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Gli Appunti Del Fango- e vidi gli alberi di Piazza Sturzo crescere più alti del cielo

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 24 dic 2020
  • Tempo di lettura: 21 min

Fumi gelidi galleggiano sulla palude. Cade qualcosa dal cielo nero; un fiato invisibile, una mano di ghiaccio impregnata nel nulla, della stessa stirpe di questa totale assenza di nuvole. Fa freddo, freddo, freddo; e cammino risoluto -come potrei non forzarmi a esserlo? Congelerei..- diritto avanti a me, seguendo una linea che squarcia il nucleo famelico dell’inverno incombente proprio nel suo centro cardinale, nelle sue pulsazioni cardiache, prive di sangue, prive di vene, solo di una nebbia immaginata che verrà, di una neve che nemmeno si spreca a farsi concreta -tanto è scritto nell’aria il suo bianco morto. Sì, ci sono io che cammino per Corso Giovanni XIII, e in giro non c’è nessuno -quando è stato? O è tutto questo un sogno, non ricordo. Valuto che non ha importanza, è successo in un caso o nell’altro, se ha senso dire mai qualcosa anche questo ne ha in eguale quantità a tutto il resto. Infilo le mani nelle tasche, sempre, dovunque vada, fanno tana perché il resto del corpo ha optato per la passeggiata e io di una tana ho sempre bisogno, ma si sa, c’è anche il bisogno di queste anime depravate incastrate in questi feticci (noi tutti, insomma) di darsi ogni tanto al contrario del proprio desiderio, a desiderare un affronto all’inesorabilità della calma. Stimoli. E va bene, corpo, cammina pure, esci fuori dove muori di freddo, freddolosa inadeguata zavorra, per quanto ti ricopri di pesanti e scomodi pesi. Ma le mani me le porto dietro come sarebbero state se fossero rimaste a casa. Le rimescolo lì dentro. Producono un falso calore, scavano. Continuare a scavare anche quando non c’è da scavare, quando si attraversa il vuoto.

Nessuno. Solo il freddo. Mi volto, lo faccio spesso, o quando sporadicamente faccio caso a ciò che mi sta attorno lancio lo sguardo su un balcone lontano, sulla linea di lucette gialle che rende nota l’esistenza di una ringhiera. Balzello una linea immaginaria da un bulbo all’altro, come se le contassi. Mi volto ancora, qualcuno direbbe “sempre nervoso per qualche motivo”, eppure, non dovrei, non c’è nessuno. Vedo di calmarmi. Solo io in tutta Aprilia cammino, ora. Sono pronto a giurare che quelle scure notti senza perdono che sorvolavano l’infinito profondo pantano del Lazio centrale fossero le più fredde di tutta la terra. Non c’era salvezza per l’ignoranza del gelo, bisognava saperne ogni aspetto e tutti i modi che conosceva per comparire, il suo sopraggiungere affilato, fremente, come una bestia inseguitrice dal battito cardiaco frenetico. Sei una pianta flebile figlia di un limo a tratti clemente, cresci, ti ergi, e più ti ergi più senti i tagli che fendono il mondo, ti ci fai attraversare anche tu, ti distruggi, infine appassisci e vacilli, ti mescoli alla materia anonima che galleggia dappertutto, contribuisci all’origine di quei tanti numerosi oggetti morti che privi di origine appaiono. Privi anche di fine, di un senso, ma una volta erano linfa di cui nulla importava al vento impregnato di ghiaccio. La palude è attenta, sa che il periodo è cambiato, vede i palazzi e il treno, vede le luci natalizie messe fuori e la gente rintanata dentro -solo io…- e sa che la città costruita sopra di lei è temporanea. Un’escrescenza calda, un tumore bollente di asfalti sfregati ed esalazioni di genere diverso da quelle comandate dalle viscere della terra. Non può nulla contro l’esigenza periodica di dar luogo al tardo autunno micidiale e poi all’inverno. Lo sanno tutti, è questa umidità, è in questa presenza nell’aria che massacra le ossa che si annida l’ombra di quel passato, incontrastata anche davanti alla tundra e le tormente sulla steppa, la palude dove tutto è invaso dal suo rigore d’acque al punto che anche gli altri elementi si manifestano come provenissero dal fondo di un lago dove si affoga e si gela. Questo, incauto passante, è il gelo della palude, è un’altra storia: è la morte che qui soffoca e fa marcire tutto quando è lo spettacolo della calura, ora trasformata, cambiata d’abito quando è invece il momento del freddo, quella che ti fa pensare che non è mai comparso un pianeta in questo punto del cosmo; eppure il tuo occhio vede, tutto intorno, è in effetti una palude… e sopraggiunge un nuovo terrore, significherebbe dunque che questa palude esiste ancor prima del resto, che è parte del cosmo, una sua manifestazione- e poi è un’altra storia perché è il fango ricoperto da una patina di ghiaccio che sfrigola estendendosi, è l’eterno fiume dell’oltretomba d’acqua veloce e anima striminzita, è il passo mal posto ad affondarsi nell’acqua bassa e lì in pochi secondi cessare di sentirsi traversare da vita interna. Vene solide di ghiaccio si spezzano come rametti e cristalli di brina, sinistro rintocco di frammenti infranti che internamente risale fino al cervello e per sempre lo paralizza, lo inebetisce demente nella paura negli istanti prima di ucciderlo.

Cosa c’è ora? Non c’è niente del grande acquitrino che si vedeva già allora nella vera notte di Aprilia, c’è solo un asfalto scuro che si ferma a un blocco di smalto candido che diventa un marciapiede morbido e carnoso, cammino su una gengiva; e poi i giardinetti (ho attraversato la strada) del presepio basso, una panchina di legno mangiucchiato e ferro sporco, le altre panchine, e lontane altre scintille intermittenti in un orizzonte che è dappertutto facendosi respiro di condomini addormentati. Se neanche ci fosse tutta questa luce, di lampioni e di festa, lo ammetto: non saprei come cavarmela, non avrei saputo assecondare quell’impulso del corpo a cercarsi la sventura e il movimento. Il buio del tempo antico, in questo posto, doveva essere una delle forze più accartoccianti che esistessero in natura, davvero, una tremenda morsa di grinfie giganti che non permette la resistenza di alcun oggetto, così me lo figuro in questo momento. Mi volto di nuovo, mio malgrado, nonostante l’autoimposto esilio d’ogni ansia, forte nella solitudine come una torretta che si staglia nella campagna. È l’impressione che qualcuno mi stia seguendo, eppure non c’è nessuno -un cane forse? Figuro una sagoma semplice, di quattro zampe e pelo nero, di orecchie a punta, di ululato e forte odore che si avvicinano nell’oscurità. Ombra spessa e simile a velluto fatta animale. Comunque non lo vedo, e neanche sento rumori. Non importa: in un secondo momento tornerò a preoccuparmi, risvegliato al presente da chissà quale irriconoscibile stimolo.

Nel frattempo vado avanti, esploro questa malinconia munito di tutta quell’incrollabile passione di chi ha imparato ad amarla e mai più vorrebbe disimparare, quella passione che diviene l’unica a mantenersi veramente costante. Lo sa chi l’ha esplorata. Il freddo è figlio suo e lei è figlia del freddo, si affamigliano in modi instabili e strani e si contorcono e giocano ad avere un legame, a tracciare un filo tra il dentro e il fuori che diventa una continuità intollerabile tra le fragili budella e la violenza del braccio criogenico di cui patiscono il tocco.

E chiudo gli occhi, e perfino le ciglia incrociandosi producono assideramento, e perfino i familiari cerchi neri che mi si sostituiscono alla vista sono piastre polari, e i pensieri affaccendati dietro queste nient’altro che folletti di perenni inverni, personaggi di uno sfondo glaciale dell’umanità. Distinguo nel mio buio delle figure muoversi: anche allora (quando? Sì, insomma, a un certo punto è successo…), nonostante il terrore vero e proprio, nonostante insomma la notte invernale sulla palude, qualcuno osava muoversi sotto stelle e altri sguardi di sopra. Corrono, gli uomini delle paludi. Hanno muscoli strani, temprati dalla melma e le sue consistenze, affilati dal brutale susseguirsi di schiocchi nel fango profondo che eruttano eco in quella superficie sia fluida che dura, quella falsa crosta che non sa decidersi tra essere acqua o terra. Sanno saltare su questo terreno instabile, trascorrono falcate volando sui canneti che annaspano. Guizzano come lampi al vento le pellicce di cui son coperti, tasso e puzzola, polvere e isolamento, sudore ed esilio. Cosa fanno, non lo so; ma gli uomini di palude hanno intenzioni strane, che noi non possiamo capire, nemmeno noi osservatori. Erano in armonia con Il Fango in una maniera diversa, una maniera che non può capire nemmeno chi è a conoscenza di esso. E se fossero solo loro, mi chiedo? (sono fermo. Guardo un palazzo cinto di minacciose sbarre, automaticamente invalicabili nella mia testa e mai mi sono figurato alcun movimento umano di là da esse, insomma nessuno è mai potuto entrare in questo palazzo. Guardo in su un balcone da cui ho sentito molte volte uscire un suono di partite in tv e un brontolare catarroso. Sto guardando, sto guardando un balcone. Cosa cerco?) Se fossero solo loro, in fondo, gli unici che potevano comprendere tutto questo? Del resto sono qua senza una meta, senza uno scopo. Conosco solo la malinconia, l’ho mai visto, questo fango? È cattivo, è buono, o indifferente, non lo so, ma vorrei che ci fosse, perché qualcosa deve esserci, qualcosa deve voler dire tutto questo, o magari è tutta una gran suggestione che soltanto ora mi sta suggerendo una sua verità, e cioè che se qualcuno poteva coglierla e raccontarsela quelli erano uomini di un tempo che non esiste più, sepolti e mai più ritrovabili nemmeno a perforare l’immortale sabbione umido sotto la città di cui si dice in continuazione. Ossa scomparse, nient’altro. Che ne so, io? Sono solo uno che cammina. Qua non c’è niente, niente, fa solo un freddo cane, e un cane vero forse mi segue o forse no. Forse è la suggestione anche quella, la suggestione ha creato gli ululati e il pelo selvatico nella mente dell’uomo.

Vedo delle persone anche oggi. Non so se fosse in quel momento, se fosse un rimescolio di scene operato da un sogno, ma si marchia in me l’impressione di gente che passa per un determinato punto. Che si affaccendano, pure loro come i primitivi di vecchie capanne limacciose, che si affaccendano a fare questi bipedi d’appartamento? Tu, apriliano quasi cinquantenne in giacca, fisico abbastanza allenato ma non certo muscoloso, calvo occhialuto, pelle porosa senza barba, amante di profumo da uomo e orologi, sento che lavori a Roma, magari ci sei pure nato, magari non stai più di tanto a farti domande su questa città, magari perché senti che se cominciassi a chiederti qualcosa finiresti col pensare di voler fuggire da qua, e non vuoi pensarlo, e pensi piuttosto a quelle cose che ti piacciono come quel cappuccino per come lo fanno in quel bar o quel punto che sai tu dove si parcheggia particolarmente bene prima dello scoccare di una certa ora. Attraversa, mettiti nella Fiat, parte lo stesso disco di Pino Daniele di sempre, spesso non capisci le parole, ma qualcosa ti riporta alla mente che va cambiato l’arbre magique, però tornando a casa qualcuno ti rimprovererà per aver dimenticato qualcosa o qualcuno di molto più importante, strano come funziona la memoria. Tu, ragazza apriliana che sei andata di corsa verso il distributore esterno al tabaccaio dicendo qualcosa a voce troppo alta per farti sentire dagli altri del gruppetto rimasti dall’altra parte della strada; tu che ti azzardi addirittura a rappresentare tante ragazze apriliane, come se avesse senso parlare di una cosa chiamata “ragazza apriliana”, sento che sei sempre in giro in tuta, che hai un armadio tutto pieno di queste tute come quella appariscente viola e azzurra che hai ora, tutte di colori diversi, che il cappello girato è un regalo di qualcuno, che il rigonfiamento nella tasca sono due cose: Marlboro e Big Bubble, sento che studi al Rosselli e che la materia che odi è l’inglese, sento che per ora fai come se ti sentissi un gran bene ma che un giorno piuttosto lontano ti accadrà qualcosa di talmente assurdo per tutto ciò che avrai vissuto e provato fino a quel momento da introdurti senza rimedio in capo l’idea che invece prima non avevi vissuto affatto. Ma non metterai mai la cosa in parole così riconoscibili, nemmeno dentro di te, e semplicemente vivrai fino alla fine dei tuoi giorni portandoti questa cosa senza nemmeno essertene mai accorta. Sarà una cosa dolorosa di ciccia e pelle, di burrone tra vita e morte, come al solito.

Dal balcone, mi sembra, dopo minuti e minuti che lo osservo senza davvero vederlo, si riconosce parte di quello che sta al di là. Ponte da qua fuori, le mie congetture se non si sta attenti possono entrare in casa della gente senza essere invitate. Mi accorgo che la serranda è un po’ sollevata e posso vedere un pezzo del salotto, quello dove il vecchio guardava le sue partite, e a volte bestemmiava, e qualcuno rideva. Ma in questa serata non c’è movimento neanche lì. Lo spicchio che si vede da sotto il bordo della serranda è un salotto ocra vuoto, lasciato al buio (dunque, ne conosco il colore solo perché inconsciamente me lo ricordo da altri momenti). In questa città non solo le strade si sono svuotate. Alcune case non sono abitate, chi le occupava non è in giro: sono scomparsi (si trovano fuori Aprilia? No, questa sera Aprilia è un cosmo finito ma completo. Non se ne può uscire, si può solo scomparire o morire. Estinguersi nell’era glaciale). Rifletti, osservatore, attento, piccolo osservatore. Cerca di capire, che tipo di momento è questo? È un futuro, quel futuro che ti sembra di aver intravisto in certe tue peripezie, quello dei Signori Che Ridono Ronzando? No. Sei sicuro in fondo che questo futuro ci sarà? No. Ma anche non ci fosse, dovrebbe far paura lo stesso. Ecco: paura: sono al sicuro, io da solo, ma ho capito che anche quando si è al sicuro la paura si può provare. Di una specie diversa e strana. Mi giro e costeggio di nuovo quel pezzo di giardinetto in cui c’è il cavalluccio a molla che pigola poco oliato nell’abbandono. Se guardo a sinistra vedo un deserto Corso Giovanni XIII da dove sono venuto, se guardo a destra il santuarietto di Padre Pio circondato di fiori elettrici.

Guardo a sinistra e vedo un me stesso che vede la gente di Aprilia e che nostalgicamente vagabonda per tutte le vie della città in cerca di luci flebili di appartamenti che ammiccano nella sera misericordiosa, ne va ghiotto. Immagino questa o quella persona stanca che torna a casa, il gatto lasciato solo che balza giù con un tonfo sulla moquette. Il giradischi lasciato là fermo, che rimarrebbe uguale a se stesso in quella stasi anche se il proprietario tornasse tra un miliardo d’anni. Le calamite sul frigo. Le scale dei palazzi, luoghi che non esistono. Un preadolescente che tutti dicono impazzito, che a un certo punto ha smesso di battere gli occhi a una frequenza normale e ha deciso di mettersi su un pianerottolo e lì passare immobile molte ore, scoprendo qualcosa, qualcosa di orrido, nello sguardo stupefatto vorticante di figure di sogno e inesistenza del tempo. E altre cose, una doccia, vapore acqueo che si addensa sulla fine di una giornata. Un geco immobile su una macchia d’umidità e muffa che forma un continente su una parete. Vorrei piangere, ma a volte non ci riesco, è questa notte che strappa tutto? Se uscissero le lacrime mi lacererebbero la faccia e tremerebbe la terra. L’onda d’urto si propagherebbe indietro e avanti, un nugolo di zanzare si solleva nel futuro del loro incontrastato ritorno e impero, nel passato un feticcio di paglie intrecciate vacilla e si disfa sul suolo polposo della campagna di un’Aprilia ancestrale e tribale su cui corrono nomadi cantori di un grande spirito fradicio. Una vecchia alza il capo alla luna piena e al cielo di stelle uguali a fuochi infiniti, come ululasse in tutto il suo essere, tremolando di peli e foglie a strisce e alghe che ha indosso e che la fanno assomigliare a un animale fetido e selvatico e sublime che è presagio buono nei sogni della sua gente.

Cosa c’entra? C’entra che se faccio un certo tipo di sforzo mi riesce di vedere che non c’è alcuna differenza. Queste persone sono come i pupazzi di paglia, ciascuna componente fibrosa e fragile di essi andrebbe a sfaldarsi, una dopo l’altra alla prima scossa imprevista. Disabituati nella terra antisismica, o troppo abituati ad allontanare i pesi. Il peso di una storia di una città dalla vita così breve (“giovane”, la chiamano) che quasi sembra non esistere, ma che è la più pesante di tutte. Siamo idoli, intrecciati, da mani callose pelose imbrattate. Personaggi messi in una scena fangosa, scompariremo come i precedenti, andremo giù giù a fondo e informeremo la linfa di questo tempo vischioso, questo centro del cosmo normalissimo e così strano.

Erano usciti fuori dalle capanne per un rito. Si erano riversati sull’esterno spietato e profondo. Dovevano porgere omaggi indispensabili, uomini di paglia dovevano ergersi come moniti sulla pianura salmastra.

La discesa che costeggia un riquadro d’aiuola o falsa giungla e che scivola sul bordo di auto parcheggiate al Parco dei Mille è sormontata da un’oscurità più fitta che altrove. È assurdo, è un nembo nero più denso della neve. Guardo là e mi aspetto due bagliori d’occhi fluttuanti, un quadrupede che credevo mi seguisse o un suo parente che sempre sta in agguato in ogni buio fantastico. Ma la verità più spaventosa è che là non c’è nulla, e non è un nulla di conforto. Proseguo, mi infreddolisco e risistemo la sciarpa, mi maledico come faccio ogni volta che sento un brivido, perché l’ho fatto?

Non c’è nulla. E non solo nel buio. Io, osservatore, ho all’improvviso questa paura. E se per sempre non osserverò non ho osservato non osservo non osservato altro che il nulla? Tremo il freddo, tremo la paura, tremo e basta perché l’osservatore è nervoso e osserva solo per rubare un lusso, come un uccello di povere penne e di volo scostante, che si intrufola nei nidi altrui a rubare privilegi, il privilegio di essere il solo a osservare così da non essere osservato. Tutto, pur di non essere osservato, tutto, pur di non essere preda d’occhi. Questo fa di chi guarda un predatore? Balle, io non faccio male a nessuno cerco di mentirmi sempre… ma insomma, perché nulla accorre a salvarmi da questo ennesimo conflitto? Questo è uno di quei momenti in cui guardare fuori di me per un falso appiglio, un giocattolo mentale fatto di roba intercettabile dai sensi: niente, non mi riesce di fare un ragionamento per cui valga la pena di soffermarsi a lungo, non su quel presepio, non sulla panchina girevole, non sull’odore d’erba che non smette mai di aleggiare davanti alla farmacia e attorno alla macchinetta dei profilattici a qualsiasi ora del giorno, non sul bar delle pastarelle delle domeniche estinte dell’infanzia e della gioia prima del tempo, comunque diamine, avrei dovuto portare una sciarpa in più, sì lo so che sono ridicolo. Nulla, perché non c’è nulla. Guardo fuori per fuggire al conflitto e scopro quello che già sapevo.

E non è invece ancor peggio così, quando si viene osservati da un nulla senza pietà piuttosto che quando a contenere gli occhi voraci (io non sono vorace!) è un guscio di materia mortale ed emozioni fragili, proprio come me? (ma a me non sembrano mica così indifesi… sono più forti di me, non voglio che mi guardino!) Come ti pare, osservatore, dicono le mani che si sfregano nelle mie tasche confondendo l’irrequietezza massima per il calore, dicono come ti pare, osservatore, ma quel che è certo è che ora ti sta osservando una roba senza definizione, una roba che non può forse giudicarti e farti del male con le parole e i pensieri, una roba che non ha vero campo visivo entro cui inserire al centro, come in un mirino, quello spazio di carne e ossa che ti contiene, farne un pupazzo vudù per fastidiose congetture, avvilenti paragoni, aspettative. Sei al centro di un occhio che non esiste, non sei contento? O pensavi che esistesse solo la tua solitudine romantica da finto poeta, da incapace di vera parola? Ecco cos’hai voluto, lontano da chiunque possa prenderti in giro per il fatto che ti dici “osservatore”, tu che hai imparato ad allacciarti le scarpe più tardi di tutti, tu che ……insomma sai bene cosa, sai bene le tue brutture caro osservatore del cazzo. Hai fatto bene a fuggire la bancarella, il carnevale e il carro, la notte bianca e l’adunata tra i vari Tonca e Caruso e Dolcinotti e quel distributore di fronte e la fiumana che torna dalla stazione, hai fatto bene a evitare il possibile incontro con tutti quelli che appena pochi mesi fa sono stati come ogni anno gli adoratori dell’ombra di una copia di una copia di una copia di un San Michele che spiegava le ali sulla palude. Hai fatto bene, ma si vede che ti sei perso: hai sbagliato strada. È stato bello passeggiare da soli per Aprilia, certo, ma chissà perché, verso la fine di Corso Giovanni XIII l’oscurità si è infittita, ti sei fatto viaggiatore incauto che prima o poi perde le tracce giuste sul giusto sentiero dando vita alla sua storia e il suo confronto con l’abisso. E ora non sai che fare. E ora questo nulla, questo vento vuoto e fratello del nero, il suo chiaroscuro con le luci prive di vita ai lati, le case chiuse che dovrebbero esser piene e che invece sembrano vuote -ti piacerebbe eh, controllare la gente come ti pare, “esistete pure, ma chiusi dentro per favore!”- tutto questo ti attanaglia come un povero adolescente sperduto. E non ha più senso osservare perché hai perso l’ispirazione. Cerca il tuo spirito del Fango, la tua giusta intenzione, lo spirito di questa città, lo spirito del mondo e delle amare campagne pontine: stai fresco, qui non c’è niente! Affronta la perdita dell’acume dentro i tuoi occhi! Se non accetti di poter esser visto allora sarai cieco. È la legge delle cose del mondo. È il Fango che se ti afferra ti trascina giù.

Ho continuato a girare in maniera vaga sul marciapiede, non so se andare avanti, se fare il giro per Via Gramsci e arrivare al Parco Friuli, oppure se sia importante indugiare qua per risolvere questa cosa, qua dove si spengono una dopo l’altra le eco di risate e pianti e drammi inutili di fantasmi che conobbi e amai e allontanai ora spariti come schiuma. Mi siedo sull’altalena, guardo per terra, non vedo niente, non vedo di fronte a me dove c’è Piazza Sturzo dall’altra parte (dove potrei guardare per cercare qualcosa che….). Forse è per questo che i poveri agricoltori cacciatori raccoglitori corridori stanchi morti -morti, morti, tutti morti-, forse è per questo che quelli là che vivevano sulla palude costruirono i fantocci? Dovevano materializzare con mano un bisogno, una ricerca… costruirsi una fede, o una compagnia. Senza capire perché, senza alcun tipo di aiuto (come è frustrante questa casualità!), i miei pensieri si fanno meno cupi. Respingo le ipotetiche critiche dell’uomo razionale brutto e cattivo che mi dice che non ci sono prove che queste genti siano mai esistite, anzi non respingo perché non ho motivo di lotta, perché sono convinto, perché ho inscritte in me le tracce del loro continuo passaggio per un prato fangoso e lercio d’acqua salmastra nella mia anima tana di ranocchie e zanzare e serpi e briganti e bufali morti e capanne e un coccodrillo. Sì, ora che inizia a cambiare l’umore cambia anche la verità, e mi chiedono come tutto questo non possa essere fango! Malleabile e rigido allo stesso tempo, si fa plasmare ma immobilizza. Questo freddo è solo una sua manifestazione sulla terra, affidata all’aria che non vive là sotto con lui, è una sua eco un suo avatar proiezione ologramma. Il freddo suo è un po’ diverso da quello fatto di nebbietta e piacevole condensa che fluttua a fumi dalle bocche screpolate, il suo freddo lacera gli organi anche solo sfiorando la più superficiale scorza della pelle e assomiglia un po’ al freddo della tomba e un po’ a quello dell’acqua ma è diverso da entrambi e da tutto. Certo però che anche questi brividi intermittenti, l’unica costante di questa scostante peregrinazione nel dubbio, sanno il fatto loro. Scrollo le spalle facendo un fracasso cuoioso di pelle di cappotto, cigolante ai timpani infastiditi. Così scrollando riguardo in su, nei paraggi, e appare una visione.

Mi accorgo del perché -insomma, trovo una giustificazione-, vedo come mai i miei pensieri erano andati mutando. Due lembi come liane, due membra fibrose vegetali, ma ancora un po’ vaghe, ancora fatte di etere inconsistente, si sollevano dalla terra ai miei lati e come amorevoli madri bisce per le uova indifese e fragili si accostano al mio corpo, a cingerlo e accarezzarlo ripetutamente. Non ne sento il tocco perché ancora non è possibile, le si può solo vedere, mentre a tratti si riempiono di colore e finta consistenza, a tratti se ne vede la vera trasparenza. Alzo lo sguardo che torna a vedere, le seguo, seguo le lunghe spire distese, attraversano tutto l’asfalto, lo trapassano con forza di rigogliose linfe massicce, per tutta la loro lunghezza e fino all’altra parte, alla piazza, vengono da alcune radici -mi sembra di vedere da qua, è come se fossi una vedetta su un mare dove la nebbia impedisce di distinguere ciò che è uniforme-, sembrano dipanarsi dalla base di un albero. Devo andare a vedere, attraverso la strada senza pensare a niente. Come su un ponte. Il buio e il viaggiatore tornano a riconciliarsi. Metto piede sulla piazzetta, imbevuta di quei suoi pungenti lampioni arancioni. Investono il canestro, le altalene, le panchine di legno, gli anelli appesi, gli alberi. A loro sfuggono i misteriosi rami visibili per mezzo d’altra luce. Si muovono sinuosi a richiamare la mia attenzione. Li seguo, verso il centro a cui mi conducono: fuoriescono dalla terra alla base di questi alberi. E dalla base seguo, insomma li osservo, all’altezza dei tronchi. E vidi i rami evanescenti sovrapporsi alla corteccia solida, avvolgerla come a mimarne un groviglio d’energia interno, a mostrarne una nudità preziosa. E vidi queste matasse ora moltiplicate, numerosissime per ogni albero della piazza, crescere e sgusciare dal basso, fischiare e pulsare. E vidi gli alberi di Piazza Sturzo crescere più alti del cielo.

I rami si erano moltiplicati soprattutto nelle grandi conifere. Una è antistante l’uscita sul lato opposto della piazza. Sta in mezzo a questa, accoglie oppure ostacola chi entra ed esce. Oppure ancora è una scala. E mi accorgo che così vogliono essere tutti questi alberi, collegati da una trama vegetale o spettrale che si mostra raramente, ciascuno come il corpo fruttifero di un micelio dalle misteriose intenzioni. Ragiona a profusione come una percussione ripetitiva nel sottosuolo, medita vasto e ramificato perché è nei suoi intrecci tentacolari una complessa rete neurale dagli impulsi di terriccio e umidità viziata. Ora si mostra, una nuova mente, congeniale, ben funzionante, alla mente vagante nel nebbione dell’insicurezza di un ennesimo insicuro apriliano che non sa che fare della propria vita. O forse di questo nemmeno si accorge, quella forma fisica non è un corpo che rientri negli interessi e nella percezione necessari alla sua sopravvivenza fatta di idee e humus. Magari l’osservatore senza meta, senza scopo è solo stato fortunato a incontrare il manifestarsi di un singolare fenomeno dalla cadenza inconoscibile. Io tempo fa mi sono sentito chiamato -e da chi se non da me stesso?- a parlare di un fango che mi stava tormentando. Un tormento positivo: un materiale interiore inesorabile, non un fuoco interiore perché il fango non è fuoco. Ma voleva mettersi allo scoperto. E così ho iniziato a “raccontarlo”, a rappresentare le sensazioni di una città e un territorio che sono più di quello che mostrano. Ma questa volta non sembra nemmeno trattarsi di lui. No, questo albero strano non c’entra niente con le specificità della palude sottostante l’interezza dei fenomeni… eppure il suo apparire mi ha rinnovato una fiducia nei confronti della stessa. Prima i miei pensieri sono cambiati e ho scoperto un legame con le invisibili carezze che stavo ricevendo da una pseudopianta più inconsistente della stessa foschia annacquata obnubilante che vomita invasiva condensa su tutte le superfici e tutti gli umori. Perciò questa segreta comunione arborea, d’un linguaggio ignoto agli altri esseri, ha avuto un ruolo in un mio “risveglio” da un torpore, il paradossale torpore gelido dell’inverno.

Da tempo non può affliggermi il vento. Non perché come al solito abbia dimenticato la collocazione del mio corpo in uno spazio o abbia fatto in modo di aiutarne la dimenticanza così da proteggermi nella goffaggine. Qui si è creata un’area estranea in cui il vento non penetra. Non penetra ciò che sta attorno a Piazza Sturzo. Il nulla di prima, ora, è totale e ovunque. Una macchia tumorale su tutta la città, tranne questo singolo cerchio. Eppure, questo nulla ingrossato fa meno paura. Mi sembra di scorgerlo meglio da dentro il cerchio: sembra quasi scorrere, come una colata lavica riempita dell’indifferenza nera del cosmo. Un indifferenza calma. Scorre calmo, questo fiume. È bello da osservare, è profondo, l’iride di un occhio cosmico colma di una freddezza priva di malizia perché è antica e già vibrava dell’innegabile ronzio dell’esistere quando la malizia e tutti i suoi sinonimi e contrari non si potevano nemmeno contemplare come un futuro possibile errore di programmazione. Sulla superficie del suo onnipresente fluido -sempre visto a distanza- sembrano lampeggiare a volte riflessi, simili alle patine su sostanze oleose. Quello che mi sembra di capire in quel momento è che è giusto averne paura, ma non come di qualcosa che possa fare del male: semmai come qualcosa in cui non si può entrare, che non appartiene alle nostre esistenze e da esse rimane separato. Per questo nonostante il suo ruggire ed espandersi, la sua riconquista, è rimasto un cerchio che è in tutto e per tutto la piazza che conosco. Gli alberi si comportano in un modo un po’ diverso, certo, ma la piazza è la piazza. E con questo non voglio certo dire che sia rimasta apposta per me, come avessi qualcosa di speciale: solo che lo sto raccontando e il fatto che mi sia possibile farlo è dovuto al suo conservarsi nonostante il vuoto: perché sia accaduto, forse non lo sa nemmeno il Fango che è la più elevata (ironia!) forma d’esistenza che noi umanibipediscimmienudeaprilianiraccoglitoriosservatori possiamo mai concepire.

C’è un altro piano ancora. Uno è quella roba che ho chiamato nulla o vuoto o fiume che si rivolta tutt’attorno, l’altra è quella della piazza con i suoi alberi. Poi c’è altro, una cosa che sta al di sopra degli alberi e verso la quale essi mi “conducono”. Non è forse la loro intenzione, ma nemmeno una cosa che impedirebbero. Tuttavia mi è chiaro che posso salire su questi alberi: sono come scale. Posso mettere i piedi su questi rami mobili e moltiplicati, quest’idra di molli cortecce e liane senza occhi e senza bocche. E salire, salire, attraversare quell’ombra confortevole attorno al tronco che da piccolo guardavo sempre dal basso, minuscolo verso la cima dell’albero enorme, in cerca del gufo che veniva lì a riposare, in cerca di chissà cosa. Sto salendo. Mi sollevo dalle piastre calpestate familiarmente innumerevoli volte. Quelle dove l’amico rimase a piangere sotto la pioggia e io lanciai una sedia contro la mia impotenza; quelle dove caddi e piagnucolai facendo eco alle domeniche dei ginocchi sbucciati del mondo intero, quelle da dove avvertii costantemente la vicinanza di un certo fantasma in una certa casa di cui ho parlato altrove; quelle dove qualcuno mi abbracciò e provò un brivido come a toccare un addome bulboso di insetto, quelle dove ho pensato e dimenticato un sacco di cose. Mi sto sollevando, e guardo queste cose da una diversa altezza. Le saluto sinceramente e cercando di essere gentile, torno subito ci vediamo dopo. Sono quasi più vicino ai vari balconi che conosco, piuttosto che al pavimento, è sempre più così. Sono al centro della linea verticale che percorre il tronco, ora non so dire di quale conifera si trattasse, ma mi sembrava di perforarne delicatamente il cuore, come una scheggetta insignificante che non costituisce alcun problema per l’organismo -e di perforare il cuore della piazza stessa e di tutti i suoi alberi senza distinzione. Distanti ai miei lati, a lato di questo centro che salgo a mo’ di scala, appesi agilmente per braccia e code ai rami pullulanti che continuano a sbocciare stanno appesi strani animali bradipo-scimmia dalla carne e pelo di vapore e ombra. Con sguardi vacui i lasciano ciondolare, giocano con la gravità che in fondo non li riguarda, essendo d’un’altra specie rispetto a tutti gli altri animali come me che possono temere la caduta. Non sono fauna indigena di questa palude. Vengono dallo stesso posto degli alberi strani. Non mi concentrai ulteriormente su di loro, sul loro richiamo simile a un trillo o un tubare, mescolato a parole sussurrate in una lingua primitiva. Sono solo parte di un suono che mi rende sordo a tutto ciò che non sia questo albero, che non sia questa salita. Il suono del respiro di un albero che mi sta conducendo al cielo o qualcosa di simile. E non c’è niente da raccontare una volta arrivato in questo posto. Non c’è più niente da cercare, da osservare. Vidi gli alberi di Piazza Sturzo crescere più alti del cielo e io vi salii.


Più tardi, quando il freddo dell’inverno apriliano si era fatto veramente insopportabile e sulle guance cominciava ad allargarsi un rossore che espandendosi crepitava come ghiaccio, mi incamminai verso casa passando per la via che dal semaforo del Parco dei Mille arriva dritta fino in fondo. Camminando sempre con le mani in tasca mi tornò in mente che in effetti un certo legame tra quel genere di fenomeni e i misteri del Fango ci dovesse essere. Rimaneva comunque un’esperienza estranea e non dovrebbe interessare a quelli che dovessero ritrovare gli appunti; comunque ricordai di una passata sensazione vedendo i salici di un campo incolto non lontano dalla zona delle industrie abbandonate. Sembravano dita delle terra, volevano rannicchiarsi sul suo palmo e chiuderci per istinto protettivo. Guardiani. Un cosiddetto imbecille suona il clacson a lungo e ripetutamente, ecchemadonna, quanto mi infastidisce. La città sembra cominciare a ripopolarsi dopo essere sparita per un po’

Quando rientro, “Riccardo che giro hai fatto?”, perché è così che chiamano quello che certe volte si chiama da solo “osservatore”, e io dico “mah, in giro un po’ a caso, niente di che”, perché stare a spiegare i particolari sarebbe veramente sbagliato.


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