semplicemente concentrandosi su questi particolari, era possibile soccorrerla, era possibile prenderla, una donna più alta, e accoglierla nella conca formata dalle mani che diventavano un nido caldo, per il suo ventre rigonfio di paura, di diffidenza che si dissipa per lasciar posto a una speranza che trema, trema, calda tra le dita. Raccolta così la donna, come in un sogno o una fiaba, l’osservatore s’incamminò dalla spiaggia entrando nel lungomare cementifero dove i passi rintoccavano secchi contro la burrasca e contro l’assenza di movimenti vivi, movimenti che non fossero l’incalzare del vento, la spuma iraconda delle onde oscure.
Avrebbe trovato un luogo di cova. Valicando un ingresso, di uno degli innumerevoli interni della zona balneare quasi disabitata, avrebbe fatto sì che ritornassero nel mondo percepibile delle cose vive. Umanità, lavori, veglie; luci accese, scale che conducono a delle camere, quadri appesi, un acquario verde. E portando in mano la donna gravida d’uova, ferita ad ali e zampe, avrebbe spiegato da sé, in silenzio, la presenza dentro quel mondo, la temporanea “missione”. Ma no, non era un soccorso. Era solo un po’ di pietà, forse, inutile, impotente. Solo una notte a farsi compagnia e in silenzio dirsi a vicenda quanto ogni cosa sia terrificante e per questo stringersi assieme, fisicamente o col pensiero, più forte (così un osservatore immagina l’amore). Una notte in una camera già abbandonata l’indomani. In una camera di sessant’anni fa, raggiunta attraverso ponti palustri indifferenti a spazio e tempo.
(d’accordo, Fango, per questa volta decido di servirmi di te, del tuo potere. Le tue leggi che possono condurmi dove devo andare. Ma non esultare e non deridermi. Ho qui, in mano, qualcosa di prezioso. Ciò che chiede pietà è prezioso. Non riderne. Per favore.)
(-HhHhHhHhHhHhHhHhhhh…….-, rise cavernosa la voce del Fango, insuperbita e divertita soprattutto da quell’osservatore che per primo chiedeva pietà, credendo di fare qualcosa, di proteggere.)
La donna, rannicchiata tra le mani, si rassegnava. Decidendo di fingere di farsi aiutare. E in una speranza, fioca ma d’intensità e coraggio profondi più dei poteri di draghi ed elefanti e dèi pagani di Lavinio dove s’era arenata, chissà se giungendo in volo nel cielo o nel mare, in una speranza che rimaneva camuffata sotto la finzione del tentativo di farsi salvare e ancora vivere, riscaldava d’amore l’uovo che aveva dentro, amore capace di schiudere, far nascere. Fino all’ultimo momento in cui il sé sparisce, diventa nulla. Nulla totale.
…
La vecchia tv dell’albergo mandava starnuti elettrici a ogni scossone proveniente dall’interno, del suo organismo di ingegni logori. Le immagini si componevano sullo schermo simile a un alone di polvere come riflessi iridescenti nel catrame della battigia. E raggiungendo la testa con mal di testa volanti di calore, le vibrazioni fratturate dall’irregolarità del segnale spargevano sulle lenzuola, sotto i tubi concavi formati dalle tende sollevate dal vento proveniente dal mare nero di là dal balconcino, sul legname e sui segni di rovina dell’armadio una polvere di anni mai vissuti, poveri, spogli. E sedendo sul letto dell’albergo, come in un sogno ma troppo vivo per poterlo godere, capiva che in fondo significava sedersi nell’assenza di un ritorno, nell’eternità d’una sera senza radici, in eterno vagare; e sedendo lì, affondando nel materasso che doveva essere padrone del sonno molto più di strati e strati sovrapposti d’oceano sopra gli annegati, si struggeva chiedendosi se di quel tempo senza oggetti in cui torri di polvere s’ergevano -molto più visibile la loro natura- nell’aria tutt’intorno rimpiangesse il deserto o lo temesse, rifuggisse il gelo che portava con sé ogni volta che calava la notte, il calore torrido senza via d’uscita che precipitava sulla terra quando il dio era quello diurno del tedio e l’insensatezza, quasi violenta.
Per pochi istanti poté intingere la punta delle dita nella materia bagnata del cuore, credere d’essere la sua stessa mano e d’avere un corpo e un essere dunque immersi in qualcosa di caldo e rorido e gigantesco, un palpitare che aveva vita, vita che aveva un senso, che stava sicuramente a battere per qualcos’altro. La musica presto si esauriva nei germi di rumore che grondavano dalle membra più rasenti delle onde sonore difettate di quel vecchio apparecchio, figlio di quei tempi e degli alberghi rimasti come in parte sprofondati in quei tempi -se mai erano esistiti, questi famosi tempi. Guardò attraverso la patina grigia -invisibile, ma riusciva a coglierla- dello schermo manciate di schiuma marina, che capiva essere quella delle spiagge appena sfiorate da un sole estivo diverso e irripetibile, da ombrelloni da spiaggia a righe nere e senape trascinati sottobraccio fin nelle spiagge che per primi colonizzavano, nel reame del vento e delle sterpaglie resistenti al suolo sabbioso. Vide gli uomini seminudi in piedi sulle strade adiacenti agli immediati deserti vicino casa, i capelli lunghetti smossi dal vento accelerato, che rifletteva se stesso nel comportamento abbandonato e sofferente dei canneti un po’ opachi, e altre parti ancora di se stesso nei gruppi di fichi d’india appena smossi, coriacei. Vide un mal di pancia che covava sotto al biancore d’addomi protrusi al di sopra di costumi a righe rigorosamente bicromatiche e nostalgiche di qualcosa che nemmeno il tessuto sapeva cosa fosse, confondendosi e facendosi già stanco e sconfitto nel tentativo. Nello schermo nulla di tutto questo era trasmesso dalla programmazione di quella sera, ma lo vedeva, sotto la patina. E piangeva con lui la schiuma di quelle lacrime che non avevano avuto principio in qualcosa che sapesse ricordare o spiegare a chicchessia, stando dinnanzi al tempo non vissuto in cui, pareva, a star senza una spiegazione t’avrebbero ucciso, fucilato, rapito per ragioni politiche. E in cui nessuno ce l’aveva veramente, e nella quasi assenza di cose e schermi ingombranti dagli ambienti domestici, l’esistenza della specie si definiva precisamente in quel vuoto poligonale che nelle giornate solitarie si estendeva dai petti alle pareti, come un patto solidale: precisamente nell’assenza di sbocco dei pensieri. Fantasmi di generazioni, collegate da sangue e vie fangose di palude, se ne stavano in piedi a sentir il pomeriggio tardo ticchettare via, talvolta guardando fissamente senza veder nulla le calamite e gli adesivi sui frigoriferi spigolosi color crema, e a farsi scuotere dal ronzio che lì dentro cresceva, cresceva, sembrando volesse esplodere in un ventunesimo secolo venturo di viaggi cosmici e design analitico e cerebrale.
La spiaggia inconsistente nello schermo si era insomma circondata all’improvviso di pareti, inconsistenti anch’esse, anch’esse del tutto scollegate dal film in tv. Ma crescevano pareti non perché crescesse un “miracolo” edilizio o qualcosa del genere -cresceva, sì, ma non era il big bang, non era la causa del tutto: si vedevano in quel momento, lontane come magnifici mortali obelischi e piramidi, come fari in onore del marmo e di tutto ciò che si sgretola eppure insiste a voler esser vissuto, le costruzioni affacciate verso le onde, verso i rumori e la musica prossimi ad accumularsi sull’intera linea della costa. Ma appunto, in un baleno erano state relegate allo sfondo, a esser obelischi lontani, e la scena era entrata in casa, s’era rinchiusa, trascorreva un tardo pomeriggio avviato verso la tenebra nell’odore sconfinato della polvere e del mobilio. Si vedevano e non vedevano sullo schermo le cose indecifrabili che tumultuavano in cuore agli affanni grossi e lievitati nei toraci che già immaginavano se stessi, con indecifrabile angoscia, per com’erano stati in quei momenti di balneazione, quand’era stato?, l’estate scorsa, l’estate d’infanzia, l’estate in cui era stato strappato loro il gioco della giostrina perché imparassero che tutto finisce. Bei ricordi d’estate. Balneazione nel vento terroso. Innumerevoli bagni rinunciati. S’erano mai effettivamente fatti il bagno?
Prevaleva l’odore delle cabine con le docce di bambù segmentato, locuste d’igiene. Nei sentieri ancora mezzi erbosi sul giallo arido. L’osservatore fantasticava senza motivo di vivere là dentro come vivesse nelle cose che in fiamme di aria ignifuga avvampavano all’interno dello schermo, e come se effettivamente stessero avvampando in una maniera che potesse avere a che fare con l’estrema irrefutabile concretezza di quei rumori frapposti alla traccia audio. E la colonna sonora del film di Scola gli diceva che loro sapevano, che in certi momenti gli uomini di quel passato sapevano già come tutto sarebbe stato e creavano, sanguinando lacrime di luce che non potevano altro che diventare immense praterie di musica lanciata nell’aria, in una savana mai vista dell’anima, perennemente incombente ai margini, delle proprie tempie, delle stanze, di qualcosa. Qualcosa d’enorme. Dio era quegli struzzi già morti, quei rinoceronti già estinti. Tutto quanto appariva nel film (questo sì, stava venendo trasmesso per davvero, quasi volesse creare un lampo di sincronia giungendo fino all’albergo in piedi nel tempo del rimpianto, vicino alle spiagge del non ritorno) era già morto. Decomposto. Polvere soffiata via dal vento della savana e della spiaggia, verso terre che la musica diceva vaste e lontane, che diceva mai per davvero raggiungibili -altrimenti non ci sarebbe musica, diceva anche. Unico modo. Gazzelle saltavano sul fondale d’erba e cielo di colori troppo marroni, troppo accartocciati in fotografie filtrate dall’inesorabile obnubilamento del tempo per poter mai essere state qualcosa di esonerato dalla consapevolezza senza sosta della propria fine già inscritta nel mondo, nella propria carne di carta a esso cucita. E la musica sapeva. E, in una qualche stanza dei tempi non vissuti non nati/nati già morti, individui del cui respiro non rimaneva ormai alcuna traccia l’avevano estratta dai loro sguardi evitati, nel silenzio e nel nondetto, nella risonanza tra tutti i vuoti poligonali che in solitudine domestica raffinavano ognun per conto suo ricordando le villeggiature tirreniche, l’avevano estratta dal posto in cui sapevano di star scrivendo l’ultimo lancinante punto in fondo alla pagina della storia dell’anima, dello spirito. La colonna sonora che gli massacrava le corde del cervello, facendogli far cose che prima giacevano addormentate (e che credevano soltanto d’aver ripreso vita, come liane secche che nell’istante di vita d’un fulmine credano con romanticissimo e bollente slancio d’essere serpenti, per poi ricadere inerti e limitarsi soltanto a sognare il momento irraggiungibile d’un altro simile risveglio) proseguiva nell’aria della camera d’albergo disegnando invisibili volute di morte incantevole.
La donna sul letto perdeva sangue incolore, la linfa che l’aveva composta. S’assottigliava, spariva senza salutare, ultimi respiri più fragili di quelli di un implume che si spegne in un’incubatrice. Che piano piano chiude occhi viola. L’osservatore non l’accarezzò. Non le guardò il volto un’ultima volta, non seppe se l’albergo degli anni dei suoi genitori era stato un buon luogo di cova, se per lei era stato un’ultima nostalgica ombra d’affetto premurosamente appoggiata agli ultimi istanti oppure un carnefice. Ma sentì all’improvviso, come evaporando dalla conca d’acqua salata e sudore lasciata a sprofondare nel materasso ormai vuoto, una serenità che gli scombussolò la geografia dentro gli organi, ridisegnando mappe, strade di putridume e carcasse investite, acquitrini e boschi, coste gremite di caos. E sentì baluginare, nascosti in respiri senza misericordia e Fangose voci brutali, due suoni, alla sinistra una ninna nanna -I stand in front of you, I’ll take the force of the blow, protection- e alla destra i tamburi e il crescendo che gli era penetrato nelle orecchie dalla tv, quell’ingenuità grandiosa che pareva quasi creare dèi e altitudini, il modo in cui l’Italia di piombo aveva sognato, chissà perché poi, l’Africa, e l’aveva messa in fotogrammi di rimpianto.
L’osservatore rimase seduto sul letto in quella notte d’albergo che lasciava il posto all’alba sul mare e le barche, osservando a un palmo dalla fronte fino a rovinarsi la vista la tavola polverosa dello schermo e il suo urticante vorticare di nuvole bianche e grige di rumore, proprio come quando esisteva la fine delle trasmissioni. Quando in camere d’albergo affacciate su distese di mare nero di tutto il mondo si svegliavano a notte fonda gli animi rimasti soli, affianco all’assenza di una donna evaporata. Inquieti e nervosi a cercare il telecomando, per trascorrere l’insonnia guardando riflettersi come in uno specchio tutto ciò che sentivano, il rumore bianco che annunciava loro il paradosso di qualcosa che continuava a ripetere d’esser finito.
La granula elettrica di bianco e grigio era polvere, era schiuma.
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