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Gli Appunti Del Fango- ferire il simbolo

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 26 mar 2021
  • Tempo di lettura: 26 min

Era in uno di quei punti dove si crea una specie di vortice dal corso strano. Sembra, quando succede, che si stappi un’otturazione sul fondale limaccioso, e allora tutto in superficie cominci a girare con un lancinante lamento gutturale. In genere si trovano pali -insomma, parti di tronchi morti- conficcati verticalmente od obliqui nell’acqua, come arpionassero il dorso di una grossa bestia. Erano così disposti, ma quella volta dai buchi intorno alla loro base zampillava un’acqua d’altro colore, rugginoso. In gocce acrobatiche come di fontana questa ricadeva dopo il volo sulla stessa superficie, sull’acqua di palude di sempre, e andava a girare assieme a tutto il resto. La cosa continuava, un po’ spegnendosi, dalla notte più profonda in cui c’era stato un assordante tonfo in seguito al quale uomini e creature avevano sentito strani rumori. Sotto la luce fiacca di un giorno nuvoloso la barchetta di qualcuno era stata trascinata là e ne seguì uno sconcerto inusuale da quelle parti.


Questo accadde in una circostanza che devo raccontare, una cosa che è successa in questo posto e che non si sa bene come sia andata a finire. Scrivendo proverò a capire. Chi c’era allora però non seppe più dire che fine avesse fatto quel tizio, né dove fosse andato a finire. Quella era una storia, una leggenda locale, rimasta per sempre monca. Contrariamente a quanto si crede quegli analfabeti sapevano raccontare storie, che erano uno dei tipi di fiati che giravano in quelle sere d’umidità da obitorio sotto il cielo aperto, dopo un lungo lavoro sudato tra la tosse e i brividi. Ne avevano diverse, ed erano di quel poco che avevano, con i pochi bufali alla cascina, con gli stivali nell’acqua e quell’eterna paura della malaria che non se ne andava mai. Vicino a un lume acceso d’una luce verdastra, dicevano di contadini e fantasmi, di donne e uomini gelosi, di strani rumori uditi nell’immensa palude, la signora millenaria con mille braccia e capelli d’alga putrefatta che di notte sembrava guardare con occhi vivi e penetranti chi rimaneva solo a camminarla. Diventava massa scura pulsante, d’acqua nera capace di minacce improvvise, era l’enorme faccia della terra sotto il cielo nel momento in cui più si assomigliavano. Anche quella era una storia della notte. Spesso erano storie in cui qualcosa moriva o si perdeva, scompariva sott’acqua.

Una suggestione molto potente mi dice di una continuità tra me e quel tizio, allora sconosciuto a tutti. Mai visto da queste parti. Un viandante come tanti, no? Di quelli che i locali, quei mezzi selvaggi, schernivano quando vedevano andare con passo fintamente deciso per terre che non capivano, le terre più difficili. Faticavano a capirle e a domarle quelli che ci avevano vissuto da un tempo dimenticato, figurarsi -pensavano- questi uomini di città, disgraziati che si sono trovati ad avere queste paludi sulla strada per andare da chissà che punto a chissà quale altro! Molti forse andavano di nascosto verso il mare, volevano arrivare alle paludi di Nettuno senza farsi vedere, salire su barche senza nome da spiagge sterpose senza molo. E invece naufragavano ancor prima di sentire lo zolfo, quando si vedeva ancora la vegetazione pasciuta a eccesso d’acqua marcia -c’era ovunque, quella vegetazione; annaspava dagli atolli salmastri di un mondo alieno, si sgretolavano le sue spoglie infinite, o diventavano foresta pontina che sbocciava direttamente dall’acqua, per poi allontanarsi su terreni apparentemente più solidi che facevano le isole di quel paesaggio. A seguirle si arrivava a tutte le macchie così impenetrabili, gli intrichi fino ad Anzio o a Sabaudia. Gli eucalipti, dita varicose dei campi odierni, non esistevano ancora: tutto il nettare sporco dell’enorme pozza se lo succhiavano quegli alberi là, crescevano tentacolari e ghermenti. Quanti cristiani erano andati a perdersi tra quei rami? Gli stessi che erano spariti in un tuffo, in un vortice, cancellati in una pioggia infinita e in nubi ronzanti di zanzare, spiaccicati come frutta da un caldo putrefatto o annegati nel buio e nel freddo.

Insomma, il passaggio di un tizio mai visto, simile ai tanti che poi scomparivano, non piantava il tripudio in quegli animi rozzi, temprati da graffi di rami ostili, da quotidiani scontri con l’indomita terra fradicia ostinata nel rigetto delle semenze. Tutti con le ossa ghiacciate d’umidità e i polmoni sospettosi. Ma la storia che parlava di alcune cose che gli erano accadute in quelle sere in cui lo si vide in giro per il territorio di Aprilia era diversa dalle altre che deridevano gli sventurati. Poco aneddoto, molto mistero. Non era una storia che si raccontasse spesso. E poi quelle cose strane che accaddero, quella scomparsa che sembrava anomala perfino in quella maledetta terra di scomparse. La terra che reclamava ogni corpo per sé, che assorbiva ogni intruso, nascondendoselo nel grembo molle e asfissiante. Nemmeno loro furono certi nel dire, quella volta, che era stata lei a catturarlo. Dove altro si poteva sparire allora, nel mondo, se non laggiù?


Forse è una storia che si racconta poco perché fa pensare che altrove, o anche qui, esiste un altro nulla, forse più gigante e spaventoso di questo.


Io credo che quel nulla sia lo stesso. L’ho già incontrato, sentendomi smarrito in solitarie passeggiate cittadine, meravigliato e timoroso, ma grato di quel timore perché mi inebria. Pulsa al suo interno un respiro che mi afferra tra grinfie e mi trascina giù in questo suolo: solo così posso “appartenere” alla città giovane. Ho l’impressione di aver visto qualcosa. È tutto estremamente confuso, e il mio lato di osservatore odia che sia così; scrivendo ho quasi voglia di stracciar tra le mani qualcosa, sentirne il cigolio che si orchestra alle macchine in perenne movimento nel centro città, numeri anonimi di sottofondo vicino al Caos che è sia un bar che una prassi esistenziale. Sovrastata da strati di quella vibrazione continua che mi dice buon giorno pomeriggio e sera fumando da un’inspiegabile sotterraneità tra Piazza dei Bersaglieri il supermercato e la clinica, cerco di far uscire la debole voce di questa testimonianza, perché mi sembra di aver testimoniato a quell’episodio. Gorgoglia, gorgoglia e sale fino ai balconi, per quanto alto sia il balcone da cui la si guardi di notte (ed essendo nato qui, questo verbo non può non ossessionarmi).


Lui era un osservatore vagabondo che non riteneva di essersi perso. Gli piaceva la palude, diceva. Veniva per osservarla, assaporarne l’aria fetida perché nel fetore c’era una poesia. Gli piaceva l’aspetto selvaggio, attendeva immobile per molto tempo davanti a quegli scorci in cui due mucchi assiepati di canne facevano da cortine a uno spiazzo d’acqua, brillantata dall’alba o dal tramonto. Godeva l’alternarsi di silenzi e sciaguatti e anatre selvatiche. Vedeva una discreta e pavida anima bucolica nascondersi nei buchi di tronchi galleggianti.

Non amava tutto. Non amava niente. Amava l’immersione nei mari di poesia, dov’erano tollerabili e sublimi anche la burrasca o il mostro delle profondità, e per questo odiava i lidi del mondo dove la lotta contundeva troppo forte. Non aveva ancora visto una spiaggia che sfuggisse a una violenza priva di rimorso. Nel mondo, le cose non si pentivano di distruggere e distruggersi.

In una notte di pioggia era solo con un lumicino tiepido in una stanzetta sotto un faro. Fuori scrosciava forte l’inchiostro che lambiva la costa di Nettuno. Chiuso in alloggio salmastro grattava informi fogli di carta rosea con la punta di una piuma -di gabbiano, magari. Aveva scritto, quella notte prima di mettersi nuovamente in cammino: “sono certo che se uno qualsiasi di quegli esseri che vedo, gli stimati signori con cui mi trovo ad abitare su questa stella, avesse l’opportunità di non far più alla guerra, e procacciarsi come pianta il nutrimento solo stando nel terreno; sono certo che a confronto preferirebbe la guerra e pure la sconfitta in essa, solo per il gusto di poter maledire, sprofondando infine nella terra e nella polvere, un’ultima volta il proprio carnefice, e avvelenar d’odio il suolo con le proprie spoglie in perenne rimpianto.”

Aveva scritto così e ciononostante voleva attraversare quell’enorme palude che sembrava inseguirlo, inseguire tutti quelli che sporgevano il passo oltre il confine della sabbia, e ove finiva la duna subito fischiavano i pochi canali scavati dai romani in primitivissima bonifica, e tutt’intorno gli argini si ammantavano di liane, nascondevano cove d’uccelli dalle gambe a stecco e i piedi anfibi. Non capiva, o non voleva capire, che le regole della palude erano, per certi versi, più violente di quelle della città; ma lontano da essa, da lingue e occhiate, tutto inspiegabilmente si giustificava da sé. Era questo il compito della natura? Un poeta o un pittore andavano a cercarla per l’ispirazione e l’eremita se ne circondava. L’osservatore andava a cercare di odiarla meno del resto, nonostante la sovranità che essa deteneva su tutto ciò che era storto. Ed ecco quel vecchio osservatore scomparso tanti anni fa che se ne va a zonzo tra i pantani come un ranocchio felice, chiude gli occhi e si ferma, si ricarica. Riparte, guarda qua, guarda là, guarda il cielo e cerca di incidersi a forza nel cuore la forma delle stelle ricopiandole da lassù.

Nella palude perdonava gli uomini di palude. Ridevano già a immaginarsene la sventura (non la morte, no… mica erano così maligni, gli uomini, no? Va bene scherzare con la parola, se non se ne ha alcun riguardo come la maggior parte della gente, ma alla vera eventualità di una morte d’un poveretto di passaggio, mica avrebbero continuato a sorridere, no? Doveva essere così, doveva essere una falsità tipica della specie…); ma che potevano fare? Non possedevano nemmeno la metà delle cose che possedevano le persone che vivevano lontano da quel posto enorme di solitudine, la desolata arena dei venti come campioni in tenzone dal Tirreno, dagli Albani. E a crescere in quella terra che non dà niente se non la si impugna e odia per lunghi sfiancanti mesi, ci si convince che possedere è tutto ciò che conta. Il Fango possiede tutto, possiede il gioco: fa vincere in questo quelli che più gli assomigliano, che sanno appropriarsi di più cose.


Quelli naturalmente gli chiedevano dove andava. E che, poteva forse mettersi a spiegare a gente con lingua così annacquata, di pochi baritoni gargarismi come il paesaggio stesso, tutta la sua bella teoria estetica della natura che è bella e brutta al tempo stesso? Certe volte sì, lo faceva, quel cretino: con parole strappate qua e là cercava di spiegare. E qualcuno di quelli capiva, forse perché anche per loro era così vero che la natura dava e toglieva. Senza poesia, solo sopravvivenza, ma era così che andava. Comunque continuavano a ridere, sebbene disorientati da quella presenza così insolita che nemmeno aveva un obiettivo di là dall’acquitrino, non aveva affari da sbrigare in giro per l’Italia, non cercava i paesi o i castelli o i porti del Lazio. Quello là quasi pareva avere come obiettivo proprio stagni e foreste pontine dove non c’erano mai stati obiettivi di abitanti esterni. Ne avrebbe poi parlato Goethe, elogiandone il mistero. Ma chi ci andasse a finire cercava presto di andarsene oppure ci moriva. Le cicogne che giungevano a maggio a bucherellare cielo e campo d’un bianco d’africa se ne volavano via presto, e per i climi inclementi si consumavano ancor più transitorie che altrove le fioriture di alberi sporti sui flutti; quanto a quegli umani che già stavano là come semi in terra, era una questione di generazioni ormai troppo antiche, che avevano fatto la prima capanna fredda e di sterpaglie e melma compatta, di squallido conforto. Era questione di protrarre la preghiera a un certo enorme dio e a tanti piccoli spettri, perdurare una convivenza, idoli paglierini eretti nella notte con occhi accesi di piccoli fuochi a far da ricettacolo a una mediazione disperata tra gli uomini e la spietatezza di un suolo vecchio burbero impregnato di sali tirrenici, rancori italici. Sulla parete di qualche capanna affondava a formina su superficie malleabile un crocifisso; qualcuno quel crocifisso lo faceva pendere da una stringa fibrosa strappata a qualche verdura selvatica e andava a infilare siffatta collana al collo di quegli idoli, di vedetta nell’oscurità. Dicevano alcuni che quel dio era il diavolo. Così, un osservatore, originario d’altrove, con gli stivali reduci di sabbia, le orecchie piene di fragor d’onde e chiacchiericci da piazza costiera, cercava di comunicare con gli idolatri o timorati del demonio.


Subito avevano pensato a quell’altro poveraccio, quello di cui aveva raccontato un tipo strano che se ne stava giorni e notti intere alla baracca degli attrezzi -certi di là lo chiamavano “principe”. Un losco misterioso, che campava forse di brigantaggio, che poi spariva per un po’ -alcuni giuravano di vederlo dileguarsi nel fitto delle boscaglie, poi lo si ritrovava d’improvviso a sbucare spettralmente proprio nella penombra di quella baracca di legno, a fumare pensieroso con la faccia nascosta. A volte a spararle grosse, ma gli avevano creduto riguardo a quello con cui diceva di essersi messo a “ragionare a lungo”, l’ennesimo disgraziato che era diretto altrove e che, maledetto scemo, andava farneticando di “mappe” e “direzioni” in quel mondo senza legge. Avevano visto le impronte nel fango, e chissà, forse avevano trovato anche altro; quella invece era la prima volta che s’era sentito il principe così animato da un incontro casuale che aveva fatto, lui che vedeva passarsi davanti tutti gli uomini tristi e sfortunati ma che mai mostrava il volto. Perlomeno così avevano riferito quei tre quattro butteri che l’avevano trovato quel giorno nella baracca, di buon umore e insolitamente dispendioso di fatti propri. Chissà come lo prenderebbe il principe, a un tipo strano così, pensavano. Tra tipi strani ci si poteva intendere. Loro intendevano solo che questo non aveva così tanta paura di morirci, laggiù.


Qualcuno gli chiese appunto se non avesse già incontrato il principe, se fosse passato innanzitutto da quelle parti. No, non l’aveva visto il principe, nella sua passeggiata l’uomo era già passato per di là, dove oggi sta una stazione, e vagava, ora, per caso, verso est. Ci era entrato, nella baracca, per ripararsi dalla pioggia come spesso accadeva; ma tanto dopo sarebbe uscito comunque, a inzupparsi tutto e a fregarsene, bearsene quasi -un sorriso qua e là di selvaggi e butteri e donne mute e vecchi prosciugati, molti pregustavano la broncopolmonite. I bambini lerci non avevano espressione nel volto impiastrato di crosta fangosa: fuori dalla maschera sbrilluccicavano solo i tondi occhi neri da topo selvatico, tutti uguali li avevano. Lo straniero giunto a piedi dalle spiagge di Nettuno disse di essere stato là per un po’, di aver esaminato gli attrezzi.

-embé, non hai preso niente?-, chiesero, un po’ sbalorditi che dopo aver scoperto quel magazzino non si fosse preparato al peggio. Nudo, senza roba per cavarsi dalle trappole in agguato.

-non volevo accette con me, né armi. La corda per tirarmi fuori dai buchi voraci non mi interessa, la pala per scavarmi la via dalla prigione di fango la lascio a chi è più deciso. Ho solo esaminato a lungo un pugnale arrugginito: sembrava un oggetto raccolto dal fondo del mare, una crosta come di mollusco. L’ho raccolto, ma ho dimenticato di riporlo a terra. Ce l’ho ancora con me, e tutto sommato è un bell’oggetto: ho fatto bene a portarmelo.

Gli guardarono all’altezza della cinta il piccolo fodero che pendeva, come un pungiglione. Allora vedi, che un’arma piace anche a te!


Era una conversazione del tardo pomeriggio su una costa di tre abitazioni in fila. Non ce ne erano mai troppe tutte assieme, non c’erano villaggi nella capitale del fango. In quei paraggi, melma e acque molleggianti si incanalavano tra argini erbosi come in un torrente, e quel denso letargico movimento sembrava bastare a render l’acqua più pura così che le donne di là potevano chinarsi con tinozze a raccoglierla senza dover scavare i rudimentali pozzi, consuete sentinelle di pietra fradicia di fianco alle capanne.

Certi stavano appoggiati alle pareti, o accovacciati per terra -gli unici propriamente seduti stavano affacciati al corso d’acqua, mentre altri ancora erano in piedi con le braccia scimmiescamente molli lungo il corpo, come ignari di poterle mettere conserte o con le mani nelle tasche. Non per forza dormivano là: sembrava quasi che ci venissero, ogni tanto, un po’ di genti di altre capanne, come a una specie di ritrovo molto riconoscibile. Una tregua del paesaggio. C’era ancora abbastanza sole a quell’ora, faceva caldo, e per pochi momenti pareva che nessuno avesse più l’ansia di sopravvivere e lavorare combattendo la terra. Un buttero rovinato dal giorno, con la barba a punta attorno a un teschio scavato stava assorto su un argine alto, adagiava il sudore sulla fronte reclina, gocciolandolo sulla smangiata pezza incollata ai pochi capellacci; ai suoi piedi due bambini infilavano nell’acqua un lungo bastone e si ipnotizzavano coi cerchi lenti. Tutti abbronzati, abbronzate due donne precocemente invecchiate che fissavano lo straniero. Cercava di non guardarle, messo a disagio dall’espressione vacua degli incisivi scoperti, dalle vesti in eccesso che tutt’intorno le impinguavano a far goffe uova delle loro sagome. E guardava in su, in giù, o verso alberi lontani tesi alle nuvole per sospirare inudibili “ah!” affranti, intercettava sguardi di uditori curiosi o solo annoiati, incrociava quelle donne e subito volava via -non stava mai fermo con la testa questo tizio! Le mani in tasca coi gomiti curvi, le spalle svogliate, potrebbe essere un morto di malaria ma guarda quel collo che è un pesce matto che guizza, pensavano quelli. E intanto si soffermava un po’di più sui placidi indecifrabili occhi di un vecchio rannicchiato in terra, simpatico con aguzzi steli di paglia che gli spuntavano dall’enorme barba schiumosa. Un po’ lunatico sembrava, un po’ come certe genti aborigene di isole lontane che il giovane aveva visto ritratte sui libri di una biblioteca ad Anzio. S’abbracciava affettuosamente un palo acuminato -con cui diceva di infilzarci i ratti- e le ginocchia ossute s’aguzzavano nell’arsura d’una piccola zona di mosche e non di zanzare. Non doveva esser lontano lo sterco di bufali in vaste distese. Quando non ebbero più da chiedere, quando quello straniero girò le spalle alle donne strane, cercando il corso d’acqua, echeggiarono fanfare strozzate di oche da una specie di casale di pietra sull’orizzonte, simile a un porcile abbandonato. Il giovane si disse che avrebbe dormito lì sotto una coperta fatiscente abbandonata. La restante natura mandava sbadigli.


Una di quelle notti vide che qualcuno aveva cacciato un cinghiale. Questo uscendo da una macchia a ciancicare prataioli di radura era caduto in una trappola, una fossa che sfruttava la naturale mollezza del terreno, nel baratro attendevano un tonfo gelido come guazza in fondo a un pozzo e bastoni intagliati a lancia. Il sangue scuro si seccava presto sulle schegge. La carcassa scuoiata, pendente da uno spiedo, ancora recava fori simili a bocche, affacciate su raccapriccianti biancori di cartilagini e ossa nella carne che arrossava. Quella notte pareva una festa: l’aroma affumicato e gli sbuffi candidi d’erbe messe a speziare s’annuvolavano ovunque, il gruppo dei cacciatori pareva abbracciare il bel fuoco della preda vinta; altri, di tutte le età, prendevano sonore mestolate da una zuppa acquosa in cui informemente galleggiavano brandelli e rimasugli di ciò che si sarebbe detto essere alghe, legumi, tuberi. Prendevano tutti la luce del falò grande sovrastato dal capoccione a mascella flaccida del cinghiale capovolto, e sul profilo di spighe nere all’orizzonte fluttuavano a coppie gli accesi lumi, di bagliori arancioni, negli occhi degli uomini di paglia trafitti sui pali governanti le poche colture sopravvissute -spaventapasseri oppure idoli difensori d’agricoltura. I più vecchi accucciati affianco sulla terra, zappatori o cacciatori chiusi in pellicce marroni, si parlottavano nel dialetto senza ritmo e grammatica (un romano sghembo e incomprensibile, intriso di meridione, isolato), a sommesse spallate e pochi cenni si indicavano l’un l’altro il cielo e le scarse stelle. Era tutto nero, nemmeno la luna, solo Il Carro e Orione rilucevano riconoscibili sulle nocche callose e consunte protese all’insù. Forse una notte con un significato per la vita agricola.

Guardava, l’osservatore intruso in quel mondo, si ammaliava nella distanza. S’affascinava, senza immischiarsi, di quel popolo, dello stesso numero che aveva visto quel pomeriggio in cui li aveva conosciuti. In una grande radura trascorrevano quella sera forse particolare. Erano belli? No, l’osservatore non poteva amare gli uomini. Ma erano migliori degli uomini di città? Erano figli di quella terra, ne erano sudditi e schiavi, ne erano fanatici spaventati seguaci. Volevano assomigliarle. Erano nella somiglianza, forse, il brutto e il bello. Allora camminava ancora come faceva da giorni, e con lo sguardo faceva il giro di quell’umanità abbarbicata nella notte nera, nella palude nera infinita. Non s’ammazzavano per il cinghiale, quelli che mangiavano la strana pozione non invidiavano gli altri e viceversa. Ma nemmeno sembravano amici. Non esistevano le amicizie, pensava. E, ne era certo, erano capaci del conflitto più aspro e sanguinario. In quella cena però non si manifestava violenza. Nessuna riflessione o impressione raccolta aiutava a capire.

Sporadici balzi rossi del fuoco mostravano a volte perfino qualche ghigno di quei volti a maschera, poco avvezzi a comunicare. Un dente bianco o giallo o nero, un digrignare di gengive attorno a una pipa -l’avevano in bocca quasi tutti, pure le donne ma non i bambini. Occhi rossi, non si sa se per il fuoco o per il sangue, o per qualche veleno che bevevano da zucchette avvoltolate in spaghi: conoscevano un vino pungente, distillato di queste terre e acque, trafiggevano acidi gli aliti anche dalla lunga distanza. Erano storditi. S’udì il chiacchiericcio a strofe di una civetta stridula, e il giovane osservatore estraneo ebbe la spiacevole sensazione di non capire da quale direzione o da cosa esattamente giungesse quell’eco nitida, come fosse a un passo dalla sorgente: dalle chiome d’alberi storti camuffate nel cielo, oppure, grottescamente, dalla bocca aperta del cinghiale morto, o peggio, formicolava come un brivido di pelli rugose da tutte le spalle, dalle sagome di una gente che forse vibrava di forze oscure? Si stordivano di un alcol folle, si inebriavano di una notte di presentimenti inquieti, e forse potevano gridare col corpo senza muover voce o muscolo. Ebbe anche lui un brivido.

-non assaggi il cinghiale?- passeggiando indefinitamente si era ritrovato più vicino a uno dei gruppetti sparsi (pensò alla caduta del cinghiale in una mattina nebbiosa, a una giornata quasi intera a dissanguarsi in una fossa gelida, la luce e i colori che scemavano…).

-no, grazie.

-e un po’ di zuppa, la vuoi, non la assaggi la zuppa?- gli sembrò di capire così da una sbiascicata di uno seduto più in là, con le braccia tese a porgere la scodella (pensò al fatto che quei puntini caldi intensi nella prepotente nerezza appartenevano a fantocci senza volto, che pure una cosa tremendamente rassomigliante a un volto l’avevano, ed ebbe un altro brivido).

-no, non ho appetito.

-cipolle?- quella parola, ammesso che l’avesse decifrata, buttata là pareva surreale.

-ho già mangiato, grazie.

-hai già mangiato, o non hai appetito?

-grazie, grazie davvero, ma non importa.- difficile che potesse aver mangiato altrove da quelle parti, a meno che non fosse ospite di qualche famiglia, solitamente diffidentissima, o non fosse andato a procacciarsi la carne e le radici nella selvatichezza. Gli sovvenne a quell’idea la parola “indigestione”, ma aveva già rifiutato.

-almeno un’altra cosa la devi provare. Vieni.- disse un tale raspando la voce, simile ai radi peli metallici che gli sgraffiavano il volto duro. Un temperamento sanguigno, ridotto nell’altezza scarsa d’uomini di quella stirpe, ridimensionato in quell’esistenza burbera, grugnante. Cominciò ad andargli dietro e studiava gli abiti grigi e marroni. Certi altri portavano pelli e pellicce, correvano animaleschi sui pantani. Questi calzoni sfranti non sudavano per la corsa, si immergevano dopo gli stivali in pozzanghere nere, la casacca sulle braccia scavava insieme a queste ma la terra non rispondeva. Filando come un’ombra alle spalle di quel corpo rovinato contava le parti strane o deformi dello scheletro completamente ingobbito, e pensava che sembravano forme fisiche appartenenti a specie diverse, quella là e la propria.


Fuori dal perimetro mezzo illuminato dal falò c’erano ancora altri uomini seduti a terra. Si voltarono all’unisono vedendoli arrivare. Occhi che irrompevano nel buio. Sparpagliati tra i piedi nudi incrociati giacevano reclini carapaci vuoti imbrattati delle scie di quella stessa zuppa. Altre macchie erano viscido succo spremuto da qualche fungo mezzo morsicato. Braccia lunghe e secche a collo d’airone infilavano erbacce in bocche di pipa, la stessa roba che fumavano tutti. A un tratto qualcuno infilò nella pipa una bacca: questa, incenerendosi, mandò un’alta fiammata. Lo straniero non sapeva dire se fosse a causa del fiato urticante che sprigionava dalle bocche troppo ravvicinate, così intenso da confondere, ma gli sembrò che in quel momento il fumo cambiasse colore, violaceo. Da una specie di borsa sporca, che poteva essere il corpo squarciato di un tasso, tirarono fuori un ramo intero della pianta. Chicchi così accesi da distinguersi nella notte per i rossi e arancioni, tossico naturale ammonimento, balzarono dagli occhi al cervello alla più ermetica cavità nella mente dell’osservatore. Si ipnotizzava a guardare quel fusto che nasceva a grappoli.


(se lo vide in un lampo disorientante d’un ricordo mai prima suscitato né ancora vissuto in cui la pianta infida cresceva nel cuore d’un campo verde smeraldo. I chicchi scintillavano sanguigni e insidiosi, oblio solitario nel prato ove lontano era un erba recintata cosparsa di strane costruzioni, un’altalena, una distesa di ghiaia… un parco. Dietro c’era un’enorme, lunghissima, folle pavimentazione grigia. Carri senza cavallo, carri enormi che trascinavano magazzini. Non aveva mai visto niente del genere. Gli sembrava di esser stato chino nel campo a osservare da vicino la pianta per molti minuti. Aveva indugiato in quella reminiscenza delirante per una frazione di tempo impercettibile) . . .


Aveva preso qualche boccata dalla pipa. Distratto, pensava a ciò che gli era apparso mentre il corpo eseguiva azioni e rispondeva a cenni vari in maniera autonoma. Gli avevano passato la pipa, l’aveva presa. L’aveva messa in bocca, aveva fumato. E d’improvviso si accorse di avere a bruciargli in gola la stessa pianta che gli era apparsa. Si allarmò, volle resistere, come gli fosse stata offerta per la prima volta, anche scagliarla via, ma ormai aveva già fumato, distratto. Avrebbe preferito rifiutare ogni cosa che gli venisse offerta da mani e braccia della palude.


Ciò che disse in seguito varia a seconda del racconto. Dicono tutti che lo straniero iniziò a respirare rumorosamente, che lo sentivano anche quelli che stavano di là a mangiare la carne. Che si alzò, che cominciò a indicare il cielo e gli alberi, a gridare, a cantare addirittura, con parole strane e scriteriate di un folle ubriaco. Sembrava recitasse, urlava del Fango, di una città che usciva dal fango, di zanzare più grosse e muscolose di quel porco stecchito laggiù, che ronzando uccidevano la gente. Di uccelli mostruosi di cui aveva letto negli appunti. Altri poi si dilungano riguardo alle cose strane che disse (probabilmente le disse davvero tutte, essendo poco credibile che quelli usassero certe espressioni senza averle mai sentite dire).


Però le storie che vengono raccontate portano lo stesso epilogo: con la faccia tutta stravolta, sudando e più rosso di quelli davanti al fuoco, a balzi arrancanti si era lanciato verso la foresta. Cacciava urli come un pazzo, diceva che doveva andarci quasi ne morisse. E quando qualcuno provò a richiamarlo, lui rispose in nitriti dementi, sfiancati: “vivrò! Starò bene, vinco io! Perché io, qua, ci ho il mio coltello! Io ho il coltello!”, ed estrasse dal fodero quel coltello quasi sparito in una nube di ruggine, raccolto da polverose tegole in una baracca piena di attrezzi. Poi sparì oltre i tronchi neri, una goccia d’uomo caduta nell’ombra.

Anch’io entro in un ricordo che non ho mai vissuto. Mi siedo in un prato, vedo a centinaia di metri avanti a me il parco di Via Caligola, dietro di me rombano elefantiaci camion sconquassando le fondamenta dell’asfalto, imperatore di terra là in quel tratto famoso e trafficato. Il cielo diventa nero di nubi o morte, no, ho solo chiuso gli occhi. Un osservatore serra la vista, è uno scemo che tenta di capire seduto su erba sporca. Ci sono bottiglie puzzolenti, profilattici usati, garze. Sento giocare i preadolescenti del campetto, il chiasso strozzato di cani di piccola taglia sfuggiti al guinzaglio, la ghiaia che schizza in parabole dalle zampette saltanti. Schiamazzi, occhiate stranite. Dietro mi sento investire dalle ruote giganti, a chiudere gli occhi sembrano accorciare la distanza come se fossi in mezzo alla strada, mi sento morire, divento roba rotta, spaccata, polverizzata, mossa dal vento. Ma sono seduto. O non lo sono mai stato. E mentre tutto è nero così, cerco di incontrare l’ombra di un altro che si è perso.

Cosa era successo a quel tizio?

..

Benvenuto nella foresta. Non volevi prendere il cibo delle genti di qua: i selvaggi e gli ignoranti. I cacciatori di un mondo primitivo e gli zappatori che si incocciutiscono con una terra poco generosa di vita -di quella che si lasci controllare facilmente dalle mani. Per un po’ sei stato bravo, straniero che vieni dal porto, straniero che vieni dal mare. A piedi, senza cavallo, il tuo destriero è una brezza che a volte anche questo Fango conosce, quella intrisa di sale. Fa affiorare alle superficie quelle tante conchiglie fossilizzate da milioni di secoli che stanno perlopiù nascoste sotto terra, nella sabbia. Ti sono familiari, queste selve? Assomigliano un po’ alla tua macchia mediterranea, alle tue torride cicale e odorosi mirti? Forse sì, ma quanto più scure diventano, quanto lugubri con le tante spire serpentine, non appena si indebolisce la luce! Bisogna stare attenti a non lasciarsi ghermire, dicono nel loro incolto linguaggio. E per un po’ sei stato bravo. Ma ecco infine, fai questi passi titubanti già nel fitto dove non ci sono sentieri, passetti ridicoli per timidezza e inefficacia, giacché molti passi di tante creaturine boschive sono altrettanto timidi ma quantomeno silenziosi. Il tuo scrocchiar di foglie cadute, che ti sembra lieve, se ti preoccupava che potesse essere avvertito da alcuna cosa, questo è già accaduto da ancor prima che la suola cominciasse a sfiorare le fibre seccate. Ma tu lo sai, che il tuo ingresso è conosciuto. Rimane forse solo come un tributo, la paura nel tuo movimento, perché capisci di intrufolarti in qualcosa di enorme. Cos’era? Un battito d’ali? No, il volo dei rapaci notturni è silenzioso, sei solo incredibilmente più ricettivo a ogni vibrazione. Percepisci anche quelle che non vengono dai suoni. Ti senti? Questo ritmo sei tu che palpiti. Però vai avanti. La paura sembra frenarti ma è anche ciò che ti ha cacciato qui dentro, perché è un tuo motore. Nessuno verrebbe qui, in queste terre che dicono maledette, se non si fosse già più volte dissetato dell’ipnosi indotta dalla paura, che in interminabili e immortali notti viene a visitare il cuore con tremanti immagini. E ora sai che non c’è più da tornare indietro. Non vorresti tornare ai tuoi appunti scribacchiati sulla comodità di una scrivania, in una stanzetta di muffe marine, stavi in una nicchia sotto un dio della luce, il faro. A intervalli vedevi dalla finestra il mediterraneo nero che si striava d’un giallastro in movimento, uniforme nella velocità. E le onde musicavano un sottofondo per la tua attività. Bene. Qui non c’è sedersi, non c’è tana, non c’è scrittura. Puoi scavartela una tana se vuoi, ma non sei qui per questo: partisti dalla costa camminando, per camminare, e ancora camminare devi. E più cammini meno vedi. Più cammini, meno appare ai tuoi sensi l’avanzamento. Diventa tutto fermo, diventa tutto tenebra. Credevi di aver abituato gli occhi alla notte, ma arrivato oltre un certo punto non distinguerai più niente, e neanche potrai riconoscer la strada percorsa (caso mai ti venisse in mente di tornare indietro o uscire dalla selva, ma no…) tastando i rami riconosciuti col poco acume d’occhio superstite, o il terreno smosso dagli stivali, o l’ombra storta di un albero riconoscibile, sinistramente familiare fin nelle punte rinsecchite delle molte dita filamentose. È stato un percorso: prima, il balzo definitivo, l’ultimo passo in cui ancor ti sentivi giunger sulla schiena, contundenti e caldi, i più esterni echi di un fuoco lasciato indietro, nella radura popolata a festa. Cosparsa d’occhi di fantocci, e altri occhi notturni più vivi. Poi era il primo frusciare del fogliame, l’ingresso, i tronchi dalle mille cavità, fessure occhiute, che ti scorrevano ai fianchi. Poi, i grilli. Non il placido cricricri lontano sotto a una conversazione di campagna, come prima; sei dentro ai grilli. Per un po’ si sentono solo loro, ti sembra che a un qualsiasi movimento ne urteresti trecento, a ogni passo ne calpesteresti uno sciame. Ti ci abitui, massa canora che torna ad assomigliare al silenzio. Dopo un po’ magari incontri una volpe, una saetta di pelo sinuosa che ti sguiscia davanti, tra impercettibili spazi frammezzi a radici intricatissime. Lei sta in tutti i boschetti, accompagna l’avventura umana nell’ignoto quand’è ancora ai primi passi. Eccola, sparita anch’essa, silenziosissima, intenta alla caccia, a farsi assimilare dal buio… più avanti ci sarà altro. Che genere di bestie? Nella mente comincia tutto un corale frastuono metallico di zanne e artigli in guizzo, e già la mano, non più governata, aleggia sul fodero nella cinta. Tu che non ami il coltello e tuttora mai lo affonderesti in carne viva. Dovrà affrontare altro ostacolo, o è solo un amuleto? Dopo un po’, dopo i grilli e la volpe, tocca a un finto silenzio. Poi i respiri, più rumorosi, il fiatone: è già parecchio che cammini tra questi alberi, chissà dove cominciano e dove finiscono. Senti, impressioni rapidissime, strani stridii che preferiresti non aver sentito. Cominci a interrogarti sui fantasmi, se siano luminosi nel buio o se ce ne siano di specie che s’ammantano di questo, quali tra le une o le altre possano essere aggressive. Quelle che galleggiano in globi sulla palude si illuminano, quelle di foresta forse no. Tutte sono un veleno: senti il flusso sanguigno invadersi di ansie nostalgie amori rabbie e freddo, soprattutto freddo. Sudore, come il fiatone: è già parecchio che cammini. È già parecchio, in realtà, che non distingui più niente. Hai iniziato in una foresta, e non ne sei mai uscito, ma proprio non potresti dire che sia ancora una foresta. È solo una gigante macchia d’abisso. Nessun ritorno condurrà a grilli o volpi o ingressi o alberi.

E in questo nuovo posto o vecchio posto o assenza di posto ancora a lungo muovi le gambe come camminassero. Tu ti muovi, conservi la tua forma e le tue abitudini. Sei umano in altro habitat. C’è un posto del genere a poche strade dalla città eterna, e dalle tante città che odorano di pesce, ogni sera baciate da navi che vanno e vengono in porti festanti di luci e mercati? Esiste un habitat altro in ombra alla civiltà, e un altro ancora in ombra alla natura selvaggia, e si può balzare d’ombra in ombra, fino ai confini ultimi dello smarrimento... ti accorgi all’improvviso di non essere solo.


Non solo perché è un’ombra ovviamente abitata d’ombre, indistinguibili, ogni particella d’un’atmosfera nulla sarà intrisa di leggi e fibre e microrganismi ed esseri che obbediscono ad altro ordine, non c’è da dubitarne. Ci sono un sopra e un sotto anche dove non si possono vedere, c’è un cielo, e lassù ci saranno le stelle, o solo il vuoto che le separa, c’è un suolo, o solo le profondità che lo stratificano.

C’è una cosa che arriva. Viene incontro, viene a prenderti. Solo allora, per un istante, volti il collo indietro a controllare: nessuna fonte di luce. Non vedi la cosa perché ci sia un raggio sparato a mostrarla, a intagliarla dal nero. Non è un lampo a mostrartela, non viene chiazzata di chiarore quella specie di pelle. La vedi e basta, una normale figura che compare su uno sfondo cieco. Tu, all’improvviso, hai in mano una lancia. Un’arma molto alta, pesante, che maneggi con facilità, come fossi un arcangelo oppure un selvaggio. Sì, è l’asta di un uomo bestiale che si accuccia sugli alberi. Bene. Hai fatto bene ad averla, benché avuta così all’improvviso. Ma d’improvviso è comparso l’altro. È grosso, è alto due uomini in piedi o più, ed è fatto di fango. Ha una figura come un pupazzo d’argilla, rudimenti d’imitazione umana, gambe braccia torace senza collo come senza testa. La pelle melmosa ribolle e si sfrange, macchia il passaggio, sbotta e poi sparisce, si rigenera, sembra la superficie di un sole merdoso. Deambula storto e muscolare e a ogni strattone fa borbottare il corpo in tremendi ruggiti, quelli di un fiume irritato che sa distruggere in risposta al mondo. Lui viene verso di te, tu vai avanti, avanti, è da Nettuno fino all’inferno o le tue cervella o la tomba o quello che è che continui ad andare avanti imperterrito. Questo coso non sembra diverso in questo, chissà quanto ha camminato, in quel modo orripilante. Qualcuno dovrà fermarsi. Tu hai già la lancia, eri prevenuto, eri spaventato: eri un umano, ecco perché hai la lancia e la sai maneggiare ed è una bella sensazione saperlo fare. Lui? Gli fornisci armi: non appena decidi di guardarlo bene, diritto davanti a te, finalmente, ecco che gli spuntano artigli. Dal culmine molle e deforme delle braccia colanti fanghiglia escono fuori grinfie uguali a pugnali terribili, scintillano. Guardi più in su, nell’alto volto vuoto di vortici sporchi senza cranio: sforano due occhi, due lumi arancioni, due fiammelle. Ora ha occhi, ora ha artigli, e in tutto il corpo il mostro continua a gorgogliare, fracassa l’udito, fa tremare tutta quell’esistenza scura che è sfondo dell’incontro. Dunque ha anche una voce. Siete pronti.

Perché vuoi ucciderlo? È questo che vuoi? No, non puoi ucciderlo, ma vuoi fargli male, ti accontenti di fare solo questo. Ecco perché hai la lancia. Dai frustate coi muscoli delle spalle, li distendi all’indietro, pronto ad affondare, pronto a caricare con tutta la bellezza di un corpo elastico, ecco cos’è un uomo, un mucchio di frattaglie robuste riempite d’ossa, sanno far male, sanno schiacciare, dominare. Quello è un mostro umido, fatto solo di fango, dentro ha solo la stessa melma che si vede fuori.

In uno corrono forme di animali che in vita correvano, volavano, nuotavano, corrono le fibre temprate dal profondo della terra nel tempo paziente, dal seme agli odori e le linfe che eccedono di vita e le braccia verdenti colme di latte, madri; corrono gli spiriti esalati da teschi infiniti dimenticati, i sacrifici per farlo nascere e sopravvivere, la morte per farlo esistere; corrono le azioni compiute in infiniti numeri da lui e da prima di lui.

Nell’altro scorre tutto questo, e scorrono altre cose. Cose anche più antiche della gente, degli animali, delle piante, il Fango fu tra i primi ad abitare un pianeta ostile, un pianeta ch’era un grido selvaggio nel vuoto. Scorrono in briciole rocce estinte, rombi di vulcani lontani, gas nucleari, cieli di stelle già spente. Scorre tutta la morte che passò sul territorio, di cose che erano vive e cose che erano non vive. Prima di aver fauci e artigli sapeva afferrare, perché “afferrare” fu subito uno dei primi principi del mondo.


Uno divora tutto ciò che passa, l’altro divora solo ciò che gli somiglia.


E per questo temi di somigliare al mostro, alla bestia di fango là avversaria, con i frementi occhi di fuoco.

Credi di somigliargli e vorresti ucciderlo, perché la ferita è un’eco della volontà d’uccisione. Muovi la lancia a tranciare, cerchi la mollezza di quell’essere perché vuoi udirla squarciarsi. Ma manchi il primo colpo, e continui ad agitarla, la lancia che ora meglio osservi, bella, col manico rosso, sembra un osso imbrattato fresco fuori di carcassa, e la lama che è il dente più forte tra tutte le bestie, bello più del ghiaccio. Un colpo, un altro, il mostro schiva, ruggisce. E attacca, muove la zampa con gli artigli che gli hai visto e fatto spuntare, e li schivi, ma ti tagli perché si lacera l’aria. Schizza il sangue dall’occhio al labbro, diventi cieco da quel lato, ma non ti vedi ancora il sangue addosso: senti solo che è freddo, ti appiccica i capelli, inzucchera fastidiosamente la pelle. Non importa: mandi un colpo che prende la spalla, anche se non con la lama. Il lungo manico duro lo sballotta, è forte. S’infuria, ruggisce, chissà se ha un orgoglio. Gli artigli fulmineamente aprono il torace. Sei in ginocchio. Ti abbracci l’addome. Le braccia retratte in te stesso si macchiano, si bagnano: vedi com’è il sangue che esce. È marrone. È acquetta sporca, piena di grumi scuri, pare brodo di legumi, pare nettare lercio di un campo su cui ha piovuto. Sei umano eppure ti esce il sangue d’un mostro melmoso. Si sta abbattendo su di te, ma dai un colpo verticale di lancia: l’arma s’alza in piedi a esclamare l’ira dell’uomo. È la gola che tagli, decidi, se fosse un corpo d’uomo sarebbe proprio la trachea da cui adesso cola il liquido rosso. Ma c’è ancora da combattere, almeno per quanto si è camminato. Più volte vi rialzate e vi attaccate. Ferisci, lo ritiene responsabile d’ogni schifo che sei e ti circonda. Sai di soccombere, eppure attacchi, solo per dimostrare alla bestia il tuo mondo, il tuo terrore. Praticamente, ci stai parlando. Quando infine ti inghiottirà, sarai un’altra delle inesauribili cose inghiottite, e si dimenticherà di te. Le ferite già si rigenerano.

Un barcarolo sentiva lontane da dietro i richiami di quelli che l’avevano mandato a controllare le trappole. Doveva arrivare su un isolotto laggiù, ma spesso ai vortici non importavano queste cose. Se l’erano portato a quel trambusto, quella strana ferita di rami infilzati in acqua. Cominciava a pensare che dopo i rituali notturni fosse una mattinata proprio strana, intanto che quelli continuavano, “perché stai là fermo?”, e lui “i vortici, so’ i vortici”, ma non bastava più come risposta. Guardava e non capiva, facendo piangere il legno vecchio sotto i suoi piedi. Su di un ramo morto che usciva dall’acqua s’era posata una cornacchia titubante, come volesse andare a beccare un banchetto, ma si preoccupasse di non poter afferrare con il becco quella polpa strana che fiottava dai legni marci confitti. Balbettava sgradevole come acque intasate. E allora, per coprire quel rumore, Enzo che si era incantato sulla barchetta cominciò a chiamare quelli che potevano sentirlo.

-a Enzo! Aò, Enzo, e che te strilli??

Quello scemo lo stava raggiungendo a piedi nell’acqua bassa, senza aver preso una barca per la fretta. Sotto le falde piegate dei calzoni uscivano i polpacci marroni già pieni di pizzichi. Né quello né Enzo pensavano più alla malaria.

-che c’è? Che ce sta laggiù?

Vedeva solo una di quelle cose strane, quei buchi nell’acqua contornati di tronchi, con Enzo in barca là davanti che se ne stava stecchito come un bambino che non ha mai visto gli acquitrini.

-la palude butta sangue!-, gli rispose da là senza voltarsi.

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