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Gli Appunti Del Fango- in excelsis

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 15 ago 2021
  • Tempo di lettura: 15 min

Aggiornamento: 31 ago 2021

Altri osservatori. Lo so perché chiudendo gli occhi li si incontra. Fa buio ma si vedono alcune forme vaghe. Interagito, mi hanno riferito e lo riporto negli appunti. Erano osservatori su questa stessa terra, ci sono entrati dentro. Attingendo da essa io li incontro, siamo dello stesso elemento.


C’erano osservatori tanti anni fa. Osservavano visioni di tempesta e luce. Preso il treno o la macchina si allontanavano, si sdraiavano sfaccendati tra rovine romane o residui paludosi di periferia. Sui colli o sotto i cieli notturni. Per sognare come si sognava al tempo, e avere idee come se ne doveva avere, si allontanavano dal Fango. Credendo di fuggirlo. Ma il Fango era sepolto anche laggiù, nel sottosuolo costiero. Da sempre abbracciava le pianure della regione, anche quando la città era solo un centro circondato di campi incolti. Ed erano le stesse erbacce recintate oltre i binari.


-quindi, secondo te, ci sarà solo un lampo.


-preciso.


-e farà rumore?


-assordante.


-non ti credevo così pessimista!


Buttò in fuori il fumo, noncurante. Lo sguardo perso sull’erba rada che sopravviveva a stento nel terreno sabbioso. Là era dove passeggiava da piccolo, i prati non lontani dalla spiaggia, le estati dai parenti, la passerella di legno e i parcheggi adombrati da tende di foglie secche. S’era fatto un paesaggio scarno, un salvagente a righe bianche e blu scuro abbandonato tra le assi di uno steccato marcio abbarbicato di canne. Una bottiglia vuota di Coca Cola, il vetro sporco di macchie marroni, gettata là forse un decennio prima, forse l’altro giorno. Volano libellula, gabbiano, airone. Le ventate rintronavano orecchie accaldate.


-forse non è pessimismo, sai. Chissà, magari ci sarà anche da divertirsi.-, disse, ostentando distacco e pace di sensi, le tendine ieratiche dei capelli unti rifluenti lateralmente dalle tempie agli zigomi. Dicendo cose a cui non credeva, non ci aveva pensato abbastanza. Lo incalzava il sudore che gli incollava la camicia al petto villoso da figlio d’emigrati dal sud, il velluto caffelatte alle gambe rinsecchite.


-da divertirsi?!-, rise lei un po’ sorpresa, spalancando gli occhi neri di coniglia. -mi sa che sei un po’ matto.


Sorrise lui, scoprendo tutti i denti, e il volto impassibile da investigatore del noir gli si ricoprì straordinariamente di morbide grinze e fossette, simile a un bambino con la barbetta rada.


-e chi di noi non lo è? Tu non lo sei?


-io sicuramente. A te non ti ci facevo.


-mi stupisci. Credevo che, decidendo di venire qua con me, un po’ dovessi ritenermi matto.


-sì, beh, non sei noioso come quelli del paese dei miei. E di quasi tutti quelli a casa. Ma rispetto ad altri matti che ho conosciuto sei più moderato. Matti di Roma, sai.


-è un bene o un male?


-mah, non lo so. Sei quello che sei, non so se è bene o male. Tanto, non abbiamo nessun tipo di obbligo, giusto?


Stettero un po’ in silenzio, ad ascoltare il vento tiepido, le lontane onde del mare arrivavano come un lamento di mellotron e grani di sale rimesciuti, sopito nella distanza. Soppesava le parole udite: nessuno parlava come lei, aveva questa sensazione. Aveva avuto anche una strana impressione, nel momento in cui aveva detto “sei quello che sei”, un dejavu scavato in una nicchia molto nascosta dentro di sé. Come tra tende di carne sottile, cartilaginea, oltre le quali s’apriva un passaggio, un portale: e c’era là un paesaggio di notte con tende d’indiani, e i totem di legno lo guardavano, ritti verso le costellazioni. Come se nessuno avesse mai detto in quegli anni nulla del genere, “sei quello che sei”, come se una cosa del genere s’evitasse di dirla. Ma erano in avvenire cose mai viste, c’era un movimento titanico in seno all’umanità: da sotto l’oceano, nel fondo di deserti sconfinati per i passi e per la mente che li sognava sconvolta dalla chimica del mondo nuovo. Arrivava fin là, in quella nazione vecchia, l’uragano, effetto butterfly come dicevano al circolo, causato dal primo spostamento d’aria impresso dal gigante. Impulsi della ruota del dharma, aveva sentito anche questa. Se ne sentivano tante. Ma qualcosa doveva essere. E tra tutte le violenze, il piombo nel sangue dall’avvelenamento dell’acqua e il piombo negli anni dal veleno delle ideologie, tra tutto questo s’agitava un qualcos’altro che lui sentiva, ma che non avrebbe saputo afferrare, controllare attraverso una definizione. Ed erano quelli giorni in cui “quelli come loro” dicevano che fossero proprio cose così, indefinite, a racchiudere una forza maggiore, migliore delle armi del potere.


E lei? Quella donna era un’evoluzione. Fatta di carne e sangue e respiro, i capelli corvini. Lei era l’evoluzione del mondo. E le sedeva accanto sul telo steso tra sabbia ed erbacce, a ridosso della desolazione della località balneare uscita da un sogno d’infanzia. Desertificata a un mese e mezzo dalla stagione turistica, dal tempo, la crescita che portavano all’abbandono, dalla crisi e la paura dei cittadini che s’erano fatti la casa di mura bianche o beige sul litorale quando rombava di vatussi e fiori l’aria spensierata della ripresa post bellica, ignari del futuro. Era un errore che avevano commesso? Ora che lo vedevano tutti s’interessavano del futuro. Ora che s’era dentro il collasso. Certo, lo diceva la tele, lo dicevano i giornali, agli occhi timorati di tutti era lampante e sanguinoso e biblico, s’azzuffano i rossi e i neri, e il bianco della luce si ritirava temendo il tramonto discosto dal bel paese del sole, e i buoni e i cattivi, gli onesti e i corrotti, i poliziotti gli studenti, pure cani e gatti per strada. Fibrillavano i venti dalle città alle campagne, i raggi del sole tra soffocanti interstizi di veneziane chiuse dal sospetto, e i raggi notturni invisibili nella lunanuova, tra i vicoli bui delle città sporche colmi di sospiri e sequestri, mani nere assaltanti da dietro bocche taciute. E poi? Lui, alla domanda “che ne sarà di tutto questo”, dopo l’ennesima assurda notizia, fatto di sangue o strage da cinema sprigionato impazzito nella realtà, dopo l’aura di movimento e tumulto e metamorfosi percepibile ogni istante anche d’un giorno insulso come quello, lui aveva risposto: sarà il sole. Tremenda palla di fuoco, lo dicevano le teorie scientifiche: in miliardi di anni avrebbe inglobato la terra, e a quel punto sarebbe stata la fine di tutto. Ma con il progresso del novecento, che aveva scosso il tempo fuori sesto, traballato le colonne d’ercole che sorreggevano gli ordini del mondo, le cose si sarebbero accelerate vertiginosamente; e sotto meteoriti e missili incandescenti nel nero cosmico gli americani e i russi e la paura dei paesi ammucchiati attorno avrebbero illuminato la terra, con l’energia nucleare e con il sogno evaporato da nuova droga e con la follia ormai libera d’irradiarsi dalle profondità dell’uomo, la terra splendente d’una luce di morte estinzione e fuoco giallo e bollori chimici che avrebbero schiuso come da un uovo un cosmo diverso, o lo stesso, ricominciato da capo. Ma noi tutti spariti. Era calmo, lui. Ci si innervosiva a casa, non fuori. Si lottava per le strade, se s’era quel tipo di carattere (non lui), ma nei posti abbandonati della natura, vicino alle Fiat parcheggiate nella quiete e con le schiene sui teli da mare, non ci si doveva mai allarmare.


Inalò il fumo: tutto apposto. Noi non saremo più, questo è il futuro che ci attende, in pochi anni ormai: espirò, si rese conto di quel che aveva detto senza troppo crederci. E se fosse stato vero? E la lotta politica? Inglobata dalla radiante bruciante lotta degli atomi, invisibili questi cambiavano più velocemente dei fantomatici cambiamenti che investivano i corpi lì tangibili, addobbati d’abiti e capelli e colori ideologici diversi, o contusi da manganelli, o sprofondati nei gelidi inferi varicosi d’un nuovo farmaco letale, rigurgito di siringhe luride. Prima di tutto questo, tornava la guerra, com’era stata per i padri disillusi o forse troppo illusi di star bene, guerra com’era stata fino a un anno prima nelle giungle e negli schermi tra i ronzii di Hendrix e quelli di zanzare preistoriche (c’erano anche da noi! Sui soldati morti in oriente, sui morti che avevano bonificato l’agro..); e prima ancora della guerra, di tutte le cose umane, tornava l’universo cui la tecnica puntava occhi sognanti e dita metalliche di satellite e sonda, l’universo indifferente a tutto questo, la natura la matematica dei pianeti che si riprendevano l’esistenza.


E lui aveva detto: così sarà. E lei, che s’era stupita, lei col calore e il terriccio delle piante dei piedi nudi sulla caviglia di lui, lei era queste cose scese in carne, fatte umano, fatte donna. La guardò, sbuffandole ancora altro fumo in faccia, ridendo, rideva anche lei, non si conoscevano ma si potevano permettere, loro liberi e senza paura là fuori, di farsi queste cose. La guardò e fantasticò sul tempo che le scorreva nel sangue: pensava ideologie, respirava scontri armati, contraeva muscoli in malattie nuove, s’addormentava in sogni di sostanza inconscia, dai reni orinava generazioni in fila o allo sbando, digeriva stragi, circolava di scienze e saperi e di tao e di satori in ogni angolo del corpo tempestato di paura della fine e fermento d’avvenire; le pulsava nella vagina un sole in avvicinamento, la grossa, rotonda testa pelata di neonato arancione che le inceneriva le pareti, scioglieva l’utero come la pioggia a Nagasaki. Sposerò una bomba.


-ho litigato ancora con mio padre.


Silenzio. Bisognava far riflettere la gente. Per mezzo di lei, lo aveva deciso in quel momento, parlano i popoli: e lascia che ci pensino, lascia che capiscano a fondo cosa li ammala. Risolvano le generazioni, risolvano il novecento attraverso di lei. Che è qua viva.


-io non capisco. Pensavo di avere più pazienza di tutti quegli altri là. Sbruffoni viziati, rivoluzionari ricchi. Ti ho mai detto che una volta mi hanno cacciata?


-sarà stato per i piedi nudi.-, sbadigliò stravaccato e ironico. -non sai quanti bigotti inconsapevoli si nascondo tra quelli!


-no, peggio. Serata cantautorato, dibattito solito. A quanto pare, ero stata la prima a proporre che una comunicazione fosse possibile. Comprendere la natura umana, riconoscere l’umanità in chi non ci capisce, lasciare che provino a capire e noi a capire loro. E in caso d’errore, più e più volte, almeno crescere nello sforzo. Amarsi per il tentativo. Mi accusarono di essere una fautrice del compromesso.


-l’ho già sentita anche questa.


-la cosa brutta è che adesso mi sembra avessero ragione. Ma non posso nemmeno odiare mio padre. Negli occhi suoi, neri come il carbone, io vedo la paura. E lui l’ha vista. Se la ricorda da allora, tutto ciò che fa, che reagisce oggi, si genera da quella paura.


(Dovevano esser quegli occhi di padre neri come il carbone del nonno in miniera, neri come le camicie che aveva visto quando erano vive, e non resuscitate dai morti. Sulla pelle sue e quella degli altri. E adesso le rivede, e vede quelle rosso sangue, che minacciano il fuoco per le strade. E lui va fuori controllo. Doveva esser così perché lei è tutti i giovani, i pori della pelle sua perlacea in ogni particella raccontano la storia di tutti noi che siamo venuti dopo i vecchi fasci e i partigiani, noi che ci svuotiamo ogni minuto che passa, che compriamo solo dischi, che non ci rimane altro che raccontarla questa tensione. Tu sei la nazione in questo momento, nel deserto del turismo balneare, nel deserto di Manson che giunge fin qua e si popola di sciamani e totem d’indiani che mi guardano e dicono, sballati ragazzo, e trova te stesso dentro di te! Tra i cactus e il canyon, tra estati calde del passato e il cremino dopo il bagno e le cabine di legno in fila ed era bello il mare sui piedi perché tutto era bello e il fallimento dell’ufficio e il trasloco e padre pendolare e i traumi passati, cancro vecchiaia tradimento. Trovati da solo in queste cose, dicono gli uccelli del tuono scolpiti, perché là fuori non troverai niente. Tranne lei. Tu sei i sentimenti che animano le mie visioni.)


-è tosta. Ma io penso che hai ragione tu.- (oh sì che hai ragione, sole mio bello, Grande Madre, morte radioattiva dai suadenti capelli) -è la paura a controllarli completamente. La stampano pure sui giornali, se la bevono i pesci nell’acqua sporca, la rivomitano nell’insalata di tonno mangiata il venerdì sera. La sentono per radio. E poi anche quelle son radiazioni.


S’era tirata su, seduta sul telo. Lui si sollevava dalle scapole, la testa fluttuante volta alla schiena inarcuata in scialle verde boschivo da cui s’ingobbivano le vertebre. Vedeva l’ombra di fianco portarsi la sigaretta alle labbra e tirare, il fumo si sparpagliò in due nuvolette a macchia di Rorschach dai lati del velo di capelli, s’addensò nel tepore del vento che sbatacchiava i canneti.


-non lo so. Non capisco neanche che fare di questa rabbia. Devo essere un compromesso su gambe, un compromesso che legge i depliant femministi e non si lava le ascelle e dice più del dovuto.


(brava, dubita di te stessa, ma con quell’atteggiamento calmo, imperturbabile. Troppo traumatizzati per amarci, troppo lontani dai nervi tesi dei padri per lasciare che ciò ci infonda l’ansia nei volti e i movimenti.)


-vedrai che la storia darà ragione a te. Si studierà che l’assenza di questa comunicazione è ciò che ha fatto disperare la nostra generazione.


-ma non avevi detto che tanto fra pochi anni ci polverizziamo tutti?-, si voltò brusca. Un accenno lampeggiante, un istante solo di quello stesso stupore, bellissimo, che l’aveva animata completamente. S’abbracciava le ginocchia puntate al cielo, dove una scia d’aereo indugiava tra nuvole frastagliate.


-sì l’ho detto ma fa lo stesso. Nel caso in cui non succede niente, hai ragione tu.


Rise. Con gli occhi chiusi e il naso arricciato, incisivi a mordere il labbro inferiore. Nessuna ragazza, pensava, rideva così in quegli anni. Solo su quella spiaggia c’era una ragazza che rideva così, sotto una libellula incerta che infine si posò sullo steccato.


-se non l’avessimo già fatto direi che rispondi nel modo che ti conviene per portarmi a letto.


-ma che dici!- rise anche lui -lo sai sì, che le bugie non so’ roba nostra...


-allora, oltre che matto, sei proprio uno scemo.


-amen, sorella. Sorella incestuosa e libera.


Tre gabbiani starnazzavano, sballottati da correnti alte, ali immobili. Come le barche a vela, in balia di ondeggiamenti di forze senza volto e senz’occhi, le barchette che pullulavano nell’ormai lontana vita di quella costa a trenta minuti dalla città, ciunga ciunga secchielli moda del surf. Gli strascichi, il clangore d’attrezzi in ferro e calore che strattonava dalla distanza doveva essere un passaggio del treno, imperturbabile Roma-Nettuno, verme solitario nel ventre del progresso e della ricostruzione. E dai finestrini pareva sempre che a sfrecciare sulle rotaie bollenti di pomeriggi infiniti fossero le antenne delle case, gli alberi di scarsa macchia mediterranea, la Palmolive, le ciminiere nella palude. E la libellula rosa, incontentabile, s’era di nuovo sollevata, lasciata anche la sicurezza dello steccato.


-torniamo?


Facevano per alzarsi, sbattimento di sabbia da pantaloni. Intorpiditi nella testa e nell’addome, un po’ allucinati e un po’ soddisfatti, pareva che nei corpi fermentassero varie sostanze: il sapore salato appiccicoso attorno alle labbra ed entrato in circolo, le Peroni, la pizza di Cantarelli, fumo grigio che incontra fumo verde, la cassetta dei Jethro Tull con la traccia 7 rovinata per una microscopica bruciatura al nastro, abbandonata com’era sempre al sole sul cruscotto; la melanconia di Salinger e lo spirito di Hesse che spuntavano dalla borsa con le pagine piene d’orecchie a segnar passaggi sottolineati, le cicale in anticipo, spettro vuoto del vociare di bagnanti, l’impero del vento fin sotto Tor Caldara; e sotto il vento la sabbia litoranea, deserto, vissuto da indiani, e sotto il deserto caldo un gelo alieno, il mondo del Fango. Nei deserti americani, pensò d’un tratto lui massaggiandosi la schiena e roteando il collo addormentato, il caldo non è così umido, con le libellule e i canneti. Qua sembra deserto solo perché è vuoto.


Lei si stiracchiava con un braccio che massaggiava l’altro tirato su, verticale, mano come ad afferrare le nuvole. Sbadigliava, fremeva: chicchi insignificanti rimbalzarono a valanga dai capelli e precipitarono tra i panneggi della gonna, anch’essa verde scuro.


-lascerò l’università.-, disse all’improvviso.


(ma sì, lascia l’università, lasciamola tutti. E sai che facciamo? Adesso, andiamo a piedi laggiù. Vedi? là ci si fermava sempre il carretto del grattacheccaro, amarena la mia preferita. Dicevo andiamo, io e te e tutti quanti quelli che abbiamo visto in vita nostra, tutti in pace, pochi passi in silenzio fino al limite della spiaggia, lembo d’onde friccica sul bagnasciuga. Poi entriamo nell’acqua, lentamente, fino a sommergerci, senza un lamento, senza un rumore. Scompariamo per sempre, ti prego, mia dea: annulliamoci tutti. Prima che a farlo siano l’estinzione e il sole atomico nel tuo grembo, il pessimismo dei miei spermatozoi; prima che siano il terrore e il golpe e il veleno dentro le vene, l’apatia, e quel senso inenarrabile di Fango, di pantano, palude che ci opprime dai grigiori della nostra piovosa città di pendolari, città vicino a molte industrie, città di morte. Spariamo nel fondo del mare o del deserto, ti prego, dea. Abortisci il tuo piano: scompariamo invece in questo modo. Che nessuno trovi o mai richieda i nostri corpi.)


-mi mancavano tre esami, lo so. E all’improvviso, come se non bastassero quelli del circolo, arrivo ad aver torto pure davanti alla signora Adelina.


-la signora Adelina?


-una vicina pazza, con un cane depresso. Quando ti affacci e non la vedi a girare davanti ai caseggiati rossi e le erbacce con quella bestia strozzata al guinzaglio allora vuol dire che sta a lamentarsi di “quegli hippie disgraziati” con le pettegole più chiassose del Quartiere Grattacieli. E mia madre, che dove la metti lei sta, si beve tutto con ‘sta faccia mortificata. Quella signora pazza, una volta sente un servizio di Rai Due sui “figli dei fiori”, a quasi dieci anni di ritardo, e interpreta il mondo così.


(certo, le nostre madri sono così, dove le metti stanno, i padri invece autoritari, ignari d’esser terrorizzati morti. Tremarella da caffeina e per il fantasma del sergente che spunta da un angolo. Noi però non siamo donne e uomini così: possiamo andare dove crediamo, dove siamo più liberi, perché mi hai detto “sei come sei”, perché siamo come siamo. E allora perché stiamo entrando in macchina? Perché apro lo sportello, e invece perché non andiamo alla spiaggia, così che ci accolgano le onde? Perché metto in moto? Perché stiamo ritornando, perché le ruote schiacceranno i binari per gettarsi su Via della Cogna?)


-quindi è così. Una fricchettona perdigiorno, esiliata dai compagni, giudicata dai vecchi. Mi compatisci?


(sorride di nuovo. È forte, la ragazza debole. È solare, la madre del sole, la madre di noi osservatori dispersi.)


-la storia ti darà ragione, vedrai.


-che ritornello! Ma mi ascolti quando parlo?-, ride, ride ancora. È partita nel mangianastri la cassetta bruciacchiata. L’aria condizionata è viziata e asfissiante e arroventa le narici dei due giovani con un bollore fratello al metallo del cofano sotto il sole.



(sfreccia nel finestrino abbassato odore di forno, odore di pizza tra Cavallo Morto e una traversa da Via Cipriani. Si popola, la periferia. In macchina mi ci entrano pure le righe gialle e marroni delle tende ai balconi, alle finestre, dalle case al mare fino a quelle adiacenti la stazione, dai palazzetti negli incroci soleggiati coi gelatai e i negozi dove si prendeva l’attrezzatura da spiaggia fino agli appartamenti di due metri quadri sopra un baretto immersi tra le industrie e i campi limacciosi. Tende gialle e marroni, scolorite, stanche come palpebre a quest’ora del tramonto. Da queste parti è sempre estate. I grilli non si sentono ancora perché è presto? No l’estate quando il cielo era così color pesco in fiore già si sentivano, al villaggio, gli zii in vacanza, eravamo insieme. Non ne sapevo niente allora. Del sole che nasce, gli americani e i russi. Le nazioni erano solo nomi attaccati a uomini bastardi o cani o infami o peggio nelle parole dialettali d’un parente, nel ricordo d’un padre. E non sapevo niente del futuro, la lotta armata la politica attiva il liceo occupato la puzza di tonni trasportati là vicino e della Simmenthal fermentate in budella di fossati e fognature, polpa putrescente. Umida e viva e morta, non sapevo niente delle donne, della donna che ha un sole nella vagina, sposerò una bomba. Ma chi è? Solo un’altra hippie disgraziata, no è la dea d’un’epoca, la Grande Madre che ha in pancia un sogno amerindio quando ho poggiato l’orecchio al suo seno sentito l’odore di naftalina ed erba e gelsomini dello scialle verde e lei m’ha prestato dei libri. Devo darle dei dischi. Sono entrato in lei, ho intinto i geni nella vulva del sole, padre guardami, madre guardami, dov’è andato il prosieguo della famiglia, dove si plasma il futuro! Sono entrato in lei e non so come si chiama. Ma sì, diciamo noi, “che ci frega”, perché “words are just rules and regulations to me”, negli inni sballati tra scricchiolii di vinile, le danze perché nella danza c’è il fantasma del capovolgimento. Perché non importa il nome se dagli occhi neri di coniglia e i miei socchiusi da indifferente pensatore osservatore si instaura quel magnetismo sai, cioè come dicono questi Gandhi delle lotte studentesche, cioè è una roba cosmica capisci, un’attrazione tra il corpo e lo spirito e gli annali akasici. Che ci importa dei nostri nomi se ci amiamo, se siamo come siamo. E intanto però prima di sapere il nome di lei ho saputo quello della vicina pazza col cane strozzato, che ci scommetto è uguale a tutti i cani di tutte le vecchie stronze apriliane che le vedi e sembrano nate così come sono finché un giorno crepano e subito ne esce un’altra. Sto tornando là. In quel posto. Ma quali allucinogeni. Erba annacquata, birra calda su un muretto in Via dei Mille. E tornerò e sarò “triste”, a guardare le luci dei lampioni e delle finestre, no mamma non esco da camera mia per il Carosello, cristo non questa volta. Non questa volta.)


(il solito ingorgo dopo Campodicarne, alla fine o all’inizio della Nettunense. Ma perché? Non è estate. O l’estate s’è espansa dal villaggio, me la sono trascinata dietro? Stavano tutti là magari. In altre spiagge abbandonate. Tutti con i parenti delle estati non più viste, non più visti né sentiti, non sento neanche i miei in casa mia figuriamoci, che generazione difficile che siamo. E tutte queste macchine, questi, che saranno, impiegati forse, che tornano ad Aprilia, anche loro hanno sognato d’annegarsi e sparire? Eh, gente? Tutti tornati dopo non esserci riusciti, non capisco perché. Perché cazzo non l’ho fatto. Perché c’è lei, ma lei dovrebbe saperlo cosa voglio, cosa vuole, cosa vogliamo tutti. Una città che voleva affogare. E invece eccola qua. Affogata solo nel Fango. Prendimi, sogno amerindio. Chiudo gli occhi, ma sì, solo un attimo. Non causerò mica un incidente. Chiudo gli occhi per vedermi dentro, perché, me l’hanno detto i totem, là fuori per me non c’è niente. Il traffico è fermo. La gomma del volante mi gratta il palmo. E vedo solo nero. E poi punteggiano il nero le stelle, innumerevoli nella notte americana del west. E uno stregone col calumet, i tamburi, axis mundi. Le tende di carne dentro di me, i totem, il coyote, vi prego, storditemi. Vi prego, datemi un futuro, ditemi se sarà il sole, l’esplosione, la guerra atomica, la vittoria borghese e il vuoto che ne scroscerà a tempesta nelle anime di tutti. Mostratemi il futuro, ditemi se sarà la droga, se sarà la noia, se sarà che non ci sarà lavoro, se sarà che ci uccideranno tutti. O se sarà solo il Fango di questa città a sommergermi. O l’incidente che sto per fare. Ma vi prego una risposta, inghiottimi sogno amerindio, e tienimi per sempre così, debole e ombelicale nel grembo, che non devo far nulla per il mondo e il mondo nulla per me. Sono già morto, vero?)



Si chiusero gli occhi di un osservatore. Ne nacquero altri, proseguendo fino al tempo futuro. Il sole non esplose negli anni successivi. Il Fango vive ancora, zanzare e grigiori e paura della fine e tutto.

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