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Gli Appunti Del Fango- mito fondativo, mito di confine

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 16 mag 2022
  • Tempo di lettura: 17 min

Aggiornamento: 18 mag 2022

Il fetore di schiume e gas afferra per intero un lato della strada. Un tubo che non c’era fino a poco prima, sbocciato da una gola del terriccio, dentro il fossato. Ha cominciato a vomitare e schiumare. Passandoci accanto ho rischiato di addormentarmi. Cadere sulla strada in un sonno profondo e doloroso, nei pressi della rotatoria.

Mal di testa, mancanza d’osservazione quando mi rintano. Nel respiro che m’entra dentro, in tutti gli attacchi delle cose esterne, si nascondono alcuni messaggi. Per esempio: devi trattenerti dall’osservare, per lungo tempo. Questo posto, questa città, non è luogo in cui esseri della tua specie possano far altro dal subire. Si producono in azioni complicate, inutilmente contorte. Ma scorre sul fondo la stessa sostanza (rivedo fermentare le schiume nel terriccio nero del fossato, sotto il filare d’ulivi dopo Meucci e Rosselli…). La stessa sostanza tossica, urticante, o forse solo contaminante, contamina senza essere mai contaminata da niente (la schiuma soffia furibonda per penetrare nelle radici dei fiori, che si addormentano, muoiono…). Non è questo un luogo in cui le azioni assumano altro valore. Osservare è futile: osservare è qualcosa che non puoi fare ininterrottamente, in un posto del genere. Devi sprofondare e poi riemergere, a ripetizione, non dimenticarlo mai.


Messaggi disciolti nell’aria, ossigeno e polveri sottili. Quando riemergo dal buio periodico, comincio ad ascoltare pian piano nuovi segnali, m’illudono che si possano recuperare in manciate le macerie di quella facoltà che ho chiamato “osservazione”. Mi accorgo che certi uccelli, di specie metaforiche invasive e dannose per l’ecosistema, si lamentano.


Alcuni uccelli si lamentano: un tempo, i simboli erano più facili, dicono.


Infatti, un tempo c’erano corvi neri nella campagna laziale. Sui fili sospesi tra i pali susseguentisi all’infinito, affianco a corvi bianchi, e a cornacchie grigionere che sono le uniche rimaste ancora oggi. Da lì, possono osservare molte cose. I campi sottostanti, macchiati d’asfalto bucato. Sassi scroscianti sotto passi randagi. Seguire i passi, fino alle pendici dei Colli Albani. La vista dai fili elettrici copre il territorio intero.


Le cornacchie sono rimaste, senza scomparire. Portano memoria del tempo in cui i simboli erano di semplice interpretazione, e qualsiasi voce o leggenda diventava mito fondativo. Spariva poi silenziosamente, come silente Fango sotto le fondamenta d’ogni edificio, per la città che non possiede storia e non possiede folklore. No: ne possiede senza saperlo. E allora, nell’aria tempestata di morbi e di messaggi, giunge un messaggio, una storia raccontata da uccelli che rimpiangono tempi in cui erano loro la massima intelligenza sorvolante un mondo più semplice. Storie d’uccelli che rimpiangono il tempo in cui anche loro erano simboli semplici, di bianco o di nero o della loro unione, senza nient’altro. Solo colore e occhi per osservare lontano.



Si dice, tra certi uccelli, che arrivarono in due, fratello e sorella. Fratellino, sorellina, li chiamavano gli umani, per coccolarli coi nomi dati al loro legame. "Fratellini" li chiamavano in due, perché lui era alto, era uomo e alto per la sua età, e s’assorbiva la sorellina femmina piccola ogni volta che la teneva per mano. Se c’era un mondo semplice nel quartiere di ville di campagna dove facevano ritorno dai giochi campestri ogni sera, c’erano anche molte regole di questo tipo. Il fratellino procedeva, sospingeva i duri piedi in via di sviluppo sui pedali e a ogni movimento proteggeva la sorellina, di poco dietro lui, assimilata nella traballante nera bandiera della sua ombra sul suolo torrido. Sulla sterrata bianca e sassosa, lacerante una cicatrice color unghia in mezzo a due immensi campi d’erba verde e bluastra, le tenere e goffe rotelle della bicicletta da bambina cigolavano e crepitavano, facendo saltare ciottoli irregolari a ogni sobbalzo.


Un venticello opposto al loro movimento investiva le treccine nere e gliele scombinava, i capelli uscivano sfibrandosi dai laccetti fucsia che li tenevano in ordine e, sparpagliandosi in maniera ribelle dai contorni morbidi e puliti del suo volto rotondeggiante, la facevano assomigliare all’improvviso a un dispettoso fiore selvatico, con un broncio tutto suo. Il vento le sparpagliava i capelli, le solleticava i peli che nascondeva nelle narici, le rinfrescava le braccia corte che stringevano con immane forza il manubrio della biciclettina come fosse un paio di mani consanguinee. Il venticello le portava l’odore di sudore e gomma bruciata del fratello maggiore, poco avanti a lei, un odore che amava e che inalava con una specie di ammirazione. Complicata da un enigma, una parte del fratello nascosta da qualche parte. Nella sua ombra o tra le spesse ossa del torace tanto forte.


Si dice che i “fratellini” non dicendosi una parola si dessero molte indicazioni. Solo gli uccelli le vedevano, nei campi di confine tra i territori di Aprilia e Velletri, solo i corvidi che nei territori di confine si moltiplicavano sui fili, sulle cime dei pali. Una gazza fece balenare la sua livrea lucida ed elegante perfino nel fogliame di un albero basso, vicinissimo a loro. Ma sui territori di confine, gli uccelli erano capaci di moltiplicarsi, diventando mille occhi sul paesaggio, così come erano capaci di sparire immediatamente. E se i "fratellini" avessero fermato le biciclette a metà strada, proprio al centro della sterrata bianca tra i campi, e si fossero guardati intorno, avrebbero visto prender forma solo il silenzio, e un’immensità che s’allargava attorno ai loro piccoli corpi. La gazza non la videro, o la videro e presto la dimenticarono, un fulgore passeggero volato chissà dove. Nulla in vista che fosse capace d’osservarli. Pochi alberi. Un albero dalla chioma gentile e ombrosa, forse una canfora, solitaria al lato sinistro. Poco più avanti, due alberi secchi, dalla corteccia grigia e beige, i rami mozzati. E spighe, spighe blu infinite che ondeggiavano come un mare da entrambi i lati.


I "fratellini" non ricordavano d’aver visto il mare. Queste erano le loro vacanze: ogni giorno allontanandosi dal cortile di casa, dagli incessanti latrati pomeridiani dei cani imprigionati nei cancelli delle ville periferiche, attraversavano i mari di spighe. E ogni immagine, nelle loro teste, prendeva la forma della vegetazione, il suo colore, la sua reazione uniforme al vento. La terra respirava in un’unica mente. Erano piccoli e non lo comprendevano: solo uccelli intelligenti potevano comprendere concetti complessi, in quel tempo. Ma pur non comprendendolo, a loro piaceva: perché sentivano che le cose erano unite così come erano uniti loro due.


La terra era antica, e loro non lo capivano. Ma lo sapevano, ed echi di questo sapere, come gorgoglii silenziosi d’acque sotterranee, si propagavano da un punto nascosto in loro. Sotto gli organi interni che lui aveva visto illustrati sui libri di scuola e fatto vedere a lei. Aveva dimenticato le lezioni, ma conservato le immagini. Entrambi divennero in grado d’immaginarsi queste cose dentro di loro. Ma cosa c’era nello spazio nero che s’infiltrava tra queste cose? Forse la sorgente di quel sapere. Ricordava che la sorellina aveva osservato le illustrazioni dei polmoni e dei muscoli con molta curiosità, senza provare quel ribrezzo ostentato dalle bambine. Meritevoli d’esser dimenticate, con tutto il resto, i banchi e la luce opacizzata dalle finestre lunghe -così pensava. Sua sorella no, era curiosa e guardava senza fremiti.


La sorellina si fermò. Si dice che nel farlo, ogni volta, facesse un cenno speciale al fratello. La terra sotto la frenata produsse un lamento digrignato, e l’ombra del fratello si fece imponente quando si voltò e disegnò nuove figure sui suoi abiti, sulla sua pelle bruna, sulla ghiaia. La guardava in silenzio, con occhi di statua. Un fratello, pensava lei, è una bella cosa, e mi proteggerà. La sua ombra era tanto grande.


Gli occhi degli uccelli sui fili sanno vedere alcuni dettagli da lontano. Erano lì a fare la guardia, gli unici. C’erano adulti e cani da guardia nelle case lasciate dietro, ma non si consumavano in inutili apprensioni. Conoscevano la fiducia, conoscevano un fratellino che ritenevano già uomo, per i suoi silenzi, le sue nocche indurite, le sue esplorazioni. La mamma diceva che era un falchetto e proteggeva la sorellina, un falchetto cioè un coraggioso aquilotto di questi territori. Lei, invece, era un prezioso uovo bianco, fuori dal nido. Solo un falchetto dei più forti aveva il permesso di proteggerla. Il fratellino era forte: la portava sempre con sé, la sollevava con entrambe le braccia, per farle vedere le scene incastonate negli occhielli delle recinzioni; raccoglieva la legna, e con il papà la separava in due parti; pedalava, a lungo, conoscendo con la muscolatura delle gambe e con l’ombra sull’asfalto tutti i territori di confine.


Uccelli sorvegliavano dettagli: si dice che la bambina avesse sollevato un braccio, tondo e corto, e puntato un indice ancor più tozzo verso qualcosa di distante, che esisteva nella campagna o nelle nebbie sempre più indistinte del suo orizzonte.


Il fratellino si voltò, seguendo con facilità la linea generata dalla punta del dito della sorellina. Senza ulteriori indicazioni, sapeva vederla fibrillare nell’aria come un raggio solare ben intagliato e lucidato, la leggeva più facilmente dei testi scolastici già dimenticati, delle indicazioni stradali. Nella loro vacanza, del mare d’erba che stormiva in onde blu dal profumo di fieno e sostituiva ogni concetto conosciuto, i gesti d’indicazione erano la cosa più simile alle parole, all’affetto, alle azioni.


Il fratellino sentì un prurito al bianco degli occhi, dove spesso l’inclemenza del sole lo investiva in ondate, facendolo strabuzzare, sudare, arrossare. La mamma erroneamente sospettava congiuntivite o punture d’insetti, e il loro ritorno alla villa di sera era accompagnato da accoglienti fragranze di lenitivi e medicinali, che s’ammassavano a formare un cuscinetto attorno al buio, ai grilli, alle pareti della veranda esterna rischiarate da lanterne gialle annuvolate d’insetti d’ogni specie.


Il fratellino ebbe un prurito al bianco degli occhi, e li spalancò, sentendosi svuotato di parole, affetto, azioni: non sapeva cosa aveva davanti.


Sulla linea più lontana dell’orizzonte, separate da infinite spighe ondeggianti, erano apparse sagome d’edifici. Un grattacielo, grigio, testa rossa, semicancellato nella foschia della distanza. Un acquedotto a forma di fungo. Le sagome di una città, che perfettamente allineate sembravano galleggiare. Avrebbero potuto attraversare quel mare e avvicinandosi sempre più a quelle forme, le avrebbero viste ingrandirsi? Spuntare direttamente dal campo, che s’allargava fino a lambire tutti i confini della città. Oppure era il campo la vera forma della città, fatta soltanto di miraggi che ogni tanto s’ergevano. Le spighe succhiavano in profondità acqua di palude, e sotto la volontà del vento carezzavano i cementi, gli asfalti, i rumori che riempivano l’aria come nuvole di smog. O ancora, attraversando il campo, nulla di quanto vedevano in quel paesaggio lontano si sarebbe mai avvicinato. Sarebbe per sempre rimasto, come i massicci azzurri e viola dei Colli Albani dall’altro lato, soltanto un insieme di sagome fissate al fondo d’un dipinto, un’immagine di delirio.


Il fratellino non conosceva quella città. Si dice che nel momento in cui se ne rese conto rimase paralizzato, in mezzo alla strada di sassi bianchi tra i campi verdi e blu. I campi verdi e blu, come il respiro d’un serpente ipnotico, nascosto in spire tra le basi degli steli più fitti di foreste buie. E gli diceva di stare attento, piccolo fratello osservatore, attento. Perché c’è qualcosa di strano in questo mondo, che la tua mente semplificata non può comprendere.


Erano fratello e sorella. Ragionavano in termini di spighe al vento, venti freschi nei giochi pomeridiani e serali, profumi strani di secrezioni di trillanti insetti strusciate sull’erba, abbaiare di cani e lanterne amichevoli nei pressi d’ogni cancello, sempre alle stesse ore. Erano fratelli e tenendosi per mano, o fianco a fianco in bicicletta, vivevano soltanto in una realtà di perenne vacanza, senza conoscere fine.


Qualcosa di strano entrò in lui, facendogli male al bianco degli occhi. Non conosceva quel posto lontano. E al tempo stesso ricordava d’averlo visto. Ma il fungo e il grattacielo erano scambiati di posto, oppure… c’era qualcosa di strano. Ed era strano che, dai mari che sempre costeggiavano in quei giorni, potesse vedersi la città lontana. Di cui non avevano memoria. Così, almeno, si dice tra gli uccelli, gli unici che potessero aver assistito ai loro giochi.


Il fratellino, falchetto coraggioso, procedette in bicicletta, la sorellina dietro. Si dice che lei si fosse accorta di qualcosa. Un fremito mai visto prima nell’ombra del fratello che la investiva. E allora anche l’ombra di lei si voleva comportare allo stesso modo. Per emulazione, o perché poteva sentire qualcosa di nuovo -qualcosa capace di scuoterla- senza il rischio di venir punita perché frignava. Non sapeva perché, ma aveva anche questo timore, sebbene prima di vedere la città lontana non l’avesse mai avvertito chiaramente: il fratello era alto, avrebbe potuto punirla. Anche se non l’aveva mai fatto, anche se era buono e la proteggeva. Anche quel suo modo di proteggerla costantemente, anche gli sguardi di freddo silenzio e determinazione che nel loro linguaggio erano buoni, avrebbero potuto un giorno rimpicciolirla, schiacciarla. E lei non sapeva cosa accadesse una volta che si era stati schiacciati, non riusciva a immaginarlo.


Il fratellino tremava, si dice. Si dice che i “fratellini”, come gli umani li chiamavano in omaggio alla dote e ruolo di leader che il maschietto aveva imbracciato solennemente, non conoscessero la parola “fine”, vivendo in un’eterna vacanza rurale della periferia, della provincia. Non la capivano nemmeno quando, ogni giorno, si soffermavano a guardare le formiche, che annuvolavano in presagi di urticanti temporali le carcasse con la pancia biancheggiante all’aria di lucertole, rettili sui cigli delle strade. Uccelli caduti al suolo. Fiori strappati, formicai che trasportavano bruchi irrigiditi a forma di strane lettere. Ricci e rospi. Anche i corvidi, sui fili e sui pali, osservavano insieme a loro. Ma loro la fine la conoscevano, e attendevano che i piccoli umani s’annoiassero e andassero altrove per poter banchettare, ripulire. Incarnare nelle vesti nere e bianche e grigie dei loro piumaggi un’ulteriore fine delle cose già finite, in una diversa accezione.


Alla fine della stradina, tra Carano e Velletri, fratellino e sorellina trovarono degli edifici abbandonati. I campi facevano buche al loro interno per poterli accogliere, una piazzola in cui culminavano i sentieri. Dai sassi bianchi e l’erba verde spuntavano le pareti, dritte e solide, rimaste vuote. Carriole abbandonate, strutture di legno senza più forma e funzione, parevano solo sculture grottesche. E senza dirsi niente, come sempre, fratellino e sorellina lasciarono le biciclette a terra.


Lui si avvicinava alla casa principale. Lei gli corse dietro, afferrandolo per i pantaloncini. Fu tentata di ritrarre le dita: al tocco erano freddi. Guardò suo fratello, che procedeva con lo sguardo in avanti, senza voltarsi ad accogliere lo sguardo di lei. Non comunicarono. Ma lei continuava a fissarlo: dov’è, fratello, il tuo calore? Quello che t’impregnava la stoffa liscia dei pantaloncini di tuta, le linee color evidenziatore sui bordi. Eri caldo come l’asfalto, come il sellino dopo giornate intere sotto il sole. Hai perso il tuo calore?


Si dice che la bambina, a modo suo, pensasse così. Molti esemplari dei corvidi, alcuni rari da queste parti come le taccole e i corvi, altri comuni come le cornacchie, possiedono indipendentemente dalla specie una certa presunzione di leggere i pensieri, o di saperli cogliere attraverso indizi che non sfuggono agli occhi infallibili. E del resto, per quanto coraggiosi o protetti fossero, erano due bambini, che avevano bisogno di sorveglianza. Erano giunti a una casa di campagna abbandonata. Solo uccelli scuri a guardarli, a poter gracchiare in allarme l’apparizione improvvisa di spettri infestanti.


E la casa, chissà come, respirava. La casa… non assomigliava alle ville, bianche, coi cortili di matrice rocciosa che pareva roccia lavica. Ma erano simili le curve morbide dei porticati. Ma era simile qualcosa di inafferrabile: come se avesse già visto quella casa, questo almeno pensava lui. Lei no, lei non la guardava. Lei guardava suo fratello, e non capiva. Si staccò dai pantaloncini e andò saltellando a guardare i fiori del prato, i ciottoli dei cortili separatori, le ombre proiettate dalle varie strutture che forse erano servite da magazzini, forse da abitazioni.


Gli sembrava d’aver visto innumerevoli case così, dello stesso colore, abbandonate nelle campagne. Finestre e buchi nei tetti si riempivano di paglia, che fuoriusciva in aculei. Pezzi di nidi di streghe. Le due biciclette, stese sui fianchi come asini stramazzati al suolo, ragliavano una melodia triste e stridente dalle catene lasciate a girare.


Potevano far sì che quel luogo non avesse fine, certo. Potevano farne un luogo di giochi, e allora sì, sarebbe diventato parte della loro eterna vacanza. Quella sarebbe diventata la casa dei fantasmi. Una casa abbandonata, che bello! Ma che significava abbandonata?


Uccelli su fili, vedono avanti, vedono fino all’orizzonte, fino ai Colli Albani, fino a quando la vacanza dei bimbi finisce. Vedono un bambino che sui quaderni di scuola scarabocchia immagini che lui stesso trova brutte, di cose che ha visto e non riesce a dimenticare. All’improvviso si faceva una domanda, che significava abbandonata? E rivedeva tutte le formiche che aveva visto impazzire annuvolando corpi dormienti, senza risveglio. Non come i riposi dei genitori, degli adulti, del dopo pranzo, quando uscivano alle prime ore delle loro esplorazioni, e tutte le ville tacevano, forse solo russando un po’, più deboli delle cicale. Un solo ronzio calmo che diventava canicola e permeava l’aria. Non era quel tipo di sonno.


Si accorse che la sorellina si era allontanata. Ma non doveva: voleva prenderle quella mano rotonda, afferrargliela, e strappargliela anche come si fa con un fiore parassita, se necessario. Voleva prenderla e portarla via di lì, fosse stata l’ultima cosa che faceva, fosse stata l’ultima volta che la proteggeva. Ma non aveva fretta: procedeva lento, costeggiando le pareti senza smettere d’osservarle, i muscoli raffreddati e lo sguardo sempre più vacuo.


Sotto un portico le erbacce crescevano alte, bellissime ortiche baluginavano di misteriosi toni azzurri e viola nelle venature che, assorbendo ombra e luce in egual misura, riflettevano una suadente anima di veleno, capace di contenere molti segreti. Piante mai viste così. Era davvero così, il mondo racchiuso tra i mari di campi blu? Forse in fondo era un mondo misterioso, pensava il fratellino. Più di quanto non l’avesse ritenuto fino a quel momento, toccandolo soltanto con le sue azioni dirette, le sue pedalati forti e sicure, la sua capacità di vivere lì e far vivere lei, delicato ovetto. C’erano nel mondo altre metafore, non solo quella del loro nido. C’era un mondo d’ortiche sotto portici. Strane e lunghissime liane che simili a serpi s’incurvavano, gettandosi fuori da finestre e tutti gli orifizi dell’edificio rosa scuro, di quel color polmone che avrebbe giurato d’aver visto su mille altre ville, ma quali? Non aveva il coraggio di entrare e cercare una risposta, non aveva il coraggio di afferrare quelle liane e cominciare a risalirle in arrampicata, per entrare dalle finestre mezze rotte.


Finestre. Ebbe un sussulto. Ma poi si ricordò della sorellina. Accelerò soltanto di poco il passo, quel poco che gli era permesso dal raffreddamento dei muscoli.


Nella finestra aveva visto maioliche celestine d’un bagno. Bagni moderni, come ce n’erano a casa, e in quelle dei vicini. Tubature recise. Era una casa come la loro, a esser diventata così. Piena di piante sconosciute, minacciose, che gli facevano pensare alle formiche, a lucertole addormentate sotto il sole, le pance chiare. Anche la loro casa diventava così?


Ebbe la sensazione, nuova, che tutte le case di tutte le campagne diventassero così. Dello stesso colore, con gli stessi bagni visibili dalle stesse finestre frantumate.


.

Lei aveva trovato un ripostiglio. Un padiglione distaccato, a un solo piano, a differenza degli altri locali. Bassa com’era, non riusciva a provare quel brivido d’immaginazione che potevano avere quelli abbastanza alti da vedere le finestre senza vetri, oscurate da griglie, attraverso cui s’intravedevano paglie tra assi lignee del tetto. Potevano far immaginare nidi di streghe, di gufi, di corvi. Ma non c’era in quel momento il fratellino a sollevarla, con le braccia forti. Braccia che erano diventate fredde: la sorellina ebbe un brivido, un sussulto, ma passò presto. Esplorava da sola e nei passetti faceva tonfare il più possibile la gioia di guardare.


Non poteva guardar lì, ma poteva guardare nel foro, la grotta vuota della porta. Aggirò il padiglione delle attrezzature agricole, e si fermò davanti a quello che era stato il suo ingresso. Davanti a tre scalini bianchi, come la veranda a casa. Invasi da foglie di minaccioso smeraldo. Entravano dentro, tagliando a metà ciò che restava della porta, sgusciando da crepe. Oltre la soglia c’era oscurità. Puntinata da macchie sporadiche di sole, fori nelle travi del soffitto. Le cose all’interno erano forme strane e mai viste, di macchine o d’animali addormentati, sembravano. Trattori, carriole, corpi sparpagliati al pavimento, ma lei non conosceva queste cose. E il suo buio, il buio che lei vedeva, si riempì per la prima volta di voci. Qualcosa parlò, per la prima volta, in uno dei pomeriggi di gioco, in un momento in cui i “fratellini” s’erano separati. Qualcosa parlò, bisbigliante, in uno di quei pomeriggi in cui mai nulla avrebbe dovuto parlare.


-sssei in una casssa di campagna, come la tua. Non vuoi entrare?


Qualcosa si muoveva. Solo fremiti della penombra, della luce cangiante del giorno, che volgeva al termine. Ma lei non conosceva il “volgere al termine”. Allora vedeva un’altra cosa, mescolata al buio. Un essere lungo, muscoloso, dalle molte spire, che s’attorcigliava e strisciava all’interno di quell’enorme tana. E con un bell’occhio giallastro, simile a un buco da cui traspirasse un raggio di sole, la guardava, quasi invitandola con suoni saggi e bonari, che le sembrava di non aver mai sentito prima. Parole, ipnosi. Quell’animale possedeva una lingua fuori dal comune, e lei era capacissima, come non era mai stata prima, di immaginarla. Fibrillava a intermittenza nell’oscurità, il filo sottile di quella lingua a due punte.

-entra, in uno di questi edifici.


Sentì sulla spalla il tocco freddo della mano del fratellino. S’alzò di scatto, terrorizzata, sia da lui, che da quelle parole. Così si dice, almeno, tra gli uccelli che hanno visto tutto. Corse, e si nascose, sotto le assi d’un carretto abbandonato, dietro un cumulo d’immondizia lasciata a marcire in un angolo di prato, dietro cataste di legna; sotto i portici, dietro uno sgabuzzino. Il fratello la cercava, smarrito, non sapendo come sentirsi. Era una loro acchiapparella, un ultimo nascondino. Non riusciva ad acchiapparla, era molto più veloce di lui, molto più avvezza al gioco. Gridolini di paura e sorrisi s’alternavano, discontinui, inspiegabili. E gli sembrava sempre più d’esser lui quello smarrito nel tentativo di nascondersi, e non l’inseguitore.


Stanca, la bimba si era seduta su degli scalini. C’era una porta, nell’edificio rosa principale, a due piani. Una porta semiaperta. Dava su una rampa di scale grigie. Il fratellino impallidì. Avrebbe dovuto gridare “tana”, concludere il gioco. L’interno della casa, proiettato all’esterno, gli faceva un’impressione tremenda.


Eppure, dicono gli uccelli, tra le molte case di campagna abbandonate nel territorio, quella non è un covo di fantasmi. Non si sente nemmeno così tanto la puzza del Fango, delle cose sporche di Aprilia… quella città si vede solo da lontano, quasi placida, a galleggiare in sagome offuscate sull’orizzonte d’un mare di erbe blu, carezzate dal vento. E il pomeriggio di quella leggenda era caldo, luminoso, senza spettri. E quando si chiede agli uccelli cosa significano certe leggende, rispondono criptici che un significato, per esempio, è che i bimbi in vacanza erano già destinati a star male, a farsi male da soli, senza fantasmi. Ma questo, e qualsiasi altro significato, non era visibile agli uccelli che osservavano in quel momento. Erano intelligenti, erano semplici simboli di un tempo semplice. E non era visibile ai bimbi che vivevano quella storia, e incontravano la paura.


Il fratellino le si avvicinò. Le tese una mano, tremante. Qualcosa dell’interno della casa gli spediva nel cervello un liquido folle, velocissimo, schizzante da tutte le parti in un disordine sconosciuto e disarmante. Non sarebbe mai stato capace, con quella roba nel cervello, dei suoi sguardi fermi, i suoi rimproveri muti, le sue strette della mano forte. Poteva trascinarla via da lì?


Con fremito di dita, forse fece una domanda. Gli uccelli su questo non vogliono esprimersi. Preferiscono dire che a lei, la sorellina, sembrò quasi di sentire qualcosa, proveniente dal suo fratello maggiore. Come una voce attutita da spesse pareti, di qualcuno che cercasse di farla uscire dal nascondiglio che, tanto brava ed esperta in nascondino, aveva trovato tutta sola. Una voce attutita. Perché non andiamo a casa? Andiamo, è ora di tornare. Ti prego, andiamo. Una voce che con dita vibranti cercava di afferrare le sue. Ma lei teneva la mano ben chiusa nell’incavo delle gambe, abbracciandosi le ginocchia. Le picchiettava con capocciatine annoiate, a ogni colpo spettinandosi un po’ più i ciuffi. Vedeva se stessa riflessa nel buio delle sue ginocchia, riusciva a vedersi tutta spettinata e buffa con quei ridicoli fili disordinati qua e là in testa.


Retrocedette dentro la casa, ancor più dentro le ombre, risalendo la rampa di scale col sedere. Il fratellino sulla soglia, attutito, più indistinto e flebile della sagoma d’un lontano palazzo, o di uno dei Colli Albani, diventava solo uno spettro dell’orizzonte. Perché, perché, diceva insistente la mano che si protendeva, tra infinite vibrazioni che la sovrastavano.


-perché voglio stare qui.


Disse lei.

Il silenzio invase la campagna, sorvolando lieve i cigolii ammutoliti delle biciclette accasciate sul viale. Dove un tempo s’accasciavano animali, un’attività agricola senza quasi più traccia. Sembrava che le pareti rosa scuro dell’edificio, uguali a miliardi, fossero una traccia più eloquente dei trattori nel magazzino, degli attrezzi abbandonati, delle carriole, dei campi tutt’attorno. Il silenzio sorvolò ogni cosa come uno stormo di corvidi diretti ai loro nidi, al tramonto. Un nuovo colore si discioglieva nel sole del tardo pomeriggio, investiva scritte goliardiche e scritte colme d’odio, lasciate da adolescenti che in feste notturne si erano rintanati in quelle stesse tane, per poi abbandonarle, e inseguire nuove noie. La giornata già dava segni di volersi concludere.


-perché voglio stare qui.


Disse lei.

Si dice che la bimba, sentendo già un odore stranamente familiare tra le pareti di un pianerottolo cui era arrivata risalendo le scale a ritroso, aveva immaginato una scena. Ragnatele e neri cumuli informi le carezzavano scarpette e caviglie scoperte, cullandola, mentre s’immaginava qualcosa che le faceva un po’ paura: un piccolo uccello dal becco ricurvo e minaccioso, in un nido, che perdeva lo sguardo fermo degli uccelli, e diventava triste. Saltava avanti e indietro tra gli steli compattamente intrecciati del nido, come cercando di proteggere un singolo uovo bianco dietro la sua schiena, più grande di lui, lucido come un seme. Non sapeva ancora volare. Sentiva qualcosa avvicinarsi, nella penombra di quel sottotetto in cui il nido era stato costruito. S’avvicinava, soffiava strisciante nel risalire fino a quel rifugio. Il piccolo rapace spennacchiato che si credeva un aquilotto saltava disperato davanti all’uovo. E le ginocchia nude tremolarono quando vide comparire davanti a sé l’enorme volto, eternamente sorridente, d’un animale dal muso allungato, squamato, con occhi che non si muovevano mai. Una lingua biforcuta uscì da un buco, carezzando le sue piume fradice, infreddolite, e anche le pareti dell’uovo. Era un tocco piacevole. Ma un alito orribile, di decomposizione, si propagava a ogni fiato. Una crepa frammentò la punta dell’uovo, e dall’apertura cominciò a fuoriuscire qualcosa di simile a petali. Il pulcino, voltato, guardava sbalordito. Dava le spalle a quell’altro animale che soffiando sempre più forte si avvicinava. Ma lui non ci faceva più caso. Mentre guardava la schiusa perdeva il rado piumaggio che si sfaldava toccando il pavimento polveroso del nido.


-perché voglio stare qui.


Aveva detto lei, prima che il silenzio tuonasse nella campagna, al confine. Aveva avuto paura, ma già guardandosi intorno in quella nicchia semioscura, s’era sentita meglio, convinta che le pareti strette, di quella casa in cui la gente e gli animali avevano finito di vivere da chissà quanto, la abbracciassero.

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