Gli Appunti Del Fango- littorica youth
- Milky
- 24 lug 2021
- Tempo di lettura: 25 min
Il momento di tensione non esplose mai in una lotta, per mia fortuna. Non con cazzotti e calci solidi e quelle cose, almeno. Tornai a casa sentendo la stanchezza di aver combattuto, di esser uscito fuori nel mondo e aver incontrato ciò che più cercavo di evitare. Lo temevo dalla fine delle elementari. Tornai a casa, però, con il lusso di non avere lividi e sangue in bocca. Restava serrato dietro le pareti delle guance, al sicuro, eppure per me così allarmante. Timore del sangue anche se chiuso nel corpo, il sapore buono ripugnante salato scendeva in gola capitolante internamente dalle frequenti emorragie nasali. Afrore di colate mucose dense, hai un corpo di pezzi che calano, incastri da proteggere. Altrimenti escono fuori ed è peggio. Ma era tutto così: camuffarsi, comportarsi da stupido, scuole medie. Tutto per un terrore soltanto intuito. Cosa c’era che volesse farmi fuori? Non vedevo risse intorno a me ma era come se ne vedessi, si davano e ricevevano vessazioni continue nelle adunanze di esseri incastrati in un’età lasciata a marcire, studenti delle medie, compagni di allenamenti sportivi, primo bazzico. Giorni di tormento. Tornai pensando di averla scampata ma pieno di rimpianto, i miei piani di evitamento sfaldati nello scontro con i coetanei. Perché non divenne lotta, fratture, denudazioni pubbliche? Voci vibranti a scroscio in file cinetiche di suono e critica come insetti d’acqua da ogni lato mi sussurrano in gran coro che è sempre lo stesso motivo, che lo scontro era solo nella mia testa. Ancora peggio: vuol dire che per l’altra parte era solo una vittoria facile, schiacciare una cosetta insignificante che si umilia esistendo, e se c’è vittoria c’è scontro. Perché metti la testa sotto il cuscino e piangi, ragazzino delle medie? Alla tua età si pensa soltanto alle pippe, che non lo sai? Lo so, lo so. Quali pippe? Il mio corpo non cresce e sarà meglio che non sanguini nemmeno.
Lo scontro non c’era stato?
La piazzola, occhio cementato tra erbacce. Sul prato di Via Inghilterra si apriva con sguardo dritto al cielo. Nuda pupilla venata di strisciate gommose di scarpe puzzolenti di petrolio e piedi stantii di corridori, parkouristi, gang preadolescenti, 2008 più o meno. Secca al sole la granula appiccicosa disseminata dagli ultimi scatti al tramonto dei duemilazero. La nuda pupilla grigiastra e sporca -orme erba morta pioggia assorbita ombre di cacate di cane raccolte con sacchetto a mano e bevande zuccherine gocciate da lattine accartocciate e mozziconi-, sguardo dritto al sole che si abbatte in amplesso al puzzo cementifero, procreano eterni sentori cittadini. C’è un solo tipo di pupilla, dicevano mistici e santi del catechismo, che può guardare dritto al sole senza accecarsi. Questa pupilla invece, un misero parchetto apriliano di molti che costeggiano tediosamente l’asfalto, non so se appartenga a un occhio cieco o vedente. Forse solo gli occhi coronati e con le ali, quelli disegnati su tutte le pareti di Aprilia, riescono a vedere bene. Penetrano l’immaginazione degli abitanti: noi siamo ovunque, siamo la mitologia più tangibile della tua terra. La pupilla cieca o vedente guarda in su verso il sole e forse è guardata in cambio, da un essere che vola, che me la fa visualizzare nelle sue parti e nella sua integrità. Due calotte di muretto che si incontrano in circonferenza semichiusa, ciglia di prato stanco intorno. Dall’alto del cielo uno sguardo sorvolante che può guardare il sole e può guardare ogni cosa mi trasmette in un giorno di tormento l’immagine di una scena minuta, di una città minuta, di un mondo minuto. Ma non può essere la mia visione, dell’osservatore, perché io ci sono dentro. Sono dentro l’occhio.
Il compagno di classe che mi aveva invitato (“tu sei simpatico!”, povero ignaro) abitava a Via Inghilterra, e mi invitava anche a scendere e girare per quei posti, troppo vasti per un corpo dalla crescita lenta. Dicevano fosse un brutto posto, fate attenzione, quello e Toscanini. Non sembrava. Finivamo presto i compiti davanti a una finestra altissima, guardavo le minuscole file di macchine e avevo la sensazione che anche chi abitava al piano terra dovesse avere una visione del genere, lontana dal marciapiede. Abitazioni diverse ed elevate, condomini di aspetto densamente popolato; gli occhi che si addentravano nei territori ignoti di strade e piazzole popolate di genti errabonde vedevano tutta una via, un’area, infilata tra palazzi alti che incombevano ovunque, tediosi sbuffi di corrente dalle finestre traballano panni stesi smunti a gocciolare su aiuole scolorite e intanto, sotto i portici e tra i parcheggi, delle persone assurdamente camminano, brancolano, incredibili deambulatori del giorno e forse anche della notte. Così era questo, pensavo meravigliato e titubante, l’aspetto della vita di quelli che crescevano, quelli che uscivano di casa. Avrei potuto ora controbattere a chi mi diceva che rimanevo sempre indietro rispetto a tutti quanti, quando sottolineavano che “ancora non uscivo”. E invece, avrei potuto dire, invece esco a Via Inghilterra, avoja, li conosco quei posti, come no certo che esco, avrei gonfiato le due tre volte che ci ero stato per fare i compiti e poi cazzeggiare in giro, le avrei portate a decine di volte, più di una volta a settimana. Prima regola non essere te stesso.
Me stesso non me stesso (attento, piccolo osservatore..) girava tra palazzi altissimi reputandoli vita adolescente, vita giovane vita adulta che non avevano distinzioni e insieme torreggiavano sulla mia bassa statura forma grassoccia e voce acuta. Su questi grigi si siedono, fumano anche, si incontrano ragazzi che scendono in strada ogni giorno, si conoscono tra di loro e conoscono i posti, hanno una propria parlata. Il mio compagno di classe saluta tutti quelli che passano col suo accento meridionale, lo riconoscono per quello, non è l’unico tipo di accento che c’è, ma s’unificano in egemonia di una lingua di impero invisibile (c’è un idioma nascosto che si propaga dai peli in crescita sui volti intorno). Quella della zona? Perché qui c’è una chiesa? È lì che è andata la madre quando siamo passati in bicicletta, non San Michele né Pietro e Paolo, no no, qui c’è una chiesa, c’è un supermercato, uno spazio pseudoverde, un perimetro di mura simboliche, una città dentro la città. Ma non è di questo che si tratta. L’impero trascende i nomi delle vie, bravo figlio del Fango là sotto, degno orgoglio di padre, orgoglio storico e patrimonio genetico. Continuate così, voi della superficie, sibila il primo imperatore della palude. L’osservatore blatera di questo, costruisce la sua comprensione, schernito per i difetti del cervello e del fisico, schernito da Aprilia patria.
Si riconoscono tra di loro per le facce e per l’odore. Hanno tutti un odore pungente che non conosco. Si citofonano, “scendi?”, assurdità di gente di case diverse che si conosce tra di loro, complici. Mi scorta, estraneo, in un punto di incontro degli indigeni. Non reco offerte né saluti, né contributi di alcun tipo. Il nostro ingresso nel campo da gioco, nient’altro che una piazzola piuttosto larga affacciata sulla strada, vicino a un benzinaio, vicino a continui inseguimenti sprezzanti di palloni calciati nel traffico, iniziazioni quotidiane. La vanno a riprendere e si fanno urlare bestemmiare clacsonare dietro con vanto, centrali nello stradone dove certi morirono, chissà i nomi di quei tizi. Colore locale, colore di sangue su asfalto, macchia sciacquata, sciacquo di pioggia e detersivi tossici dai balconi, graffiti, epigrafi. Giochiamo? Giochiamo. Non sono bravo, vorrei tirarmi indietro, ma non posso, ma non so che diavolo di cosa c’è ad aspettarmi e incutermi un’angoscia senza volto dall’altra parte della scelta, quella in cui esprimo il mio rifiuto, in cui dico: non gioco, nonostante siamo solo in quattro (ma chi diavolo sono questi?), non me ne frega niente se giocate in tre. E invece le mie azioni, il silenzio e la saliva inghiottita, sembrano affermare contro il mio volere che qualcosa me ne frega.
-dai, famo due contro due.
-l’amico tuo non parla?-, ride quello che già aveva riso vedendomi che evitavo di guardarli.
-mondialito?-, dico allora: mostro che so di cosa sto parlando, sia quando taccio che quando parlo, e lo dico perché non voglio far perdere nessuno che giochi con me. Finte, far finta di giocare, strategia.
-mondialito in quattro è una merda. Famo due contro due.
Ecco, appunto, ma allora che cazzo volete?
Sono stato osservato, sono loro gli abitanti del posto, io intruso. Intruso tra Inghilterra e Toscanini, intruso tra infanzia e adolescenza, tra discorsi che non rispecchiano nulla nella mia mente. Solo strade ostili ai passi. Non è perché mi trovo qui, non è perché per caso mi ha invitato l’amichetto orgoglioso di sviluppo precoce, corredo ormonale di mezzogiorno sanguigno, che abita e corre e sale scende tra muri plumbei imbrattati da suole lanciate per sport, striati di scritte maschiacce -dvx mea lvx kck crew croce celtica occhio alato collettivi di un hip hop senza basi. Sarebbe lo stesso dall’altra parte di questa città che non percorro, tra i parchi bazzicati da calciatori o ai giardinetti della Gramsci annebbiati di sigarette acide. Sono stato osservato e deriso prima ancora che ricevessi tutto l’impatto delle due figure in sopraggiungere, una alta una bassa, quel tizio è più basso di me e fa la seconda anche lui, perché allora ha lo sguardo così sicuro? Certo che quello alto è alto davvero, mica per esagerare, quelli della terza fanno troppa paura. Dalla terza media al quinto liceo uguale arroganza. Il loro arrivo ha tagliato l’aria abituata a quei movimenti, ai cenni scambiati con distaccata spavalderia. Essere virili dal primo momento in cui lo si può essere. Da quello alto, soprattutto dalla bocca pendente a zanne rettangolari scoperte, una bianca una gialla, mi arriva sferzante quell’odore prepotente. Sudore, non nervoso rancido come il mio, è quello asfissiante da spogliatoio, odore di macchie marroni su pallottole di calzini abbandonate in scarpini madidi d’erba, odore di graffi e brufoli scorticati, fumo e qualcosa che sembra lattice. Secreti della pelle.
Così devono essere gli indigeni dei palazzi alti, forse tutti così adolescenti con le creste nere e setolose che stanno su senza gel asserendo un disordine convinto, ritraendosi dalla fronte acuiscono la forma spigolosa della faccia coi foruncoli rossi, la pelle ruvidissima. Tutti con lo stesso spirito, quelli della zona “fate attenzione”, quelli con i bagliori di sguardi diffidenti da dietro le tende al passaggio di estranei, che dai balconi si affacciano e tirano lance alle auto dei carabinieri, esploratori incauti di Toscanini crogiuolo di scarti e degradi, inferno del cittadino onesto del centro. Fuggono respinti come carcasse preistoriche attanagliate di legni nella carne, nessun malcapitato si volta dove scintillano gli istinti ostili sporti dalle abitazioni, forate nelle pareti di roccia di questo crepaccio affossato nelle ombre della città. Ascolto le vibrazioni interne dai miei ventricoli in costante allarme, dicono che la città ha detto loro, e a tutti i canali misteriosi della percezione, qualcosa come: “vattene. Non ti vogliamo, non vogliamo nessuno.” -forse suggestione dubbiosa di bambino in territorio proibito della cattiva reputazione.
No. È così ovunque, sono le stesse facce delle classi dirimpetto la tua. Escono scalpitanti dalle pareti quando suona la campanella e per la strada lanciando schiamazzi quando te sei già a dormire. L’arrivo ha tagliato l’aria, l’arrivo mi ha visto, squadrato, definito secondo i termini della lingua corrente che parlano quelli del popolo sveglio. Sotto i miei piedi si è aperto un occhio tra il cemento e le erbacce urbane, una pupilla mi ha squadrato da sopra sotto e tutto intorno come avrebbe fatto esattamente in qualunque altro posto, spalancandosi in qualunque altro incontro e scontro tra me e un energico emissario puberale posto sulla palpebra opposta. Solo un volatile in alto, che rimanda lo sguardo allo sguardo squarciato nella terra lontana al di sotto, è indifferente. Ma è troppo distante, immerso nel sole che non riesco a guardare, perché della sua indifferenza possa rallegrarmi. Sudo come uno schifo.
-dai, calcio d’inizio- mani gesticolanti savoire faire del mio compagno di classe e ora di squadra, furbo di ricci folti e naso semitico che si infila agevole laddove odora. Palle assai vive del cui gonfiore crescente mi racconta ogni momento che può. Maglia del Napoli a denotare il credo. Lazio e Roma sulle pelli degli altri due, complicità improbabile grazie a un ponte che li irrora tutti, a me invisibile quel terreno comune.
“ci sei?”, mi fa da sotto le sopracciglia cespugliose da ovino, quasi preoccupato della mia assenza che ancora non conosce bene.
Oh, sì, sì, questo è il momento in cui si vuole che dica qualcosa, eh no, mica posso farli giocare in tre, mica posso dire, non dire, domandare, frignare, opinare, linguaggiare.
-ah, sì, gioco, certo.- (bene. Bravo, cammina così, vago, mentre parli. Adesso giustificati.) -però, sapete, a me ci dovete stare attenti, perché io…- (non dirlo, imbecille) -io mi faccio le canne!
Imbecille. Avevo spernacchiato dalle narici un tentativo rumore di sniffata, immaginando fosse un complicato suono consonantico della lingua a me preclusa. “le canne”, indubbio elemento di un vocabolario ignoto, certamente pregno di importanza e rispetto. Droghe, stimolanti, fanno tutte la stessa cosa, no, ti rendono pazzo, no? Adultità è criminalità e brivido della sua attrattiva tra i banchi delle medie incisi da forbici discole. Sui davanzali della Gramsci non c’è spazio lasciato libero da untuosi sputazzi di pennarelli sfiniti, tag proliferanti tra parole di rap ridicoli, svastiche storte o a rovescio ripetute all’infinito. Slogan della lingua corrente: pronunciateli, scriveteli ovunque, discutetene, scopriteli, che se non è questo il momento, allora…? Disseminate chiacchiera, piantate il futuro: velocità droga sesso classifica forza; denaro potere; città, patria, padre, duce, dio animali di fattoria. Fango risponde con autunni tuonanti da fuori le vetrate a rimbombo sui compiti in classe e le sgommate in corridoio.
In me stesso non me stesso interviene una coscienza turpiloquiente che mi vuole bene, in guardia contro le grettezze del mondo. Dice: non è vero un cazzo, la figura di merda che fai quando non stai zitto è molto peggio dell’ostracismo, non l’hai ancora capito, attento imbecille osservatore. Nessuno ti mena, cacasotto, e devi davvero essere circondato da magnanimi perché cristo santo ti meneresti pure da solo quando ti senti che dici certe cacate. Frocio checca ricchione rottinculo!
Reputai un po’ gratuita l’ultima glossa, alzai la testa dai miei passi facendomela schiaffeggiare dal gelido imbarazzo radiato dalla mia presenza in quel tempo e luogo. Il basso si mostrava indifferente, l’alto mi lanciava spigoli dagli occhi celesti a triangolo, grugno serio predatorio che per la prima volta copre le zanne dietro labbroni protrusi, concentrato sull’idiozia mia succulenta. La camminata a capo chino del mio compagno racconta un borbonico conflitto tra vari “chi cazzo mi sono portato dietro” e “voglio morire”.
-e senti un po’, come si fanno le canne?-, dice quello alto col piede sul pallone. Ginocchio lungo magro scorticato puntato come occhio d’un ciclope.
Cazzo, dice la coscienza di prima.
-…col naso?-, dico io, tremulo di una presunta ovvietà che si sfalda nello scambio di sorrisetti davanti a me. Mai pronunciare le parole del mondo vietato, non parlato da te. Mai.
“col naso, ha detto col naso!”, urlano, saltano e ridono. Quello basso, dopo il primo scoppio, si ricompone, ridacchia, mi fa “essù, dai…”, e il mio compagno, mostrandosi infinitamente paziente e benevolo, accenna un conclusivo “ma sì, si fa le sniffate, questo intendeva”. Energizzato dall’umiliazione subita dall’altra squadra, il tipo alto zannuto con un balzo e un calcio fulmineo dà inizio a una partita, giocata tra amareggiamenti senza sbocco come centinaia di altre nei pomeriggi apriliani. Si uniscono fiatoni in un filo dal Friuli al Manaresi e attraverso tutti i giardinetti a ridosso di tabaccai e sorvegliati da secchi rossi dell’Algida, salgono al cielo e diventano nulla, ricordi, tepore d’energie bruciate e minuti appassiti tra i vapori del perenne tramestio urbano-palustre. S’attutisce tutto nella cappa di umidità calda.
Oscilla come un ginnasta anche per calciare il pallone e sospingerlo nella corsa radente il marciapiede. Esagera il movimento. Eppure è armonico nel suo eccesso. Fuoriesce dall’occhio, ci rientra, lo vive. Sotto le suole pupilla osserva, e ce n’è un’altra che sorvola. Evito di pensare al tocco che spetta al mio piede. Reazioni immediate, non voglio, non voglio velocità. Mi concentro sulla visione, la mia visione d’occhio cieco e muto: in un delirio di silenzio privo di tempo avevo percepito la vicinanza dello spettro bruno dorato di un’aquila, scruta Via Inghilterra sporgendo gli artigli aggrappati ai bordi di un cerchio incavato a oblò nell’altura di un condominio prismatico. Domina la struttura precisa e acuta, di tagli ordinati e penetranti si informa un suo midollo nelle penne. È sua l’ombra che vola alta, forse, che ogni tanto oscura i passi sulla sclera, rende coscienti del cielo gli occhi vergognosi puntati a terra. Si alza la testa, non si vede nulla, stordito dal sole, schermito dal braccio che per riflesso si porta a umettarsi di sudore in rivoli dalla fronte. Se si è veloci si reagisce, ci si riprende ricordando il gioco e vincendolo. Ma sono lento, e in quel momento avrei dovuto difendere. Un colpo laterale dello scarpino scattante, fulmineo già accanto a me, scocca un cozzo osseo al mio calcagno inerme, piegato senza sforzo; un flusso tattile d’intensità crescente mi si sblocca salendo fin su nella testa e i capelli, divento un covo di nervetti rabbrividenti. Qualcosa di quel contatto mi turba. Tornato a casa passerò più tempo del solito a lavare questo piede, grattar via le tracce di fango e di altre cose inafferrabili.
-lo sai a chi lo dedico questo gol, lorè?
-eccoci…-, si dicono le facce degli altri, sanno cosa sta per dire.
-questo gol lo dedico al duce!- lo disse veramente. Era un nome, un titolo, una divinità nominata spesso in quei giorni.
Eh, del resto, duce, duce mio bello! Non ho ancora mai visto per bene chi sia questo eroe, quest’uomo in piedi di sguardo accigliato -me lo figuro così- che molti ammirano, a cui tendono un gesto, identificazioni o chissà cosa. Dopo il gesto d’esultanza, e una frenetica cerimonia del punto segnato a braccia spiegate, s’irrigidisce a ridosso di un muretto-palpebra e così ritto fa uscire retorica di celebrazione tra i solchi sotto i pettorali.
..
(occhi chiusi di un istante. Mi sembra che l’aquila che era nel cielo, anzi, una sua copia, dalle piume tutte d’oro, discenda in ampi cerchi, riflettendo a ogni ravvicinamento i raggi di un impetuoso sole mattutino proiettati attraverso le sagome iscurite delle ali viste dal basso. È una luce tutta diversa, è un paesaggio che mi si presenta non per segnalarmisi da sotto la scorza: non è una forma passata o essenziale dello spazio e del tempo in cui mi trovo. C’è un’immagine intrusa, un mondo che brilla di un’alba priva di fondamento: delle parole l’hanno generato. Il fragore del mare sconquassa le sabbie finissime, propaga il loro chiarore marmoreo accecante mentre il sole sale dalle onde e l’aquila scende sulla statura imperiosa di un uomo, forse un dio, erto nel vento con gli stinchi nell’acqua. Parrebbe sopraggiunto, inscalfibile attraverso le acque indomite, da un’isola lontana dove originano i progenitori di quella costa, oppure emerso dalle profondità per accorrere a un richiamo della terra. Eppure sembra anche che stando là in piedi, un perno a sorreggere il mondo nella sua posa, sia una statua inamovibile, nata prima di tutto, e di quel tutto patrona. Sulla nudità di una sua spalla piovigginata di salsedine e sudore si avvoltolano le dita artigliate dell’aquila solare. Graffiano al tocco, aghi di sangue sgorgano in saluto indifferente. L’uccello alza la testa: occhio spalancato, ambrato dai molti concentrici solchi di fuoco: vista che penetra fin nella coscienza lì a fluttuare sospesa, incorporea, per vedere quella scena: viene il boato. La coscienza, resa consapevole della propria visibilità nell’occhio infallibile, viene investita e tremano le sue pareti invisibili. L’uomo al centro del campo visivo, l’uomo al centro del mare, rimane fermo mentre intorno tutto rimbomba possentemente, fino a sfaldarsi sfocato, l’ombra di una massa di spume furiose a ruggire dietro, ciò che appare della sabbia e del sole sono flussi aurei a incorniciarlo, muscolo incastonato in un globo di luce vibrante. In un vortice tonante di colori vedo solo la sagoma salda, il suo famiglio, sento l’aura della spiaggia. Circolano volando in scie di pulviscolo forme vacillanti come di mille occhi alati, omaggiano il capo.)
.
-che, c’hai paura della palla?
I miei timpani non reagiscono alla cosa, parole e risate udite troppo spesso perché si differenzino dal vento. Il mio compagno non mi rimprovera, lo intravedo che ha una sorta di rimorso o imbarazzo silenzioso. Beh, ora che ha visto come muovo i piedi, probabile che giustamente ritenga controproducente un qualsiasi rimprovero, tipo “prova almeno a muoverti, prova a prendere sul serio la cosa”; è sveglio e sa capire che non ci sarebbe differenza. Io dormo e so capire che nel sogno di questa vita in questa città anche lui, anche quegli altri, questa strada roboante di macchine pazze e rischio di incidenti: ciascuna di queste cose è un suo ingranaggio. In ogni elemento si riflette il tutto, nel tutto si rivedono queste cose. Giocano, si passano la palla svelti, mi scavalcano, cammino piano costeggiando un bordo di un occhio della terra, intravedendo di là d’una riva una ragazzina in bicicletta, tutta china e spedita con il didietro in minigonna di jeans tirato su, poi un gatto, subito salta dentro una siepe, sparisce per sempre, magari un’illusione; un uomo, creste argentee di gel e volto invecchiato più del fisico, da un centro scommesse in un angoletto esce rosso e bianco sporgendo la pelle scottata e tatuata da una canotta dai motivi motociclistici; un altro, tutto nero in un’armatura apposita, sale su una moto in un parcheggio, un ruggito assordante mi porta a ritirarmi dal guardare e sentire queste cose. Non c’è partita, non c’è Via Inghilterra, non ci sono le sporcizie losche di Toscanini. Simboli della città territorio palude: venite, affiorate a me. In un linguaggio che mi sia comprensibile: il dialetto di Aprilia? No, è complicato: ha molte teste, ha la parlata dei castelli mista agli svogliati strascichi latinensi e i vari idiomi dei campani, come il compagno là, parte che si riflette nel tutto e viceversa, lavoratori che arrivano in massa, città di pendolari, figlio di nuovi coloni come lo erano i primi abitanti con le gambe piene di morsi e pruriti e le vene malate, come lo erano le famiglie prima di me, come lo sono tutti. Ha le parole distanti, adulte giovani adolescenti, di quelli che popolano le strade, le moltitudini in movimento. Muoversi di un’immobilità: alimentano le situazioni che, lo sento, non cambiano mai. Gesti sotto il cielo di palude. Il fango e la guazza più superficiali non sono particolarmente agevoli, non lo sono gli asfalti e i cementi o le aiuole.
Una cannonata mi sfiora la testa. Avrei dovuto bloccarla, suppongo. Arriva fino al compagno che cerca da solo di difendere la porta. Scusa, gli vorrei dire, ma ora sono, come si dice, un attimo sovrappensiero.
-pensa se questa mi prendeva le palle! Addio sperma!
Sghignazzata ciancicante in risposta, forzano a pensare l’esistenza delle loro mascelle e salive. La palla va fuori.
-vado a prenderla io, sono un buon raccattapalle.-, dico, dettaglio inutile per simulare simpatia, mi rendo utile e mi assento in una maniera accettabile. Lento, lento, nessuna fretta, la palla è laggiù. Tensione che si butta a freccia sulla mia schiena: l’importante è non voltarsi e vedere la faccia che mi sta facendo quel tipo, non capisco che cazzo vuole da me, non guardare non pensarci, sei un raccattapalle e fai solo il tuo dovere. Ti sei offerto volontario e questo è inattaccabile, non hanno mai voglia di andare a prenderla loro con i loro fisici immersi nel presente, chissà perché, ma tu sì e su questo non si può dire niente. Ricorda la scuola calcio, anche allora era così. In ogni singolo dettaglio. Sull’erba sintetica le cose di Aprilia si ripetevano uguali nel corso della settimana, nei vincitori e nei vinti, nell’attesa del ritorno a casa. La brezza piacevole sprigionata da fieno ammucchiato in fossati a Vallelata, sporcata di plastica bruciata, reca le ultime bestemmie della giornata, esclamate come parte finale dell’allenamento al calcio e al mondo. Ricordo bene, ma se provassi a ricordare come si controlla il pallone, otterrei solo gesti inadeguati. Beh, al diavolo.
-lancio eh!
-madonna che piedi a banana!
Sguardo truce impaziente si volta a colpi di giunture stizzite contro il vento, scatta in direzione opposta per andare lui nel tempo che dicono le gambe sue a recuperare il pallone che ho aggraziatamente spedito nel porticato di quel palazzone laggiù. Il gioco è fermo, mi si avvicina quell’altro, quello basso, più approcciabile, conosce solo un silenzio molto calmo per la sua età e vari cenni di un’ironia intensa ma capace di quiete. Mi si rivolge la sua risata da romanista, da dietro l’occhiale un coetaneo più basso di me ma che sembra venuto da un altro mondo, e che vedo alto titanico come tutti gli altri.
-ma insomma prima che intendevi quando hai detto le canne?
-no, ecco, stavo…
-aaah, stavi a scherzà, allora sì.
C’è una traccia di tolleranza. In compenso, nei passi dell’altro svelto a voltarsi e rimettere in gioco, tonfo prepotente di un calcio senza dubbi, vedo la possibilità di un imminente pericolo, vedo che si muove, in anticipo sul tempo e sulla realtà, la sua figura, o quella di un suo demone, avvicinarsi di corsa, afferrarmi la maglietta e con questa il torace, sollevarmi al fiato marcio delle zanne e senza sbattere gli occhi sputazzare nei miei parole ringhianti di minaccia a voce bassa che riempie il cranio, “che fai mi prendi per il culo”, “che cazzo ti guardi”, e altre dal repertorio che già conosco. Per il momento, non succede. Un osso mi vacilla nella gamba, che sia un infortunio? Non ho nemmeno corso, ho solo calciato il pallone con i piedi storti. L’impatto dal collo del piede mi è salito alla gamba, deve essere così, deve essere che voglio andarmene a casa correndo.
(la coscienza impantanata in un vuoto fatto di stordimento torna a vedere la spiaggia. Il lampo che aveva scosso tutto il mondo percepibile non era stato quello finale, non era che una cellula del potere possibile in un momento a questa storia, alle forze che la regolano. Nel mattino la brezza marina cristallizza l’atmosfera salina recando minuscole polveri, macerie di terra, di mare e di aria. Dalle dune, estese di fronte al mare, spuntano in gruppetti distanziati i resti spezzati di bianche colonne scanalate. In scalata dal retro delle dune, giunti forse da un deserto orizzonte che si può solo immaginare, salgono con passo avvezzo all’impervio e si schierano come figure guardiane su bordi di collina degli strani ibridi, centauri austeri con lembi di ferro e fumo. Nelle membra deformi di bestia e macchina, tra peli e giunture fosforescenti e dal puzzo inorganico al sole, sbuffano vapori incandescenti. Tacciono e stanno, connaturata sapienza di un ruolo e postazione, qualcuno con un braccio teso a sfiorare i ruderi attorno cui si ammucchiano; e, sul bordo frastagliato delle colonne decadenti, si appollaia qualcuno di quegli occhi alati, più calmi dopo il fulgore. Posandosi fanno scricchiolare una granula superficiale che va sgretolandosi in pulviscoli capitombolanti come ciottoli lungo i bordi dei ruderi. Movimenti impercettibili. Agitarsi di rarissime erbe desertiche morte. Solo il mare è senza sosta agitato, ma saprà arrestarsi, sembra, se lo vorrà l’essere che si erge dal suo ultimo lembo. La coscienza si impressiona per la sua immobilità. È alto il corpo da combattente, è patinato dei segni del mare che sembrano dotare la pelle di una rete a maglie squamose, scaglie di spigoli quasi argentei che si rialzano lungo tutti i muscoli dai cerchi delle gambe in acqua salendo su tutto l’addome e il collo; palpita di linfe granitiche e quello stesso sangue scuro che sbocciava dagli speroni del rapace, apparentemente suo complice. Quello tiene la testa china laterale, mostrando sempre quel suo cerchio di fuoco, il bagliore delle penne lucide, ostruito solo da uno sporadico baluginare dei capelli fluenti dagli spigoli del capo d’umanoide erto a monolite severo sulla scena. Lunghi e folti, forzati dalla brezza si muovono malgrado il corpo da cui si generano, crescono per riflettere il frangersi e rifrangersi del mare, questi sono i capelli del Duce. Dagli occhi alati, in volo o posati tutt’attorno, un coro sgolato, uno stridore lancinante ripetuto più volte, acclamante come rulli di tamburi per un rituale; di nuovo, sta per accadere qualcosa, un accadimento nella stasi inespugnabile, per questo ancor più tremendo. Stridono, infernali, e sembra che tutto, in tutta la spiaggia, ripeta che il Duce è là, generato, giunto, manifestato, pronunciato, celebrato: tutti gli esseri, tutto l’esistente, meno la coscienza lì intrusa, credono nel potere, il Duce che è come il dio del mare che lambisce un’intera costa, che sommergeva un’intera regione, ora emersa, ed emersa la figura di lui in accordo al muoversi di mare e terra. Territorio, appartenenza, lingue di popoli, nostrum. Il Fango era un tempo sul fondo del mare primordiale, lambì una penisola figlia delle acque. La coscienza è ipnotizzata, è combattuta: questo presagio viene dal nulla, questo mondo, questa parentesi. È una spiaggia che non c’è, le macerie insabbiate sono lasciti di un nulla, non esiste nella storia del suo mondo quel dio marino, non c’è quel potere pronto a sprigionarsi. Non è un mondo che appartiene a quella coscienza lì capitata, appartiene a un’altra essenza, lontana. Ma si impone. È una visione di nitidezza rara, è solida, come scontro di nocche e ossa. Eppure se solo non ci fossero quegli occhi ad acclamarla, se si indebolisse la coscienza lontana che alimenta quelli e il loro dio, che crea la spiaggia, tutto quanto sparirebbe, sarebbe nullo! Strillano, strillano. Non c’è incrinatura nel volto del Duce, solo cipiglio e sguardo oscuro. Il Duce, infine, compie un unico movimento. Lento a generarsi, come continentali contrazioni di placche sul fondo della terra, infine il terremoto. Alza un braccio, compie un gesto, che ha un significato per gli uccellacci e per le loro fatiscenti colonne, per tutta quella sabbia e quell’acqua furiosa. Di nuovo gridano, i centauri rombano, forze aree e terrestri si lanciano tracciando curve sulla rena, tutto intorno tra la coscienza e il dio che muove il braccio. Si squarcia il mondo. Al di sopra del mare, come un bivalve fluttuante, si spalanca una fessura d’abisso, ferita del cielo. Escono dall’oscurità e, intorno al Duce come un imperatore col segnale e l’insegna piumata, atterrano in spiaggia in galoppo pesante innumerevoli cavalli neri dalle corna ricurve, innumerevoli soldati a piedi, di nudo fango, giganti fetidi che impugnano lance ossee sanguinolente. È un esercito che conquista la duna, inesorabile verso il punto in cui si trova la coscienza incorporea, asserragliata in una spiaggia d’un sogno altrui. Vacillando febbrile, vede una cosa gonfia sul fondo di quella crepa. Un’enormità che respira. La coscienza si dice impazzita vedendo il nulla che vive, il fondo fluido e senziente del buco. La coscienza prova dolore che normalmente appartiene alle esistenze fisiche, mal di testa.)
..
Maledizione! Che giornata di merda. Sembrava partita bene, ma deve esserci sempre una cosa del genere, vero? Ogni volta che vado a casa degli altri. Perché hai dovuto portarmi qua e coinvolgere gente che conosci, dando per scontato che sia una cosa normale quella di parlare agli sconosciuti? Zona malfamata, no, non c’entra, sempre così anche per quelli che abitano a Muzio Clementi e il Caligola e Campoleone vaffanculo, sempre in giro a tirare calci a super santos o in bici tra i porticati. Tutta la città è una zona malfamata forse. Voglio andare a casa, voglio salire in terrazzo, vedere che il tramonto è più bello su Via Tiziano e vederla pure con gli occhi chiusi che diventa un canneto serotino che si estende dopo la rotatoria dopo Carroceto dopo il liceo dove andrò e ancora dopo gli Albani e poi oltre il buio e l’invisibilità della notte fino allo spazio profondo da dove tocca tutte le cose e la linfa che innaffia dal didentro e sincronizza tutto, una sola mente non questa merda dove tu sei fuori io sono dentro ho vinto hai perso ma come cazzo parli dì qualcosa io ho la bmx tu no io so tirare di sforbiciata io so che vuol dire la parola coito.
Conversava così con se stesso -e altre mostruosità trascinate assieme- l’osservatore che non osservava, schermendosi dalla sera calante in quella via non sua, su quelle conversazioni non sue, gioco a cui non giocava, ormoni che non aveva. Uscimmo dall’occhio, il mio compagno di classe tornava a casa, dove sarebbe stato il se stesso che torna a casa dopo essere stato in giro per Via Inghilterra, e il giorno dopo l’avrei visto a scuola nella forma del se stesso che vedevo quando era a scuola, e quegli altri sarebbero saliti ai loro palazzoni e urlato alla tv guardando la partita fumato sigarette in balcone e visto da là le cose illuminate dai lampioni che vedevano ogni giorno vivendo là perché quando si crede di appartenere a qualcosa di conseguenza delle cose appartengono, vista e gesto corpo e tana. Lo spettro strano di un’aquila risaliva al suo alto nido circolare del palazzo, rupe appuntita. Si salutano, ci becchiamo domani, le fanno sempre queste cose, annusano i giorni e le cose che gli escono fuori dal corpo. Ma che si ride quello? Sfinito fisicamente, come se m’avessero preso la coscienza per esiliarla in una spiaggia lontana, su una costa di mostri.
Entrava non invitato nel muro lasciato incustodito un essere defecato dalla forma di quello che era quel tizio alto e zannuto, così assillante per la mia autoconservazione. Una sua proiezione, esagerata, ma potevo, finalmente, udire e decifrare gli attacchi da lui lanciati. In una vertigine nera, che mi accompagnava mentre appoggiato al muro della pizzeria aspettavo che mio padre arrivasse, vidi profilarsi questo coso di soli volti e puzze di crescita, sentivo uno strascico sordo delle sue risate gutturali rimaste altrove e l’ambiente me le traduceva senza onde sonore. Attraverso la quiete.
-hahahahah! Che cazzo mi rido? Proprio qua che non fa eco. Però lo capisci che rido forte. Hahahahah! Ma non mi vedi?!? Certo che no, deve essere così, sei cieco, vero? E infatti qua dentro è tutto nero. C’è solo un muro in cui sono entrato, e poi tutto buio e silenzio. Mi è bastato farmi vivo, e bum! Si apre la breccia e io entro. Non lo sai? Perché un muro funzioni e si rafforzi, bisogna anche uscirne fuori ogni tanto. Bisogna difenderlo. Se no io entro e schiaccio te che stai blindato dentro!
Per incoraggiarmi provo a dirmi che questo qua deve per forza essere una proiezione e non la realtà, perché è impensabile che quello vero sappia dire anche cose sagge in mezzo ai gargarismi.
-che cosa otterrai stando qua? Esci fuori e perdi, perdi e zitto, e ascolta la musica delle risate, e stacce, no?
Stacce, dicevano. No, sto facendo altro. Sto cercando le parole, mi serve tempo, per trovare le mie. Lo sto facendo, e quando ci riuscirò, saprò spogliarvi per quello che siete, nelle vostre piazzole spalancate a occhio ai lati delle strade, sotto gli occhi dei vostri patroni e dei, io dirò…
-hahahah! Ti impunti? Sei così sensibile e speciale, tu, mentre noi altri qua stiamo tutti a divertirci e misurarci e a fregarcene di tutto. L’unico motivo per cui disprezzi la mancanza di significati, il vivere per gioire della distruzione, del denaro, del momento che si esaurisce, è dovuto al timore di quelli che rappresentano tutto ciò. Li temi per la loro superiorità, in forza e in intelligenza e adattabilità. Il primo a negare di voler vincere, ultimo ad ammettere di volerlo. C’hai paura de perde, c’hai paure de perde!
Non rispondo. Ma… non succede niente. L’attacco non fa più male a causa della mia lentezza, rimane uguale. È passato, si annulla, sprofonda. Fermati un attimo, svegliati anche solo un secondo e non perché ti abbiano detto spazientiti di svegliarti, sono io, la coscienza che ritorna: non sono dove ero, non sei dove eri prima: non c’è la strada che quelli conoscono, non ci sono quelli. C’è la Toyota che striscia e cigola in cerca del parcheggio, io che dovrei staccare le gambe dolenti dal muro e avviarmi, c’è una luce giallastra dentro e una più pallida fuori con le falene intorno, e odore di crosta di pizza bruciata, luci e odori anche questi gli stessi ogni sera, al momento della calma perché anche qua cala una calma e si accendono lampioni insegne falene e si irradiano stanchezze da corpi e docce. È passato: sono solo e al sicuro, posso non avere la risposta pronta. Forse ci sono sempre un tempo e un luogo per concepire, pezzo per pezzo come la sequenza degli eventi storici e dei loro miti, la propria risposta, il proprio qualcosa, mentre mi avvio a testa bassa verso la macchina torno nel buio pacificato tra le mura e respiro profondo e…
-forza, intelligenza, adattabilità, vi sbagliate così tanto e non sapete capirlo!- rispondo, annaspo, mi altero.
-E io in questo spazio di silenzio, in questa palude dove siamo già tutti decomposti da millenni, dove non esiste vanità, io qui dichiaro quanto non me ne importi nulla di tutte queste cose. Tenetevele. Tenetevi la vittoria, tenetevi la superiorità, il potere, per la cui conquista tutto questo si muove. Dove non si propaga il suono, io urlo, il mio urlo rafforzato dal silenzio, urlo il mio eterno disprezzo per tutto questo. Non mi toccheranno questi demoni, non questi qua almeno.
vaneggio, sbavando miscugli di parole dissonanti, barcollo allucinato in flussi di significanti mai visti che si proiettano a fiumana nel mio immaginario campo visivo, un’energia inarrestabile. Così ipnotizzato, sfinito quasi stramazzato a terra e calpestato, io mormoro:
-siete littorica youth, nient’altro che insignificante, immutabile, decomposta littorica youth!
Littorica youth! Littorica youth! Littorica youth! Fatti arrivare alle orecchie otturate la dissonanza, l’insensatezza della nuova parola, di quello che siete. Questa non è parola degli svegli, dei precoci e dei violenti, ma è quella che li intrappola. Ma non serve perché siete già intrappolati nel Fango. Ripetetevi, ripetete, slogan. Littorica youth al Quinto Ricci e alla Gramsci, littorica youth puzza di unto ma ancor più di plastica bruciata e polveri sottili, littorica youth dal grattacielo al bastione velenifero a Campodicarne, littorica youth in giro per strada, la pizza e il calcetto, i porchiddii e le tag lasciate su muri e davanzali a impolverare ed essere dimenticate.
Salgo in macchina e torno a Via Tiziano.
..
(vorticavano occhi alati, centauri meccanici, cavalli mostruosi, soldati di fango. Si riversavano come schiuma dal mare, vomitati dall’abisso. La coscienza senza corpo e ombra stava per essere calpestata, annullata da quegli esseri che violentano il mondo fisico e mentale senza distinzione. Ma, infine, come un istante prima di sparire nel dolore, cominciò a sparire da sola. Irraggiungibile ai colpi, gradualmente più spettrale evaporava. Come se un’energia diversa da quelle lì presenti ne prelevasse le particelle una a una e le portasse al sicuro, proteggendole in un velo invisibile. Stava venendo tratta al sicuro, fatta ritornare da dove si era smarrita. E, come se l’avesse voluto, fattasi desiderio concreto, dalla sabbia nacquero altre creature, demoni ranocchia, demoni buoni. Questi anfibi scuri di aspetto preistorico, gracidanti in armonia gutturale ininterrotta da sotto il collo branchiato, uscivano tutti di fronte a ciascuno degli occhi volanti, dei centauri, degli altri mostri arrivati dallo squarcio. Li afferravano, si aggrappavano con prese da lotta libera, scaraventati sulla sabbia rimescolata dall’impatto, accecati dai polveroni nella furia dibattente. La coscienza si dissolse inosservata, mentre strane rane alleate combattevano a corpo nudo con altri mostri, in coro acquoso, su una spiaggia, sotto gli occhi di un dio uscito dal mare. E dietro questa figura di forza irreale, in un vortice aperto attraverso tutto il visibile, nel vuoto da cui si generavano diavoli multiformi, la coscienza vide per ultima cosa un movimento, di nuovo, un’enormità d’ombra. Era come un immenso magma nero, un solo grande cervello d’ombra ribollente. Un solo gigantesco occhio rosso, simile a un fuoco sacrificale, si aprì sulla sua carne melmosa. La coscienza tremò, ma sparì in tempo per non cadere nel delirio. L’occhio si soffermò interessato sulla battaglia che imperversava sotto di sé, come sorridesse.)
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