Gli Appunti Del Fango- frammenti dai giorni del morbo
- Milky
- 3 set 2022
- Tempo di lettura: 11 min
Si sono ripetute molte volte come battiti cardiaci le stesse scene. Ombre passeggere di nubi. Troppo alte per essere distinte in una granulosa foschia fluttuante nella canicola, si interponevano a lame compatte di raggi solari che sferzavano la terra, tigravano la trama di paglia schiacciata e le spighe superstiti agitate come in atteggiamenti di frenesia selvatica, belva vegetale. Si alternavano momenti ciechi a quelli in cui riuscivo a vedere le cose, tagliate sul fondo di una bruma che si avvicinava, e avvicinava ancor più la mia schiena al suolo, ed era una massa che vedevo venirmi incontro, in sogno, la massa stessa dei miei pensieri. Sdraiato, in piedi. Ombra e luce, pioggia che si avvicina e sparirà per sempre, assorbita evaporata dimenticata. Diverse volte. Buchi dotati di occhi nelle ripetizioni del paesaggio del sogno e di quello di terra calore e umidità in cui ero caduto in dormiveglia. In piedi o coricato, sento provenire dai buchi un trillare placido che non cesserà fintantoché ci sarà erba intorno. Ciascun insetto è un esoscheletro in cui è custodito uno spirito. Esoscheletri dotati di pensiero trillano e discutono uno alla volta. Le cose si ripetono e non riesco ad afferrare nulla con la mano, e vedo che affondo di nuovo, nella paglia, mentre mi addormento nella notte che diventerà giorno che diventerà notte e pioggia e solstizio, e il mio sonno sarà cicale e grilli, e mi sembrerà di venir sepolto, e di uscire dalla terra, senza pelle e senza organi…
Come polvere sgretolata da zampe nascoste dentro intrichi di steli e tunnel, e soffiata dal vento attraverso l’atmosfera, mi hanno sfiorato innumerevoli voci, frammenti di esseri viventi. Li ho raccolti e trasformati in appunti.
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---Uno stretto cerchio lacerato in una massa di nubi temporalesche, compare il sole. Occhio bianco infuriato. Questo occhio non è che un uovo, una palla di fuoco soltanto temporanea: si sta schiudendo. Assorbendo riflessi scuri dalla circostante penombra, gravida d’elettricità e una pioggia risalita dalla risacca sulfurea e catramosa del litorale di Lavinio, spalanca le ali la magra e serpentesca aquila nera, simile a una prepotente monarchia cristallizzata in atteggiamento imperioso sui fondali gialli di un’araldica millenaria. È una macchia solare che prende vita, distendendo la gommosa linfa che la compone in appendici disposte simmetricamente. Ali di linee frastagliate, collo arcuato, un corpo di curve, ripete nelle sue parti il becco adunco e la letale protrusione uncinante degli artigli, scintillanti in fondo alle dita di nuda carne ocra. L’ho già vista quest’aquila. In altre forme. Questa, piuttosto, è come se fosse il suo scheletro. È lontana, troppo lontana e alta nel cielo. Ma cadono fino al suolo, a volte, le sue piume. Diventano nero liquame. Altre nuvole si ammassano tra il suolo e i piani del cielo in cui sbatte lievemente le ali, da cui lancia sguardi che costruiscono imperi, nidi numerosi sulle colonie del mondo dove vuole affondare gli artigli. Sono tra Aprilia e Anzio, nelle narici ho polveri sottili e granelli di sabbia portati da brezza salata e immondizia e pesci morti e letame fermentante e querce agonizzanti in boscaglie di confine senza nome. Tra me e il cielo, per mezzo del filtro ibrido di naturale e innaturale delle innumerevoli nubi, si trasformano in gridolini di poiane e falchi di palude gli stridii di muti infrasuoni che il rapace mostruoso lancia da lassù, fluttuando ancora tra i frammenti incandescenti dell’occhio schiuso, e comincia a sparire in un miraggio nell’intersecarsi di luce e foschia; tra me e la terra, rispondendo come in un deforme specchio ai gorgoglii dell’alto, si agitano le solite presenze sotterranee di sempre. Lo so, lo so, vi sento, dico spazientito, dico ossessionato, non potendo smettere di ritornare con la mente a quel mondo morboso, e farcela inabissare. Mi hanno sentito anche loro, come sentono tutto, insignificanti passi di insetti su corpi di giganti. Il Fango e la bestia alata, diavolo tra gli uccelli, insieme scherniscono e muovono tutto. Irrompe non invitata la Storia in un carnoso filamento che si flette tra il suolo e le nuvole, e sopra e sotto affonda radici aggrovigliate su tutto il territorio. Basta muoversi per finire in una rete.
---Fango Storia Luce. Mentre ho negli occhi un filamento colossale con cervello di demone che mi sovrasta e nelle narici polveri sottili e pesci morti e decomposizioni multiformi del territorio, ho anche questo: cassetto di casa di vacanze, al suo interno teli da mare tra le cui trame sono rimaste custodite particelle di spiaggia vecchie di vent’anni. Tessuto morbido colori accesi e bianco, disegni d’ombrelloni e secchielli. In un momento precedente ci avevo affondato la faccia dentro per inebriarmi della possibilità dell’illusione che non sia tutto decomposizione nel raggio di chilometri.
---Sfrecciano nei pressi del mare su ciclomotori e cavalli d’acciaio rovente i muscoli e i cervelli berserker che credono d’essere esecutori di un ideale. A volte li si sente dire all’ombra dei pini e in piedi tra statue greco-romane abbandonate in piazzole di sosta, dove si vendono piscine e statue da giardino: prima del Duce qua non esisteva niente. Il Duce è la loro Luce. Campagne dietro Aprilia e dietro Anzio e tese sul loro confine, brulicano di ombre che non dormono mai, motori che ruggiscono ininterrotti un futurismo di smog e rumore e inguaribile febbricitante tedio. Infelicità. Prima della Luce qua non c’era niente. La Storia mi ammonisce da mille fori, mille occhielli che si spalancano nei torreggianti tubi della sua carne tentacolare simile a un titanico sistema nervoso, mi ammonisce nel momento in cui la penso, e dunque mi rendo conto che esiste, e dunque me la invento. È pesante. Rischio di cadere ancora al suolo, schiacciato. È veleno per la coscienza, gli osservatori agonizzano in spasmi d’epilessia e tumori e malaria come ad aver ingerito l’acqua di tutti i canali e i fossati che s’intricano ai margini delle strade per spargere da dietro i canneti un unico immutabile respiro di fogna. Ma la storia non m’inganna: i suoi filamenti sono frammentari, culminano in lembi inesistenti, discontinui. Sollevo lo sguardo in su, vedo le terminazioni aguzze e parassitarie del suo sistema nervoso che affondano in un’incorporea carne del cielo, per succhiarne un sangue e iniettarvi una sostanza urticante. Storia: non sei che una zanzara colossale, da queste parti. Sei un organismo ematofago delle paludi. Sotto i rami e sopra le radici, dove volteggiano poiane e falchi di palude, s’agitano a un lieve vento di mare e fumo le chiome di querce fitte che non esistevano prima della guerra, non proiettavano ombra su un terriccio rossastro e sabbioso, non c’era niente prima, non c’era che acqua limacciosa, non c’era niente e non c’era Storia. Boschi che non hanno visto spade e streghe e ricerche di graal, non c’erano né dio né il diavolo. Mitologia: questa terra ha due mitologie e due Storie, solo due in questo istante: una preistoria di zanzare durata millenni; e poi all’improvviso, a interromperla, una guerra di zanzare e ideologie del secolo scorso, prima della quale non esisteva nulla. Prima della quale esisteva un’immagine immobile. La selva pontina sgusciava grondante dalle acque torbide e il sale cristallizzava fetido in pozzi neri vorticanti di melma, a costruire conchiglie dalla gestazione millenaria. Palazzi pontini sgusciavano dall’asfalto di bonifica, affacciati sui canali. Sento un ronzio: orecchio sinistro a Campodicarne, eco quasi estinta del ricordo di un semaforo che strillava all’arrivo dei treni dove ora c’è il sottopassaggio; orecchio destro a Lido dei Pini, traffico ininterrotto dei tormentoni estivi rimbombanti dentro e fuori dai parabrezza in corsa che riflettono il rosso dei pini e il giallo delle tende sbatacchianti sui musi delle villette litoranee e icone pubblicitarie di gelati sul ferro flessibile fuori dai bar e i manifesti pubblicitari fluttuanti nel frinire di cicale e manifesti del circo Orfei vecchi di diversi decenni e un mare distante che emerge dai campi gialli facendo scintillare in uniformità argentea le luci finali del giorno morente. La Storia sta schiacciando l’acceleratore in un’esondazione di musiche e cartelloni pubblicitari, per andare al mare a ubriacarsi del sole del tardo pomeriggio e a ubriacarsi di birre con le carcasse che rimangono in spiaggia e ubriacarsi di pazza bugiarda gioia.
---Torri di cellule di zanzara che succhiano terra e cielo, aprendo occhi che calano sugli esseri minuscoli in movimento sulla superficie incrostata del Fango, sulle città della palude: appaiono a volte nell’aria e sono soltanto una delle possibili apparizioni. Scaturiscono da un presagio quando capita di vederlo.
---A volte la bestia alata lascia precipitare dagli artigli delle uova, miniature della sua nascita. Piccoli soli che esplodono in punti casuali della terra. Investono esecutori, gente in movimento, ombre brulicanti del territorio. Centauri greco-romani nei boschetti di pini, eredi di numi tutelari mai esistiti. La luce che vedono fa credere loro di muoversi secondo uno scopo. Io in piedi senza scopo, guardo torri di cellule di zanzara che depredano la campagna del mio rifugio, il cielo a est che avvolge il confine a Campodicarne e il bosco e le case estive comatose. Senza scopo le analizzo e non succede niente e capisco che senza scopo sto adempiendo a un altro scopo. Fango che ride: sa trovare utilità negli esseri inutili. Saremo molto nutrienti quando torneremo giù. Ci siamo già, stiamo nutrendo. Fango che ride: insieme a uno strato di sabbia compatta, residuo di interminabili e fumiganti ere geologiche, attutisce le scosse di terremoto. Il ricordo più intenso che ho di un terremoto è qui, spostò l’asse terrestre, senza rompere una sola parete, buona sabbia e buono Fango che proteggono. Sto fermo in piedi sul suolo che fagocita.
---Tutto è proiezione, flusso reciproco continuo tra dentro e fuori. Sono nato qui mi sono plasmato qui e se spengo la mia coscienza non vedo nulla di qui: questo posto e la mente si riflettono, uno specchio d’acqua che puzza di fanghiglia e larve e carcasse galleggianti. Ogni parte di quello che vedo si raggruma specchiando gli organi di una combaciante mappa interiore. Idolatri di questa vita che si muovono lungo la costa di Anzio: loro corrispondono microcosmicamente forse a certi margini turbolenti della coscienza. Quando raccolgono le uova cadute, piccoli soli esplosi, pensano ingannandosi: Fascismo: questo il nome del principio che ha creato tutto ciò che attraverso. Le città della zona, la città anche della mia nascita. E anche questi terreni distanti dal suo centro, concessi ai contadini che erano stati coloni in Libia. Ma non c’entrano la storia e le ideologie politiche: meri residuati. Eseguono, meri passaggi di un percorso. Il principio che ha creato tutto ciò in cui vivo. Si incarna nella Storia e nei suoi simboli e presagi, solo per farsi vedere, iniettare incubi negli osservatori. Chiudo gli occhi: un peso privo di limiti al petto, impossibilità di uscire dal passato individuale e collettivo. Il principio che gli abitanti, miei vicini di casa nelle terre dei cavalli morti, chiamano Fascismo e chiamano Duce e Luce e sbatte ali d’aquila nera sancendo gerarchie di violenza, è un avatar palustre del peccato originale: appartieni alla terra che è uguale a te, hai il DNA che ha inquinato l’aria e i boschi e asfissiato le faccette nere ed eroso le coste e che adesso senti sfrecciare, in eco nostalgiche d’infanzia, tra canzoni estive e rumoreggiare di stabilimenti balneari. E dovunque andrai sarà con te. E dovunque andrai tu sarai la terra e tutto ciò che hai fatto standoci sopra e dentro.
---Giro intorno fino al retro di una casa costruita da un ex africano. Ricordo che in questo campo raccolsi una conchiglia fossile. Più antica di ogni forma di vita capace d’ergersi bipede dall’acqua. Più antica delle cose con gli scheletri, dura come ossa di sabbia calcificate in stalattiti, brufoli simili a cirripedi sulle perfette spirali. La porsi a mia zia: guarda, è un dente di allosauro, dissi. Fece finta di credermi per farmi contento. Apparve distante nell’orizzonte, affacciata da un diverso istante, una torre di cellule di zanzara e nel suo ventre apparve uno squarcio: la campagna d’acqua fumigante su cui marciavano dinosauri: capitolo antico della Storia. Poi una vaga guerra, una vaga bonifica. La terra che si costella di pali telegrafici, la pace che s’ingozza di benessere e nasce il mare e i gelatai e nascono i terreni che fanno nascere vegetazione vicino alla costa tirrenica, negli spazi tra la macchia depredata. Raccogliendo un piccolo sole esploso, avente per avatar la morte di pietra di un mollusco preistorico, credetti da bambino d’aver visto la Storia intera. Comparsa di un morbo e rapidissima degenza. E poi, il mio secolo. Quella sera, fluttuando tra vapori di tramonto e cena bollente e piagnucolii acquosi di un vecchio frigorifero e di gruccioni, tornai dentro a guardare cartoni animati multicolori irradianti l’energia della seconda bomba chiamata grasso uomo di Nagasaki, e delle parole intrattenimento e benessere, slogan televisivi di allora. Avevo appoggiato la conchiglia fossile della Storia intera su una mensola dove qualche anno dopo avrei collocato lo scheletro secco, simile anch’esso a un fossile, di una delle rane che s’aggiravano nei pressi del pozzo.
(Sono tornato a vedere lo stabilimento balneare La Lucciola, dove distendevamo i teli da mare che ancora ne hanno l’odore: quel posto è la cosa meno cambiata di tutte. Tra boschi e spiagge e curvoni del mio mondo privato, si gonfia come marea una nausea di assuefacente nostalgia per tutto quello che cambia in superficie, le deturpazioni dell’infanzia fatta di estati fatte di sogno, farle durare all’infinito. Non cambia qualcosa di enorme e sotterraneo e scuro e soffocante, l’unica cosa che invece si vorrebbe cambiasse. Avere un corpo, uno spazio e un tempo: nati qui con le cellule di qui: non poter fuggire da se stessi.)
---Trascorse un attimo. Tramonti sul bosco di querce e gli odori serotini di fumo e mare e paglia e aghi di pino. Vedo mia zia che si addormenta profondamente nascondendo l’agonia ai miei occhi impressionabili, il letto della sua ultima estate passata qui, la muscolatura viva e respirante sotto striature giallogrigie di un gatto, ora sepolto qui da qualche parte, dorme al guanciale di lei. Vedo mio padre ragazzo che giocando a calcio in un campo intersecante quello in cui ho trovato la conchiglia disseppellisce una bomba della battaglia d’Anzio. Vedo mia nonna, ricordi sepolti qui, che non lo vede, che vede e ricorda giorni di bombe diverse: non stavano immobili e non tacevano. Tace lei stendendo i panni serenamente sul porticato e accogliendo nella lieve ondulazione dei capelli riflessi biondi e di fuoco nel primo pomeriggio. Vedo suo figlio che con le braccia raccoglie la bomba, sole microscopico sul punto d’esplodere, uccidere, cancellare tutto quello che è stato dopo. A volte ho un brivido, in bilico su una voragine, come se fosse successo, e tutto il resto fosse stato un sogno strano. In cui ci sono una sorella e un cugino e un osservatore con un fossile in tasca seduti sotto pini marittimi nel ventre caldo e vibrante di cicale di un’estate squarciata fuori dal tempo, fuori dal dolore. Un ordigno avrebbe potuto disintegrare l’unica cosa bella. Lo ha fatto forse, e questo è tutto un sogno. E anche nel sogno le cose belle si fanno sempre più distanti, inconsistenti.
---Trascorse un attimo. Mi vedo in piedi sulla paglia intrecciata al suolo, terreni di contadini ex africani. Sono uno scheletro, le mie ossa sono figlie di generazioni di germi fermentanti di vita e morte, sono gocce diventate calcio e conchiglie. Sono un fossile e con le orbite vuote del teschio me ne sto a guardare il nulla, senza scopo.
---A volte si vede un luccichio, piccoli e rossi occhietti furenti sormontano i torrioni deformi della sagoma vaga, irreale, della turbogas. Sembra lanciare da quel corpo scheletrico lasciato a metà il lamento d’un bestione incancrenito, un muggito d’odio per se stessa e per il mondo che ha inquinato ma non quanto avrebbe desiderato. Vorrebbe crollare e trasformarsi in un’ultima esplosione di polvere. Scipionyx con colli grondanti d’acqua palustre emergono da vortici e arbusti fradici per arrampicarsi sulla carcassa della turbogas e masticare le ossa. La Nettunense scorre caotica e feroce dall’altra parte del prato, acquitrinoso per la recente pioggia.
---Terra del mio spazio amniotico e mentale, si chiama Cavallo Morto, ucciso da qualcosa. Chi ha ucciso il cavallo di cavallo morto? C’è qua un cavallo vivo di un recinto vicino, osservarlo è sentirne già il tonfo. Carcassa sotto il sole, galleggiante nella guazza.
---Cancri collettivi e individuali, genia dei morbi piccoli che si infiltrano nelle vite individuali e si posano sui nervi del tempo, ramificando fratture e onde sismiche. Fango e sabbia attutiscono. Vite che vacillano ancora oggi, vacillano finché muoiono per le onde d’assestamento di traumi passati. Collettivi e individuali, sembrano voler ricordare con graffi lasciati da artigli di un destino deciso cosa significa vivere, dopo aver cercato d’astrarsi dal dolore, fuggire, trasferirsi in un luogo separato. Dove non finisce l’estate e si muore dentro lei.
---Sono ancora qui. Si spengono gli ultimi grilli e addormentandomi vedo fluttuare nella coscienza varie forme di scheletri diversi. Sembrano forme riflesse da qualcosa che biancheggia in fondo all’oscurità tra le pareti interne delle palpebre.
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Ho raccolto i frammenti con la mano e li ho lasciati disperdere nell’aria sporca. Erano esoscheletri erano cose respiranti erano sabbia erano pensieri per sempre scomparsi dopo aver fluttuato per pochi istanti di vita in una brezza del crepuscolo rurale.
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