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Gli Appunti Del Fango- LT, light inside of light

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 16 dic 2021
  • Tempo di lettura: 14 min

Fuori dall’autobus blu scorrevano rotatorie, gommisti, macchie di pini esili che sembravano fuoriuscire dai marciapiedi. Bar a ridosso della statale, parcheggi ombreggiati da eucalipti. Mi ero alzato in piedi, da almeno dieci fermate. Da almeno dieci fermate stavo in piedi senza che fosse necessario, perché mancava molto al posto in cui sarei dovuto scendere. Ma se non conosco il posto, cioè quasi sempre, devo agire in anticipo su tutto. Sui gesti, sulle parole da disporre per domandare, trovare la strada, ringraziare. Un’azione banale e rapida come la discesa da un autobus può diventare incomparabilmente straziante per chi è lento come me. Basta abbassare la guardia, ed ecco che il mondo punisce! Se n’era stato a sonnecchiare fino a un momento prima, con tutti quei piacevoli gruppi di alberi riflessi in successione sui vetri… ed eccolo che accelera, chiede reattività, umilia: innumerevoli volte si erano verificate situazioni del genere. Unico rimedio: stare in piedi. Ed è come se camminassi in questa città, quasi conosciuta, piuttosto grande, non lontana dalla mia, ugualmente brutta e forse di più. Sto passeggiando, la mia ombra scivola sulle vetrate dei concessionari e i vestiti in mostra sui corpi scarni dei manichini, si mescola alle ombre di coloro che questi posti li frequentano giornalmente. Non sento ancora altro odore che quello delle poltrone. Scendendo la gomma nera, bruciata sfregandosi sull’asfalto, sarebbe stata tanto forte da irritare il naso, come se l’interezza delle strade collegate a quella secernesse una torrida e sintetica decomposizione. Si sarebbe detto che fosse il modo d’esprimersi delle vie e dei palazzi, una canzone in un dialetto locale, giovane di appena un secolo. Sale da tutto il suolo e si mescola allo smog.


Prima che scendessi, per un po’ avevo riguardato vecchi messaggi. Una certa catena di pensieri mi aveva riportato su uno in particolare.


“ho letto i tuoi post. Penso che non dovresti reprimere il tuo bisogno di comunicare con gli altri. Si evince da certe cose che scrivi che ce l’hai, per quanto lo reprima.”


Lo ricordavo molto bene, perché mi aveva infastidito. Poi:


“sei troppo poco interessato a comunicare con gli altri per poter scrivere dei personaggi credibili. Serve esperienza, serve capacità di ascolto. Per trecento pagine hai parlato dal punto di vista di un apatico, un bambino irrealisticamente freddo, in cui si nasconde il modo in cui vedi te stesso. Gli altri personaggi sono virgole nel paesaggio, cose inerti messe là per uno schema del solo detentore del punto di vista. Solo chi comunica dovrebbe voler scrivere."


Stessa persona, altro post, altro momento. Di certo nel momento di fare uno dei due commenti aveva completamente dimenticato di aver fatto l’altro. Questa era la mia piccola consolazione vanagloriosa, perché io invece ricordavo tutto. Come vedessi una topografia dall’alto, scorgevo incongruenze, o al contrario linearità perfette, colli e gole, incidenti prossimi, ruderi di edifici antichi, costruzioni abbandonate. Non sapevo ancora che mi stavo recando a trovare la persona che dovevo vedere per poi incontrare un esempio d’esistenza contrario a entrambi quei commenti. Nulla era mai facile come lo facevano i messaggi lasciati tempo fa, conservati dalla memoria. Li rivisito periodicamente per quanto possano essere irritanti.


Alzai lo sguardo dalle vignette verdi fatte scivolare velocemente giù per lo schermo. Un edificio simile a un uovo vitreo dalle dolci curvature torreggiava al di sopra di quella che pareva una piccola foresta di vegetazione palustre, con qualche immancabile eucalipto nel mezzo. Ribadisco, sottolineo un concetto dentro certi miei appunti mentali: un unico territorio avente un’unica natura si espande a macchia, come a forma di voglia, su questa pianura, fino a comprendere la fermata d’autobus dalla quale sono partito nel luogo della mia nascita, prima che cominciassero a cadere obliqui i raggi pomeridiani. Davanti a me un bagliore fulvo rendeva lucida come squame di pesce la tuta acetata bianca e rossa di uno sportivo seduto poco più avanti. Emissario del movimento, dell’istinto a sopravvivere e opporre le proprie forze a squadre di avversari. Tendenze conflittuali rielaborate nell’agonismo, bellicosità di palude socialmente accettata nella palude odierna… insomma, le stesse cose di sempre, e del resto quell’autobus aveva attraversato le stesse fermate di sempre. Un’essenza proveniente dai luoghi di tutti i giorni mi aveva seguito e si era proiettata tutt’intorno a me, evaporandomi dai pori come sudore? Oppure, non era soltanto la scarsa distanza a giustificare l’ubiquità di un certo spirito delle cose, ma qualcosa di più complesso e inafferrabile? Mi feci questa domanda mentre una rosticceria con all’esterno un bufalo di plastica cavalcabile per due gettoni mi sfrecciava sul riflesso della faccia, e mi risposi che uno come me, così diffidente verso nuove esperienze, non sarebbe mai stato in grado di dare una risposta a un quesito tanto globale. Non risposi così perché ci credevo ma per fare il verso a qualcuno che ipoteticamente potesse crederci. Soddisfatto e in parte stanco delle voci, presenti dei passeggeri oppure assenti, alzai il volume, quasi stordendomi di un fuzz portato al parossismo, un guizzo di free jazz negli amplificatori smangiucchiati e le telecaster di fine secolo scorso.


.


Palazzi vertiginosi, pareti esterne di colore sabbioso. Simili a un esoscheletro cristallizzato attorno a un nucleo molle in precedenza rigurgitato verticalmente dal terreno, ovviamente sostanza melmosa. Vasto prato da cui si erge, con colonnato conducente a un parcheggio sotterraneo. Numerosi i parcheggi sotterranei in questa città, anche nel grande centro commerciale, quello della rotatoria enorme, a metà tra il ricordo d’infanzia e il silenzio immutabile e quasi solenne delle geografie urbane emblematiche, non ci si può sbagliare. Un aereo d’alta quota romba scuotendo il cielo con un frastuono inverosimile, considerata la distanza. Risponde un clangore di case popolari sopraelevate disposte circolarmente su un anello di pilastri. A ogni movimento brusco la fragilità delle fondamenta sembra trasmettere a tutte uno sferragliare degno di un treno. Ma non si spostano mai, non sostano nelle stazioni. Le cornacchie si posano tranquille sui tetti senza avvertire alcun tremore. Un’ombra si schiaccia sulle panchine di una piazza, vasta, separava quelle case da quella in cui mi trovavo. Lui mi chiese qualcosa, ma assorto alla finestra non capii. Da un po’ avevo smesso di osservare la vista esterna, e non stavo nemmeno annusando la casa -cosa sono, un cane? Comunque, ero semplicemente rilassato, una volta tanto. Ah sì, mi aveva chiesto se volessi qualcosa. Era rimasto tutto come lo ricordavo, dentro me c’era la stessa cosa che avevo provato l’ultima visita. Stessa strana quiete, come la traccia di un album messa in pausa. Interrompere le note in successione di un’opera integra e organica era una cosa che normalmente quasi detestavo, uguale a strappare pagine da un libro. Però, entrambe le volte in cui avevo visitato la casa ed ero stato fermo a guardar fuori senza vedere, avevo cominciato a vederla in maniera meno drastica. Esiste un’interruzione della musica accettabile, si può non premere play per un po’. Era quasi il tramonto ormai. Un sentore fritto di supplì e cose del genere saliva dalla pavimentazione della piazzetta, intrisa dell’unto dei giorni, dei cassonetti, dei numerosi gatti e cani randagi o a spasso. Poco dopo mi trovai ancora nella stessa posizione, ma con in mano una tazza di latte di riso in mano.


-ho letto l’ultima cosa, sai.


-ah. Mi fa piacere.


Bevvi un sorso. Mi ero voltato. Tappetini, mobili bassi, legno nero con i piedi bianchi… biancori vari, quadretti, statuetta di un cowboy che immagino portare una tuta acetata sotto il poncho, statuetta di un bodhisattva orecchiuto, aloe, esotismi d’arredamento. Rievocandoli adesso mi giungono come pasticciate macchie di colore, senza forma, dense di viscere significanti. Ci sarà un motivo se posso riconoscere diversi modi in cui il meccanicissimo e indifferente fenomeno della luce, cadendo su una superficie, determina come questa mi si insinua dentro. Ciascuno vede un colore diverso, il cromatismo è ineffabile, una cosa esclusivamente interiore, per questo va notato. I posti fuori dagli autobus e dalle finestre sono diversi a seconda della collocazione, hanno un’anima. Vado in giro a raccoglierle, queste anime. E poi che ci faccio? Beh, lascio che mi ispirino, ci scrivo, diciamo… oppure mi fanno risuonare delle canzoni in testa. Anche se scendessi a buttare l’immondizia, in questa nuova ipotetica dimora (facendo finta che mi sia trasferito qui e stia vivendo una vita simile a quella del proprietario di questa casa) sarebbe come se lo facessi sempre indossando le cuffie. Come si può sopportare d’esistere senza, in posti simili, in queste città pianeggianti che divorano un anno dopo l’altro in una specie di vuoto che mi sembra esistere qua più che altrove?


-mi è piaciuta quella parte di impressioni in valanga, sembrava improvvisazione beat. Era giapponese quello?


-sì. ひこうき, さかな…


-ah, che vuol dire? Ma perché ce le hai messe?


-in realtà è un po’ come dici tu. In quella parte sentivo necessario che le cose si susseguissero come una cascata, una valanga. E quelle parole sono affiorate subito; è così che il personaggio chiamerebbe se stesso, 魚, se decidesse di attuare i suoi propositi. Poi, se mi dovessi mettere a dire perché proprio quel nome… risulterei pretenzioso.


-ma se te l’ho chiesto io! Sempre così devi fare…


-comunque solo tu potevi apprezzare una parte del genere.


-beh, si vedeva che era spontanea. Raramente sembri spontaneo, mi ha fatto piacere. Mi ha fatto piacere vedere che su un foglio di carta riesci a concederti il piacere dell’improvvisazione, di tanto in tanto. Io ne so qualcosa, di questo piacere. È come, è come, il fatto che ogni essere umano ha bisogno di esprimersi, e molti nemmeno lo sanno, ma se uno ha un’arte, quando mette se stesso in un flusso, è come calore, e se…


Aveva attaccato, capivo che avrebbe fatto un discorso simile a quello che mi aveva fatto una volta, e che mi aveva indotto a dirgli che giusto lui poteva apprezzare quella specie di esplosione di versi sciolti che avevo inserito in un mio scritto. Forse nemmeno lui capiva come si fosse ritrovato a vivere là, non a casa ma non troppo lontano, con quella sua vita, quelle sagome dei suoi giorni, soprammobili e ombre, cominciavano a proiettarsi sempre a quel modo una volta trascorsa l’ora in quel momento indicata dall’orologio sopra il televisore. Una culla, uno studiolo, tre o quattro animali domestici di diverse dimensioni, piante in balcone. Tutto questo era ugualmente scaturito da quella cosa che chiamava improvvisazione? Io, del resto, non ne facevo una questione di quel tipo.


in realtà, se “non ne facevo una questione di quel tipo”, era perché smettevo di fare questioni di qualsiasi tipo non appena uscivano dalla bocca d’altri. Non volevo le loro analisi, le loro definizioni, le loro dicotomie. Volevo solo le mie. Io ricordo, io guardo la topografia, io ricordo che canzone ho associato a una data “strada emotiva” -specificazione necessaria, dacché io stesso, che ricordo così tanto, non ricorderò mai il nome di una via o la sua collocazione meramente geografica rispetto alle altre. Anzi, se qualcuno si fa avanti e mi dice che è strano l’uso di questo termine da parte mia, cancellerò anche quella sua logica che ha portato a tale conclusione. Non ammetterò altro che il massimo ideale. Tingerò l’ideale di cinismo laddove sentirò che nel farlo c’è un significato, e allora anche il cinismo sarà ideale, senza complicazioni di ordine e caos altrui, senza rumore cognitivo. Un muro? Termine di un linguaggio che sono ancora incerto se ammettere. Comunicazione, chiusura, città vicina, città lontana… ma non vedete che finché affondiamo in una pianura del genere non c’è posto per pensieri fatti in questo modo? Si può pensare solo la pianura, tutta uguale a se stessa, nient’altro… coi suoi giorni strascicati, il suo odore di palude ed eucalipti e fritti strabordanti olio… i suoi cinema impestati d’erba scadente. Grunge e Indie novantino che ascoltavo venendo in autobus. Ecco! C’è solo la musica, solo la musica rimane, acquisisce una forma senza che questa diventi inaccettabile, contrariamente a tutte le altre cose… forse perché è come un fantasma, un’evanescenza che fluttua nella mente. Facilmente si dimentica il doloretto al timpano provocato dal contatto prolungato con una sorgente gravida di impulsi elettrici. Continua a manifestarsi solo nella forma intangibile, e in questo modo si rende più esistente delle altre forme, o più tollerabile.


Lui questo poteva capirlo anche non pensandola allo stesso modo. Credo avesse un approccio molto più carnale, le melodie erano inseparabili dai corpi che le avevano sfregate, soffiate, gridate. Percussioni fanno schizzare in aria brandelli di pelle, sperma, latte materno, piccole ossa. Era di musica che mi aveva parlato quella volta, dal battito del cuore nell’utero ai battelli di New Orleans. Dopo una qualche cena, la sera fredda serbava un’anima estiva e rifiutava di accettare il concetto di stagione. Sentivamo i grilli superstiti e un abbaiare lontano, disperso come fumose particelle della campagna oltre il terrazzo tra i cumuli nebbiosi evaporati dai campi. Il gelo che penetrava fin nel nucleo fibroso dei fradici steli d’erba si levava da questi in masse biancastre misto a un odore di pollina concimante, si riempiva di riflessi sfiorando i due solitari lampioni della via coltivata, discosta dal ruggito della città. Ricordo che si vedeva, come se fosse ancora un residuo del tramonto in quell’ora tarda, un alone sporco sulla linea dell’orizzonte, l’insieme decomposto e ricomposto in singola essenza delle illuminazioni urbane. Non eravamo così lontani dal centro commerciale, dai fanali dei camion mai fermi, dall’incrocio trafficato. Ma i grilli e la brina sembravano non saperlo. E lui, appoggiato alla vetrata dello studio, uscito in terrazzo dove da solo guardavo le stelle, mi diceva che c’era un ritmo in tutto questo. Infervorato dal proprio discorso, sospinto da uno hi-hat immaginario che equiparava a un pulsare di sangue, a una madre, a un’estasi tribale, posseduto da queste e altre forze si slanciò infine in un lungo psichedelico assolo stile Bitches Brew; man mano si aggiungevano all’accompagnamento tamburi in numero crescente, stelle morenti nell’entropia del cielo fratturato tra la periferia e il centro, nevrotico come tutti i suoi odierni osservatori. Centrocittà nascosto là in agguato oltre la linea di terra, respinto da uno stridio di uccello notturno, poi un gannito, poi una blue note. Ascoltavo e percepivo che lì con me c’era uno di quelli, gli “artisti veri”, hanno qualcosa da dire, la infilano nel proprio strumento, la suonano. Altri tamburi e scintillii di stelle, rumori di pentole da un’altra stanza, zip del mio giacchetto che sale, e infine quel lungo assolo sinuoso attraverso il tempo lo aveva portato da quel quartiere di campagna a un diverso indirizzo, a venticinque chilometri. Città di eucalipti, storia recente e storia violenta, case pericolanti su ponti sospesi, parcheggi sotterranei.


Mi ritornò tutto in mente mentre ero là. Casa di un tramonto quasi volto al termine, l’aria sopra la piazzetta e il parco riempita di sfumature viola. Effetto della luce che si infila dentro rivelando che anche l’appartamento è fatto di corpuscoli. Entrano gli ultimi raggi passando per il balcone. Si posano sul pavimento insieme alla polvere che ogni giorno vortica lentamente per addormentarsi lì, dove finiscono tutte le ore trascorse, le giornate di una vita regolare, in cui forse qualcuno non ha tanta libertà di slanciarsi in assoli. Sorseggiavo da tempo il latte di riso in maniera indifferente. Dopo molti minuti mi accorsi del buon sapore. Un animale domestico si strusciò contro le mie gambe affettuosamente, mi annusò le scarpe.


-ma siediti, che stai in piedi là?


Ero stato tutto il tempo in piedi, sempre rivolto al balcone, anche quando non lo stavo guardando. Giustificavo la mia assenza di sguardi nella conversazione (sempre sia resa gloria alle vetrate). Al tempo stesso vedevo le luci accendersi o spegnersi dietro i balconi distanti e ritenevo che ciascuna di quelle vite d’appartamento fluttuante sopra pizzerie e centri scommesse si comportasse allo stesso modo, celando le tempeste interiori, accasciando il corpo sulle sedie -o restando in piedi- e chiamando quella stasi soltanto “stanchezza”. Siete stanche, lucine fioche che sempre mi incanto a veder spegnersi? Siete stanche, vite sublimi e insulse e tragiche e rilucenti di fragilità giallina?


-sei stanco?-, gli chiesi. Doveva essere stancante lavorare tutti i giorni, senza musica, lontano da casa… o forse troppo vicino.


-io?? Io sto seduto! Te invece, te perché stai in piedi?


-maaa, perché, non mi viene mai di sedermi…


Comunque era stanco. Si vedeva, era inevitabile. Avere un appartamento è stancante, vivere in una città è stancante. Vivere nella città che ha un certo nome, sempre sentita nominare, sempre messa in relazione con la propria, più popolosa ma meno nota, meno rappresentativa di cosa contiene. Ancora incantandomi sulle chiazze di luce sul pavimento, frazionate prima di sparire nel crepuscolo da un pannello di carta svolazzante sulla ringhiera esterna, riflettei sul significato spiacevole che aveva l’essermi intrufolato così, come un intruso, ospite nelle vite altrui. Entrare nelle case, vedere i tappeti… posai la tazza con il latte di riso, tremolò sul fondo una singola goccia. Mi venne in mente quell’atteggiamento ibrido di distacco assente e immersione voyeuristica, lo sguardo rivolto alle finestre degli appartamenti, ai vetri dei mezzi pubblici pieni di immagini in processione. Se sbircio in questo vetro, e verso le chiazze di luce ai miei piedi, è per immaginarmi in queste esistenze. Le sentirei uguali alla mia se effettivamente le vivessi (ugualmente insignificanti) e soltanto immaginandole, protetto dal sapere che mai si attueranno (e che nulla mai si attuerà nell’immobilità dell’agro), posso trarne un certo godimento quasi meditativo, una visione pacificante, “del tutto fine a se stessa” -come le cose che scrivo. Siamo così, queste sono le nostre vite. Dovrei avere una visione più positiva, più.. ritmata? Vidi il leggio, tra le altre cose. Non l’avevo notato prima, ma stava anche lui, con le stecche nere di plastica storte, a ricoprirsi della polverina tardopomeridiana.


Gli dico: solo la musica. Gli do ragione, senza dirlo esplicitamente, quel discorso di una volta me lo ricordo ancora. Ero un ragazzino, ma forse non sono riuscito a crescere come si deve, ad ascoltare veramente certi consigli che avete tentato tutti di darmi. Non so produrre un’arte che meriti di esistere, solo masturbazione narcisistica. Però, cascasse ogni cosa, quel discorso me lo ricordo. Ricordo Bitches Brew, ricordo l’assolo di McLaughlin e i pianti di disperata gioia della Monette, ricordo anche la campagna imbrattata di industrie, e aveva un suono di Post Rock rarefatto, Respiro D’Agnello nell’utero acre. Puzza di pastori e belati ogni mattino, musica anche questa, un crescendo. E sento ancora una musica, che mi auguro non smetta di suonare nelle cuffie nemmeno quando l’ultimo autobus sarà sprofondato in questa palude urbana, nemmeno quando starò scendendo a una fermata per un appartamento vuoto, privo di senso, lenito solo dai riflessi oltre il vetro e dal loro tramonto. Guardando il mio tempo scorrere senza meta, fuori da un balcone, potrò ascoltare i grilli? Riuscirò a ricordarmene? A volte sembra che affermi di ricordare tutto come tentativo disperato di domare la paura di dimenticare. Non è mai successo, ma se…?


.


Alla corsa del ritorno riascolto un album che avevo già ascoltato in una situazione simile. Ribadisco, reitero, rafforzo l’atmosfera interna. Una chiara topografia che si colora, visione che mi accompagna. Avevamo concordato su una cosa, in fondo: quella musica che volevamo sentire entrambi nei nostri giorni, non c’entrava niente, per fortuna, con tutto quel caos; non con la città e la palude, non con le voci dei passeggeri, non con i messaggi e i commenti. Finito l’album spensi il cellulare. Riuscivo a sentire, autosuggestionandomi le orecchie, il silenzio acquattato nelle zone di tregua dell’entropia urbana. Ed era identico alla stessa suite che avevo ascoltato, implicita in tutte le cose, a volte così difficile da ritrovare. Non c’entrava con l’arte e il contrario dell’arte, non c’entrava con l’improvvisazione, con i versi sciolti. Uno strumento riposava dentro una custodia rigida e prismatica, accasciata alla base del leggio dentro l’appartamento che avevo lasciato. Mi chiesi quante volte in una giornata come quella venisse liberato, e se camminando sotto il ponte formato dai caseggiati sospesi là vicino, si sarebbe potuta sentire una nota diversa nell’aria, blu e dorata, adagiata sull’inclinazione dei raggi di fine giornata diretti al vetro di chi, davanti a esso e guardando il quartiere, sfogliava un pentagramma dissonante e denso d’appunti. Non c’entrava con ideali e cinismo, con gli altri e nemmeno con se stessi, era qualcosa di più indefinibile e, unica tra tutte le cose, non avrebbe chiesto altro che se stessa, definita non definendosi. Non c’entrava nemmeno con la comunicazione e i muri -ma questo a lui, entusiasta com’era di suonare e far ascoltare la sua musica, non lo avrei mai potuto dire. Un’ultima macchia di colore: un mandala nel tappeto che avevo fissato distrattamente prima di andarmene, tornava in quel momento la sua immagine, quando fuori nella notte sfrigolavano strisciando e deformandosi le lontane luci biancoblu dell’hotel oltre il cavalcavia di confine. Io ero scattato in piedi da non so quante fermate, incerto se dovessi prenotare la mia discesa o no, chiedendomi se esistesse una diavolo di lingua in cui esprimersi con l’autista in caso di irrimediabile errore. Se lo si potesse interpellare mentre guidava in tratti privi di traffico, o se si dovesse attendere un momento buono a una prossima fermata, ma sembrava sempre così impegnato e inavvicinabile e intimidente, circondato di ombre giudicanti di intimidenti passeggeri suoi simili che ne conoscono il linguaggio… e intanto magari sarei arrivato senza mai scendere in un’altra città, in un’altra regione. Insomma ero in piedi, continuando a non capire. Riaccesi il cellulare, cercai un EP, qualcosa di breve che potesse finire senza interruzioni prima del momento in cui prevedevo che sarei dovuto essere vigile.

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