Gli Appunti Del Fango- idro-genesi
- Milky
- 13 giu 2023
- Tempo di lettura: 21 min
Penso che assomigli all’ammasso di palpitazioni e doloretti provocato da un’evoluzione. Metamorfosi e iniziazione, sostituzione pezzo per pezzo, fino all’ottenimento del nuovo corpo. In quel momento i patimenti fisici scrivono nel cielo e nella terra che esistono delle ossa, che dalle ossa si propagano dei filamenti. Il pensiero è midollo. Le sofferenze d’ogni tipo scorrono al suo interno. Così agonizzante era camminare all’aria aperta, riemergendo da un ascetismo di cui non conservo più alcun ricordo -non della sua collocazione, non del suo spazio, non della linearità del suo tempo, ma solo, del suo tempo, un vago e confuso torpore prolungato che, ancora una volta, si imparentava alle ossa e al loro interno palpitio: nell’osso della fronte, come fossile di un mollusco riportato a galla dalla terra acquitrinosa nella sua vecchiaia eternamente mutevole, si incide una pulsazione, un mal di testa appena sveglio. Un osso di seppia mi viene perforato dall’altra parte della lastra della fronte, schermo di pelle dura che mi sembra essere il forziere del sé. Al centro dell’osso piatto campeggia la sua miniatura, seduta ad agitare miriadi di braccia.
Quando sono le ossa e tutto ciò che le riveste a dominare il mondo, i rumori si ergono, giganti, fanno fracasso e radono al suolo. Nel mio suolo immediatamente vicino, banchi di polvere si sollevavano là dove i rumori avevano calcato i loro passi, somigliando a enormi squadre argentee di pesci battaglieri, subito fluttuavano via per andare a dichiarar guerra ad altri coralli invisibili nella città, nella sua lunga via fiancheggiata da giardinetti incerti della propria identità verde.
E così, risvegliato dai passi tonanti dei giganti, pilastri e obelischi viventi di suono invisibile, volsi lo sguardo e le orecchie e tutto ciò di cui erano rivestite le ossa all’altro lato della strada, dove vidi aprirsi il rumore principale che aveva generato i pesci invisibili e fatto crollare i coralli, quei torrioni di sfinito bianco invisibile, appena percepito dai miei stanchissimi residui poteri d’osservazione. E vidi il rumore aprirsi là, mi stava guardando, o mi sembrava mi stesse guardando, com’è sempre per il timoroso, come diventa sempre uno sguardo qualunque cosa assomigli a un cerchio o un poligono, qualunque cosa prenda forma in un mondo d’ossa e di forme infinite a esse sovrapposte, fino al margine più alto, fino al confine del cosmo, fino al confine degli inferi, dov’è il letargo del passato della terra.
La piscina mi stava fissando.
…
Avevo passato i giorni precedenti -li chiamo giorni per comodità- in revisione e sfiducia degli appunti. Gli appunti diventavano ciarpame sgretolato al primo tocco della mano, polvere immediatamente inafferrabile negli spazi vuoti sopra i palmi desolati, con le dita come rannicchiate in rimpianto della cosa appena vista sparire, volata via in un altrove incorporeo di spettri e polveroni vacanti. Nella disperazione di non aver mai tracciato veramente nulla, di non esser mai riuscito a trasferire una sola goccia del serbatoio paludoso scorrente nel flusso sanguigno del suolo e di me che sono un suolo acquoso ambulante e mosso da un arbitrio ignoto e inconcludente -nel rimpianto e nella sempre più inespressa agonia di tutto questo avevo afferrato le pagine e mi ero ritrovato in mano nient’altro che un taccuino di pagine nere. Scorrevo, scorrevo, una pagina dopo l’altra, volavano sotto il movimento ansiogeno delle mie dita, ed erano tutte pagine nere. Questo perché soltanto di una cosa ero riuscito a parlare per bene, ripetutamente: l’oscurità. E la si vedeva bene lì, come stampata in fotografie, perfetta, iperrealistica. D’ogni cosa avevo raccontato un movimento segreto e uguale per tutte, procedente da un’oscurità. Tutte le cose che arrancano in un tunnel. Buio tubolare. Con al termine un punto. Bianco. Un occhietto, la punta chiara di una suppurazione, un’anima nata per rigurgito interno del primo oggetto inanimato che ha smesso di tollerare l’inerzia. Tutte le cose così.
Per questo dico che anche accorgersi di un rumore nuovo, ma che c’era sempre stato, è come un dolore di ossa e inferni intercostali. Un’evoluzione. Venuta alla luce.
Uscendo da un grembo oscuro di pagine nere che io stesso avevo ammucchiato, mi partorii. Ancora coperto del mio appiccicume, sentii filtrarmi fino alla pelle un bruciore e scoprii che era già estate: un refolo anonimo e privo di stagione spargeva una patina granulosa e marroncina in giro per la città. Se fossi uscito prima, in un pomeriggio di deserto giallo e cemento, avrei patito un intollerabile aura di tedio, come pesantemente calato da palazzi altissimi, e un afrore di tori stramazzati al suolo dopo aver trainato carri per un’eternità solare. Non c’è contraddizione rurale-urbana: questo è un continente di bestiame e palazzi. Percorro la via che lentamente si avvicina al grattacielo incombente, un tempo abitata da sterpaglie, mi chiedo se quella vegetazione anonima stia diventando lentamente carbonfossile nel Fango sotto il marciapiede. Passo accanto al campo incolto dove il silenzio, in una barriera improvvisa e senza continuità col mondo circostante, cancella gli schiamazzi del basket, lo sento fremere impercettibilmente in ombre che si disegnano dentro gli steli dell’erba alta oltre le palizzate di chiodi arrugginiti e sporgenti e penso che andranno nella stessa decomposizione vegetale, e penso che sono già là dalla nascita.
Il crepuscolo, come dono di un’anonima e benefattrice ninfa di frescura, ha favorito la mia tolleranza. Grazie a questo, la polvere che mi sferza non sarà più che un leggero strato di sporco sulla mia giornata. Una giornata, non è altro che una giornata. Il tempo è tornato a possedere al suo interno delle parti più piccole, scomponibili di sé. Sto camminando per Aprilia, passo da una via parallela all’altra, spostandomi lateralmente come un crostaceo tra questi invisibili coralli del mare preesistente la palude preesistente la città, queste vie uguali dove le bufale morivano e dove, qualche anno dopo, bambini ora vecchi, figli dello scoppio e della conseguente asfissia di vapori tossici fischianti all’infinito inosservati e irrilevabili, facevano tonfare i piedi su un suolo morbido, ai cui insettini serali mostravano quasi orgogliosamente le caviglie nude tutte sgraffiate sotto pantaloncini e gonnelline dai disegni semplici. Raccoglievano cicoria e cervi volanti. Il database del Fango inconsapevolmente si andava ammonticchiando, pagina enciclopedica per pagina enciclopedica. I figli del boom raccoglievano con le mani la città e la storia.
Ma saranno tutte pagine nere. Penso così spostandomi da una via all’altra. Penso così man mano che riprendo coscienza di ritrovarmi nello stesso suolo di cui ho cercato di scrivere appunti altre volte. Tutte pagine nere. Ho scritto di una palude immortale e di un principio gigante e irrimediabile chiamato Fango. Ma in questi giorni sento arrivare il deserto. Sento inclinarsi lungo un pendio scosceso l’intera placca tettonica della terra, in bilico al di sopra di un baratro incandescente e arido, dove il vento di pioggia arriva al momento sbagliato, dove il gelo e il fuoco rompono i reciproci argini. Avrà spazio la palude, nei suoi principi maligni, come l’irrinunciabilità della decomposizione smembrante, e nei suoi principi sereni come la sera acquosa di tonfi selvatici qua e là? Solo una cosa vidi per bene, in tutte le pagine scritte: dall’oscurità si arranca, ci si partorisce da soli, in ogni gesto, in ogni percezione: e all’oscurità si ritorna. Il principio del Fango, immobile e mutevole insieme, cangiando di nome e d’aspetto sopravviverà dentro la nuova distruzione. Fango nella landa torrida.
Faccio uno sforzo immane per tollerare questa polverina arida, che sembra far appassire ogni spiga di grano possa crescere su di me, incancrenire ogni corallo potesse esserci stato nel mare di sali minerali antecedenti la mia argilla. Faccio uno sforzo perché sono stanco e voglio solo sopportare, voglio solo… non so. Senza curarmi del modo in cui avrò catturato l’oscurità fotografandola nelle mie pagine. Tanto rimarrà quella che è.
Mi fermo. In una via parallela. Un occhio si è aperto. Al centro della mia lateralità. Un occhio azzurro si squarcia, il suo richiamo è un grido lanciato dal cristallo, poi si genera un silenzio di ondine. Le corsie galleggiano sbalzandosi in sincrono sulla superficie, sospinte verso l’alto dal cloro disciolto. L’ora è tarda ed è tutto vuoto. O forse si stanno ancora preparando all’apertura. Sembra una piscina abbandonata dopo un temporale improvviso, già passato. Sembra una piscina di uno che la guarda da solo al centro di una via deserta di un mondo pronto al deserto. È un occhio di innaturale azzurro che traspare attraverso gli interstizi lievi di un pannello divisorio di sottilissimi steli, color palma solitaria sull’atollo e tutti allineati in verticale, a sostituire una palizzata, al di sopra del muricciolo grigio che puzza di cuffie fradice dimenticate in fondo a un armadietto in uno spogliatoio. Tutto assorbito nell’azzurro. Tutto nella sua pupilla. Tutto è sintesi, la sintesi mi guarda. Mi sintetizza forse al suo interno. In una mia vita precedente sono stato lattice o spugna impregnati e lasciati a sprigionare sempre più intenso il loro odore in buia asfissia, in muffa di borsone. Il sé al centro della fronte muove la metà nervosa delle sue braccia sentendo rispondere nel mondo le tracce delle sue passate incarnazioni.
Sto fermo e guardo. Sta fermo e mi guarda. È un bestione anche questo. Anche questo? Lo annoto mentalmente. Che tipo di mostro è la piscina che apre solo d’estate? Annoto la domanda. Una macchia nera, scivolando lucida, immediatamente si deposita sulla pagina appena nata, rendendo indistinguibile il mostro dagli altri contenuti di un bestiario. Non so che tipo di bestia sia la piscina che mi guarda. Ma lo sta facendo.
Qualcosa attorno alla sua palpebra si muove. Come un frullare d’ali o d’un bicromatico ombrellone post-bellico. Ci sono panneggi, sdraio, cose lievi abbandonate.
In un flusso di cloro impregnante e spettri di bufale dell’intera metà incolta di Aprilia di cinquant’anni fa e immagini residue di bagnanti dalle pelli rosse scottate ed eterno ciclico galleggiare di corsie e boe vengo anch’io risucchiato nell’occhio. Mi sintetizza, mi rende parte di sé. Ci finisco dentro. Ma il processo è veloce e non vedo col mio occhio la sua consueta apparenza, l’oscurità e il lento arrancare verso l’altro lato dell’utero. In un istante sono in piedi, semplicemente com’ero prima, dall’altra parte del muro, a bordopiscina.
.
C’è in piedi accanto alla sdraio dal lato opposto della piscina un alto personaggio di spoglio ed essenziale biancore, simile a un grosso teru-teru bōzu. Non lo sento minaccioso ma sento che ha forse qualcosa da dire. Normalmente questo sarebbe equivalete a una minaccia potenziale. Ma sono stanco e un attimo prima stavo cercando di tollerare la polvere. Ci stavo riuscendo. Giorno dopo giorno. Sto forse imparando a… no, niente. Non si dice. Comincio a fare il giro, gettando sguardi di tanto in tanto a questo o quel movimento specifico del pelo dell’acqua, quella cresta d’onda che so già che esiste e s’estingue in maniera irripetibile e che non avrò nessun modo di conservarla per come è stata, cammino da nonmorto sapendo che tutto ciò che osservo non lo sto vivendo al massimo e che nessuna cosa viene salvata venendo guardata. Cammino da nonmorto sapendo che il massimo che possa percepire della vita e del presente sono le sue tracce di proiezioni antecedenti e succedenti. D’ogni anello della corsia la sua plastica crepata e marcita, le sue ossa incastonate in rocce ipogee, d’ogni insetto che sfiora la tensione superficiale la forma annegata, le proteine disciolte nel nulla del mondo interamente composto di precedenti cadaveri. Ma non sto pensando nemmeno a questo. E mentre il venticello getta di tanto in tanto qualche goccia clorata sulle mie caviglie scoperte che nessun’erba selvatica può più graffiare, mi preparo all’idea che la creatura sappia leggere o in qualche misura anticipare la mente, mi preparo a ricevere colpo, mi preparo dicendomi che se non voglio venir guardato, da umani o Forme del Fango o piscine, è sia perché non voglio sia perché voglio esser salvato. Sì, buona risposta, inattaccabile logica, nascondimento a sufficienza per chi non conosce il mio codice. Un mondo di spade e corna affilate sempre attende il timoroso. Anche quando impara lentamente, evolutivamente, ad accettare l’inaccettabile, pagina dopo pagina dell’oscurità.
A bordo piscina arrivo di fronte al teru-teru bōzu che invece mi rivolge un inchino, un saluto. Inchino a mia volta. Il suo braccio a lembo di vestaglia punta all’acqua scoperta, dove potenziali imminenti improvvise gocce di pioggia potrebbero cadere, mescolandosi nell’acqua nuotata a stile libero dal nulla. Ricordo che ho sempre avuto questo dilemma. Le gocce che cadono nelle piscine scoperte e le riempiono, ma il livello non sale mai. Dove vanno a finire, cosa succede, e perché sembra istintivamente così sbagliato, come un prurito improvviso che morde interamente lunghi fili dentro i muscoli. Le gocce si immergono e sott’acqua vedono dall’altra parte degli occhialetti il blu artificiale, perfetto, geometria se fosse colore.
Da un lembo di vestaglia spunta un dito come di angolo di lenzuolo avvitato su se stesso. Quella contorta candela bianca mi indica cosa c’è nell’acqua: una tavoletta, un bracciolo, un pezzo di plastica o gomma gialla indistinguibile, forse parte di un antico gommoncino galleggiante, o di una di quelle borse da spiaggia semitrasparenti piene di palette e quant’altro. Pezzi mutilati di personaggi dell’animazione del palinsesto mattutino compaiono qua e là dando vita a strane striature che non hanno più alcun significato figurativo e alcuna importanza. Ho un mezzo dejavu di una visita in quella stessa piscina apriliana quando dovetti aver riconosciuto nel telo da mare di uno sconosciuto un Digimon insettoide o qualcosa del genere, giallo e viola, inciso nelle ossa nella mente nel pomeriggio nell’eterno odore di cloro al suo interno trasportato come polline che impregna irreversibilmente le zampe fecondatrici, e il mondo è tutto un amplesso vischioso ed esuberante e intollerabile, e il mondo è tutto un fotogramma un televisore una vibrazione interna e fittizia che viene iniettata per lenire fittiziamente con la stessa medesima sostanza perché nulla si può iniettare che non sia producibile dal corpo.
Ci si iniettava nelle carni per sfuggire alle carni dell’etere elettrico che imitava la forma delle carni. Elettriche. Teli distesi su mari reticolari d’impulsi. Sul telo picchietta la pioggia in inverno, durante la stagione di chiusura. I grovigli neurali sotto esultano: piacevole solletico, gioco sensorio.
In poche parole, un millisecondo quel dito puntato mi ha peggiorato sensibilmente il mal di testa.
-sei venuto qua per quello, no?-, mi chiede il fantoccio bianco sempre indicando quegli oggetti che galleggiano, orfani di tutto. Ah, sarei venuto qua per quello? Non so nemmeno che vuol dire. Non so nemmeno più risentirmi segretamente per il tono un po’ saccente con cui me l’ha detto, il suo tono non uscito da labbra. Sì, voi cosi leggete le intenzioni, e allora? Temutissime altrui letture e forme di me stesso dagli altri viste e pensate, la cosa peggiore non è neanche così insopportabile. Ho scritto le pagine nere, io. Cosa credi. E poi sto imparando a… ho scritto le pagine nere, so sopportare.
-…ah,..- faccio. Che non vuol dire niente. Detestavo quando con questi cosi qua andava a finire come con le persone. Adesso anche le persone fanno l’effetto di quel vento di strana estate. Abitudine. Accetta i brutti quarti d’ora.
-guarda che i piedi nell’acqua li puoi mettere, se vuoi.-, mi dice, parlandomi senza bocca. So istintivamente che ce l’ha da qualche parte. O meglio, ha qualcosa di equivalente.
-ah, grazie..-, e allora mi sembra brutto rifiutare. O forse voglio farlo? Ho già levato le scarpe e agito cercando di smuovere meno increspature possibili i polpacci sotto la superficie che li deforma e colora, fanno meno orrore di quanto ne faccia solitamente un pezzo di qualcosa, un ammasso di proteine e roba varia. Diventa schermo, diventa flusso subacqueo, diventa vibrazione. Diventa edulcorazione. Il Digimon nascosto nell’ombra della riproduzione, fatto segretamente della stessa identica sostanza vischiosa. Se immergessi tutto il corpo, sarebbe un’illusione anche quella di esser penetrato in tutt’altro elemento, di star rinascendo in una differente caverna battesimale e in un nuovo feto anfibio e semitrasparente? Forse sì a questo punto. Restano solo le immagini catturate per pochi secondi. Polpacci diventati grossi come i cefali della secca, dimensioni ridotte a metà quando disperatamente saltavano fuori nella realtà, le branchie nude sferzate da ossigeno irrespirabile.
-guarda là.
Con i piedi nell’acqua alzo lo sguardo e vedo che nei pressi degli ombrelloni vicini gironzola qualche ologramma. Sono scene estinte di una volta che venni qua.
-sei venuto qua per questo, no?
Mah, veramente…
E per cosa? Per ricordare cosa esattamente?, vorrei chiedergli, come a implicare che intuisco che sta insinuando qualcosa. Ma anche un simile uso del tono e di una forma di comunicazione mi sembra una cosa stancante a livelli sconvenienti. Livelli brutti. C’è una parte di me che annaspa oltre la patina di polvere del vento sporco che mi si è depositata addosso, e cerca ancora di conservare qualche parvenza di “bello” e altre idealità. Perciò non smuovo nulla, rimango fermo sul posto, nell’idealità che cerco ancora di rubare al reale, e con le gambe immerse a battezzarsi di cloro sconsacrato da anni immemori di disillusione rimango a guardare indifferente quegli ologrammi. Riconosco due tre compagni di classe delle elementari e i loro genitori. Riconosco raggi rimandati indietro da occhiali da sole di modelli che non si sono visti più in giro, altoparlanti gonfi di canzoni dalla ritmica identica assurdamente riuscite anch’esse a sgattaiolare nella nostalgia collettiva, riconosco chiassi di animatori e ventri troppo gonfi di gelato, e dei gelati i riflessi metallici rimbalzati dalla placca pubblicitaria dove stanno incastonati, e i non distanti tavoli dal colore oceanico al cui centro sta lo stesso logo di ghiaccio cioccolato e crema bianca, colori che l’evoluzione ha fatto nuotare indistinti dalla superficie e il fondale del mare. Orche pinguini carcharadon.
Sì sì, guarda pure facendo finta di niente. Sogna i tuoi animaletti.
E ancora: per cos’è che verrei qua, eh? Per cosa esattamente? Per una specie di nostalgia per odori e rumori e ombre collaterali che ci si sono ficcate dentro, contraffacendomi la nettarina illusione che il passare del tempo mi consenta di raccogliere con le mie manine imbranate gli zeitgeist trascorsi? Per i sensi di rimorso o di indifferenza nei confronti di persone sparite o dalle quali sono sparito? Per l’euforica ributtante inconsapevolezza generale di allora? La diversa inclinazione della terra, ugualmente disastrosa come quella del presente pronto a bruciare, ma apparentemente ancora un po’ immersa nelle acque di un incosciente divertimento?
-se vuoi puoi provare a interagire con loro.-, mi dice il fantoccio, in piedi dietro di me. Si riferisce agli ologrammi. Poi se ne va, saltellando magrolino e insieme robusto alle intemperie, come qualcosa con uno stecco dentro. Cioè, non se ne va. Rimane nei pressi. Gironzola, un po’ discosto rispetto alle sagome incorporee, costeggia l’unico tavolo solido che è stato tirato fuori per sostare nella penombra sotto un ombrellone piuttosto solitario in questi giorni preparatori alla stagione grossa. Passeggia pensando alle cose sue, senza denotare alcuna insicurezza circa il fatto che molto probabilmente “le cose sue” non esistono, e quindi apparendo estremamente inscalfibile, e davvero indaffarato e maturamente flessibile verso i suoi impegni al tempo stesso. E gira e torna indietro, no, non se ne va, fa insomma come un genitore che dice ai figli che giocano di fare sempre in modo di farsi vedere da una certa distanza. Io mi chiedo cosa intendesse quando ha detto di provare a interagire con loro. Sembra di stare in una di quelle esperienze interattive di certi musei.
-oh.-, faccio al primo ologramma di un compagno delle elementari che scorrazza in un’acchiapparella che mi infastidisce, così vera e finta allo stesso tempo, come una recitazione, come un filmino di bambini inzuccherati che sanno di star venendo filmati, e mimano la gioia e l’istrionismo, e mimano il momento che stanno vivendo più nel modo in cui pensano vada vissuto che nella sua attualità. Altro che privi di sovrastrutture. Stare sempre attenti coi bambini e gli ologrammi. Non traumatizzarli e non esserne traumatizzato.
-ciao!-, mi risponde lui, con un sorriso che rivolgerebbe a qualsiasi visitatore del museo capace di sceglierlo. L’esperienza interattiva è multisensoriale. L’alito che intride le parole odora di piatti di carta dove i coloranti hanno dipinto una kamehameha sulla quale galleggia poltiglia di tiramisù decaffeinato lasciato e mezzo disciolto, lo stesso odore inconfondibile di carta scartata e pozze di Fanta friccicante sulla tovaglia per la troppa foga nell’aver versato. Tutto in un millisecondo di parole con le ombre. In un istante io vedo i bicchieri di plastica, rossa a festa, ergersi quasi vuoti come sul tavolo bastioni dalla bocca spalancata, il nettare di zucchero mancato lì accanto a frizzare, una goccia già sfiatata sul fondale si vede attraverso la plastica sottile, una linea scura nella parte inferiore, fondo che evapora e non viene bevuto.
-senti, volevo…
-chiedere se si può entrare in acqua?
Era questo? Mah facciamo di sì.
Annuisco impercettibilmente.
È già andato via per la sua corsetta a bordovasca. Si scivola state attenti. Ciabatte. Là soprattutto ci si fa male. Voci concitate fanno sciame fastidioso. La musica che scorre nei fili attorno e diffonde nell’aria un loop di percussioni senz’anima assicura che è tutto ok che non c’è niente di cui preoccuparsi che il sole o la luna sono in alto nel cielo che sorvola una qualche eterna festa su un bagnasciuga di tende accampate e birre consumate e che qualsiasi rovinosa mortale caduta sul coccige non sarà mai un deterrente capace di arrestare quell’incontenibile brio cocainato.
Il mio astuto interlocutore ha percepito in un istante -quasi con la pelle, quasi come gli anfibi o i feti senza continuità con l’acqua incolore attorno e che li attraversa- tutto quanto, tutti i filamenti che ho aggrovigliato in testa i cui due cavi principali sono: -1 i primi 2000 sono stati l’apocalisse -2 spero di conservare per sempre il potere di sopportarli e perfino non odiarli grazie all’atto di trasformarli in parole che sono istanti che sono sensorialità che sono fantasmi che sono concetti che sono una costa che c’è sempre stata, invisibile ovunque in questo territorio eternamente sommerso da più forze -brodo e mare primordiale e zanzare Fango e smog e ombra e flusso atrabiliare. Nuotiamo, fossili, croste d’evoluzione.
E allora? Sono venuto qua solo per questo? Per questo futile gesto?
Capendo tutto questo l’ologramma già saltella altrove, nei suoi giochi ricircolanti in loop artificiale assieme al reggaeton e le canzoni diventate famose grazie ai menù dei giochi di calcio. Non era nemmeno un mio compagno specifico delle elementari. Era una macchia impasta tutta granulosa e opaca e rosa, quel rosa così acceso da far male agli occhi, con la parte inferiore avvolta in costume verde con due righe bianche verticali che avrebbero impegnato i miei polpastrelli nervosi se le avessi indossate anch’io quello stesso giorno. Ma non ricordo mai cosa indossassimo io e tutti gli altri nei ricordi.
-no, non è un tuo compagno specifico.
È il fantoccio che camminando col passo lento di un prete sentinella si è affacciato dietro me, dare un altro parere, altro avvertimento. Dopo aver mangiato il gelato (orche compaiono dentro al tuo mare primordiale) dovete aspettare almeno due ore, due ere geologiche. Dice il suo consiglio e poi si allontana, come per accennare lateralmente, a orecchi di altri alti adulti in piedi, cose da dire in velocità, per preservare chissà quali cose del mondo. Poi fa il giro, noncurante, ritorna. Altro consiglio. Basta affacciarsi ogni tanto.
-l’hai reso tu non specifico.-, mi dice. Significa che l’immagine che vedo non ha un aspetto discernibile e associabile a un individuo perché sono io a volere così.
Sì, ci sta, ne convengo. Il programma degli ologrammi che si erge da questa ruvida pavimentazione bagnata che calpestai quasi due decenni fa risponde alle agitazioni degli organi palpitanti sotto la mia membrana. Riproduce ciò che pensano. Riproduce il fatto che dal momento in cui ho dovuto parlarci ho voluto che non avesse nome. Che nelle pagine, anche se so già esser destinate a diventare nere, non rimanesse traccia di chi mi ha visto. Su questa terra. Su queste acque.
-no.-, aggiunge, chinandomisi dietro, come ombra. Il suo volto spoglio fluttua a un centimetro sopra la mia spalla. -in queste acque. Non su. In, dentro.
Immagino -non sono certo che mi abbia toccato davvero e avendolo fortemente immaginato non so più distinguerlo- che una mano, un ventaglio di carta si spalanchi al culmine del suo braccio vuoto di panno, e collocandosi al centro della mia schiena, dove dorme un crotalo bianco di vertebre, applichi una leggera pressione. Per usare su di me la forza, la violenza relegata solo ai miei appunti perché così venga cancellata dal reale.
Una pressione, un tocco, un’elettricità. Ogni tocco d’umano o di sua allegoria- è questo: piccola scarica. Nel crotalo della mia schiena brulicano per pochi istanti le scosse effimere e brucianti del contatto.
Sono sott’acqua.
L’acqua sparisce in un istante. Cado rovesciato in un momento diverso. Ed è ovvio che vengo percosso all’esterno e all’interno impattando il suolo, la pavimentazione lastricata e ruvida e fradicia come il carapace di una testuggine che emerge da un acquitrino del vuoto cosmico per poter sorreggere un pianeta e tutte le sciocche cose che vi pullulano e calpestano e vi vengono seppellite, sciocche cose accolte su di sé con la placidità tollerante di una figura benefattrice intenta alla cura dei malati e i tossici e i feriti e i randagi nel suo centro di cura.
Fa malissimo. Sono caduto su pavimento duro e concreto di un giorno che è esistito davvero.
Il rumore secco mi riporta a una caduta, uno scivolone nello stesso posto, tanti anni fa. Non è neanche più un dejavu, è solo una caduta. Una sgraziata culata sul carapace. La testuggine del mondo fa male e la sua firma di dolore si propaga verticalmente attraverso tutto lo scheletro, tutto il crotalo -questi rettili sono in conflitto e in una scossa che attraversa il loro contatto brusco, che attraversa lo stecco conficcato al mio centro, vengono in un attimo fritti e quasi cancellati i pensieri, o fatti crescere fino a un parossismo di vita che diventa subito morte, scintille vorrebbero schizzarmi fuori dal cranio e farmi gridare i denti uno per uno producendo uno stridore di pura irrazionalità sprigionata. Un conato sordo è il massimo suono che produco. Sì, sono ossa, e il mio suolo cittadino, che mi ha reclamato a sé con così tanta decisione, non è più un mare: il carapace è emerso, il Fango è sotterraneo e la palude è in cantina, i coralli e i molluschi fossili sono spariti e tutt’attorno è il fermento dell’aria in eccitazione segretamente desolata di una vacanza strappata con la forza dal centro cittadino. Intorno è l’aria con i resti di quanto è appena accaduto. La ciabatta ha descritto una parabola nel vento slanciandosi dalla sua impronta fangosa a righe, la sua sgradevole impronta di melma clorata a bordovasca che adesso sta accanto al mio palmo contuso e poggiato a terra per assorbire l’impatto. Mi sta vicino come dovesse leccarmi le ferite. La guardo e vi leggo il marchio inequivocabile della mia sbadataggine, dell’imbarazzato e per nulla fotogenico infrangimento di regole, dell’ovvietà del rischio di scivolare. E ribolle. Le strisce melmose dove si distingue appena il logo al centro della suola cominciano a sfiatare in superficie una serie di bollicine, che diventano occhi. E sento che si aggiungono a una congerie esistente, viva, troppo vicina: alzo lo sguardo e il sott’acqua che si è trasformato nella concretezza di quel giorno di impressioni e contusioni si è riempito di bagnanti seminudi voltati in un istante nella mia direzione all’unisono come teste di idra annoiata sotto gli ombrelloni e sopra i trampolini, corpi palpitanti e splendenti di sudore artificiale irrorato dal pomeriggio che nevica in miriadi di occhielli gialli e io, precipitato al centro di un giorno di impressione e contusione e umiliazione, mi schermisco dagli sguardi grazie all’accecamento con cui mi punisce un raggio obliquo nel mio campo visivo, con questo singolo colpo di mano radiante cancello tutti i visi assetati di evento.
Cancello, alzo la testa verso il sole per non vedere mai più niente mentre il volto automaticamente mi si contorce in smorfia, cerco nel cerchio lancinante lassù l’idea, la certezza che questi occhielli nevicanti siano imitazione, ripetizione di tutto ciò che in questo momento di due decenni fa sta cadendo dal cielo ed è identico allo sgretolamento di luce che a qualche chilometro lontano investe la distesa del mare e sbrilluccica, bucando le foto degli adolescenti genXer, lacerando i ricordi con prepotenti bruciori propagati da piccole ferite entrate a contatto con l’acqua salata, abbacinando in eterno biancore lo strano momento di caos dell’incontro tra il rombo di motorini truccati e lo sciabordio preistorico delle onde.
Non mi guardate, sto meditando. Non mi guardate, io non sono qua. Non mi guardate, ho scoperto il database. Catalogo i raggi solari e lunari, tutte le differenti condizioni di luce e atmosfera impalpabile per sintetizzarmi dentro un presagio un simbolo un allarme. Per capire se andranno male le cose, per capire quali umori segreti attraverseranno il mio volto che temprerò come maschera che nasconde i fatti suoi, per capire quali album ascoltare oggi e a che ora perché Tutto sia Nel Suo Giusto Posto.
Mentre incidevo dentro di me tessere di spazio e tempo, mettendo la struttura a lavori in corso per praticare in soggiorno e in corridoio dei portali-warp per andare a studiare in solitudine quando il presente è troppo rumore, un’altra parte di me -inerte e vulnerabile e penzolante dalle scintille di contusione che mi hanno cancellato identità e coscienza per un istante- vede perfettamente ciascun volto, sente voci, si proietta tutti i teschi lì ammonticchiati e ancora in grado di giudicare dopo la morte secondo una legge che impone loro di farlo quando un benedetto coglione capace di liberare dalla noia non capisce che nonsicorredoveèbagnato -il messia, il messia, al centro di un bagno di luce. Riemergo dal giordano di risatine e mi massaggio dietro, un torpore alla volta in ciascun lembo e appendice. Mi incammino verso la sdraio dove sta disteso il mio telo da mare. Compagni di scuola di allora, che se dovessi incrociare oggi mi sposterei dall’altro lato della strada senza apparente motivo, mi scortano con lo sguardo e con una titubante mezza vicinanza corporea intenzionata a non avvicinarsi troppo fintantoché il momento è al centro dell’attenzione, negli occhi l’insegnamento ricevuto nei gruppi dei pari e dei superiori: l’inadeguatezza cinestetica è stranezza. Meditazione è vigliaccheria. Pianto è tabù.
Eppure (avrei voluto controbattere senza alcun diritto essendo la loro prepotenza più inespressa della mia prepotente arrendevolezza), quel pianto è acqua. Come ogni cosa qua. Come la patina del suolo che mi ha separato dalla terra, per pochi millisecondi di sospensione, per poi trascinarmi, nella gravità, nel Fango e il mare sepolti. Acqua come la pioggia che è caduta leggera nei momenti privi di turisti e spettatori, che solo osservatori solitari hanno visto, con la stessa attenzione del vostro sguardo per le cadute, nei momenti di non vacanza, nei momenti di vostra assenza, nel deserto all’inizio dell’estate dove c’è una sola figura in piedi al centro della strada polverosa.
Tornato per un solo attimo al mio presente con il teru-teru bōzu penso a quanto assurdo e ormai ingiustificato fosse il grado in cui mi colpiva e faceva male quella loro filosofia. Immune e tramortito a ogni cosa, perfino al bushido scolare di inizio secolo, perfino al caldo e il freddo triplicati rispetto ad allora, perfino al terrore di ciò, e alle particelle di poesia che un tempo avrei visto danzare pulviscolarmente nel fotogramma di questo stesso ricordo di pochi minuti.
Vedo che il volto del teru-teru bōzu era presente tra i tanti di quella giornata. Sotto un ombrellone a guardare senz’occhi, né bocca per spargere sussurri. Riassorbito dalla folla indistinta qualche ora più tardi, nei minuti che si spopolavano e avvicinavano ai bagliori serotini trasportati assieme a un vento più insistente, nei movimenti ancora frenetici degli altri della mia stessa altezza o più alti che si trasformavano in un guizzare cangiante di costumi verdi blu e rossi, nei miei movimenti cauti e rallentati da un inalienabile prurito e piagnucolare di voce in ogni finta risatina data in risposta alle allusioni altrui, consapevolezza di non poter cancellare le cose successe finché non viene cancellato il giorno.
-nessun giorno è cancellato.-, sento una voce.
-lo so. Non del tutto.
-per niente.
-non mi va di stare a discutere. Non cambio idea io e non cambi idea tu.-, preciso all’interlocutore, pontificando una delle mie idee fondamentali del tutto. Il Fango là sotto da qualche parte ride, come si ride della faccia tosta di un marmocchio, non si capisce se per approvazione o per scherno.
-va bene allora.
Il teru-teru bōzu cancella del tutto la sua figura alta e aggraziata dai tavolini ombreggiati di quel giorno.
Sei venuto qua per questo, no?
Ancora non capisco cosa intendesse. La risposta non è né dentro né fuori di me, e nemmeno dentro al codice che prende vita indipendente da me e non sta più né dall’una né dall’altra parte, macchiandosi d’un nero che non è né la notte del mondo né quella dei miei cunicoli.
…
Cercai sulla via del ritorno, ancora vessata dalla polvere e dalla sabbia nordafricana di un temporale sciroccoso imminente, di osservare ancora una volta nei pezzi della città i pezzi di un database, che ho chiamato appunti, che ho chiamato significati. Una specie di mal di testa accaldato mi impediva la concentrazione, tagliandomi a metà certi pensieri incompleti. Nella geografia attorno si nascondono sempre cadute e acchiapparelle e festicciole e tormentoni e schizzi e momenti uguali, momenti vuoti. Svuotati di tutto, della tragedia esagerata che sembravano allora, e di qualsiasi gioia equivalente e di segno opposto. Superai il parcheggio, fiancheggiai un campo incolto e una casa non più frequentata dal cui balcone a suo tempo avevo avuto modo di vederlo dall’alto, sorvolando con lo sguardo i gatti in lotta tra i cespugli e arrivando all’acqua traballante dall’altra parte del muretto. Un occhio azzurro in centro. Canticchiavo Galapagos nella sera senza produrre suono, immaginando ogni istante tutto il bestiario, di testuggini e di orche. Vedevo ologrammi.
Pezzi di città conservano bestie estinte di diverse ere, e se solo non fossi stanco le potrei osservare, e sentire, che mandano fiotti da narici e sfiatatoi tra le vie e le sterpaglie, che stanno in attesa con la stessa forma dei draghi cetacei delle mappe antiche, soffiando ai margini della coscienza geyser di fumo e respiro.
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